Maurizio Virdis

(a)khronos ((δι−) α−)χρονος

VERSUS (quo/Quo?) *

mVis !

Maurizio Virdis 2007 – ....

© mVis !* Maurizio Virdis 2009

1. psicomatismi (tempus & aliud a un’ipostasi)

P S I C O M A T I S M I (tempus & aliud a un’ipostasi)

E basta, shut up, ça suffit: e dai, per ora che ti ridici, ch’è come se strapparsene di nuovo doppiamente e non risulta dimensione esatta: ed io? e allora? sconverge ora cercarti che non torna – né rime né brame né lume: ci sei fra le trame stramate, perché sol mi ricordi che solo ricordo e non sono più qui per stare ancor lì, quant’ore sciupate: non sei. E m’impiglio stentando; rivederci ci provo a lume di viso agognato, figura che oh sì non so come dire mi strugge banale romantico: surplus. Che l’anima perfino vi pretendo, ma tant’è. Non essere allora può essere meglio pur anche scontato, affogare nel gelo tacendo e rimemorando. Pazienza. E sì, pazienza ci vuole. E di stucco. Che pur lo sapevo, pensarci, che non può se non che svanire, è il clichè: ne resta sbiadito sedimento però, di sentimento e scontento, già ma lasciamo andare, magari come in vasca montaliana – infatti che sai dirmi di nuovo? manco un cenno, o un grumo di semantica o ermeneutica, un appiglio… che ti facesse almeno un po’ semiotica di vita, metafora, che so … – e allora il tacere piuttosto: d’arguzia indurirsi ad accedere a un mancato battesimo cercandovi lo stampo del tuo nome, il fil d’una frase, quella da dirti, sì, che sia al tuo nome il tuo nome, proprio quella: già, è una parola: e certo soltanto una parola sarebbe salvatrice: come noto. E allora, sì, meglio quel vuoto entro cui lavorare, in negativo e sviluppo. Costanza discorde del plasmare l’abuso del previsto – e come a un diario lo dico, vergogna... , ...ma ancora (?) – per redimer l’intuizione – primaria – che ti salvi, e moi même, e sia pur presunzione, m’en fiche.

Che ti tragga dal brago, e anche me, della replica ennesima, dal tic che ti perde e mi sperde e c’incomunica, scomunica il da dirsi nel ridirsi. Realizzare l’adynaton sarebbe, così, e dunque soltanto scomputare – temendolo, ma certo ex post – il comodo cullarsi nel non dirsi vagheggiando di che star sulla soglia che divide; come e però che l’ho già detto innanzi. Infatti. Infatti c’è tempo. …il tempo? E certo ch’è il tempo: e va via come ovvio, e sto qui come eterno sulle rughe che scavo a me stesso perverso pur senza vederle, sapendole piuttosto, sapendo che le oblitero, barroso, se scorgo il riflesso che m’agita il viso. E tu? Sì, volerti: tant’ovvio come il tempo medesimo, che sei, sì tu, il tempo che mi segue: e non m’insegue (il tempo fugge e un’ora non s’arresta, ben è vero: ma no, era la vita: un’altra cosa, non il tempo! e di quel che vien dietro a gran giornate, pertanto che ne so? d’altronde me ne frego, e seddiovuole non sei tu), perché tu sei davanti a me che mi precedi infatti, se ti guardo: di fronte a me ti vedo che mi segui, sì: che con me io ti conduco mia ventura e simmetrica compagna d’un passato inesperito, ancora, che il tempo si ripiega puntuale, rovesciandosi nell’abisso azzardato del tuo sguardo, mentre l’anima in te si finge vergine perenne, sospesa al tenue filo d’incompiuta tua parola che possa io colmare, à jamais, con la sua eco, persistita: perché nel tuo fuggire io riscatti, alle tue spalle, l’ombra tua che si sfuma indefinita ed in restituzione me la cucia a te; paradosso eleatico rendendo quel celere pallore innominabile che fa temer gli sciocchi – io tartaruga tua: di te, che col rapido indugio del tuo passo, il tempo mi divori e atteso doni. Sì, ma star fermo di-a-cronico in tal immoto andare – altrimenti è scontato, e d’antan: letteratura – che giova? neppur te ne accorgi, mon âme: che pur se non fuggi, t’eludi: farti sapere? Ma osta l’asimmetria d’orrido interstiziale (il tempo appunto, ancora, o meglio la stagione) che m’occulta: a te, e resta impercepito tutto questo,

mentre dovrei giocarlo appercezione, esegesi, esercizio al travaglio che mi/ti (in)formi, dire ‘bene così, anzi meglio!’, lasciandoti al tuo gioco, libertà, hermenêia imprevista. Per schivare il posticipo di ciò che vi precede noioso e prevedibile lagnarsi. Solo così avrai un nome. Per scaricar la vasca dalle some, allora, d’esausto Novecento (dell’ottocento figlio). D’un tale Novecento a obliterarsi: di ciò ti faccio carico, mon âme, ongle de mon désir, mia désirée incarnita. Lo so che chiedo troppo e son narciso; ma come allor non esserlo? e allora vivi tu e dimmi, e gioca la padrona che saresti se sapessi. E tienimi in iscacco la parola, confondi il mio sapere, turba la dignità della mia mente, grida che non capisco niente: io mi ribellerò, ma tu saresti. Ed io con te. Ma mica per l’angoscia esistenziale, o per quant’altro, solo giusto per la grammatica lo dico, buttandola un po’ lì sul cognitivo, per provare a capire È solo una faccenda cognitiva che è così che sappiamo: né essere né tempo, o sainzuntod: che frottole: tu fammi sol sapere quel che voglio: che voglio solo esserci con te, dasain della mia vita. Ma tu però, suscita il meccanismo testuale, mettimelo di traverso fra i coglioni, fra i sentieri interrotti, sì fra quei cippi sulla via dell’abisso; e tienila soltanto un po’ socchiusa, per piacere, l’apertura dell’ente non farci entrare l’aria da demente, solo il niente, se no potrei pensar che son sfigato: fattene un poco tu brava portiera, Che infatti potrebbe essere lo stesso/a voler conciliare q. e. e prova a conciliare questi estremi, basta congiungerli col filo che saresti se solo ti sfiorasse un nome che t’adorni. Dico ancora. Dimmelo, che sono tutto in un bruscolo di testo, di quello che ti scrivo, se leggessi. Dimmelo che se la falce miete non m’importa, tanto mente, e il tempo a me mi resta tutto quanto intero coagulo per te del mio pensiero da donarti filtrando nel setaccio fitto fitto giocando con la mente modulare dei moduli mentali pervicaci il succo ’aideggheriano circostante fra schemi ’aideggheriani circostanti, circonciso per l’essere che fu: circoncisi che adesso, saltellando fra gli schemi e i concetti, ed ora saltellante fra piani di concetti si prova, con plausibile sintassi, a far metafora di te, se ci riesco

a far metafora di te, se ci riesco: oppure falla tu, che è meglio: te ne scongiuro, anima mia, bijou: fallo per me. Farlo da me è sforzo sovrumano, e sfida tuttavia. Che mi dà un’occasione, ma se lo fossi tu, io dico, sì proprio tu, la metafora che cerco, e insomma la incarnassi, lo volessi…, la incarnissi …… Però potresti dire, ed anche: ma perché? perché non me? perché non io soltanto, quel che sono? e lascia stare, è lungo e ci hai ragione, infine, …… ma però credo che proprio, che l’estasi sia questa: esperirla una metafora in esistere, non dirla, né crearla, o ascoltarla: under my skin averla invece: e avere te, che è meglio d’un lenzuolo che svergogna le nostre nudità da garçonnière (s)coprendole. Ma ti rifiuti che non sai giocare: e sì, bisogna crescere e saperlo; oppure averlo in dono che è ancor più. Dimmi; cioè, che sai? Mica lo sai. Pretendo tuttavia. E non avendo, mi limito in trovate fanfarone, magari pur sublimi, questo sì, talvolta almeno. Per l’effigie di ciò che troverei se fossi l’essere, tu, minuscolo, in spiccioli finanche: ma l’essere che sei, quello che dico, che me lo porto impresso inattingibile, e ce l’hai. Sì, dentro di me. Soltanto. Soltanto che non fa, manca qualcosa: la fiction dice l’attimo. Ma no, non questo. E manco il feeling, no. No, che non è questione. Va un po’ a cercare, tu: credo sia conoscenza, o meglio l’intuizione della casella vuota da riempire. Quella mancante in me/te, come in amore, appunto. Tu fatti quell’effigie immaginata. Baràttati con essa, se sai dirti: interpreta, traduci. E t’amerò soltanto in quel baratto l’immagine lasciandola al voyeur. Denudati dell’abito consunto: Imparala la lingua del non essere, circonda l’ineffabile lacuna col porti qui, davanti a me, sul volto la maschera sublime in cui mi sviso, con cui potrai giocare a far l’attrice e recita la parte, sii l’attrice, che in grazia ed in sua verità va travestita con la tua verità trucca la maschera, ti prego dell’esser tutto quel che io non sono; ti prego che l’essere tu renda in un momento

quella finzione là dietro la siepe che il guardo schiude all’ultimo orizzonte. Baràttami, mio amor, col tuo sorriso e che mi perda in un sogno di viso, segno da te indiviso, mia ragione: diviso parola per parola fammi te, tu, nome dell’autrice, proprio lei, la svergognata, sublime ardire del corpo dello spirito, agognata. Che l’essere non sta nella parola (o nel linguaggio) ma sulla soglia angusta del suo farsi corporale, come fiamma d’avvio pentecostale che ci marchia la carne fino al cuore sbugiardati. E parlerò la lingua sconosciuta a me, quella tua propria, dentro cui non stai, che non la langue (né la parole) la volle, e te la insegnerò, tu, carne del mio spirito mancante, tu, spudorata, tu, femmina folle, perché sia l’esser (tuo) quello che sei: tu, dell’inutil vita unico fiore. Tu, che non dici amor che non lo sai. Ed io neppure. mVis! 25 febbraio 2007.

Lai dell’ombra. Oggetto-a.

adxui kalapri

Ti neghi sublime e nell’anima astrusa derivo il sembiante che adombri da poche parole, sottratto e iterato. M’ammalio, voragine al pozzo, specchiato nell’omen che trai dal santo in cui sei battezzata in dovizia. Disdetta, vertigine in pena proponi purgando l’oggetto dall’-a di quell’acqua: da qua intorbidata, che ruba il tuo viso, sequestra l’immagine vera, la divora, barbaglio residuo, nell’ombra, da qua della vera del pozzo: senza fondo. Cui do da inghiottire nel gorgo di là della vera la vera che t’orni del dono di te: e non torni più vera, tu. Precipito dentro. Attingere provo, e il supplizio si torce, mi devia in scarse parole incongrue; e divide, la soglia: invera l’abisso in cui pesca l’incanto che solo l’eco adduce, e vi s’annega. Ti neghi: ed è il purgatorio che nega l’inferno: il tuo dono. Disdici, passaggio coatto, e ti fai salvazione: in penitenza m’imponi il racconto. E oblitero muto la vasca – già detta in poetico segno: altro – che il nome n’attingo e guadagno, la pena scontando a dar conto: montale d’indizio secondo, cortese. Così che la vera del pozzo s’inghiotte quell’-a, quell’oggetto, mi rende il tuo viso, di grazia prezioso. Ritorni tu vera, e qua, da di là da quell’acqua, riaffiora la vera alla vera: nel simbolo in cui vi disposo, midons. mVis! 30 gennaio 2008

Che inghiotte

Dislocazione E ti stai. E dalla veste che inutile levo. Ti stai, se indugio, s’esito, e tituba l’esito che attingo in menzogna, che l’attimo ruba che sogna, immota. Assenza serena che sfidi la turba, altera. Lo sguardo che indaga. Che attesa che peni. Che scruta e domanda. Dissimuli esperta. Che sola presenza. L’implori ch’esigi a temere. E solo segreto che nasce mistero: e presenza soltanto. Protesti taciuta: ti bei sottintesa nel grido, levità che ti giungi. Che grido silente ed ingiunto. Intimi gesti che valgano intimi gesti mancati. Sottraggo. Sommessa; che non sei. Che non sono. Che sottrai: sottomessa indolenza: scommessa che audace contratta: disdice. E realizzo vedermi qual altro, subisco. Che non hai le parole per dirlo detratta. Ritraggo, ritengo in abisso: se dirmi. Sorriso qual pianto a evitarti: dissentita. Che sfugge e detengo: implicato. E tu. Sortilegio: e il mancar(mi), tacendo: a evitarmi; ch’eludo ch’eludi. Sussurri una lacrima allusa, che scettica spilli, dimessa. Di poche parole. Perchè m’assomigli lo starmi. Lo sguardo s’annulla: dedotta intenzione. E l’ormai che ti fai. S’umilia a sapermi. A te ti defalchi ti dubiti e svii: che (tu, ti/mi) domandi. Proiezione: riduce. Di te-me. E senza più baricentro. Finito. Ellissi sfocata: asimmetrica ellisse. E che d’un tic smarrito mi risolvo scrollando le spalle. Sconcluso. Recrimini. Digrado che sfumo: abbandono. La tua nudità. Svanisco. Che al fin denudata. Senza fine. Che basta. mVis! 6 febbraio 2008

Sestina circolare anomala caudata Pensavo che tu fossi la mia pietra filosofale per trovar la vita che mi sfugge flottando in questo mare d’un marasma, in cui navigo la notte a vista: nel naufragio dell’amore che m’è dolce narcisica nequizia. Certo, perché quel poco d’avarizia, quel po’ che basta, mi riduce in pietra inane e secca: e certo che un amore allora non v’alligna, né la vita barbata vi s’apprende! perché è notte il pensiero che poi io getto a mare. Che ad amare, ricordo, che fu al mare, che, al tremolar d’estate, la mestizia mi prese d’un’assenza, ombra di notte, fantasma a me scagliato come pietra – non plasmata – e ferisce, che la vita vi s’abbaglia. E si biforca amore. Ovvio, perché non è cosa l’amore da ritrovar sulla spiaggia del mare come un ciottolo liso dalla vita, perché, come un quesito di letizia, il bivio d’Ercole t’addita. Pietra che chi presume sol proietta in notte. Mentre l’incerto giunge giorno e notte e ne trattiene il nocciolo d’amore, interdetto esitante, con la pietra ancor in mano, per sfidare il mare che di grazia soverchia, e a far primizia l’ombra meschina chiamandola a vita. Ed oggi ancor, le mani sulla vita, io scruto l’orizzonte. Si fa notte sul lido, ma intravedo che m’inizia un beccheggiar di gioia che è un amore, che mi spaura lieve in alto mare astraendo il superfluo dalla pietra.

E sogno che l’inganno si fa pietra di paragone e carne della vita, intriso nella cosa che in un mare corporale coagula la notte, finché all’alba s’effigia nel mio amore limpida l’ombra che sa trar perizia dalla sua grazia a generar sapienza, che cara e dolce sempre m’è. mVis! Cagliari, giugno 2008

L’ultima menzogna (Everyman)

Certo va pure trovato quel fine, lo dicono, e magari ci s’illude che ce lo porti in mano la corrente della vita, ed in vero la natura dovrebbe riportarci al suo richiamo: ma il fatto è pure che la vita sogna. Va fatto tutto quello che bisogna, è questo certo il punto alla fin fine. Sì, ma è questione d’ordine, e il richiamo è più d’uno, l’amore che m’illude per esempio, ed il tempo a sua natura si puntualizza in furia trascorrente. Ora mi trovo qui con l’occorrente, e pare che mi mettano alla gogna. Com’è che penso – quasi si snatura – ch’io tutto resti fermo, e tutto fine fine si muova intorno a me, e m’illude abbagliato alla luce d’un richiamo? Come vedessi di sbieco nel richiamo d’uno specchio il mio viso concorrente che con faccia di suola disillude a poco a poco pure la vergogna. Ma è pure è giusto che vi metta fine. Che vengo a dire? E dunque a mia natura mi metto a raccontare la natura di quello che è successo, e richiamo una parola che mi paia fine e sia bastante a imbrigliar la corrente di tutto quanto questa storia agogna, sospeso su di un filo in cui s’illude tale peripezia: perché, chi illude il bandolo, funzione, la natura: che non si dica che solo una carogna io sia? Ventriloquo frugo il richiamo e l’istanza che dentro, ricorrente, mi parla dalla soglia, sul confine

in cui è imminente il quid dell’amor fine, aliena grazia che ordina e che illude, come una scossa viva di corrente elettrica, e riscuote la natura d’un desiderio che mi fa richiamo e dice «io (…?.)» nell’ultima menzogna. m!Vis Cagliari, 1 luglio 2008.

Fiore rovescio (Il fermo voler mio raimbarnaldiano)

Fior rovescio in cui entra il cor possente e graffia come un’unghia acuminata fin la carne: s’arma l’anima, pur trafitta dalla verga di stupore, col pensier che n’accinghia fin duro zio che sogna nella camera. Fior inverso, alla camera oscura, imago impressa, tosto entra in negativo, mi disarma, e cinghia: tal vecchio zio che m’umilia e m’adunghia. Sì che ribalto, in rifiorita verga, il disarmo d’urgenza che disanima. Capovolto mio fior d’anima armata sol d’un nulla in cui s’incamera il tuo nome, e tua impresa che si verga nel corpo, vi t’infiggi. E assillo m’entra: rimestato dolor in carne d’unghia: trasmette spirto, già ozioso, qual cinghia. Invertito fïor, cinghia d’amor: tu scortichi il disio che s’arma invano e l’anima l’interroga sull’unghia, come l’uggioso zio che in la sua camera gli saggia il vizio: e sol timore v’entra, ché freme pur, già teme per sua verga. Fior riverso, secca verga, sbocci che il metro tempri, e zio l’incinghia alla trita ragione che non c’entra: se, inerme, l’alma non l’assista d’arma sua, e ne sancisca il merito alla camera interna, ove il voler dibatte e inunghia

Ribaltato fior ch’adunghia il senno, inclito ride se converga umile possa, e risolut’in camera di carità: come un buon zio che cinghia l’anima, e la percuote e avvince e allarma in gaudio, che riscrive il cor che v’entra. Questo fermo voler d’unghia e di zio cinghia mo Bon Respeig con verga ed arma: e l’anima n’incamera se v’entra. E il fior s’inversa. m!Vis* Cagliari, 1 maggio 2011. ************************************** Come al contrario splendi, mio fiore inverso. che gioia doni aspra, non amara: al di qua. Dono concesso a armato disincanto amato che non cede. Pur senza principesco non-potere fin oltre il désirer, lì nel pensiero: dirupo ardito, e neve e ghiaccio e gelo. Scudo di vanità alla vanità retrospettiva. In cui radice avvinci allo strapiombo; e sulla pietra.

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