ISSN 2037-6677

DPCE online 2015-4

UNGHERIA – Approvate norme restrittive in materia di diritto di asilo di Ester Stefanelli

In Ungheria, tra luglio e settembre 2015, sono stati approvati dal Parlamento una serie di atti volti ad emendare la normativa vigente in tema di diritto di asilo (si tratta principalmente della legge LXXX del 2007, più volte modificata nel corso degli anni, e del decreto governativo n. 301 del 2007, relativo all’attuazione della legge). L’introduzione di misure restrittive in materia di immigrazione, in particolare relative all’acquisizione dello status di rifugiato, rappresenta senz’altro un tentativo di rispondere all’esponenziale aumento di richieste di asilo che l’Ungheria ha registrato soprattutto a partire dal 2014 (anno nel quale sono state presentate circa 43 mila richieste). Il 6 luglio 2015 è stata approvata, in tempi estremamente rapidi, la legge CXXVII del 2015, con la quale il Parlamento ungherese ha autorizzato la creazione di una barriera lunga 175 km, la cui costruzione è stata ultimata il 15 settembre 2015; questa corre lungo il confine tra Ungheria e Serbia, da cui proviene la quasi totalità dei richiedenti asilo (circa il 99%). Con la legge di cui sopra, il Parlamento ungherese ha altresì autorizzato il Governo ad adottare il decreto governativo n. 191 del 2015, che redige una lista di www.dpce.it

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c.d. «safe countries of origin», e una di c.d. «safe third countries», la cui definizione è stata introdotta con la legge LXXX del 2007, nell’art. 2, lettera h. Quest’ultima normativa riprende la distinzione operata a livello di Unione europea dall’attuale direttiva 2013/32/EC del Parlamento europeo e del Consiglio (che sostituisce la precedente direttiva 2005/85/EC del Consiglio), la quale però non stila un elenco di paesi appartenenti alla categoria di «safe countries of origin» o di «safe third countries», lasciando così alle singole legislazioni nazionali tale compito. Nello specifico, secondo la normativa ungherese, nei paesi che appartengono alla categoria dei «safe countries of origin» si presume che i cittadini dello Stato stesso non siano vittima di generali o sistematici atti di persecuzione, in tutto il territorio o in parte di esso, che non vi sia altresì una minaccia di violenza generalizzata derivante da situazioni di conflitto interno o internazionale, che non si ricorra a trattamenti crudeli, inumani e degradanti e che esistano effettive possibilità di ricorso contro tali atti. Il decreto governativo, inserisce in questa categoria gli Stati membri e gli Stati candidati dell’Unione europea (ad eccezione della Turchia), i paesi dello Spazio economico europeo, gli Stati USA che non prevedono la pena di morte e la Bosnia ed Erzegovina, la Svizzera, il Kosovo, il Canada, la Nuova Zelanda e l’Australia. Questi stessi paesi figurano inoltre nell’elenco di «safe third countries», che corrispondono a quegli Stati nei quali ai non cittadini, trattati nel rispetto del loro diritto alla libertà personale e in accordo con il principio di non refoulement, è garantita la possibilità di richiedere asilo, e questo, qualora concesso, permette all’individuo di ricevere un trattamento conforme ai principi sanciti nella Convenzione del 1951 sullo statuto dei rifugiati (c.d. Convezione di Ginevra). Le richieste avanzate dai soggetti provenienti quindi da uno Stato appartenente alla categoria dei «safe third countries» devono essere direttamente rigettate dall’Ufficio per l’Immigrazione e la Nazionalità (OIN), entro un periodo di soli 15 giorni, senza ulteriore possibilità di riesame della domanda, poiché si ritiene che il richiedente asilo abbia già avuto modo di trovare protezione nello Stato nel quale è da ultimo transitato. L’onere di provare che il richiedente asilo non è invece riuscito a presentare la propria richiesta presso lo Stato di accoglienza risiede in capo al richiedente, il quale, in base ad una procedura accelerata, ha inoltre un lasso di tempo estremamente breve, pari a 3 giorni, per fare ricorso (l’organo giudiziario dovrà poi pronunciarsi entro 8 giorni). www.dpce.it

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Dalla classificazione dei paesi in «safe countries of origin» e «safe third countries» di cui sopra emergono alcune importanti criticità legate anzitutto all’inclusione degli Stati membri dell’Unione europea all’interno della seconda categoria; ipotesi quest’ultima che il diritto europeo sembra escludere per definizione (infatti, in base agli artt. 38 e 39 della direttiva 2013/32/UE, con il termine «safe third countries» ci si riferisce esclusivamente ai «paesi terzi») e che non compare nella maggior parte delle leggi in materia di asilo adottate dagli Stati membri dell’UE, ad eccezione della normativa tedesca (art. 26a dell’Asylum Procedure Act del 2008). Il riferimento agli Stati USA che non applicano la pena di morte appare inoltre di scarsa rilevanza, dato che questi ultimi non sono soggetti di diritto internazionale e che il diritto di asilo è di competenza dello Stato federale. Ancora, contrariamente agli altri paesi dell’Unione europea, l’Ungheria, con il recente decreto governativo, inserisce anche la Serbia tra i paesi considerati «safe third countries», nonostante l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) affermi chiaramente (nel suo Report del 2012, Serbia as a country of asylum) che in Serbia le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale non garantiscono una tutela sufficiente al richiedente asilo. La stessa Corte suprema ungherese era intervenuta sulla questione nel 2012 (Opinion n. 2 del 2012), invocando un’applicazione univoca del concetto di «safe third countries» tra le corti nazionali ed escludendo la possibilità che la Serbia possa essere riconosciuta come tale. Diverse sono state le critiche rivolte alla nuova normativa ungherese, sia da parte di organizzazioni internazionali che di ONG, le quali hanno parlato di una preoccupante violazione del principio di non refoulement sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra.

www.dpce.it

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... contrariamente agli altri paesi dell'Unione europea, l'Ungheria, con il. recente decreto governativo, inserisce anche la Serbia tra i paesi considerati «safe.

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