Antonio FERRARA, Niccolò PIANCIOLA,

L’Età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa (1853-1953). Il Mulino, Bologna 2012.

Il libro di Antonio Ferrara e di Niccolò Pianciola, pubblicato alcuni mesi fa e dedicato a un secolo di migrazioni forzate, è una grande opera d’insieme destinata a restare e copre un vuoto, esistente soprattutto in Italia, su un tema chiave della storia universale e soprattutto contemporanea. Comprendere la storia degli ultimi due secoli, in particolare dell’Europa Centrale e Orientale, senza includere i fenomeni macroscopici, grandi come una casa, delle deportazioni forzate di massa, è impossibile. Lo stesso è accaduto e continua ad accadere con il passare sotto silenzio la tragica realtà - non sempre concomitante, ma spesso sovrappostasi a quelle migrazioni forzate - dei massacri di massa “interni”, prodotti nel corso del Novecento dai governi, non in guerra: un fenomeno che ha provocato (al netto del colonialismo) quasi 180 milioni di morti, ossia quattro volte i caduti di tutte le guerre fra Stati dello stesso secolo. Eppure questi due fenomeni sono spesso trascurati negli studi storici e nell’insegnamento della storia, come se fossero accidenti irrilevanti. Gli Autori sono coscienti di questa grave carenza e nel loro corposo volume, costato il lavoro di molti anni, cercano di dare conto di questi accadimenti, aggiungendovi anche uno sforzo teorico di inquadramento – nella prima e nell’ultima parte del libro - molto consistente e piuttosto raro nei libri di storia. Le migrazioni forzate innanzi tutto non sono un’eccezione storica degli ultimi due secoli. Questa pratica complessa, fatta di espulsioni, esodi, cacciate di popolazioni conquistate, sono state frequenti nell’epoca degli Assiri, in quella dell’espansione imperiale romana, nell’Impero Ottomano. Tuttavia il fenomeno è andato in crescendo, non a caso, per tutto l’arco di fondazione e consolidamento dello Stato moderno, fino ad arrivare, con meccanismi e motivazioni in parte nuove, all’esplosione nel secolo oggetto dell’indagine del libro (a partire dalla Guerra di Crimea) e in particolare nel Novecento (spostamento sistematico, cacciata e deportazione di milioni di persone), soprattutto nella parte centrale, balcanica e orientale d’Europa, in concomitanza con l’alta frequenza di conflitti totali e di costruzioni e crolli di Stati. È interessante notare la necessità di fuoriuscire dall’eccessiva “etnicizzazione” del fenomeno, sottolineata dagli Autori, perché lo stesso è accaduto con quello altrettanto gigantesco dei massacri di massa, a lungo compresso nella categoria, ormai insufficiente, di “genocidi”, a partire dal termine introdotto da Raphael Lemkin nel 1944. Entrambi i fenomeni, infatti, non possono essere intesi solo facendo riferimento a contrasti o a persecuzioni etnonazionali: occorre invece parlare di “chirurgia demografica” o di “demotomia” (Graziosi),

singolarmente simile all’ampliamento tipologico proposto da Rudolph J. Rummel per i massacri di massa: “democidio”, che comprende fenomeni, altrimenti non teoricamente spiegabili, come il “politicidio” (massacro di massa di oppositori politici), la “pulizia di classe” (Zaslavsky), l’“omicidio per quota” e per categoria, condotto su base burocratica e pianificata o l’eliminazione (in comune con le migrazioni forzate) preventiva di un potenziale “nemico interno”. Babeuf, fra l’altro, nella sua critica al Terrore, aveva già coniato il termine “populicidio”. Quello che forse viene tralasciato dagli Autori è lo sforzo di impiegare un concetto più aderente alla parzialmente nuova realtà delle migrazioni forzate del Novecento: l’“ingegneria delle popolazioni”, rispondente alla bestialità burocratico-legale-poliziesca sviluppatasi nello Stato sempre più totale e soprattutto alla sua natura coscientemente pianificata e spesso segreta, che fa saltare paradigmi diffusi e semplicistici della Scienza Politica, del Diritto e della Scienza dell’Amministrazione, imponendone un radicale rinnovamento, capace di tenere conto finalmente di quello che è accaduto nel Novecento e che avrebbe fatto inorridire anche Thomas Hobbes. In ogni caso, anche se il libro fa notare innumerevoli particolari che non possono essere “inscatolati” facilmente in frettolose tipologie, è difficile astenersi dal collegare le migrazioni forzate – alla luce proprio della grande massa di avvenimenti descritti nel rilevante volume – all’evoluzione dello Stato moderno, del suo concetto di sovranità e di fedeltà esclusiva, della sua ossessione per l’unità e l’omogeneità interne, delle sue necessità legate all’evoluzione stessa del Machtsstaat (Stato - potenza), compresa la competizione fra Stati mutualmente esclusivi e a caccia di legami di obbedienza singoli e assoluti, che genera insicurezza e lotta con le altre potenze. Le popolazioni “rimosse” dal loro ambito originario per soddisfare criteri di “sicurezza” diventano fonti di insicurezza interna e nemici potenziali proprio per questa logica di fondo, responsabile dell’aumento esponenziale del fenomeno negli ultimi due secoli. È proprio il caso di dire che le eccezioni riportate nel testo “confermano la regola” della creazione di rapporti di unità fra “amici politici” (Schmitt), facendo emigrare coloro che costituiscono una minaccia (collusione col nemico esterno, punizione per collaborazionismo, possibili ingerenze dall’esterno, rappresaglie per infedeltà, ecc.). Quelle migrazioni forzate sono rese possibili solo da un ossificarsi della separazione fra dimensione interna ed esterna degli Stati, dai loro confini sempre più rigidi, dalle ferrovie di Stato, dalla burocrazia che può catturare tutti, uno per uno, all’interno dello Stato territoriale (Mosse, Bassani, ecc.), controllato dalla classe politico-burocratica e dislocarli dove ritiene opportuno, pianificandone o meno, poi, l’eliminazione fisica. Il quadro è completato dalla statalizzazione economica, dagli espropri e dal parassitismo politico-burocratico che si accompagnano alle migrazioni forzate delle “popolazioni infide”, paragonate ai “nemici esterni”: un’equiparazione inaugurata con la Rivoluzione francese, che diventerà la regola da Napoleone in poi e soprattutto nelle guerre totali. In conclusione, il legame fra nascita, consolidamento dello Stato

moderno e migrazioni forzate rimane innegabile. Stati deboli, inefficienti o troppo piccoli non sono in grado di provocarle, come dimostrano le scarse espulsioni dai piccoli Stati creati dopo la Grande Guerra, nel periodo interbellico - sottolineate dagli Autori - e come accade con i piccoli Stati contemporanei di nuova formazione. Il volume è di grande interesse per la storia dell’Europa Centrale e Orientale. Una pratica come quella delle migrazioni forzate ne ha provocato a lungo le piaghe, ancora aperte. Per quanto riguarda la storia dell’URSS e l’uso massiccio delle migrazioni forzate che l’hanno caratterizzata – anche e proprio per la presenza di una chiara “ingegneria delle popolazioni” di staliniana memoria tuttavia, va notato un eccessivo uso della storiografia sovietica, viziata da interpretazioni interessate e distorte (soprattutto nei confronti delle popolazioni dell’Europa Centrale e Orientale), non compensate dai documenti, per ora ancora in gran parte inaccessibili nella Russia contemporanea, in fase di restaurazione politica. Un maggiore uso della storiografia dell’Europa Centrale (se non di quella delle Repubbliche ex sovietiche oggi indipendenti, segnata non di rado da eccessivo nazionalismo) avrebbe consentito di fornire un quadro più completo e obiettivo. Alcuni avvenimenti chiave di quest’area risultano inquadrati nel volume da un solo angolo di visuale, quello dei dominatori e rischiano di figurare come appannati e meno tragici di quanto non siano stati in realtà. Il libro comunque ha un valore inestimabile per l’argomento che affronta: quello di un fenomeno fondamentale, il cui studio è di grande importanza per le nuove generazioni, che anche grazie a opere come queste possono incominciare a considerarlo, rompendo con una mostruosa storia precedente, inaudito e inaccettabile. Alessandro Vitale

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