Intervista a Wu Ming 1 Bologna, 16 giugno 2011 1) A un vostro lettore che nel marzo 2010 si dichiarava preoccupato di doversi iscrivere a Twitter per seguire le vostre cose, hai risposto: «Twitter è solo per chi ha voglia» come a sottolinearne il ruolo marginale. E sempre nel marzo 2010, durante l'incontro con il filosofo Mario Galzigna, sottolineavi come non foste ancora riusciti a trovare una specifica funzione di Twitter. I vostri primi passi con questo strumento parevano quindi non avervi convinto del tutto. La mia impressione è che invece ora Twitter sia componente essenziale della vostra presenza in rete, come del resto lascia evincere il fatto che avete inserito il flusso di tweet nella nuova home page del sito. Se “Giap” rimane l'epicentro, Twitter ne è fedele complice, pronto a linkare i nuovi post e sopratutto a segnalarne i commenti più significativi, quelli in cui “il dibattito svolta”. Data la lunghezza media molta alta dei thread che animano “Giap”, tali link – lo dico per esperienza personale - si possono rivelare utilissimi per i lettori: che sia propria questa la funzione specifica di Twitter che andavate cercando? Ringalluzzire ulteriormente il blog e aiutare il lettore a non smarrirsi nel marasma dei commenti? E poi, parlando di specificità, dove lo trovate un mezzo cosi “efficiente” per le comunicazioni rapide e l'interazione immediata? Premesso che Twitter è comunque per chi ne ha voglia, credo che quello che indichi sia proprio l'utilizzo che risalta di più. Grazie a Twitter ieri tutto ad un tratto è risorto un post di due mesi fa, e ora in tanti son lì che commentano come fosse il post fatto il giorno stesso. E' una cosa incredibile, in quale altro blog accadrebbe? E se non ci fosse stato Twitter non sarebbe stato possibile. Il fatto che ci sia un continuo ingresso orizzontale alla discussione su “Giap” perché su Twitter possiamo segnalare i commenti che imprimono una svolta alla discussione, è qualcosa che fa vivere il blog. In altri blog non succede, forse perché non utilizzano i social network in questo modo. Wordpress qui aiuta perché permette i permalink dei commenti, così come aiuta l'accorciatore automatico di TweetDeck, ora inglobato anche dalla versione web di Twitter, che trasforma questi link bruttissimi pieni di slash e numeri e ti permette in pochi secondi di stabilire una connessione tra un pulviscolo di persone che sta intorno e una
discussione che sta andando avanti tutta strutturata. Parlavamo l'anno scorso di “impollinazione anemofila”: io credo che questo circolo virtuoso tra Twitter e “Giap” in qualche modo sia la sintesi tra il movimento dall'interno verso l'esterno e il movimento dall'esterno verso l'interno, sia la sintesi dialettica di questi due movimenti. La specificità dell'uso di Twitter passa da li, abbiamo trovato la formula, e anche se, come fai notare tu nella tesi, non è certo l'unico uso che ne facciamo, se non ci fosse “Giap” per noi avrebbe anche poco senso usare Twitter. 2) Pensi che anche altri social network possano creare una relazione virtuosa e così stretta con i blog o che questa sia una specificità di Twitter e della la sua struttura atipiche? La dico così: secondo me Twitter non è principalmente un social network, nel senso che è un gigantesco meta-feed di tutto quello che di cui si discute in rete. Se uno guarda bene, non è che su Twitter conti così tanto l' amicizia, è qualcosa di diverso. Proprio per questo si può anche usare non come un social network - ovviamente non rinunciando completamente alla reciprocità come faceva Sabina Guzzanti che non seguiva nessuno, quella oggettivamente è una esagerazione - bensì come «feed dei feed»: Twitter è una sorta di feedsfera, se sta succedendo qualcosa di importante sul web puoi star sicuro che viene segnalato su Twitter prima che altrove, è la vera forza di Twitter, e lo rende qualcosa di parzialmente diverso da un social network. Facebook queste cose non le fa perché la sua specificità è rafforzare le relazioni. Su Twitter le relazioni non sono così forti, vuoi per il limite dei centoquaranta caratteri, vuoi perché non si chiama “amicizia” ma “seguire”: segui il contenuto più che la persona e quando uno non ti segue più, non te ne frega nemmeno tanto, mentre se rifiuti un'amicizia su Facebook c'è gente che si suicida (ride). Su Twitter vedo molta più leggerezza al riguardo. 3) Visto questa definizione che hai dato di Twitter, mi viene da pensare che da quando utilizzate questo mezzo si sia ridimensionata la funzione dei feed. Sbaglio? Beh, sicuramente c'è una relazione, ma il nostro feed è ancora molto utilizzato: contando sia chi lo riceve attraverso Rss sia chi lo riceve per mail, arriviamo a circa 2500 persone. E proprio perché avrebbe poco senso seguirci sia su Twitter che tramite feed, penso che quel numero sia in gran parte sommabile ai quasi 5000 follower che abbiamo su Twitter alla data di oggi. Si potrebbe dire quindi che “Giap” ha qualcosa come 7500
iscritti. Non sono affatto pochi. 4) In una precedente mail ti avevo chiesto se ricordavi il tuo primo tweet e mi hai provato a rispondere senza troppa convinzione «Boh non ricordo, sarà stato qualcosa tipo: proviamo anche questo!». E né la memoria di Twitter né quella di Google saprebbero rispondere meglio: dopo i 3000 tweet si resetta tutto. Il docente Luis Orihuela parla di “Sindrome da Blade Runner” facendo riferimento alla celeberrima frase “momenti andranno persi come lacrime della pioggia” e relazionandola ai tweet che si disperdono nel flusso informativo. Per chi come voi ama archiviare e condividere nel tempo le tracce del proprio lavoro in Rete, questa difficoltà/impossibilità di “mettere da parte” non vi dispiace almeno un po' ? O pensate che sia caratteristica intrinseca di questo mezzo quello di sfornare messaggi da fruire “qui ed ora”? Insomma, vi fa piacere che da qualche tempo vado salvando i vostri tweet in pdf e ripostando su blog o strumenti appositi come Storify quelli più significativi? Ormai con Storify e servizi simili è partita la documentalità, non mi pongo nemmeno il dilemma. Posso solo dire che alcuni nostri tweet non sono fatti per rimanere, essendo puramente di servizio, mentre altri come quello con cui apri il paragrafo su Anatra all'Arancia Meccanica sono pensati in forma aforistica. Effettivamente in quel caso si tratta di un vero e proprio testo, di una piccola opera. Altre cose non sono un'opera, sono una cosa che passa e va. Inoltre, come sai, noi spesso tutti i tweet su un certo argomento li montiamo e diventano un commento o addirittura un post su “Giap”, come per esempio avvenuto per quelli fatti sabato scorso al concerto dei Nabat: ero io che twittavo pogando, o meglio …. stando al margine del pogo, ché ormai sono sopra i quaranta … 5) Nella mia tesi sostengo, e mi pare di capire che voi la pensiate come me, che uno degli aspetti che rendono Twitter *qualcosa di completamente diverso* da Facebook sia la sua capacità di “aprire” le porte e non di rinchiudere tra le proprie mure come fa il centripeto social network di Zuckerberg. In molti stanno notando segnali preoccupanti in tal senso nelle recenti scelte di Twitter: ormai da mesi si parla di una graduale facebokizzazione di Twitter in atto. Riscontri anche tu questo rischio o ritieni che le differenze strutturali tra le due piattaforme impediranno questo processo? Ad esempio la possibilità garantita da New Twitter di postare foto e video all'interno della propria pagina, può essere inteso come un primo passo verso l'illusione che Twitter possa “bastare a se stesso” ?
Quello che mi chiedo è: conviene a Twitter “facebookizzarsi”, quando ha occupato tutt'altra nicchia ecologica e avuto successo proprio perché non è Facebook? Se hanno senso di strategia non spingeranno in quella direzione. Il fatto che abbiano reso l'interfaccia più multimediale può avere anche vantaggi, in fondo foto e video non vanno ad intralciare il flusso dei tweet. No, almeno per adesso Twitter non mi sembra correre questo rischio. 6) Susan Sontag diceva di amare le limitazioni in quanto sono fonte di ispirazione. Penso poi ad una esperienza letteraria come quella portata avanti da Oulipo. Il discorso è ampissimo ed estendibile alla metrica della poesia ed altri altri ambiti letterari e non, basti pensare alle serie tv dal minutaggio fisso. Trovate anche voi che dai limiti – come quello dei centoquaranta caratteri di Twitter – si possano generare spunti creativi altrimenti inibiti? E che ne pensate degli esperimenti di quella che viene definita twitteratura? Mi riferisco sia a racconti scritti espressamente per e su Twitter come “Serial Chicken” che al tentativo, per molti blasfemo, di sminuzzare in sequele infinite di tweet, grandi classici come “Don Chisciotte”. Ve lo immaginate “Q” e le sue infinite sottotrame “espresse” centoquaranta caratteri alla volta? La twitteratura non va snobbata, ci incuriosisce. Su Twitter ad esempio seguiamo @micronarrativa e altri profili simili. Serial Chicken non lo conoscevo, l'ho scoperto grazie a te e devo dire che è un esperimento interessante. Del resto la «breviloquenza» è un valore: imparare a darsi dei limiti per dire o raccontare delle cose costringendosi ad essere creativo per aggirare le barriere. Nemmeno quelli di Queneau erano meri “esercizi di stile”. Noi questa poetica ce l'abbiamo da sempre, il «limite come risorsa» è fondamentale per Wu Ming. E' in fondo una variante della constrainte dell'Oulipo. Ogni volta piantiamo paletti diversi, ogni progetto - collettivo o solista che sia - ha costrizioni diverse. Riuscire a scrivere un romanzo sul Terrore giacobino mantenendo un tono comico/grottesco, ad esempio. Scrivere versi in italiano in modo che, una volta tradotti in inglese, compaiano le rime (vedi alcuni passaggi di New Thing). Scrivere Altai (che si svolge tra il 1569 e il 1571) sforzandosi di usare termini che fossero già in uso nell'italiano del 1569, cioè all'inizio della vicenda narrata. Scrivere un racconto come Momodou in modo che funzioni a ritroso. Per quanto concerne invece lo sminuzzamento di opere esistenti, anche quello può avere un senso, però ci sono opere che proprio non si
prestano: tu fai giustamente l'esempio di Q, ma se qualcuno provasse a farlo con Proust dove una frase dura quattro pagine, beh, sarebbe una cazzata!
7) Cito Mantellini: «Il “si dice” ed il “sentito dire” sono la cifra informativa predominante di Twitter: la rapida riproposizione di frasi che si è appena letto e che nessuno ha potuto controllare è la regola aurea dei retweet di tutti noi». Risiede qui il vero “limite” di Twitter? Favorire il pressapochismo? Ma il pressapochismo e la fretta sono problemi di tutta la rete. E il nostro discorso sui tempi e sulla compulsione alla fretta - e quindi alla sciatteria e alla superficialità - si estende anche fuori dalla rete. E vero che Twitter è molto veloce, ma è veloce anche la rettifica. Oggi mi è arrivato il Twitter dell'acampada di Barcelona in cui si diceva «questo video ha avuto migliaia di visualizzazioni e nessun giornale ne ha parlato». Beh, un minuto dopo è arrivato un altro tweet che diceva «Scusate, ci siamo sbagliati, “El Mundo” ne ha parlato». 8) Sottolineare la facilità e velocità di rettifica come hai fatto tu riferendoti a Twitter, è la maniera che usa Wikipedia per difendersi dagli attacchi dei detrattori che ne rimarcano la superficialità e l'elevato numero di errori ... Appunto. Chi vede gli errori, li corregga. Il problema della Wikipedia italiana è un altro: molti di quelli che la gestiscono con regolarità - per capirci quelle che si incontrano al “bar” secondo me hanno vedute un po' troppo rigide su come dovrebbe essere una pagina. E' un problema di formato, non di altro. Ad esempio, qualcuno ha deciso che ogni pagina dedicata a un romanzo debba contenere il riassunto completo della trama dall'inizio alla fine: per me dal punto di vista enciclopedico è demenziale. Ma in questo caso qui, non si tratta di un eccesso di presappochissimo, anzi, semmai di un eccesso di puntiglio! 9) Wired: “Twitter, Flicker, Facebook make blogs so 2004”. Vi risulta? O si sta semplicemente andando verso una scrematura, forse perfino auspicabile. Perdono colpi i blog autoreferenziali o prettamente personali, per lasciare spazio a quelli informativi o comunque curati e ricercati? Che il blog stia diventando un luogo meno frenetico rispetto alle sue origini e più ricercato?
Quella scritta da Wired è una stronzata. Twitter valorizza i blog enormemente. Molti blog personali e «di cazzeggio» chiudono, e quel genere di contenuti si sposta su Facebook, ma chi ha informazioni da dare, ragionamenti da svolgere, contenuti densi da proporre alla discussione, lo spazio che gli garantisce un blog se lo tiene stretto eccome. Il blog non è più una cosa che si fa al posto di un'altra ma la si fa insieme ad altre e non c'è più bisogno di avere dei blog di merda affinché la gente si impratichisca con lo scrivere in rete, quella fase è passata. 10) Cominciamo a parlare delle dinamiche prettamente editoriali. «Tutti pensavano che fossero poco più che situazionisti che scherzavano, noi sentimmo che c'erano grandi narratori in quei ragazzi di Bologna che studiavano fitto e scrivevano tanto». Così parlò Severino Cesari. Quanto è stata importante una figura come la sua nella vostra traiettoria editoriale? Ed esattamente in cosa differisce il ruolo di Repetti all'interno nella coppia? E cosa contraddistingue la Collana Stile libero nata praticamente insieme a “Q”? Si tratta di un oasi virtuosa? Quegli “scivoloni” avvenuti in altre collane Einaudi e che voi stessi avete ammesso esserci stati, sarebbero mai potuti avvenire in questa collana? Quelli di Severino sono saggi suggerimenti da editor. Ad esempio nella prima stesura di 54 non c'era la scena del furto del televisore: lui ci fece capire che era importante e ci consigliò dove inserirla. I suoi sono suggerimenti da persona che non fa altro tutto il tempo e che ha la visuale dell'impalcatura, dell'architettura di un romanzo. Interviene molto spesso in queste cose qua, meno in scelte stilistiche. Repetti invece è il direttore della collana, ha una visione d'insieme, fa molte public relations, si occupa dell'aspetto organizzativo e relazionale. Repetti è un animale da kermesse, da festival, da serata letteraria, lo vedi dappertutto che tesse relazioni, che fa cose, che valuta la fattibilità di un'idea, sempre indaffarato. Severino è un editor, lavora direttamente sui testi, nell'ultima fase della stesura di un nostro libro viene a Bologna e si unisce a noi nella lettura ad alta voce, a staffetta, senza distinzioni tra interno ed esterno del collettivo. Per quanto concerne la collana, beh, sì, Stile Libero è una casa editrice nella casa editrice, è qualcosa quasi a parte, con dinamiche proprie ed una identità ben delineata. Ha un margine di indipendenza rispetto alla casa madre, che a sua volta ha un margine di indipendenza rispetto a Segrate.
11) Come avvenne il cruciale incontro con Cesari e con Repetti che portò alla nascita di Q? Furono loro a chiamare noi tramite Loredana (Loredana Lipperini), dalla quale ebbero i nostri numeri. Guarda, ci incontrammo proprio qui sotto, mangiammo di fronte alla stazione. Loro avevano proposte generiche, non sapevano neanche bene cosa chiederci perché Stile Libero stava nascendo in quel momento, avevano idee per quattro libri appena. Volevano un testo di Luther, questo gli importava, anche se forse si aspettavano qualcosa tra il cyber-punk e il postmoderno, non il romanzone storico così atipico che gli proponemmo e che avevamo in cantiere già da qualche mese. Facemmo subito presente che qualunque opera firmata "Luther Blissettt" doveva essere liberamente riproducibile. Loro erano d'accordo, l'ufficio legale Einaudi un po' meno. Ci furono titubanze, fraintendimenti buffi, alcune riscritture della frase che oggi sta nei colophon dei nostri libri. Un paio d'anni dopo, quando consegnammo il testo, dalla casa editrice giunse la proposta di... tagliare 100 pagine, e noi chiedemmo semplicemente: «Quali?». Alla fine, anche grazie al sostegno di Carlo Lucarelli (che fu il primissimo lettore di Q) riuscimmo a fare quello che volevamo. In sostanza, da quel primo incontro con Paolo e Severino è nato un rapporto solidissimo che si basa su una profonda stima reciproca. 12) Oltre a Cesari e Repetti, c'è un altra figura editoriale che gravita attorno al Collettivo: il vostro agente Roberto Santachiara, tanto noto quanto sfuggente, che rivive in alcuni racconti di AaAM come “Heriberto Cienfuegos”. Ritenete che quella dell'agente sia una figura indispensabile anche per un collettivo cosi autonomo come Wu Ming? E come si articola il vostro rapporto con lui? Come con Einaudi Stile Libero, anche in questo caso si tratta di una relazione talmente riuscita e peculiare da rendere Santachiara difficilmente sostituibile? Totalmente insostituibile. Santachiara ci toglie un sacco di incombenze. Senza di lui dovremmo occuparci di aspetti in cui non siamo assolutamente ferrati. E' come se fosse un sindacato, una «one-man trade-union», il funzionamento è quello: fa la vertenza per noi, ci tutela in quanto lavoratori. Siamo a metà tra Giuseppe Di Vittorio e l'Angelo custode. A noi piace proprio perché è sfuggente, si fa fotografare poco, il che è sempre positivo (ride). Lo abbiamo contattato tramite Lucarelli (dobbiamo molte cose a Lucarelli), di cui era già agente. Noi non eravamo contenti di come stavano andando le trattative con Einaudi per 54 e ci siamo rivolti a lui: siamo andati in Longobardia (ride),
ovvero nel paesino vicino Pavia dove abita e ci siamo piaciuti subito: abbiamo cenato da lui e riscontrato di avere stessi gusti letterari, musicali, cinematografici … il feeling è stato immediato. 13) Sui perché della vostra scelta di rimanere in Einaudi e di “boicottare i boycott boyz” vi siete espressi millanta volte e non vi chiedo di tornarci su. Ma al di là della illustre tradizione antifascista e del variegato catalogo dello Struzzo, cosa rende “unico” nel vostro caso specifico lavorare per Einaudi? Quando dite che ad esempio con Feltrinelli non potreste attuare le vostre pratiche, vi riferite in particolare al copyleft? Pensate che, tra le major, solo Einaudi vi permetterebbe di portare avanti la vostra filosofia? E come sono andate le esperienze con Rizzoli e quelle con varie piccole case editrici? Qualcosa è andato storto con queste ultime? Si sono ripetute negli anni situazioni simili a quelle parodiate in Tomahawk? Abbiamo sperimentato che con altri editori il copyleft è un problema. Il nostro rapporto con Rizzoli 24/7 si è aperto e chiuso (come si dice quando stanno per operare un malato di tumore e si accorgono che ormai è troppo tardi: «Lo hanno aperto e... lo hanno chiuso»), la cosa è andata male e ci siamo ripresi tutti i diritti, anche di Free Karma Food e Grand River. Con certe piccole case editrici invece qualcosa di buono abbiamo fatto, ma ovviamente non abbiamo riscontrato le condizioni di cui godiamo in Einaudi, dove per «condizioni» intendo principalmente la qualità del confronto e l'attenzione per il libro. Con tutti gli altri non siamo riusciti a lavorare proprio come volevamo, con Einaudi sì. Qualcosa vorrà pur dire. Einaudi, pur con tutti i casini, rimane senza dubbio il migliore editore italiano (una volta l'ho detto a Repetti: «Paolo, devo riconoscerlo: voi siete i meno peggio», e lui: «Grazie, tu sì che sai fare i complimenti»), anche perché lavora - come suol dirsi - «sul catalogo», su una progettualità lunga, per quanto possibile sul «long-seller». Quando viene fatta una scelta, il più delle volte la si fa con la prospettiva che il libro duri nel tempo (cosa che non è prevedibile, ma si cerca di ragionare in quest'ottica): lo si vede anche in libreria, dove spesso c'è un settore interamente dedicato all'Einaudi, mentre altri editori vanno prima fuori catalogo. La coerenza del progetto Einaudi si vede anche dalla veste grafica. Il fatto che le norme tipografiche siano ancora le stesse decise da Pavese è indicativo a tal proposito. 14) Tra gli autori che citi quando rimembri la storia gloriosa di Einaudi, c'è quello di
Pavese. Cosa ne pensi della sua opera? Quale Pavese ti piace? Io per esempio trovo che il Pavese che carteggia con Giulio Einaudi, Muscetta, Pintor …. sia a tratti irresistibile. L'ironia spesso antifrastica delle lettere, mi ha ricordato perfino - azzardo - la prima parte di Anatra all'Arancia Meccanica … E il Pavese traduttore? La sua idea di traduzione come “seconda creazione” è vicina alla tue pratiche di traduzione? Infine, nella pratiche mitopoietiche attuate già da Luther Blissett, vi siete confrontati con la sua riflessione sul mito? Penso a “Dialoghi con Luecò”, alla “collana viola” … Premetto che tra i grandi scrittori piemontesi del Novecento il mio preferito è Fenoglio, non sono proprio un pavesiano. Comunque Pavese è tutto interessante, l'ho letto e lo stimo sia come poeta che come scrittore e come dici tu in “Officina Einaudi” c'è una ironia davvero apprezzabile. Per quanto concerne Pavese e il mito, Jesi ne parla con la solita acutezza in Letteratura e Mito, con due saggi corposi che fra l'altro lo fecero scazzare con Kerenyi. Sulla traduzione sono d'accordissimo. Il traduttore è uno scrittore. Il traduttore riscrive il libro. 15) Studiare il vostro uso di Twitter nei giorni in cui leggevo Anatra all'arancia meccanica mi ha fatto doppiamente scoprire – con tutti i distingui del caso, azzardo che i tweet stanno ai post come i racconti ai romanzi storici - la vostra estrema capacità comunicativa nel breve. Da scrittori abituati a ordire castelli narrativi pieni di sottotrame non era affatto scontato immaginarselo. A riguardo come giudicate le molte entusiastiche recensioni ricevute dall' Anatra, anche da parte di chi solitamente stronca i romanzi storici? Paradossalmente, nell'ottica distorta che tende a considerare di serie B la struttura racconto - non avete notato in certe recensioni un voler insinuare: «questi qua sono buoni per i racconti, lascino perdere imprese narrative più grandi di loro?». Barilli dice proprio quello nella sua recensione su “La Stampa”, chiaro e tondo. A dire il vero sebbene nell'elogiare i nostri racconti penso sia stato sincero, penso che se avesse avuto qualche giorno in più per fare il pezzo, avrebbe cercato e trovato il pelo nell'uovo (ride). Ci ha recensito bene perché è stato colto alla sprovvista dall'Anatra! Hai ragione comunque: in Italia l'editore spesso si incazza se proponi dei racconti, Einaudi per fortuna no. Conosciamo colleghi che hanno racconti nel cassetto che non riescono a pubblicare perché gli editori dicono che non venderebbero. Questa è una roba che esiste solo nel nostro Paese. E se poi in effetti vendono meno, è proprio perché l'editore non ci
investe, quando li pubblica lo fa controvoglia, li tratta come roba di serie B. Il mancato successo dei racconti è una profezia che si auto-avvera. 16) Lo scorso gennaio è stato il mese in cui avete ha sfornato più tweet, ben 712, oltre il doppio delle media (318). “Merito” di Donazzan, Speranzon e dal calderone generato dalla loro folle proposta di censoria. Sotto l'efficace hashtag #rogodilibri si sono generati sequele di tweet con cui avete continuamente aggiornato i follower sull'evolversi della battaglia in Rete e in Strada. “Abbiamo creato un bel casino senza slacktivism” avete detto twittato dopo appena pochi giorni. Come siete riusciti in quella circostanza a combattere l'attivismo da click e in generale come si può arginare la tendenza ad aderire a petizione on-line senza assumersi reali responsabilità? La chiave sta nel cercare continue convergenze? Tra pratiche eterogenee, tra blog e blog, tra blog e social network, e sopratutto tra Rete e Strada? Assolutamente sì. Il problema dell'attivismo sul click sono i percorsi obbligati, ovvero creare un gruppo su Facebook, firmare una petizione on-line … Nel momento in cui platealmente li diserti, e dai invece la libertà alla gente di fare quello che vuole, quello non è più clicktivism ma creatività in rete. Il problema ri-subentra quando la creatività in rete comincia a farsi l'auto-apologia, come i “pompini a vicenda post referendum” di questi giorni: nel momento in cui quella creatività si auto-rappresenta come un blocco unico, allora ritorni ai percorsi obbligati. È il due che ritorna Uno, mentre l'Uno deve costantemente diventare almeno due: finché sei molteplice tutto funziona, quando ti «rapprendi» e diventi Uno perdi. E se si parla de “la Rete”, la rete diventa anch'essa Uno. Ci cascano tutti, anche quelli bravi, ragazzi intelligentissimi dopo il referendum andavano twittando “la Rete ha vinto”. Iniezione di endorfine giustificabile, ma che fa rientrare dalla finestra quella pulsione al clicktivism che avevi cacciato dalla porta. 17) Un altro sintagma molto in voga negli ultimi mesi è stato “Twitter Revolution” alternato indifferentemente a “Facebook Revolution” e riferito alle rivolte arabe, di cui si enfatizzava il ruolo svolto dai social network. Wu Ming 2 in suo intervento ha parlato di «velenosa confusione tra mezzi e cause». Si tratta di un'altra di quelle “narrazione tossiche” che tendono a distorcere la natura della Rete? Ti ripropongo poi una domanda posta dal blogger Luca Alagna aka @ezekiel durante un suo intervento a Corridonia lo
scorso 25 aprile: al di là di come decidiamo di epitetarle, le rivolte arabe ci sarebbero state senza la rete? E se sì, si sarebbero sviluppate con le stesse modalità? La Rete serve a creare una sfera pubblica al cui interno le rivolte si auto-narrano e veicolano la narrazione. Però le rivolte ci sono sempre state, e queste ultime somigliano a quelle del 1848 in Europa, scoppiate una dopo l'altra nel giro di pochi mesi. C'era mica Twitter, all'epoca. Si tratta della solita miopia cronologica per cui si schiaccia sulle ultime cose che vediamo tutto un corso di eventi che ha preparato quello che poi è accaduto. Senza Twitter è chiaro che alcuni di questi eventi, come le acampadas spagnole, sarebbero stati diversi, ma questo non significa che siano “le rivoluzioni della Rete”. In questo modo si feticizza la rete e appunto si pensa che basti stare in rete. Questo diventa una sorta di deterrente per muovere il culo. Nel momento in cui stai in piazza, accampato tutto il tempo, ti riappropri degli spazi fisici e dei tempi, ti muovi, c'è proprio una consonanza di corpi: che senso ha parlare di “rivoluzione di Twitter”? Semmai è una rivoluzione di corpi! Scegliere sempre l'aspetto più astratto a scapito di quello concreto alla fine crea una retorica per la quale sembra che basti retwittare una cosa proveniente dall'acampada di Barcellona per aver fatto la propria parte. Non si tratta di sminuire il ruolo della Rete, si tratta di evitare di sbilanciare su quello tutto il discorso. 18) A riguardo, come vedi il racconto che tendono a fare i media mainstream delle dinamiche interne ai social media? Non è raro vedere anche in prima pagina titoli come “la vittoria di Twitter” … Che tentativo è? Quello - più o meno sincero e più o meno goffo - di mettersi dalla parte dei social media superando le reticenze verso questi mezzi? Non c'è la dicotomia Tv/Rete. Bisogna partire da qui. Io non ho il televisore a casa ma vedo la tv tramite Internet dove tutti i palinsesti ormai sono in streaming o comunque in gran parte reperibili su You Tube. Anche per quanto riguarda i giornali occorre superare certe dicotomie: “Il Corriere della Sera” non è il nemico di Twitter, semmai è ostile ad alcuni movimenti che lo usano, ma non vedo perché creare una dicotomia tra mainstream e social network quando ormai gli ambiti sono completamente compenetrati. Intendo dire che gli stronzi sono anche in Rete, eccome se ci sono! Non è che c'è il popolo della Rete buono e orizzontale contro i vecchi media, come molti
raccontano. Dove sono i «vecchi media»? Non ci sono più! “Repubblica” è un sito, è su Facebook, c'ha Repubblica tv, la versione per I-Pad … Quella dei vecchi media è una retorica di vent'anni fa che si ripresenta ogni volta. La tv ha «oscurato il referendum»? Ma perché, Anno zero conta poco? 8 milioni di spettatori!? Twitter in Italia ha 350.000 utenti! Come si fa a sovra-determinare in questo modo! Twitter a volte sembra una camera ecoica, spesso si finisce a dirsi a vicenda cose che si sanno già. Pensa che oggi sulla “Gazzetta dello Sport”, nelle pagine non sportive, Dell'Arti sottolineava come si sia posto l'accento sui tanti giovani che hanno votato al referendum, ignorando l'aumento di votanti tra gli anziani. E gli anziani chi li ha convinti, Twitter? Si sta isolando il dato dei giovani costruendo castelli in aria pazzeschi, fra l'altro ancor prima che ci siano statistiche ufficiali. 19) Non posso non chiederti qualcosa sul copyleft, uno delle pratiche che rendono peculiare il vostro modo di lavorare. Come consideri lo stato attuale delle licenze Creative Commons? Mi sembra sia in una fase di «stallo», con molte virgolette (forse qualcuno direbbe «di riflessione», «rifinitura», «consolidamento»...) ma va precisato che non doveva mica portare la rivoluzione. Il valore di Creative Commons secondo me è più simbolico che altro. È più un discorso legato a diffondere nella società e nella Rete la consapevolezza che ci sia una alternativa a “tutti i diritti riservati”. Creative Commons è uno strumento pedagogico, è più importante il suo valore culturale di quello giuridico, il fatto cioè che con la dicitura “alcuni diritti riservati” si sia scardinata quella frasetta prima ritenuta non scomponibile: si è introdotta una molteplicità di approcci in un
ambito che
conosceva opzioni limitate, che era ermeticamente chiuso. 20) Il termine Serendipità apre “Giap”, l'antologia di scritti di Wu Ming curata da Tommaso de Lorenzis, e il concetto ricorre spesso, anche se non citato espressamente, nella vostre cose. La navigazione in Rete si presta particolarmente a far gioire delle deviazioni e a renderci disposti a trovare ciò che non si stava cercando, con tutti i rischi annessi ovviamente. Mi riferisco anche alle ricerche che effettuate nella fase di preparazione dei vostri romanzi storici: quanto è importante l'attitudine serendipica per scovare “asce di guerra da disseppelire” nei “coni d'ombra” della Storia? E come fare per
non affogare nel marasma di informazioni e possibilità offerte dalla Rete? «Il naufragar mi è dolce in questo mare» diceva un tuo corregionale (ride). A volte rischiare di affogare è un'esperienza interessante, l'importante poi è riuscire a trarre una sintesi dall'esperienza. Pensa a Turner, il pittore: si fece legare al pennone della nave durante la tempesta per poter vedere vivere la tempesta e poterla poi raffigurare, come racconta anche Girolamo De Michele nel suo libro Filosofia. Ecco, ogni tanto fa bene anche legarsi al pennone della nave nel mare in tempesta. Comunque noi abbiamo una prassi ma non un metodo. La prassi è il lavorare insieme, abbiamo degli accorgimenti ma non sono mai uguali, pensa che per il nuovo romanzo stiamo lavorando in maniera completamente diversa dal passato: abbiamo cominciato a scrivere senza aver la trama. Abbiamo dei personaggi, lo sfondo, sappiamo dopo dobbiamo andare a parare, abbiamo cioè la fabula, ma non l'intreccio. Ogni volta devi stupire te stesso. La serendipità è anche questo. 21) Rispondendo alla domanda «La rete cambia il nostro modo di pensare?» Nicolas Carr ha risposto: “Passando dalla pagina di carta allo schermo perdiamo la capacità di concentrazione, sviluppiamo un modo di ragionare più superficiale, diventiamo dei pancake people, come dice il commediografo Richard Foreman: larghi e sottili come una frittella perché, saltando continuamente da un pezzo d’informazione all’altra grazie ai link, arriviamo ovunque vogliamo, ma al tempo stesso perdiamo spessore perché non abbiamo più tempo per riflettere, contemplare. Soffermarsi a sviluppare un’analisi profonda sta diventando una cosa innaturale”. De Kerchove di recente rifletteva invece su come “attenzione a breve termine non vuol dire attenzione debole può significare attenzione veloce”. Quale la vostra opinione a riguardo, in relazione anche al concetto di multitasking? Ognuno costruirsi una disciplina dei tempi e dell'attenzione. Si devono saper individuare le circostanze nelle quali se fai certe cose non devi farne altre contemporaneamente e le circostanze nelle quali invece ciò è possibile o perfino auspicabile. Attenzione veloce mi sta bene, ma dipende da quello che devi fare. Perché io passo tutte queste ore chiuso in biblioteca? Perché ci vuole una prolungata e concentrata attenzione su un certo compito. Da questo punto di vista Carr ha ragione quando parla della “mente letteraria”: la lettura immersiva di un libro è l'esempio più
calzante della facoltà di concentrarsi a lungo su un singolo compito, facoltà esclusiva dell'essere umano e della sua evoluzione. In natura gli altri animali devono infatti stare continuamente in uno stato di «multitasking», devono avere sempre stare all'erta e avere un'attenzione disseminata e diffusa su tutto. Secondo Carr il multitasking in Rete distrugge questa peculiarità dell'uomo, ma io penso che a distruggerlo non sia il multitasking in sé bensì l'indisciplina. Se sei completamente agito dai quei dispositivi, se sei sempre on-line ad aggiornare lo status su Facebook e nel mentre rispondi a un sms, chatti su Skype, apri mille finestre, è chiaro che non combini un cazzo, ma il problema è principalmente tuo. Ci vuole una disciplina quasi monastica, devi praticare delle interruzioni del flusso e tornare a dominare i tuoi tempi, trovare i “frattempi”, non fare la “corsa del topo” in Rete, non farti imporre sempre dai dispositivi tempi che non sono tuoi, e cercare invece di coltivare momenti di concentrazione specifica anche a lungo: questo è fondamentale. Carr non ha quindi tutti i torti, ma il suo problema è che non propone nulla. Il suo libro Internet ci rende stupidi? finisce con un anti-climax totale, si affloscia: dopo aver fatto un excursus storico lunghissimo, arriva nel presente buttandoti lì una mezza invettiva contro Internet e dicendo che per scrivere il libro è andato in un posto dove non c'era la connessione … Punto. Anche Foucault sostanzialmente non propone nulla, però ti apre degli squarci, delle fenditure, e a da quelle il lettore può ripartire. Carr no, ti dice una roba e fine. 22) Marcos e gli Zapatisti sono stati riferimenti costanti tanto del LBP quanto di Wu Ming da varie punti di vista, dalle pratiche di lotta alle scelte comunicative. Dal punto di vista della Rete, ho notato altre similitudini, non tanto ora, quanto ai primordi del web: un comune tentativo di dare un approccio web 2.0 alla propria presenza in rete prima ancora che il Web 2.0 fosse stato “inventato”. Cito un passo del libro del mio professore di Storia del Giornalismo Gennaro Carotenuto: «Nonostante si fosse ancora nella prima metà degli anni ’90 “ezln.org” aveva alcune delle caratteristiche del Web 2.0 come oggi noi lo conosciamo: chiunque poteva inviare articoli, immagini, commenti. E ovviamente far girare l’informazione ivi contenuta. C’era dunque già a quell’epoca la possibilità di partecipare, non semplicemente di informarsi, ma di sentire che si stava facendo qualcosa di concreto, una sensazione nuova nel mondo che emergeva dal riflusso anni ’80.» Il pensiero rileggendo queste righe è volato subito a “Giap” versione newsletter,
esperienza che non ho vissuto personalmente – sono diventato giapster
solo con
l'avvento del blog - ma che ho rivissuto spulciando quotidianamente l'immane archivio. Che ne dite? E se ritenete che nell'accezione ampia del termine la vostra attitudine sia sempre stata web 2,0 oriented avvertite comunque lo scarto da quando usate nuovi strumenti prettamente 2.0? Sentite che in qualche maniera, anche se l'attitudine orizzontale e trasparente è rimasta la stessa, sta cambiando/evolvendo la vostra relazione con i lettori? Le vostre recenti sperimentazioni stanno segnando un prima e un dopo nella storia in Rete di Wu Ming? Capisco cosa intende Carotenuto riferendosi all'esperienza in Rete dell'Ezln, e se si pensa che stiamo parlando della metà degli anni Novanta e di un movimento contadino che organizzava (e tuttora organizza, se è per quello) i più poveri tra i poveri del Messico, nella regione più sottosviluppata di un paese disastrato, si può quasi parlare di un miracolo. Ma, sinceramente, da qui non inferirei troppe cose su altri contesti e soggetti, compresi noialtri. Perché se era 2.0 “Giap” nella versione newsletter, allora era già 2.0 qualsiasi giornale cartaceo che pubblica le lettere dei lettori. Secondo me c'è stato proprio un cambiamento radicale, sia nella creazione di contenuti che nelle dinamiche di interazione. Io conosco la Rete da prima, usavo le Bbs, e dal '90 la posta elettronica. E poi sono uno storico e sono quindi abituato a dividere in fasi e posso dirti che noto lo stacco: le pagine dei vecchi siti in html statico oggi hanno un interesse archeologico. Dire 1.0, 2,0 è come dire neolitico, paleolitico... Oggi praticamente tutto è web 2.0, di diritto o di sghimbescio. Quel principio informa tutto il paesaggio mediatico. 23) Tra i motivi che vi facevano preferire per “Giap” il formato newsletter rispetto alla creazione di un blog, vi era la preoccupazione che fastidiosi troll potessero farvi perdere tempo e rovinassero le discussioni con i loro provocatori commenti a sproposito. Ora che il blog lo avete aperto, come siete riusciti a superare il problema? Semplicemente ... il pugno di ferro. Il «terrore rosso». La dittatura del proletariato (ride). Voi da fuori non lo vedete, o lo notate solo occasionalmente, ma noi cacciamo via svariati provocatori. Giap ha una blacklist discretamente lunga: rompicoglioni ce ne sono eccome, e noi li sbattiamo fuori. Chi è troppo aperto prima, ne paga le conseguenze dopo, le paga (paradossalmente) con una chiusura della comunicazione. pensa a Loredana (Lipperini) e ai problemi che ha: le discussioni di “Lipperatura” sono
spesso monopolizzate da stronzi, a volte arrivano truppe cammellate di bimbiminkia legati al mondo del fantasy, gente che insulta, oppure che vuole solo visibilità per il proprio blogghettino e depone a mo' di cacca il suo link, anche platealmente OT. Quando una discussione viene rovinata in questo modo, a Loredana tocca mettere temporaneamente «in moderazione» tutti i commenti. Questo contraccolpo dura qualche giorno, e il blog ne risente. Noi agiamo prima. Innanzitutto, per intervenire uno deve iscriversi al blog, e già questo tiene alla larga i troll più occasionali. Poi - per i più tignosi - c'è un'altra scrematura, ovvero la moderazione del primo commento di chiunque. E in diversi non passano quella fase, perché magari iniziano subito con un'ingiuria, un attacco personale... Il risultato di questa politica è che le discussioni su Giap... funzionano. Almeno, a noi sembra che funzionino. Sono leggibili, i commenti più pregnanti rimangono nella memoria di chi sta discutendo, vengono quietamente rimuginati, rielaborati, e succede che a distanza di settimane producano qualcosa, sempre su Giap o in qualche altro luogo della rete. 24) A proposito di troll, Anobii ne è ancora pieno come qualche mese fa? Ricordo svariati vostri tweet che denunciavano la lentezza e il mal funzionamento di questo social network letterario invaso da molti scocciatori. Mi pare che ultimamente lo bazzicate di meno o sbaglio? Mentre come vi spiegate che GoodReads, per il quale avete speso invece tweet entusiastici, non riesce proprio a decollare in Italia quantomeno per numero di iscritti? Il troll famoso, quello davvero insopportabile, non si è più visto. Io sto partecipando sopratutto alle discussioni del gruppo “Stephen king lettori italiani” dove rispondo a dubbi e sollecitazioni su cosa significhi e osa comporti tradurre questo autore, per il resto non mettiamo recensioni da un sacco. Sul perché Goodreads non decolli non saprei che dirti, forse ha delle caratteristiche che lo rendono più americano che italiano, del resto non è ancora chiaro perché Anobii sia esploso da noi mentre nel resto del mondo lo cagano in pochissimi. Accadono cose curiose a volte: negli Stati uniti si sorprendono del fatto che in Francia Jerry Lewis sia considerato un grande del cinema e della comicità. Perché quel personaggio ha attecchito proprio in Francia? Quello che so è che i contesti nazionali contano ancora, sbaglia chi sostiene il contrario. 25) Rileggevo in questi giorni un breve saggio di Walter Siti in cui, muovendo da Barthes,
analizza il “mito Pasolini”. Secondo Siti uno delle componenti del mito Pasolini è la certezza che esistono i profeti che intuiscono e vedono per noi … che ci fanno pensare: «cosa direbbe di questo Pasolini?» Beh, Wu Ming in tutti i suoi componenti è ancora vivo e vegeto, ma percepisco questa medesima attitudine, magari meno estesa, nei vostri confronti, noi lettori ci chiediamo continuamente il vostro giudizio riguardo ad accadimenti importanti, aspettandoci a volte perfino vostri vaticini. Vi sentite opinion leader su determinati argomenti? Percepite questa attesa da parte dei lettori? È per questo che ribadite più volte la vostra scelta di prendervi “frattempi”? Il vero schiavo di questo dispositivo è Saviano.
E'
quasi
completamente
sovradeterminato da questo, gli si chiede un parere su tutto. Negli ultimi mesi si è calmato un po' ma per un periodo ha scritto di cose di cui non sapeva nulla o quasi. Noi cerchiamo di sfuggire questo rischio e comunque nessuno ci rompe le balle anche perché siamo stati chiarissimi sul fatto che ci esprimiamo solo su certi argomenti rivendicando i nostri tempi. E anche se può darsi che qualcuno ci consideri opinion maker o opinion leader, in generale noi siamo visti più come cagacazzi (ride), come outsider …. anche perché scriviamo raramente sui giornali, non andiamo in tv, in Rete abbiamo un rapporto piuttosto paritario … quindi penso proprio di no: tendenzialmente non siamo visti come leader e quindi neanche come opinion leader, né dai nostri colleghi, né tantomeno dalla critica. 26) “Don't hate the media, become the media” fu lo slogan dei mediattivisti di tutto il mondo da Seattle in avanti. Lo considerate ancora attuale? Se si, che connotazioni assume oggi? Come giudicate l'utilizzo che i movimenti stanno facendo delle Rete, dopo le difficoltà e le controversie di un progetto come IndyMedia? Quella dell'Indymedia del ... «periodo classico» (1999-2005, direi) è la storia di un'involuzione e degenerazione. Alla fine era diventata una fogna a cielo aperto, nel complesso la ritengo un'esperienza disgraziata. Salvo alcune cose importanti: gli interventi di Franti sui fatti di Genova, Mazzetta che si stava facendo le ossa (già attaccato da orde di stronzi, è un destino comune a chi cerca di fare discorsi sensati), ma per il resto ricordo quintalate di merda, calunnie, e chissà quanti cazzo di infiltrati c'erano... L'Indymedia di oggi non la conosco altrettanto bene. Oggi seguendo il Movimento spagnolo 15 M dico che usa la rete molto bene. Non c'è continuità tra il
mediattivismo stile Indymedia e l'uso che viene fatto adesso delle reti. Vedo discontinuità perché si tratta di gente diversa che dieci anni fa non c'era e che non riporta in rete scazzi tra gruppi e correnti incarnite come unghie troppo lunghe dei movimenti di ieri, che poi è quello che ha distrutto Indymedia. Si tratta di gente che non ha esperienze pregresse in politica. E io c'ho guardato con attenzione per vedere se ci fossero dinamiche distorte e se bisogna guardare con attenzione per trovarle è come dire che non ci sono. “Don't hate the media, became the media” … rimane valido, ricordando che ormai tutto è colloidale, tutto è compenetrato, solo in Italia c'è ancora l'illusione che esista il mainstream mediatico, se non ci fosse l'anomalia Berlusconi e il suo conflitto d'interesse, anche qui ci renderemmo conto che il mainstream mediatico è una nicchia come le altre, solo più grossa. Oggi il confine con la cultura alternativa è poroso e sfumato, una pratica sfuma nell'altra. 27) Tra le convergenze di cui parlavamo prima a proposito del #rogodilibri, c'era quella tra le diverse lotte in atto. A riguardo avete twittato molto spronando a cogliere il filo rosso che le lega. Cosa intendete dire esattamente con la frase che ripetete spesso, cioè che «tutte le lotte sono la stessa lotta», e perché è importante ribadirlo? “Tutte le lotte sono la stessa lotta” vuol dire che sono già la stessa lotta. Non necessariamente devi unificare le lotte tra loro, basta anche solo coordinarle, essere conscio che tu che stai facendo il presidio no tav hai a che fare con quello che sta facendo la lotta nella scuola. Non necessariamente portarle sullo stesso piano e trovare stesse strategie in tutti i contesti, avere sempre gli stessi interlocutori. “Tutte le lotte sono la stessa lotta” vuol dire che sono la stessa lotta a prescindere, è semplicemente un rendersene conto per trovare una narrazione comune, ma non per inseguire le stesse strategie, le stesse alleanze, lo stesso blocco sociale. 28) Cito il tuo post “Boicotta Wu Ming” e le frasi finali che mi hanno particolarmente colpito: «A ben vedere, noi Wu Ming veniamo da una pesante sequela di fallimenti. C’è forse un altro modo di descriverli? Undici anni dopo il nostro esordio, siamo ancora una “bizzarria”. Nessuna nostra prassi è diventata esempio contagioso. La scrittura collettiva resta una bestia rara. Il copyleft è fermo ai blocchi di partenza. La carta riciclata l’adottano in pochissimi. La letteratura italiana è ancora in gran parte fatta da scorreggioni. La grande maggioranza degli «addetti ai lavori» ci detesta e passa sotto
silenzio il nostro lavoro. A conti fatti, abbiamo “inciso” molto, molto meno di quanto avremmo voluto». È davvero così desolante la situazione? Sono convinto che voi siete i primi a pensare di “incidere” molto, nel senso stretto di “lasciare il segno”, nonostante sia innegabile che che di vostri epigoni non se ne vedano tanti: ma era questo il vostro vero obiettivo? Trovare epigoni in effetti non era il nostro obiettivo, ma che delle pratiche diventassero più generalizzate e che in qualche modo si potesse depotenziare il mito dell'autore, portando la lotta dentro il «campo letterario» italiano, questo lo speravamo fortemente e non è successo. Del resto, ogni volta che facciamo una mossa c'è un fuoco di sbarramento, pensa al New Italian Epic ad esempio: il linciaggio è arrivato a livelli d'intensità tali che se non fossi uno serio, razionale e quadrato sarei andato in crisi. Io sono molto disciplinato quindi posso anche trovarmi un mio spazio interiore di libertà nel momento in cui tutti mi dedicano delle paginate dandomi del pezzo di merda. Ma il fatto che ogni volta che facciamo una mossa che esce da quello che viene percepito come il nostro ambito consueto, ci sia una reazione violenta e un fuoco di fila da parte dei vari Cortellessi e Rondolini, tutti a dire: “Voi che cazzo volete, state al posto vostro”, ha stimolato in noi una riflessione e ci ha fatto prendere, con molta naturalezza, una decisione. Noi nel campo letterario vero e proprio non agiamo nemmeno più: ci siam rotti i coglioni, è una palude di stronzi. Dopo New Italian Epic abbiamo spostato il focus della riflessione dalla letteratura italiana contemporanea ad altri campi. Qualche giorno fa, a Siena, parlavo con Dimitri Chimenti, e lui mi diceva più o meno questo: «Il problema di New Italian Epic è stato che, quando scrivi di opere i cui autori sono vivi e attivi, chi ti legge non pensa all'opera, bensì all'autore. E l'autore prende delle posizioni, fa delle cose, si attira critiche che poi toccano anche l'opera. Vaglielo a spiegare ai cretini che Gomorra resta un grande libro anche quando Saviano dice cose incondivisibili! Il tuo memorandum, nonostante la ripetuta precisazione che riguardava le opere, è stato visto come un canone di autori.» E io aggiungo un altro esempio: vaglielo a spiegare ai cretini che Sappiano le mie parole di sangue è un libro importante (seppure difettoso, troppo in balia della collera che ha portato a scriverlo), a prescindere dal fatto che Babsi Jones - nel frattempo svanita, nessuno ha più sue notizie - ammirasse la Fallaci o avesse opinioni a dir poco eterodosse sulla strage di Srebrenica. La ricezione del memorandum presso i cretini (cretini che hanno spazio accademico e mediatico) ha condizionato il dibattito.
Ora siamo completamente esterni al campo letterario italiano, “Giap” si occupa molto più spesso di politica, movimenti e filosofia che di letteratura. Sotto questo punto di vista è l'ammissione di una sconfitta: il campo letterario è troppo putrido, non si riesce a lavorarci dentro, bisogna creare un altro campo, lavorando bene in Rete e continuando a tenere il culo in strada con le presentazioni, disertando per quanto possibile le grandi kermesses, disertando per quanto possibile il gossip letterario sulle pagine culturali dei giornali e il criticume. Solo con questi diserzioni si può cambiare il terreno in cui si agisce, ma chi crede, come speravamo noi ingenuamente dieci, dodici anni fa, che operando là dentro si possano cambiare le cose, si sta solo illudendo. Quella baracca dovrebbe proprio crollare, così com'è non è ristrutturabile, il Premio Strega e tutte queste raggelanti sfilate di freaks. Ecco: l'ecomostro letterario italiana prima si diserta, poi (se si ha la forza per farlo) si abbatte, per costruire un edificio meno offensivo per il paesaggio, l'ambiente e l'intelligenza di chi guarda. Non c'è modo migliore di esprimere questo concetto. by @akaOnir