Rudi Ghedini | http://rudi.splinder.com

In fervida, dolente, fiduciosa attesa “La verità diserta il campo dei vincitori”. - Simone Weil

Alla scontata mitologia dei vincitori, vorrei contrapporre quella degli sconfitti. All’invitto Achille, ben prima che fosse banalizzato da Brad Pitt, i più preferivano Ettore. Destino di certi sconfitti è acquistare uno strano fascino. Per esempio, nella storia secolare del Tour de France si staglia la favola dell’Eterno Secondo, Raymond Poulidor, il più amato ciclista francese, nonostante non sia mai riuscito a portare la maglia gialla sui Campi Elisi. Per otto volte, fra il 1962 e il 1976, Pou Pou è salito sul podio parigino nelle posizioni di immediato rincalzo, tre volte secondo e cinque volte terzo, dietro Anquetil, Gimondi, Aimar, Merckx e Van Impe. Lo stesso Lucien Van Impe – leggero come Pantani – fuggiva via appena la strada si impennava e faceva collezione di maglie a pois (quelle del Gran Premio della Montagna), salvo rimediare distacchi rovinosi nelle tappe a cronometro, e concludere tre volte terzo e una volta secondo (nell’81, dietro Hinault). Dopo la vittoriosa edizione 1997, tutti pronosticavano al giovane Jan Ullrich un radioso futuro da primo della classe: invece, il tedesco ha dovuto abbonarsi al secondo e al terzo gradino del podio, alla ruota di Rjis nel ’96, di Pantani nel ’98, di Armstrong nel 2000, 2001 e 2003. Ma l’autentico mito dei piazzamenti al Tour è un olandese, Joop Zoetemelk, sei volte secondo. Classificato alle spalle di Merckx sia nel 1970 che nel ’71, Zoetemelk era scomparso, probabilmente convinto dell’invincibilità del Cannibale belga, ne aveva atteso il ritiro per ripresentarsi nel ’76, finendo di nuovo al posto d’onore, e inanellando altri piazzamenti nel ’78 e nel ’79, sempre dietro Bernard Hinault. Solo un destino cinico e baro può farti incrociare lungo le assolate strade di Francia due fenomeni come Merckx e Hinault. Senza di loro, il nome di Joop Zoetemelk, ormai quasi dimenticato, poteva occupare i libri di storia come trionfatore di sette Tour de France, un quarto di secolo prima di Lance Armstrong. A differenza dell’amatissimo Poulidor, che pianse e fece piangere i suoi tifosi per una vittoria che non arrivava mai, a Zoetemelk è capitato di vincere un Tour, nel 1980. Lieto fine? Macché, nell’82 la maledizione è tornata a colpire: primo Hinault, secondo Zoetemelk. Appartengo a quella generazione di tifosi che sta attraversando il più lungo periodo senza scudetti nella storia dell’Inter. Sono già passati 15 anni, per 15 campionati consecutivi abbiamo visto vincere gli altri. Non è una gran consolazione pensare che al Milan lo scudetto sfuggì per 44 anni, dal 1907 al 1951. Poche cose mi sembrano altrettanto commoventi dell’attesa del tifoso, la pazienza e la dedizione di chi deve assistere alle ripetute vittorie altrui, immaginando la meraviglia di quando toccherà a lui, fare festa. Come tanti tifosi nerazzurri, conosco bene questa sensazione, e ho imparato a convivere con la perfidia che ti fa amare le vittorie per conto terzi, e idolatrare personaggi come Juan Carlos Valeron, Nicolas Burdisso, Steven Gerrard... Nell’attesa, ho attraversato rutilanti mercati estivi, scudetti e coppe sbiaditi a Natale, infortuni a orologeria, scandalosi fischi arbitrali, presunti campioni e campioni imbrocchiti, sconfitte strazianti, e persino un record di imbattibilità costruito su una sfilata di inutili pareggi. Nell’attesa, sono invecchiato.

E’ doverosa, per l’attualità, un’ulteriore precisazione. Nonostante i miseri tre scudetti festeggiati nei miei 38 anni di tifo, nonostante l’accumulo di negatività che ha trasformato l’Inter nel surrogato dei carabinieri come bersaglio di barzellette, nonostante l’avvenuto sorpasso nella gerarchia cittadina con l’Inter ridotta al rango dell’Espanol e dell’Everton, nonostante tutto non riesco ad avercela con Massimo Moratti, anzi tendo a difenderlo, e nel Caso Vieri sono felice della rescissione del contratto e della sua disinvolta dipartita al Milan. Non cambierò idea nemmeno se ci farà gol nel derby. Aggiungo che ho potuto scrivere queste pagine senza farmi sopraffare dal mal di stomaco, avendo raggiunto un equilibrio zen, nella assoluta convinzione che l’era buia sta per finire e l’Inter di Mancini vincerà presto qualcosa di importante. Capite bene, non sono superstizioso. Tuttavia, devo ammetterlo, quando il carico dell’attesa oltrepassa un certo limite, il cervello può rifiutarsi di accogliere le spiegazioni razionali, tecniche e tattiche. Finisci per convincerti che ci sia qualcosa di arcano, una congiura, un’autentica maledizione. Come uscirne? Fra tutte le grandi tifoserie dello sport professionistico, dove si agitano le passioni di milioni di individui, non ci si può che rivolgere all’esempio supremo di ogni sindrome irrazionalistica. Il luogo: il New England abituato a bruciare le streghe. Lo sport: il baseball. La franchigia: Boston Red Sox. Il 28 ottobre 2004, dopo 31.458 giorni di attesa, i Boston Red Sox hanno rivinto le World Series. Era un 11 settembre - quello del 1918 - l’ultima volta che Boston riuscì a conquistare il titolo. Trascinati da Babe Ruth, i Red Sox avevano vinto nel 1915, 1916 e 1918, e rappresentavano la squadra leader del baseball a stelle e strisce. Ma il proprietario della franchigia, un certo Harry Harrison Frazee, per finanziare un musical di sua produzione (No no Nanette) non trovò altro modo che vendere Ruth ai New York Yankees. Altri sostengono che il Bambino venne ceduto a causa dei suoi comportamenti libertini, sgraditi a larga parte dei puritani del Massachusetts. Comunque sia andata, Ruth non avrebbe voluto lasciare Boston e quando fu costretto a fare le valigie, scagliò la sua maledizione sui Red Sox: “Non vincerete mai più”. Così è stato sino al 28 ottobre 2004. La squadra dei Calzini Rossi ha accumulato un incredibile campionario di sconfitte, per quattro volte ha raggiunto le World Series, e ogni volta ha perso nel modo peggiore, alla settima e ultima partita. The Curse of the Bambino è diventata una leggenda. In occasione dell'ottantesimo anniversario dell'ultima vittoria, il Boston Globe pubblicò un capolavoro di umorismo, modello ideale di autoironia, a disposizione di qualunque tifoso in lunga attesa. Stava scritto che quando i Red Sox vinsero il campionato per l'ultima volta, la Prima guerra mondiale non era ancora finita, Lenin aveva appena fatto la sua rivoluzione, le donne non avevano il diritto di voto, non esistevano né la penicillina né l'ONU, l'attore più famoso era Charlie Chaplin, e alle partite si andava in bicicletta, accomodandosi sull’erba ai bordi del campo; da allora il campionato di baseball era stato vinto da ventuno squadre diverse, fra cui quattro che nel 1918 neanche esistevano. Le spiegazioni esoteriche del declino dei Red Sox tendono a sottovalutare quale fosse, all’epoca, l’impatto di Babe Ruth, a giudizio unanime il più grande giocatore di baseball di tutti i tempi. E’ difficile trovare un paragone in altri sport, i suoi record sono rimasti imbattuti per mezzo secolo, in una stagione riuscì a essere sia il miglior lanciatore che il miglior battitore. Cederlo agli Yankees trasformò il destino di entrambe le squadre: il Bambino spostava gli equilibri, con lui gli Yankees vinsero quattro titoli, nel 1923, 1927, 1928, 1932, e divennero la franchigia trainante dell’intera Lega professionistica. Tuttavia, Ruth ha smesso di giocare alla metà degli anni Trenta, e i Red Sox hanno continuato a non vincere. La Maledizione ha retto per 86 anni,

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rinfocolandosi ogni volta che i bostoniani arrivavano a sfiorare il successo, senza riuscire ad afferrarlo. Ecco l’analogia con Ettore e Achille: i Red Sox si sono costruiti la fama di squadra maledetta, bersagliata dalla sfortuna, ed è nata la cosiddetta Red Sox Nation, che raccoglie, oltre ai semplici tifosi, chi si sente escluso dal Sogno Americano. Era a questi losers (perdenti) che si rivolgeva John Kerry – bostoniano e tifoso Red Sox – alla fine di ottobre 2004, prima di uscire sconfitto da Bush. Anche se Kerry non ce l’ha fatta, il mese di ottobre 2004 ha prodotto un’autentica rivoluzione simbolica. Prima, in semifinale, i Red Sox hanno eliminato gli odiati Yankees, con un’incredibile rimonta da 0-3 a 4-3; poi, in finale, hanno dominato i St. Louis Cardinals, vincendo 4-0. In pratica, dopo essersi trovati a un passo dal baratro, hanno raccolto otto vittorie consecutive. La sfida in semifinale con gli Yankees era cominciata male: una, due, tre sconfitte, e dallo 0-3, nei play-off, nessuno si era mai risollevato. Invece Boston ha compiuto il miracolo, sbancando le agenzie di scommesse, la quarta vittoria su New York è arrivata grazie a un lanciatore che si era azzoppato nella prima partita, Curt Schilling, tornato in campo con uno stoicismo che può apparentarlo al solito Ettore. Altro dettaglio intriso di Fato: il match winner dell’ultima partita contro St.Louis si chiama Johnny Damon. Sulla schiena porta il numero 18, l’anno dell’ultimo titolo vinto. Che, per Boston, battere gli Yankees sia sempre motivo di festa, lo testimonia l’ultimo film di Spielberg: l’invasione degli alieni comincia dopo un poco amichevole scambio di lanci nel cortile di casa fra Tom Cruise, con il cappellino degli Yankees, e il figlio primogenito, che lo disprezza (e porta il cappellino dei Red Sox). E per spazzare via la Maledizione di Ruth, era necessario che la nemesi storica si completasse ai danni di St.Louis, la squadra che sia nel 1946 che nel 1967 aveva distrutto i sogni dei Red Sox a un passo dal trionfo. Ogni leggenda negativa si nutre di situazioni dolorose. Nel 1986, in finale, i Red Sox riuscirono a confezionare un harakiri che può stare sullo stesso piano del 5 Maggio nerazzurro o del 25 Maggio rossonero. Stavano vincendo 3-2 sulla seconda squadra di New York, i Mets, e nella sesta partita erano in vantaggio di due punti, a un solo strike dal titolo. Vennero battuti per un errore difensivo spiegabile solo con una maledizione; ancora sotto choc, nella settima partita Boston si lasciò travolgere senza opporre resistenza. Del baseball, sulla stampa italiana si legge pochissimo. Ma avendo visto tanti film americani (da L’idolo delle folle, con Gary Cooper, a Il migliore, con Robert Redford) e letto romanzi come Underground, di Don DeLillo, seguo avidamente le corrispondenze firmate da Alberto Flores d’Arcais, Riccardo Romani e Massimo Lopes Pegna. Pochi sport offrono le suggestioni che può dare il baseball, e la Maledizione del Bambino è una miniera di aneddoti. A Boston si vendevano magliette con su scritto: “Può capitare a tutti di avere un secolo storto”; altre magliette esibivano semplicemente la parola Curse… La ditta Brigham, famosa produttrice di gelato, ha creato il gusto Reverse the Curse (Inverti la Maledizione)… Uomini d’affari bostoniani hanno sfilato sulla tomba di Babe Ruth, depositando coppe di gelato, offerte sacrificali nella speranza di rabbonire il fantasma… Cinque ultra novantenni hanno indossato una maglietta con su scritto Just One, Before I Die (Almeno uno, prima che muoia), sulle tribune del Fenway Park di Boston… Il 21 novembre i giornali hanno riportato la notizia della morte dell’uomo più vecchio del mondo, un ex ferroviere, Fred Hale: stava per compiere 114 anni, e il fatto curioso è che si trattava di un tifoso dei Red Sox che si trovava allo stadio in occasione della vittoria del 1918, e aveva potuto gioire per la fine della Maledizione… Infine si è saputo che Stephen King, non a caso tifoso della squadra più maledetta d’America, sta per pubblicare un thriller

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intitolato Faithful (Fedele); l’idea gli era venuta quando la maledizione era ancora vincente, e chissà come avrà rivisto il finale. Con le dovute proporzioni, un gruppo di scrittori interisti, dopo il 5 Maggio affidò a Limina una raccolta di racconti, Basta perdere. Non tutti gli esorcismi hanno la stessa data di scadenza. Finalmente, il 28 ottobre 2004 la Red Sox Nation ha scoperto il Lieto Fine. Ha conosciuto una gioia immensa, inimmaginabile, mai provata prima. Le cronache raccontano di lacrime che “solcavano visi di tutte le età”; di una nonna che stringeva “teneramente al petto una neonata di quattro settimane, a cui un giorno racconterà cosa questa notte ha rappresentato per chi c’era”; di una ragazza che “piangeva a dirotto, abbracciata al suo fidanzato. O forse semplicemente a un improvvisato compagno d’avventura di cui neppure conosceva il nome, uno che, come lei, aveva sognato per tutta la vita questo momento”. Chi era allo stadio si affannava a raccogliere “manciate di terra, da conservare come preziosi cimeli”. I fotografi immortalavano attimi di delirio, che “riconciliavano con il mondo e con la vita”. Scene di pura felicità. Non vi vengono i brividi? Si vede che siete abituati a vincere, e non sapete più assaporarne il gusto. Noi, invece, abbiamo imparato che l’attesa porta con sé un desiderio di compimento, e non è detto che l’intensità emotiva della vittoria sappia oltrepassare l’altezza delle aspettative. Per quanto possiamo immedesimarci nella Red Sox Nation, sappiamo che la vittoria riuscirà a sorprenderci. Intanto, abbiamo rafforzato il carattere e imparato l’autoironia che trasforma le sconfitte (e persino i pareggi) nell’anticamera della vittoria che verrà. “La tua festa ch’anco tardi a venir non ti sia grave”… Abbiamo la fortuna di appartenere a quella umanità speranzosa e dolente cantata da Leopardi nell’eterno sabato del villaggio. Rudi Ghedini Linea Bianca, 6/2005

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