ISSN 2037-6677

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La dottrina statunitense in tema di forma di Stato di Giancarlo Rando

1. – Il biennio oggetto di questa rassegna si caratterizza per il consueto buon numero di opere dedicate a ricostruzioni d’insieme del documento costituzionale americano e per alcuni saggi che ricostruiscono il pensiero costituzionale dei giudici della Corte suprema in carica (si v. il n. 2). Poco spazio, in continuità con una linea di tendenza già rilevata da qualche anno, è dedicato alle opere sui rapporti tra Stato federale e Stati federati mentre si segnalano ancora alcuni studi di rilievo sul Primo Emendamento (n. 3).

2. – Steven Mazie, corrispondente dell’Economist sui temi della giurisprudenza della Corte suprema, traccia una sintesi del Term appena trascorso, il decimo dell’era del Chief Justice Roberts nel saggio American Justice 2015. The Dramatic Tenth Term of the Roberts Court, Philadelpia, Pa., University of Pennsylvania Press, 2015, pp. 180. L’idea di fondo dell’autore è quella per cui la Corte suprema è meno nettamente orientata secondo le propensioni politiche dei suoi membri di quanto si creda. Prova ne è la disamina di alcune decisioni importanti del Term (Mazie ne analizza 14), nelle quali la Corte ha deciso in maniera unanime, che prevalgono rispetto a quelle nelle quali si è verificata una spaccatura di 5 a 4. In particolare, i giudici conservatori si sono www.dpce.it

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discostati da quelle che apparentemente sarebbero state le loro “naturali” posizioni ideologiche per decidere assieme ai giudici liberal. Gli esempi sono diversi: Roberts che vota con i colleghi dell’ala “sinistra” nella decisione sul c.d. Obamacare (King v. Burwell) o in quella in cui vengono confermate le restrizioni alle richieste di fondi a sostegno delle campagne per l’elezione dei giudici (Williams-Yulee v. Florida); Alito e Roberts che votano con i liberals per accrescere le tutele delle donne in cinta sui luoghi di lavoro (Young v. United Parcel Service, Inc.); Clarence Thomas che decide in favore della legge texana che ha vietato di stampare una targa speciale raffigurante la bandiera degli Stati confederati d’America (Walker v. Texas Division, Sons of Confederate Veterans). Il libro si segnala certamente anche per la sua accessibilità ad un pubblico non specialistico ma grazie all’accuratezza della descrizione dei casi ritenuti più significativi del Term e alla introduzione nella quale l’autore difende l’importanza dell’istituzione Corte suprema il saggio è d’interesse anche per lo studioso. Akhill Reed Amar, Sterling Professor a Yale, prosegue nella sua prolifica opera di ricostruzione delle visioni sottese alla Costituzione statunitense, con il suo terzo libro del più ampio progetto dedicato alla Carta costituzionale. Molto interessante l’approccio geografico di The Law of the Land: A Grand Tour of Our Constitutional Republic, New York, N.Y., Basic Books, 2015, pp. 376. Ognuno dei 12 capitoli che compongono il saggio esamina la Costituzione dalla prospettiva degli Stati costitutivi. Si viene così a delineare un mosaico formato da un angolo prospettico, per così dire, “regionale” degli Stati Uniti. Amar esplora una gran varietà interpreti, casi e principi costituzionali tratti da ogni era della Repubblica. Tale approccio conduce l’autore a spiegare come le peculiarità territoriali delle diverse aree degli Stati Uniti che egli prende in considerazione abbiano contribuito a formare il panorama complessivo dei principi costituzionali e, in definitiva, a plasmare la Costituzione dei multiformi Stati Uniti d’America. L’opera di Amar, sotto questo profilo, si pone in continuità con i suoi lavori precedenti e fornisce altri notevoli spunti sull’interpretazione dei documenti costituzionali. Ancora in tema di ermeneutica costituzionale si segnala il saggio di James E. Fleming, Fidelity to Our Imperfect Constitution. Form Moral Readings and Against Originalisms, New York, N.Y., Oxford Univeristy Press, 2015, pp. 264, che propone, come già si evince dal sottotitolo, un’altra interpretazione della Costituzione che si www.dpce.it

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contrapponga a quelle originaliste. Fleming cerca di differenziarsi dalle due correnti più eminenti, quella del c.d. “living constitutionalism” e quella dell’“originalism”, proponendo una visione, un approccio filosofico, che egli ritiene superiore a entrambe. Fleming concepisce la Costituzione come un contenitore di principi morali e politici che richiede successivamente una traduzione in norme. La sua lettura rappresenterebbe meglio la Costituzione perché sarebbe più aderente ad una visione di essa come un insieme di principi generali e ispiratori. Il saggio, oltre alla presentazione del pensiero dell’autore, ricostruisce l’originalismo nelle sue molteplici forme e prosegue con una serrata critica nei suoi confronti. Fleming conclude rigettando le argomentazioni a favore di una riscrittura della Costituzione, sostenendo, invece, l’opportunità di applicare una Costituzione certamente perfettibile ma con un approccio fedele alla sua natura di carta di principi. The Constitution: An Introduction, di Michael Stokes Paulsen e Luke Paulsen, New York, N.Y., Basic Books, 2015, pp. 352, ripercorre le origini del documento costituzionale intervallando la dissertazione erudita con la descrizione di alcuni personaggi significativi della storia costituzionale, talvolta persone comuni entrate nella storia grazie a decisioni landmark della Corte suprema. Gli autori, padre e figlio, non si sottraggono nella loro ricostruzione dall’affrontare spinose analisi su giudici, decisioni, scuole di interpretazione costituzionale che essi considerano fuorvianti. L’approccio degli autori si caratterizza per coniugare approfondimento e volontà di comunicare ad un pubblico più vasto i tratti salienti della storia costituzionale americana. Nello stesso filone di ricerca si inseriscono le opere che analizzano le figure dei giudici costituzionali in carica. Tra i giudici che più hanno attirato l’attenzione dei commentatori, sicuramente dopo Scalia, c’è Justice Clarence Thomas. Ralph Rossum, nel suo Understanding Clarence Thomas: The Jurisprudence of Constitutional Restoration, Lawrence, Kan., University Press of Kansas, 2014, pp. 304, analizza partitamente le opinions di Thomas per individuare la teoria costituzionale alla base del pensiero del giudice e a tal fine si avvale anche di discorsi, memorie e altri scritti. L’opera di Rossum è stimolante poiché accuratamente distingue l’originalismo di Clarence Thomas da quello di Antonin Scalia, chiarendo come, a dispetto della sua immagine

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silenziosa e quasi dimessa a confronto con il più appariscente collega italoamericano, egli abbia sviluppato una chiara e anche autonoma visione della Costituzione. Garret Epps nel suo American Justice 2014: Nine Clashing Visions on the Supreme Court, Philadelphia, Pa., University of Pennsylvania Press, 2014, pp. 192 disegna un ritratto di tutti i nove giudici attraverso l’analisi delle decisioni del Term 2013-14. Epps analizza una opinion per ogni giudice nel Term considerato, arricchendo le valutazioni giuridiche con aneddoti e osservazioni personali e apre uno spaccato sulla visione del mondo di ogni giudice. Interessante la riflessione di Epps quando afferma che forse per la prima volta nella storia della Corte suprema i giudici sono divenuti «red and blue», ossia per la prima volta, a suo avviso, le decisioni dei giudici possono essere lette sulla base delle loro convinzioni politiche. Scott Dodson fa un omaggio alla carriera del giudice Ruth Bader Ginsburg nella curatela dell’opera The Legacy of Ruth Bader Ginsburg, New York, N.Y., Cambridge University Press, 2015, pp. 326, raccogliendo sedici saggi da eminenti studiosi di diritto, storia e scienze politiche. La parte I dell’opera è dedicata alla carriera di Justice Ginsburg nell’accademia e presso la American Civil Liberties Union (ACLU), le rimanenti due parti del saggio sono dedicate ad alcune delle opinions chiave del giudice. In particolare vengono ripercorsi i suoi lavori in tema di procedura civile, di rapporti tra ordinamenti e sul federalismo. Come suggerisce piuttosto chiaramente il titolo del saggio, Peopling the Constitution, Lawrence, Kan., University Press of Kansas, pp. 350, l’idea dell’autore, John E. Finn, è quella di “umanizzare” la Costituzione e di non leggerla, almeno non esclusivamente, con l’occhio del giurista. Secondo l’autore i cittadini dovrebbero adottare una visione del documento come “Civic Constitution”, ossia come un documento che fornisca ai cittadini un riferimento di comportamento come comunità politica. Nell’impostazione di Finn la Costituzione diviene dunque non solo un insieme di regole ma una sorta di trama per un dialogo che è necessario mantenere incessante tra i cittadini. Secondo Finn, invece, negli Stati Uniti si sta vivendo una crisi della cittadinanza – egli parla di «constitutional rot» – nel senso che molte questioni costituzionali sono risolte dai giuristi con un approccio puramente positivistico ma senza considerare nell’insieme la visione ideale della

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Costituzione nei confronti della quale, invece, l’autore invita tutti a rinnovare l’impegno. Pamela S. Karlan, nel suo A Constitution for All Times, Cambridge, Mass., The MIT Press., 2013, pp. 208, attraverso un resoconto del Term 2011 della Corte suprema, ci presenta una vasta critica della giurisprudenza della Corte. Dal momento che i contributi originali che compongono il saggio provengono dallo spazio che Karlan tiene sulla Boston Review (Karlan’s Court) i casi salienti del Term sono illustrati con linguaggio accessibile anche ad un pubblico di lettori non giuristi. La linea portante del lavoro di Karlan è la critica ad un originalismo definito «slippery and misleading», contrario, sostiene l’autrice, alle istanze progressiste ed egualitarie che ella riconosce presenti nella Costituzione statunitense. Pamela Karlan, giurista dichiaratamente progressista, interpreta la Costituzione come un’istituzione in evoluzione, animata dai valori fondanti di libertà, eguaglianza, opportunità e inclusione. La Costituzione breve degli Stati Uniti d’America del 1787 lascia, per sua stessa natura, molte questioni di governo irrisolte. È questo il punto di partenza di Harold H. Bruff che nel suo Untrodden Ground: How Presidents Interpret the Constitution, Chicago, Ill., The University of Chicago Press, 2015, pp. 550, sostiene che ogni presidente degli Stati Uniti d’America ha lasciato la sua impronta sul documento costituzionale nell’interpretare il suo ruolo. I comportamenti dei presidenti, secondo Bruff, hanno plasmato in maniera duratura, permanente, la Costituzione. Ad esempio i Framers mai avrebbero immaginato la moderna interpretazione del ruolo di Commander in Chief o il ruolo del Presidente nei confronti delle agenzie dell’esecutivo. Nella storia, prosegue ancora l’autore, l’interpretazione presidenziale è stata comunque condizionata dal Congresso, dall’opinione pubblica e dall’intervento giudiziale. I presidenti, comunque, hanno giocato e continuano a giocare un ruolo fondamentale nel progresso del significato della Costituzione. Nel suo A Mere Machine: the Supreme Court, Congress, and American Democracy, New Heaven, Conn., Yale University Press, 2013, pp. 384, Anna Harvey mette in dubbio l’assunto dell’indipendenza del giudiziario statunitense suggerendo, invece, che la Corte suprema potrebbe non essere così indipendente dai vari rami di governo. L’autrice ipotizza innanzitutto una sistematica deferenza alle maggioranze del www.dpce.it

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Congresso. Al contrario di quanto generalmente è stato fin qui sostenuto, l’autrice intende dimostrare che sia la Corte Warren che quella di Rehnquist si sono rivelate propense ad appoggiare le scelte della maggioranza del Congresso. Ciò non è un male: l’autrice sostiene, infatti, che la protezione di cui godono i diritti negli Stati Uniti, ma anche in altri Paesi, è, paradossalmente, maggiore in ragione del fatto che la Corte suprema non sia poi così indipendente rispetto alle scelte maggioritarie. Sono stati lungimiranti i costituenti, secondo la lettura di Harvey, a dare ascolto alle parole di Jefferson: «Let mercy be the character of the law-giver, but let the judge be a mere machine». Nel suo The Cosmopolitan Constitution, New York, N.Y., Oxford University Press, 2014, pp. 304, Alexander Somek traccia la storia del documento costituzionale americano descrivendo due svolte fondamentali lungo la sua storia bicentenaria. La prima è avvenuta alla fine della Seconda guerra mondiale con la trasformazione della visione della Costituzione da documento che privilegia la libertà individuale basata sul contratto sociale a documento che valorizza la dignità attraverso il riconoscimento di nuovi diritti umani (si veda l’analoga ricostruzione nella dottrina italiana nel classico di G. Bognetti, Lo spirito del costituzionalismo americano. vol II. La Costituzione democratica, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 366). L’autore riflette sul fatto che con questo cambiamento la protezione dei diritti umani è diventata un tema che trascende i confini nazionali, generando una sorta di competizione tra le nazioni. V’è dunque un terzo cambiamento di paradigma, secondo l’autore, ossia la trasformazione della Costituzione in una carta cosmopolita («the cosmopolitan constitution»). Gaze esamina pertanto la Costituzione con questo approccio che giustifica alcune caratteristiche salienti dell’attuale ordinamento statunitense come, nota l’autore, la presenza di un solido e ramificato apparato amministrativo. Erwin Chemerinsky, Dean della School of Law della University of California, Irvine, propone un saggio provocatorio dal titolo The Case Against the Supreme Court, New York, N.Y., Viking Penguin, 2014, pp. 386, intervenendo nel dibattito sul ruolo della Corte suprema nella storia delle istituzioni. Nel testo l’autore analizza due secoli di decisioni salienti della Corte e prova a rispondere alla domanda: la Corte suprema ha adempiuto al suo compito costituzionale? Chemerinsky riporta alcune delle decisioni più controverse – come Korematsu o Dred Scott – per sostenere come la www.dpce.it

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Corte abbia sostanzialmente fallito durante alcuni momenti critici della storia costituzionale statunitense e sia venuta meno al suo compito di proteggere le minoranze. Anzi, provocatoriamente, Chemerinsky conclude che sia la Corte Warren che la Corte Roberts si sono schierate sostanzialmente a favore di poteri maggioritari, il governo e il «business», a scapito della protezione di categorie più deboli. Nel capitolo conclusivo l’autore propone alcuni cambiamenti sul modo di elezione dei giudici, sull’audizione delle argomentazioni, sulla comunicazione delle decisioni e sulla fine del mandato. Nel volume Tocqueville’s Nightmare: The Administrative State Emerges in America, 1900-1940, New York, N.Y., Oxford University Press, 2014, pp. 240, Daniel R. Ernst racconta del rifiuto dei tentativi di Ernst Freund di trapiantare negli Stati Uniti la tradizione del Rechtsstaat e gli sforzi di Felix Frankfurter, Charles Evan Hughes e Roscoe Pound nel ritagliare un preciso ruolo alle corti nelle decisioni affidate alle agenzie dell’esecutivo. Con il New Deal in corso questi giuristi si impegnarono affinché le agenzie utilizzassero il procedimento giurisdizionale e le corti non fossero costrette a decidere nuovamente i loro provvedimenti. L’opera costituisce una sorta di risposta alla paura del movimento del Tea Party, secondo il quale l’America oggi è il risultato di influenze addirittura socialiste. L’autore spiega come non si tratti della realizzazione, come suggerito nel titolo, delle paure di Tocqueville, ma che nella costruzione dello Stato amministrativo americano è stata comunque impiegata la tradizione della rule of law che valorizza lo smaller government e l’esaltazione dei diritti individuali. On Democracy’s Doorstep: The Inside Story of How the Supreme Court Brought “One Person, One Vote” to the United States, di J. Douglas Smith, New York, N.Y., Hill and Wang, 2014, pp. 370, ricostruisce minutamente la storia delle decisioni di reapportionment della Corte Warren, tra le cui note Baker v. Carr (1962) e Reynolds v. Sims (1964), che hanno inaugurato l’applicazione del principio “one person, one vote”. Attraverso queste storiche decisioni la Corte Warren fece un grande sforzo per assicurare una migliore rappresentazione dei voti degli elettori; fino ad allora, infatti, gli abitanti delle contee rurali erano sovra rappresentati rispetto agli abitanti dei centri urbani. Le decisioni della Corte, oggi ritenute un pilastro fondamentale della

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democrazia statunitense, furono osteggiate e addirittura provocarono la presentazione di un emendamento costituzionale diretto a renderle inefficaci. Nel suo Revoking Citizenship: Expatriation in America from the Colonial Era to the War on Terror, New York, N.Y., New York University Press, 2015, pp. 216, Ben Herzog esplora il significato sociologico del concetto di cittadinanza negli Stati Uniti, in particolare dedicandosi ai casi in cui tale rapporto tra lo Stato e il suo cittadino è stato revocato. La concezione statunitense della cittadinanza è una concezione che l’autore definisce «voluntary and contractual», e in questo contesto egli tratta i casi nei quali il governo ha unilateralmente revocato la cittadinanza, dalla Revolutionary War alla War on Terror, esaminando legislazione, trattati internazionali, questioni consolari e decisioni della Corte suprema che nella storia hanno sancito la perdita della cittadinanza americana. Il caso più recente trattato nel saggio è quello di Yaser Esam Hamdi, che condusse alla sentenza della Corte suprema Hamdi v. Rumsfeld (2004). Hamdi, cittadino americano catturato in Afghanistan nel novembre del 2001, fu portato prima a Guantánamo e poi in South Carolina e detenuto senza processo fino al 2004, quando il Dipartimento di giustizia statunitense lo consegnò all’Arabia Saudita a condizione che egli rinunciasse alla cittadinanza americana. Il saggio di Anne M. Kornhauser, Debating The American State: Liberal Anxieties and the New Leviathan, 1930-1970, Philadelphia, Pa., University of Pennsylvania Press, 2015, pp. 336, analizza il periodo di nascita e sviluppo di quella nuova forma di organizzazione degli Stati Uniti che fu il New Deal, suggestivamente definito un nuovo “Leviatano”, uno Stato amministrativo con un forte esecutivo come testa e un folto stuolo di funzionari e fare da corpo. Il saggio esplora i punti salienti di un dibattito che coinvolse diversi pensatori liberali i quali, proprio mentre si dava vita a questa nuova forma di organizzazione degli Stati Uniti, si interrogavano sulla maniera ottimale per conciliare i vantaggi dello Stato amministrativo con le “minacce”, per così dire, all’autonomia individuale tipica della concezione liberale. Il lavoro di Kornhauser, docente di storia al City College di New York, porta un apprezzabile contributo ad un dibattito ancora importante non solo negli Stati Uniti, quello relativo alla tensione tra valori democratico-sociali e l’aspirazione ad un governo “leggero” ed efficiente.

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Rispetto agli anni passati sembra essere diminuito l’interesse per il rapporto tra guerra e diritto. Testimonianza ne è lo scarso numero di opere rilevanti sul tema. Si segnala, tuttavia, il lavoro a cura di Austin Sarat, Lawrence Douglas e Martha Merril Umphrey, Law and War, Stanford, Cal., Stanford University Press, 2014, pp. 248. Il saggio pone sin dall’inizio in questione l’assunto di base di ogni legislazione sulla guerra: l’umanizzazione della guerra stessa. L’opera vede la partecipazione di numerosi studiosi del tema – Sarah Sewall, Gabriella Blum, Laura K. Donohue, Samuel Moyn, Larry May – che esaminano i punti più spinosi della regolamentazione in materia. Il lettore, alla fine, sembra restare con la sensazione per cui la legislazione in tema di guerra abbia in qualche modo regolamentato le vicende della guerra, certo, ma che l’abbia in qualche modo anche “autorizzata” e resa legittima (per tutti questi aspetti nella dottrina italiana cfr. il lavoro di A. Vedaschi, À la guerre comme à la guerre? La disciplina della guerra nel diritto costituzionale comparato, Torino, Giappichelli, 2007, pp. 610). Le leggi in tema di guerra sono in equilibrio, perennemente mutevole, tra la legittimazione e la limitazione e il volume costituisce una vasta raccolta di punti di vista differenti, di sicuro interesse per chi si voglia accostare allo studio del tema.

3. – Meno rilevante che nella precedente rassegna (sia consentito rinviare al n. 2 del 2014 di questa Rivista) è il tema del rapporto tra religione e laicità nell’evoluzione della forma di Stato statunitense. Solo due opere paiono degne di menzione. Il volume a cura di Boris I. Bittker, Scott C. Idlemann e Frank S. Ravitch, Religion and the State in American Law, New York, N.Y., Cambridge University Press, 2015, pp. 992, può definirsi monumentale. In quasi mille pagine, frutto di anni di ricerca, l’opera indaga a tutto tondo il rapporto tra religione e Stato nell’esperienza statunitense. L’analisi è condotta sia a livello dei singoli Stati che a livello federale, senza limitarsi all’approfondimento del Primo Emendamento ma anche con una disamina storica che dalle Colonie arriva fino ai giorni nostri. Viene indagata nelle sue molteplici sfaccettature una tensione legale che fa parte integrante della costruzione costituzionale degli Stati Uniti d’America. Secular Government, Religious People, di Ira C. Lupu e Robert W. Tuttle, Grand Rapids, Mich., William B. Eerdmans Publishing Co., 2014, pp. 279, affronta il tema www.dpce.it

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della libertà di religione secondo il consueto schema del bilanciamento tra libertà di manifestazione del proprio credo religioso, molto sentita nella popolazione statunitense, e laicità dello Stato, altrettanto generalmente difesa. Attraverso la trattazione, sia sotto il profilo storico che sotto quello della stretta attualità giurisprudenziale, della Free Exercise Clause, gli autori definiscono e difendono il carattere laico della forma di Stato statunitense.

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