ISSN 2037-6677

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POLONIA – L’Unione attiva il meccanismo per la tutela dello stato di diritto (c.d. Rule of Law Framework ) contro la Polonia di Nausica Palazzo

Le elezioni politiche dello scorso 25 ottobre in Polonia hanno segnato l’ascesa al potere del partito ultranazionalista Diritto e Giustizia (PiS). Sebbene non sia corretto ricondurre l’inizio della crisi costituzionale al momento storico che coincide con l’insediamento del nuovo Parlamento (a guida PiS), è comunque certo che a partire da ottobre tale crisi abbia assunto caratteri più marcati, con ripercussioni tanto sul corretto funzionamento dell’organo di giustizia costituzionale quanto sul pluralismo del servizio pubblico radiotelevisivo. È perciò in tale momento storico (elezioni politiche) che si tende a individuare un punto di dipartita e difficile ritorno dallo Stato costituzionale di diritto. I recenti avvenimenti in Polonia rievocano lo spauracchio di una deriva autoritaria nei Paesi dell’Unione, come d’altronde già avvenuto in occasione dell’ascesa al potere di Orbán in Ungheria e dell’irrobustimento mediatico e politico del Front National nelle trascorse elezioni regionali francesi. Consapevole dell’attualità del pericolo, il vicepresidente della Commissione europea Timmermans ha annunciato di voler intervenire con un inedito meccanismo. Si tratta della procedura prevista dal meccanismo per la tutela dello stato di diritto nei Paesi www.dpce.it

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membri, c.d. Rule of Law Framework, introdotta nel 2014 (Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio: Un nuovo quadro dell’UE per rafforzare lo Stato di diritto, COM/2014/0158 final) per far fronte all’emergenza costituzionale ungherese e ad oggi mai azionata. Il Framework consiste in una procedura complementare a quella prevista dall’art. 7 TUE (se la prima mira alla conciliazione, la seconda mira essenzialmente alla sanzione). Consente, infatti, di instaurare un dialogo con lo Stato trasgressore allorché si verifichi una disfunzione sistemica nel funzionamento delle relative istituzioni in grado di minacciare i cardini dello Stato di diritto («systemic threat to the rule of law»). Il dialogo cui si accennava consta di tre fasi caratterizzate da: i) una valutazione della Commissione circa l’esistenza di una minaccia sistemica allo stato di diritto, da svolgersi a stretto contatto con i vertici politici del Paese coinvolto; ii) una raccomandazione della Commissione, con l’indicazione di un termine entro il quale lo Stato deve rendersi adempiente; iii) follow-up continuo sul rispetto della raccomandazione. In caso di esperimento infruttuoso del meccanismo di conciliazione qui descritto e di «grave e persistente violazione» del principio-valore della rule of law, è possibile procedere all’attivazione della procedura di cui all’art. 7 TUE. Per quanto riguarda la procedura di cui all’art. 7, è utile tenere ben distinto il momento dell’accertamento del presupposto dell’attivazione («esiste[nza di] un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2») dal momento sanzionatorio, richiedente un ulteriore deliberazione del Consiglio e un apprezzamento in concreto circa le misure da adottare. Mentre il presupposto è accertato a all’unanimità dal Consiglio su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, le sanzioni sono successivamente deliberate a maggioranza qualificata dal Consiglio e potranno tradursi nella sospensione di “alcuni” diritti derivanti dai Trattati, incluso il diritto di voto in seno al Consiglio. In ambo i casi il Paese trasgressore non prende parte alle votazioni del Consiglio ex art. 354 TFUE. Se si volessero ripercorrere brevemente gli avvenimenti che hanno condotto all’attuale crisi costituzionale polacca, occorrerebbe ricordare innanzitutto il contesto che precede le elezioni politiche di ottobre, che vedeva al potere il partito www.dpce.it

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Piattaforma civica (PO). Nel 2013 il Presidente della Repubblica Komorowski assegna alla competente commissione parlamentare il compito di riformare la disciplina

concernente

il

funzionamento

del

Tribunale costituzionale.

Il

procedimento di formazione del progetto di riforma ha da subito assunto un carattere di assoluta segretezza, al punto da richiedere l’intervento della suprema Corte amministrativa, che con decisione del 10 gennaio 2014 (I OSK 2213/13) ordina l’immediata ostensione del progetto e degli atti procedimentali. Degno di nota, inoltre, il coinvolgimento di tre giudici dell’allora Tribunale costituzionale nel procedimento di stesura del testo, coinvolgimento in virtuale contrasto con il principio del nemo iudex in causa sua nel momento in cui una quesitone di legittimità costituzionale della legge fosse stata sollevata dinanzi al Tribunale medesimo. Tra gli aspetti maggiormente controversi della legge rientra la facoltà, contenuta in una norma transitoria (l’art. 137), di elezione per il Parlamento uscente di cinque giudici costituzionali in scadenza di mandato. L’art. 98 della Costituzione dispone che il mandato del Sejm e del Senato inizia con la prima seduta del Sejm e si protrae fino al giorno precedente la prima riunione del Sejm con nuovo mandato. Due dati: la prima sessione parlamentare del Sejm a guida PiS si tiene il 12 novembre; le cariche dei giudici costituzionali giungono a scadenza il 7 novembre (tre giudici), il 3 e il 9 dicembre (i restanti due giudici). È dunque evidente la forzatura costituzionale realizzata dal principale partito di maggioranza Piattaforma civica, quantomeno per i due giudici con scadenza di mandato a dicembre. I fatti seguenti ricevono ampio riscontro mediatico. In ordine: il rifiuto del neo Presidente della Repubblica Duda, affiliato al partito di maggioranza PiS, di ricevere il giuramento di tutti e cinque i giudici nominati dal Parlamento a guida Piattaforma civica, nella convinzione che tale legge fosse incostituzionale; l’impugnazione dell’art. 137 della legge di riforma del Tribunale costituzionale da parte del PiS il 23 ottobre; la rinuncia all’impugnazione da parte del PiS e la contestuale impugnazione della stessa da parte di Piattaforma civica, nella malcelata speranza che una dichiarazione di incostituzionalità impedisse alla maggioranza di emendare la legge in proprio favore. Nel frattempo, il 19 novembre 2015 la Camera bassa approva la legge di modifica, annullando l’elezione asseritamente incostituzionale dei cinque giudici e www.dpce.it

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introducendo una riduzione del mandato del Presidente e Vicepresidente del Tribunale da nove a tre anni, con retrodatazione gli effetti ai giudici in carica che immediatamente decadono dall’ufficio di Presidente e Vicepresidente. Il giorno successivo, con inusitata speditezza, il Senato approva il testo di legge e il Presidente della Repubblica promulga la legge. È l’inizio del blitzkrieg costituzionale. La legge viene da più parti impugnata; nelle more del giudizio, il Tribunale emana all’unanimità un provvedimento inibitorio con cui ordina al Parlamento di non procedere ad alcuna nuova nomina prima della conclusione del giudizio di legittimità costituzionale. Ciò non ostante, il Parlamento procede alla nomina di cinque nuovi giudici, in sostituzione dei precedenti, il 2 dicembre. Di qui una prima sentenza giunge il 3 dicembre (3.12.2015, caso K 34/15), con cui la corte dichiara l’incostituzionalità dell’art. 137 (della legge sul funzionamento del Tribunale del giugno 2015) nella parte in cui prevede la facoltà di nominare due giudici “in eccesso” (con scadenza del mandato nel corso di una diversa legislatura), confermando, conseguentemente, la legittimità della nomina dei restanti tre giudici. Con successiva sentenza del 9 dicembre (9.12.2015, caso K 35/15) la corte dichiara l’incostituzionalità parziale del nuovo articolo transitorio 137a della legge di modifica, ribadendo la legittimità dell’elezione dei tre giudici. Il rifiuto di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale da parte del Governo, oltre ad aver vanificato i giudizi – inibendo la produzione di effetti giuridici per più di due settimane –, rappresenta un’ulteriore evoluzione della logica raffazzonata del blitzkrieg, noncurante del principio della separazione dei poteri e, prima ancora, della forza precettiva della Costituzione. Una volta assicurata una composizione favorevole dell’organo di giustizia costituzionale con le nuove nomine, il partito Diritto e giustizia procede a inibirne il funzionamento: il 22 dicembre il Parlamento introduce con legge il quorum deliberativo dei due terzi e l’obbligo di deliberare in plenum, con limitate eccezioni, a differenza che in passato, in cui la divisione del lavoro e le deliberazioni a maggioranza semplice erano la regola. L’ulteriore previsione di un minimo di 13 giudici (quorum strutturale) per la trattazione dei casi costringe sostanzialmente il Tribunale ad accettare la nomina dei giudici nominati dal PiS, realizzando l’attuale

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fenomeno delle “composizioni parallele” (una costituzionalmente legittima, l’altra illegittima). Sulla scorta di quanto detto, pare allora comprensibile la scelta di attivare il meccanismo per la tutela dello stato di diritto nei Paesi UE. Il contesto finora qui descritto si potrebbe, non a torto, definire sprezzante delle regole basilari dello Stato di diritto. Il ricorso ad espedienti come il repulisti dell’organo di giustizia costituzionale e dei vertici dell’apparato amministrativo (ulteriore questione che esula dall’oggetto della trattazione, e tuttavia di estrema attualità) testimonia il rifiuto della maggioranza di sottostare alle “regole del gioco” e la volontà, per converso, di funzionalizzare le regole al raggiungimento di interessi di parte, sotto l’incalzante retorica da “nuovo rinascimento” e da “quarta Repubblica liberata dai comunisti”. Una volta descritto il funzionamento del meccanismo e il contesto nazionale in ci tale meccanismo è invocato, non resta che chiarire il significato di “rule of law” nell’ambito dell’Unione. Quali sono quei principi ritenuti irrinunciabili, la cui violazione di per sé integra il presupposto per l’attivazione del meccanismo sopra descritto? Ciascuno Stato membro ha i suoi propri principi irrinunciabili, racchiusi nelle Costituzioni e variamente protetti dall’assalto dei Poteri dello Stato. Anche l’Unione europea si è tuttavia dotata negli anni di un corredo di principi fondamentalissimi, consacrati dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo e della Corte EDU, oltre che da una serie di documenti redatti dal Consiglio d’Europa con l’ausilio della Commissione di Venezia. Si tratta, nelle parole della Commissione europea, di un elenco non esaustivo che include il principio di legalità, di uguaglianza di fronte la legge, di partecipazione, trasparenza e rispetto del pluralismo nel procedimento di adozione degli atti legislativi, la certezza del diritto, il principio di non arbitrarietà nell’esercizio della funzione esecutiva, di indipendenza delle corti giudiziarie, di effettività del giudizio di costituzionalità delle leggi e della correlata protezione dei diritti fondamentali. Trattasi, inoltre, di principi da intendersi in senso sostanziale e non meramente procedurale, come metro di conformità al carattere democratico delle istituzioni e come indice del rispetto dei diritti umani. “Democrazia” e “rispetto dei diritti umani” costituiscono in definitiva l’epitome di ciò che la rule of law rappresenta nell’ambito dell’Unione. www.dpce.it

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Se quanto detto corrisponde al vero, allora i recenti fatti della Polonia rappresentano necessariamente una minaccia ai valori dello Stato di diritto dei Paesi membri. Ciò perché, se è evidente lo sforzo di enucleare i caratteri essenziali dello Stato di diritto, ancor più evidente è la messa a fuoco dei caratteri negativi dello Stato di diritto, l’insieme, cioè, di quei valori negativi cui l’Unione non intende conferire diritto di soggiorno: concentrazione dei poteri, arbitrarietà nell’esercizio della funzione esecutiva, dipendenza delle corti giudiziarie dal potere esecutivo.

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