Katie McGarry

SCOMMESSA D’AMORE QUANDO IN GIOCO C’È IL CUORE

Titolo originale: Dare you to Traduzione dall’inglese: Alessia Fortunato Coordinamento editoriale: Valentina Deiana Testo © 2013 Katie McGarry Foto di copertina © Young couple hold hands whilst walking together, Nikki Smith (Arcangel Images) Per l’edizione italiana © 2014 De Agostini Libri S.p.A., Novara Redazione: corso della Vittoria, 91 – 28100 Novara Prima edizione ebook: settembre 2014 ISBN 978-88-511-2459-5 www.deagostini.it www.deagostinilibri.it www.facebook.com/DeAgostiniLibri @DeAgostiniLibri Questa edizione è pubblicata per accordo con Harlequin Enterprises II B.V./S.à.r.l. Questa è un‘opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone della vita reale è puramente casuale. T

È l’uccello più bello a essere ingabbiato. Antico proverbio cinese

Il secondo posto non mi interessava. Non era per me, né lo sarebbe mai stato. Non era la mentalità di chi voleva giocare con i professionisti. E considerando la mia filosofia di vita, le cose stavano andando uno schifo. Ancora pochi secondi e il mio migliore amico avrebbe ottenuto il numero di telefono della tizia che lavorava al bancone del Taco Bell, e sarebbe tornato in vantaggio. Quella che era iniziata come una semplice scommessa, si era trasformata in una partita che andava avanti da tutta la sera. All’inizio, Chris mi aveva sfidato a prendere il numero della ragazza in fila al botteghino del cinema. Poi avevo scommesso che non avrebbe ottenuto quello della tipa ai tunnel di battuta. Più successo avevamo, più la partita si faceva intensa. Peccato che Chris, con quel sorrisetto, fosse capace di sciogliere i cuori di tutte le ragazze, incluse quelle fidanzate. Quanto odiavo perdere! La tizia del Taco Bell arrossì all’occhiolino di Chris. Ma per favore! Avevo scelto lei perché, quando avevamo ordinato, ci aveva definiti “campagnoli sfigati”. Chris appoggiò le braccia al bancone, avvicinandosi a lei, mentre me ne restavo seduto al tavolo a osservare l’ultimo atto della tragedia in corso. Perché lei non poteva avere un’illuminazione proprio ora? O dimostrare un po’ di dignità e dire a Chris di andare a farsi fottere? Ogni singolo muscolo del collo si tese quando la tipa ridacchiò, scrisse qualcosa su un pezzo di carta e glielo porse. Dannazione. Gli altri scoppiarono a ridere e ulularono, e qualcuno mi rifilò una pacca sulla spalla. Quella sera le ragazze o i numeri di telefono non erano il nostro obiettivo. Volevamo solo goderci l’ultimo venerdì prima che ricominciasse la scuola. Avevo provato tutto: la sensazione di libertà del vento caldo d’estate nella jeep con il tettuccio abbassato, la pace delle strade buie di campagna verso l’autostrada, l’emozionante bagliore delle luci della città durante i trenta minuti di viaggio per Louisville, e, infine, un taco super gustoso e unto da far schifo a mezzanotte. Chris sollevò il numero di telefono come un arbitro che alzava il guantone del pugile vittorioso. «Sono avanti io, Ryan.» «Fatti sotto.» Non mi sarei lasciato battere, arrivati a quel punto. Lui sprofondò sulla sedia, lasciò il foglietto sulla pila di numeri collezionati in serata, e si sistemò il berretto da baseball della Bullitt County High sui capelli castani. «Vediamo. A queste cose bisogna pensare per bene. La ragazza va scelta con attenzione. Abbastanza attraente da non innamorarsi di te. Non un cesso, altrimenti sarà tutta un fremito solo perché qualcuno le ha lanciato un osso.» Lo imitai e mi rilassai sulla sedia, distesi le gambe e incrociai le braccia al petto. «Fai con comodo. Ho tutta la vita.» Invece non era così. Alla fine di quel week-end le cose sarebbero cambiate per me e Chris. Da lunedì saremmo stati studenti dell’ultimo anno, e avremmo cominciato l’ultimo campionato autunnale di baseball. Mi restavano solo altri quattro mesi per far colpo sui talent scout del baseball

professionistico, o il sogno per cui avevo lavorato per tutta una vita sarebbe andato in fumo. Un calcio al piede mi riportò al presente. «Piantala con quella cavolo di faccia seria» sussurrò Logan. L’unico studente del terzo anno seduto al tavolo, nonché miglior ricevitore dello Stato, fece un cenno verso il resto del gruppo. Conosceva le espressioni del mio viso meglio di chiunque altro. E ne aveva ben motivo, visto che giocavamo insieme da quando eravamo piccoli. Lanciatore io, ricevitore lui. Per farlo contento, risi a una battuta di Chris di cui non avevo nemmeno sentito la parte finale. «Fra un po’ chiudiamo.» La tizia del Taco Bell stava pulendo un tavolo vicino al nostro, e rivolse un sorriso a Chris. Sembrava quasi carina, alla luce rossa dell’insegna SPORTELLO DRIVE-IN: APERTO. «Quella potrei anche chiamarla» disse Chris. Inarcai un sopracciglio. Chris adorava la sua ragazza. «No che non lo farai.» «Lo farei se non fosse per Lacy.» Ma Lacy c’era e lui ne era innamorato, quindi non serviva continuare quel discorso. «Ho ancora una possibilità.» Finsi di guardare verso l’ingresso viola decorato in stile texano/messicano. «Quale scegli?» Un clacson dal drive-in annunciò l’arrivo di un’auto piena di belle ragazze. Si sentiva il ritmo del rap dalla macchina, e avrei giurato che una di loro ci stesse guardando. Adoravo la città. Una moretta sul sedile posteriore mi salutò con la mano. «Dovresti scegliere una di loro.» «Come no» replicò sarcastico Chris. «Guarda, quasi quasi ti cedo direttamente il titolo, che ne dici?» Due ragazzi seduti con noi scattarono in piedi e uscirono, lasciandomi solo con Logan e Chris. «Ultima chance per le bellezze di città prima di tornare a Groveton, Logan.» Lui non rispose né in un senso né nell’altro, e nemmeno cambiò espressione. Ecco a voi Logan, signore e signori: indifferente quasi a tutto. A meno che non si trattasse di un’impresa potenzialmente mortale. «Eccola lì.» Chris s’illuminò, guardando la porta. «È quella la ragazza che scelgo per te.» Inspirai rumorosamente. Chris sembrava troppo contento perché fosse una buona notizia. «Dove?» «È appena entrata, sta aspettando al bancone.» Azzardai un’occhiata. Capelli neri. Vestiti strappati. Praticamente una skater. Maledizione, erano le più difficili da far crollare. Schiaffai una mano sul tavolo e i vassoi traballarono. Perché? Perché Miss Skater era capitata al Taco Bell proprio quella sera? Le risate sguaiate di Chris non aiutarono certo a diminuire la tensione che si stava accumulando. «Ammetti la sconfitta e ti risparmierai un dolore.» «Scordatelo.» Mi alzai in piedi, non avrei perso senza lottare. Le ragazze erano tutte uguali, me lo ripetei avvicinandomi al bancone. Quella tipa poteva anche sembrare diversa da quelle che bazzicavano qui, ma era solo apparenza perché volevano tutte la stessa cosa: un ragazzo che dimostrasse interesse per loro. Il problema dei maschi era avere le palle per farlo. Buon per me, che le avevo. «Ciao, sono Ryan.» I lunghi capelli neri le nascondevano il viso, ma la mia attenzione fu attirata dal corpo esile e con un accenno di curve. A differenza delle altre ragazze di qui, non indossava vestiti di marca. Per niente, questa aveva il suo stile. La canotta nera mostrava più pelle di quanta ne coprisse, e i jeans skinny

aderivano ai punti giusti. L’occhio mi cadde sullo strappo proprio sotto il sedere, che si allargò quando si sporse oltre il bancone. Miss Skater si voltò verso di me e lo sportello del drive-in. «C’è qualcuno che ha intenzione di prendere il mio fottuto ordine?» La risata di Chris dal nostro tavolo all’angolo mi riportò alla realtà. Mi sfilai il berretto, arruffando i capelli, per poi rimetterlo a posto. Perché lei? Perché quella sera? Ma c’era in ballo una scommessa che avevo intenzione di vincere. «Sono un po’ lenti al bancone, stasera.» Mi guardò male come se fossi io quello ottuso. «Ce l’hai con me?» La sua occhiataccia era una sfida a distogliere lo sguardo, e un rammollito l’avrebbe fatto. Ma non ero un rammollito, io. Continua pure a fissare, Miss Skater. Non mi fai paura. Comunque aveva uno sguardo magnetico. Gli occhi erano di un blu particolarmente intenso. Non avrei mai creduto che una persona con dei capelli così neri potesse avere degli occhi tanto brillanti. «Ti ho fatto una domanda.» Si appoggiò con il fianco al bancone e incrociò le braccia al petto. «O sei stupido come sembri?» Appunto, una vera punk: atteggiamento, piercing al naso, e un ghigno che avrebbe potuto uccidere sul colpo. Non era il mio tipo, ma tanto non doveva esserlo. Mi serviva solo il suo numero. «Forse otterresti un servizio migliore se moderassi i toni.» Una punta di divertimento le fece increspare le labbra, raggiungendo lo sguardo. Non il genere di spasso per cui si scoppiava a ridere. Era sarcasmo, il suo. «Il mio modo di parlare ti crea problemi?» Sì. «No.» Le ragazze non dicevano parolacce, o almeno non avrebbero dovuto dirne. Non mi interessava come parlasse, ma sapevo riconoscere le sfide e quella era una sfida in piena regola. «Quindi non hai problemi con il mio modo di esprimermi, ma dici…» Alzò la voce e si sporse di nuovo oltre il bancone: «…che potrei ottenere un fottuto servizio se moderassi i toni». Non sarebbe stata una cattiva idea. Meglio cambiare tattica. «Che cosa vuoi?» Si voltò di scatto come se avesse dimenticato che ero lì. «Come?» «Mangiare. Che vuoi mangiare?» «Pesce. Cosa pensi che voglia? Sono in un posto che vende taco.» Chris rise di nuovo, e stavolta si unì anche Logan. Se non facevo qualcosa per salvare la situazione, avrei dovuto sorbirmi i loro sfottò fino a casa. Mi sporsi oltre il bancone e feci un cenno con la mano alla ragazza allo sportello drive-in. Le sorrisi, e lei sorrise in risposta. Guarda e impara, Miss Skater. È così che dovrebbe funzionare. «Potresti venire un attimo?» La tipa allo sportello s’illuminò e alzò un dito, continuando a prendere l’ordine da fuori. «Un istante e sono lì, giuro.» Mi voltai verso Miss Skater, ma invece del caloroso ringraziamento che avrei dovuto ricevere, lei scosse la testa, chiaramente seccata. «Atleta invasato…» Il mio sorriso vacillò, il suo divenne più ampio. «Che ne sai che sono un atleta?» Lo sguardo scese al mio petto, e trattenni a fatica una smorfia. Sulla maglietta grigia c’era scritto a caratteri cubitali BULLITT COUNTY HIGH SCHOOL – VINCITORI DEL CAMPIONATO NAZIONALE DI BASEBALL. «Quindi sei veramente stupido» disse. Tanto valeva rinunciare. Feci un passo verso il tavolo, poi però mi bloccai. Non volevo perdere.

«Come ti chiami?» «Cosa devo fare per essere lasciata in pace?» Eccola lì, la mia breccia. «Dammi il tuo numero.» Lei sollevò l’angolo destro della bocca. «Stai scherzando.» «Sono serissimo. Dammi nome e numero di telefono, e me ne vado.» «Devi avere dei problemi mentali.» «Benvenuti al Taco Bell. Volete ordinare?» Guardammo entrambi la ragazza del drive-in. Mi sorrise, poi fece un passo indietro al cospetto di Miss Skater. Mantenne gli occhi bassi quando chiese di nuovo: «Che posso portarvi?» Presi il portafoglio e schiaffai dieci dollari sul bancone. «Dei taco.» «E una Coca Cola» continuò Miss Skater. «Grande, visto che paga lui.» «Oooookay.» La cameriera prese l’ordine e i soldi, poi tornò allo sportello delle ordinazioni in auto. Miss Skater e io ci guardammo. Roba da pazzi, questa tipa non sbatteva mai le palpebre. «A questo punto un grazie sarebbe doveroso» le dissi. «Non ti ho chiesto io di pagare.» «Dammi il tuo nome e il numero di telefono e siamo pari.» Lei s’inumidì le labbra. «Non c’è assolutamente niente che tu possa fare per convincermi a darti il mio nome o il numero.» Din-don, il tempo degli scherzi era finito. Invadendo intenzionalmente il suo spazio personale, feci un passo avanti e appoggiai la mano accanto a lei sul bancone. Mi resi subito conto che non era rimasta indifferente. Lo sguardo aveva perso l’aria divertita, e si stava stringendo fra le braccia. Era minuta, molto più di quanto volesse sembrare. Ero così preso dal suo atteggiamento che non avevo fatto caso all’altezza o alla taglia. «Scommetto che ce la faccio.» Lei mi guardò a mento alto. «Non ce la fai.» «Otto taco e una Coca Cola grande» esclamò la ragazza dietro il bancone. Miss Skater afferrò l’ordine e girò sui tacchi, prima che potessi capacitarmi dell’imminente sconfitta. «Aspetta!» Si fermò sulla porta. «Che c’è?» Il tono appena usato non era infastidito come prima. Forse ero sulla buona strada. «Dammi il tuo numero. Voglio chiamarti.» Non avevo intenzione di farlo, ma volevo vincere. Stava vacillando palesemente. Per evitare di spaventarla, soffocai l’entusiasmo. Niente al mondo mi eccitava quanto il sapore della vittoria. «Sai che ti dico?» Mi rivolse un sorriso carico di fascino misto a perfidia. «Se riesci ad accompagnarmi fino alla macchina e ad aprirmi lo sportello, ti darò il mio numero.» Posso farcela. Uscì per prima nella notte umida, e saltò giù dal marciapiede in direzione del parcheggio. Non aveva l’aria di una a cui piacesse saltellare, eppure lo stava facendo, con me al seguito, che già pregustavo la vittoria. Peccato che non durò a lungo. Mi bloccai con il piede a mezz’aria. Prima che lei potesse balzare oltre le linee gialle intorno a una vecchia auto arrugginita, ne uscirono due ragazzi dall’aria minacciosa e per nulla allegra. «Posso fare qualcosa per te, amico?» chiese il più alto dei due. Aveva le braccia ricoperte di

tatuaggi. «No.» Infilai le mani in tasca e cercai di mostrarmi rilassato. Non avevo intenzione di scatenare una rissa, soprattutto dal momento che ero in inferiorità numerica. Il tizio tatuato attraversò il parcheggio, e probabilmente si sarebbe avvicinato ancora se non fosse stato per l’altro ragazzo, quello con il ciuffo sugli occhi. Si fermò proprio davanti al tatuato, impedendogli di avanzare, ma dall’atteggiamento si capiva che anche lui era pronto a fare a botte. «C’è qualche problema, Beth?» Beth. Difficile credere che una ragazza tosta come quella avesse un nome così delicato. Come se mi avesse letto nel pensiero, le sue labbra si piegarono in un sorrisetto crudele. «Non più» rispose, saltando sul sedile anteriore dell’auto. I due ragazzi tornarono alla macchina tenendomi d’occhio, come se potessi essere tanto idiota da aggredirli alle spalle. Il motore si accese con un rombo, e la macchina vibrò come se tutti i pezzi fossero tenuti insieme dallo scotch. Non avevo fretta di tornare dentro dai miei amici e spiegare come avevo perso, così rimasi fermo sul marciapiede. L’auto mi superò lentamente, e Beth schiacciò i palmi contro il finestrino. Le parole che siglavano la mia sconfitta erano scritte con un pennarello nero sulla sua pelle: Non puoi farcela.

Beth

Non c’era sensazione migliore di fluttuare nell’aria. Mi sentivo leggera, al caldo. Il tepore di un piumone appena uscito dall’asciugatrice, di una mano forte sul viso, che mi accarezzava i capelli. Se solo fosse stato sempre così… Avrei voluto passare la vita lì, nel seminterrato della casa di mia zia. Solo pareti, nessuna finestra. Quello che c’era fuori restava fuori. La gente che amavo era dentro. Noah, con il ciuffo a coprirgli gli occhi per impedire al mondo di vedere la sua anima. Isaiah, le braccia ricoperte di magnifici tatuaggi che spaventavano la gente normale e attiravano gli spiriti liberi. Io… una vera poetessa da sballata. Mi ero trasferita in quella casa in cerca di sicurezza. Loro ci erano finiti perché i servizi sociali non avevano trovato altre famiglie a cui darli in affido. Avevamo deciso di restare perché eravamo come pezzi scomposti di altri puzzle, stanchi di non riuscire mai ad adattarci. L’anno prima Isaiah e Noah avevano preso il divano, il materasso matrimoniale e la TV alla Onlus. Tutte cose buttate via da altri. Trascinandole giù per una rampa di scale sotto il livello della strada, avevano costruito la nostra casa. E mi avevano dato una famiglia. «Portavo i nastri» farfugliai. La mia voce aveva un suono bizzarro, quasi fosse un’eco lontana. Parlai di nuovo per sentire quello strano effetto: «Tantissimi». «Adoro quando fa così» disse Isaiah a Noah. Ce ne stavamo tutti e tre a rilassarci sul letto, a finire un’altra birra. Noah era seduto sul bordo, appoggiato di schiena al muro. Isaiah e io eravamo abbastanza vicini da sfiorarci. Ci toccavamo solo quando eravamo strafatti o ubriachi, o entrambe le cose. In quei momenti potevamo farlo, perché tanto non aveva importanza. Niente ne aveva quando ci sentivamo così leggeri. Isaiah mi accarezzò di nuovo i capelli. Il tocco delicato mi fece venir voglia di chiudere gli occhi e dormire per sempre. La pace dei sensi, ecco che cos’era. «Di che colore?» Il tono normalmente spigoloso di Isaiah scomparve, lasciando il posto a una voce dolce e profonda. «Rosa.» «E…?» «I vestiti. Amavo i vestiti.» Quando voltai la testa per guardarlo, mi sembrò di muovermi nella sabbia. Appoggiai il capo al suo stomaco e sorrisi, avvertendo sulla guancia il calore della pelle sotto la maglietta. O forse sorridevo solo perché era Isaiah, e solamente lui riusciva a farmi sorridere. Amavo i suoi capelli scuri, rasati quasi alla radice. Quei dolci occhi grigi. Gli orecchini a entrambi i lobi. Amavo… che fosse sexy. Era sexy quando si sballava. Mi venne da ridacchiare. Era tragicamente sexy da sobrio. Questa avrei dovuto scriverla.

«Vuoi un vestito, Beth?» domandò Isaiah. Non mi prendeva mai in giro quando ricordavo qualcosa della mia infanzia. In realtà, era uno dei pochi casi in cui mi faceva una marea di domande. «Me ne compreresti uno?» Non capii perché, ma il pensiero mi rallegrò il cuore. La piccola parte del mio cervello ancora lucida mi ricordò che non mettevo più i vestiti e disprezzavo i nastri. Il resto della mente, perso in una nuvola di fumo, continuò il giochino… la prospettiva di una vita con abiti e nastri e qualcuno disposto a far avverare i miei sogni più audaci. «Sì» rispose lui senza esitazione. I muscoli attorno alla bocca si fecero più pesanti, proprio come il resto del corpo, cuore incluso. No. Non ero pronta a tornare in me. Chiusi gli occhi e lasciai che la sensazione passasse. «È andata.» Noah era lucido, e la cosa un po’ mi infastidiva. Dopo il diploma aveva smesso di fumare erba e comportarsi in modo spensierato, e stava portando anche Isaiah su quella strada. «Abbiamo aspettato troppo.» «No, va benissimo.» Isaiah si spostò e mi appoggiò la testa su qualcosa di morbido e soffice. Un cuscino. Isaiah si prendeva sempre cura di me. «Beth?» Sentii il suo respiro caldo sfiorarmi l’orecchio. Replicai con un sussurro confuso: «Sì». «Vieni a vivere con noi.» La primavera scorsa, Noah si era diplomato ed era uscito dal programma di affidamento. Stava per trasferirsi e Isaiah sarebbe andato con lui, anche se tecnicamente non avrebbe potuto lasciare la famiglia affidataria fino al diploma e al compimento dei diciotto anni, l’anno seguente. Per mia zia non era un problema dove vivesse Isaiah, le bastava continuare a ricevere i sussidi statali. Cercai di fare cenno di no con la testa, ma nella sabbia non ci si muoveva troppo bene. «Ne abbiamo parlato, ti lasciamo una camera da letto e noi dividiamo l’altra.» Erano settimane che andava avanti quella storia, cercavano di convincermi ad andare con loro. Ma, ah-ah! Anche da sballata riuscivo a mandare a monte i loro piani. Sbattei gli occhi e li riaprii. «Non funzionerà. Avrete bisogno di un po’ di privacy per il sesso.» Noah ridacchiò. «Abbiamo un divano.» «Vado ancora al liceo.» «Anche Isaiah. Se te ne fossi dimenticata, siete entrambi all’ultimo anno.» Saputello del cavolo. Guardai male Noah, che si limitò a sorseggiare la sua birra. Isaiah continuò: «In che altro modo pensi di poter andare a scuola? Con il pullman?» Che diavolo, no! «Alzerai il tuo patetico culo in anticipo per venirmi a prendere.» «Sai che lo farò» mormorò lui, e ritrovai un po’ della mia pace. «Perché non vuoi trasferirti da noi?» chiese Noah. Quella domanda così diretta mi riportò alla realtà. Perché, urlò la mente. Mi girai su un fianco, appallottolandomi su me stessa. Pochi secondi dopo, mi sentii avvolgere da qualcosa di soffice. La coperta venne rimboccata fin sotto al mento. «Adesso sì che è andata» disse Isaiah. MI VIBRAVA IL SEDERE. Mi stiracchiai prima di cercare il cellulare nella tasca posteriore dei jeans.

Per un attimo mi chiesi se lo strafigo al Taco Bell fosse riuscito in qualche modo a ottenere il mio numero. L’avevo sognato… lo strafigo del Taco Bell. Mi stava così vicino, l’aria strafottente e sexy, con la zazzera di capelli biondo miele e gli occhi castani. Stavolta non cercava di fregarmi per avere il numero. Mi sorrideva come se contassi qualcosa per lui. D’altra parte era stato solo un sogno. L’immagine svanì quando vidi sul display del cellulare che ore erano e chi stava chiamando: le tre del mattino, ed era il bar L’ultima Fermata. Fanculo. Risposi, purtroppo di nuovo lucida. «Un attimo.» Isaiah dormiva accanto a me, il braccio teso sul mio stomaco. Lo sollevai dolcemente e sgattaiolai via. Noah era crollato sul divano con la sua ragazza, Echo, che teneva stretta a sé. Quando diavolo era tornata in città? Risalii le scale in silenzio, entrai in cucina e chiusi la porta del seminterrato. «Ok, ci sono.» «Tua madre sta dando di nuovo problemi» esclamò una voce maschile irritata. Sfortunatamente la conoscevo: era Denny, barista e proprietario dell’Ultima Fermata. «L’hai lasciata a secco?» «Non posso impedire ai ragazzi di offrirle da bere. Senti, ragazzina, mi paghi per chiamare te prima di avvertire la polizia o sbatterla fuori a calci. Hai un quarto d’ora per portarla via di qui.» E attaccò. Denny doveva lavorare sulle sue capacità di comunicazione, davvero. Attraversai a piedi i due isolati fino al centro commerciale all’aperto, con i suoi negozi che offrivano ogni genere di comfort per gentaglia da due soldi: una lavanderia a gettoni, un negozio “Tutto a Un Dollaro”, una rivendita di liquori, uno squallido supermercato che accettava come pagamento i sussidi statali per le ragazze madri e i buoni pasto (e vendeva pane raffermo e carne della settimana precedente), un tabaccaio, il banco dei pegni e un locale per motociclisti. Oh, e uno schifo di studio legale, utile a chi veniva beccato a sgraffignare qualcosa o a fare una rapina in uno di quei posti. Gli altri negozi avevano chiuso ore prima, e avevano le serrande abbassate. Gruppetti di uomini e donne stazionavano intorno alle dozzine di motociclette che affollavano il parcheggio. La puzza stagnante di sigarette e l’odore dolciastro di erba e chiodi di garofano si mescolavano nell’aria calda d’estate. Denny non avrebbe mai chiamato la polizia, lo sapevamo entrambi, ma era meglio non correre rischi, visto che mamma era già stata arrestata due volte ed era in libertà vigilata. Oltretutto, se anche non avesse chiamato gli sbirri, l’avrebbe sbattuta fuori a calci. Le risate sguaiate degli uomini mi ricordarono perché non era una buona idea. Non erano risa allegre o gioiose, nemmeno sane di mente. Erano crudeli, reclamavano il dolore altrui. Mamma aveva una vera passione per i depravati. Non riuscivo a capirlo, ma non aveva importanza. Dovevo solo essere lì a rimettere a posto i suoi casini. Il bar era illuminato solo dalle lampadine fioche sopra i tavoli da biliardo, dalle luci rosse al neon sul bancone e dai due televisori appesi alle pareti. L’insegna sulla porta stabiliva due condizioni: non erano ammessi ragazzi sotto i ventuno anni né stemmi di bande. Anche nella penombra si vedeva che nessuna delle due regole veniva rispettata. Gli uomini indossavano perlopiù giacche con il simbolo della propria banda di motociclisti bene in vista, e la metà delle ragazze che si portavano dietro era minorenne.

Mi feci spazio fra due uomini al bancone, dove Denny stava servendo da bere. «Dov’è?» Denny, con la solita camicia di flanella rossa, se ne stava di spalle a versare vodka in un paio di bicchierini. Non avrebbe versato e parlato contemporaneamente, almeno non con me. Mi sforzai di restare stoicamente immobile, quando sentii una mano palparmi il sedere e un tizio che puzzava di sudore farsi più vicino. «Ti va di bere?» «Vaffanculo, stronzo.» Lui rise e mi palpò di nuovo. Cercai di concentrarmi sull’arcobaleno di colori delle bottiglie di liquore allineate dietro il bancone, fingendo di essere altrove. Di essere un’altra persona. «Togli quella mano o ti strappo le palle.» Denny si frappose tra me e le bottiglie, passando una birra al tizio che stava per perdere l’apparato riproduttivo. «È minorenne.» L’imbecille si allontanò mentre Denny mi faceva un cenno verso il retro. «Dove sta sempre.» «Grazie.» Camminando, attirai occhiate e risatine. Le risate erano soprattutto dei clienti abituali. Sapevano per quale motivo ero lì. Nei loro occhi c’erano moralismo, divertimento, pietà. Maledetti ipocriti. Camminai a testa alta e schiena dritta. Ero meglio di loro. I mormorii e le battutine non avevano importanza, potevano anche andare al diavolo. Tutti quanti. Quasi tutti i presenti nel retro del locale erano concentrati su una partita a poker che si stava svolgendo dall’altra parte, lasciando vuoto il resto della sala. La porta che dava sul vicolo era spalancata. Da lì si poteva vedere il complesso di case popolari di mia madre, perfino la porta di casa sua. Comodo. Mamma era seduta a un piccolo tavolo rotondo nell’angolo. Accanto a lei c’erano due bottiglie di whisky e un bicchierino. Si accarezzò la guancia e poi allontanò la mano. E dentro di me esplose la rabbia. L’aveva picchiata. Un’altra volta. Aveva la guancia a chiazze rosse. La pelle sotto l’occhio iniziava già a gonfiarsi. Era quello il motivo per cui non potevo trasferirmi da Isaiah e Noah. La ragione per cui non potevo andarmene. Dovevo restare a due isolati da mamma. «Elisabeth.» Mamma biascicò la “s” e mi salutò, chiaramente ubriaca. Prese la bottiglia e la chinò dove pensava fosse il bicchierino, ma non ne uscì nulla. Meglio, perché aveva abbondantemente mancato l’obiettivo. La raggiunsi, afferrai la bottiglia e la posai sul tavolo accanto. «È vuota.» «Oh.» Lei sbatté gli occhi blu, vuoti. «Fai la brava e prendimene un’altra.» «Ho diciassette anni.» «Allora prendi qualcosa anche tu.» «Andiamo, mamma.» Si passò una mano tremante fra i capelli biondi e si guardò intorno, come se si fosse appena svegliata da un sogno. «Mi ha picchiata.» «Lo so.» «Ho reagito.» Non avevo dubbi su chi avesse colpito per primo. «Dobbiamo andare.» «Non do la colpa a te.»

Quella frase mi colpì più di quanto sarebbe mai riuscito a fare un uomo. Sospirai profondamente e cercai un modo per placare la sensazione bruciante causata dalle sue parole, ma invano. Presi l’altra bottiglia, grata per il residuo sul fondo, lo versai nel bicchierino e lo tracannai in un sorso. Poi ne riempii un altro, spingendolo verso di lei. «Invece sì.» Mamma fissò il liquore, poi tracciò il bordo del bicchierino con le dita segnate dal tempo. Aveva le unghie mordicchiate fino alla carne, piene di cuticole, e la pelle intorno era secca e spaccata. Chissà se era mai stata bella. Gettò indietro la testa per bere. «Hai ragione, è così. Tuo padre non se ne sarebbe mai andato se non fosse stato per te.» «Lo so.» Il bruciore del whisky soffocò il dolore del ricordo. «Andiamo.» «Lui mi amava.» «Lo so.» «Quello che hai fatto… lo ha costretto ad andarsene.» «Lo so.» «Hai rovinato la mia vita.» «Lo so.» Scoppiò a piangere. Classico pianto da sbornia. Quello in cui veniva fuori tutto… le lacrime, il muco, la saliva, quella verità orribile che non si racconterebbe ad anima viva. «Ti odio.» Trasalii. Inghiottii, e mi ricordai di respirare. «Lo so.» Mamma mi prese la mano, e non mi ritrassi. Non risposi alla stretta. Le lasciai fare quello che doveva. Non era la prima volta che capitava. «Mi dispiace, tesoro.» Mamma si asciugò il naso con la pelle nuda dell’avambraccio. «Non volevo dire una cosa simile. Ti voglio bene, sai che è così. Non lasciarmi sola, ok?» «Ok.» Che altro potevo dire? Era mia madre. Mia madre. Si mise a disegnare dei cerchi con i polpastrelli sul dorso della mia mano, rifiutandosi di guardarmi negli occhi. «Resti con me, stanotte?» Ecco la linea di confine che Isaiah aveva tracciato. In realtà l’aveva imposta molto prima, costringendomi a giurare che non mi sarei avvicinata a lei dopo che il suo compagno mi aveva pestata a sangue. In parte avevo mantenuto la promessa, trasferendomi da mia zia. Ma qualcuno doveva occuparsi di mamma… assicurarsi che mangiasse, che non le mancasse il cibo, che le bollette venissero pagate. In fondo, era colpa mia se papà se n’era andato. «Torniamo a casa.» Mamma sorrise, senza notare che non le avevo risposto. A volte, di notte, sognavo il suo sorriso. Quando papà viveva con noi, lei era felice. Finché non le avevo rovinato quella felicità. Le ginocchia le tremarono quando si alzò, ma riuscì a camminare. Era una serata fortunata. «Dove stai andando?» le chiesi, vedendo che si dirigeva verso il bar. «A pagare il conto.» Incredibile, aveva dei soldi. «Ci penso io. Resta qui e ti accompagno a casa.» Invece di passarmi il denaro, mamma si appoggiò alla porta sul retro. Grandioso, dovevo saldare io il conto. Per fortuna il ragazzo al Taco Bell aveva pagato al mio posto, e avevo qualcosa da dare a Denny. Spinsi varie persone nel tentativo di raggiungere il bancone, e Denny fece una smorfia nel vedermi.

«Portala via, ragazzina.» «Lo sto facendo. Quanto ti deve?» «Già pagato.» Mi si gelò il sangue nelle vene. «Quando?» «Proprio adesso.» No. «Da chi?» Lui non alzò lo sguardo. «Tu che dici?» Maledizione. Per poco non caddi, inciampando nella gente e spingendola via. L’aveva colpita una volta, l’avrebbe fatto ancora. Corsi a tutta velocità fuori dalla porta fin nel vicolo, ma non si vedeva niente, né alla luce dei lampioni né negli angoli bui. Il verso dei grilli faceva da sottofondo. «Mamma?» Sentii il rumore di un vetro che si rompeva. Se ne ruppe un altro. Dal lato delle case popolari echeggiarono degli strilli agghiaccianti. Oddio, la stava uccidendo. Ne ero certa. Il cuore rimbombava contro la cassa toracica, respirare era difficile. Tremavo tutta… mani, gambe. L’immagine di quello che avrei visto una volta raggiunto il parcheggio mi divorava l’anima: mamma ridotta a una poltiglia insanguinata e quel bastardo del suo compagno in piedi a troneggiare su di lei. Gli occhi bruciavano per le lacrime e inciampai non appena svoltato l’angolo, graffiandomi le mani sull’asfalto. Non era importante, dovevo trovarla. Mia madre… Mia madre sollevò una mazza da baseball e sfondò il finestrino posteriore di una vecchia e squallida Chevrolet. «Che… cosa stai facendo?» E dove aveva trovato una mazza da baseball? «Lui.» Agitò la mazza e colpì di nuovo il vetro. «Mi ha tradita.» Sbattei gli occhi, cercando di capire se avevo voglia di abbracciarla o ucciderla. «E allora lascialo.» «Razza di stronza pazza!» Il compagno di mamma si lanciò verso di lei, arrivando dal vicoletto fra i due palazzi, e la colpì al viso a palmo ben aperto. Il rumore del ceffone mi arrivò fin sottopelle. La mazza da baseball le cadde di mano e rimbalzò tre volte sull’asfalto, dalla punta all’impugnatura. A ogni colpo sordo del legno, i miei sensi si aguzzavano. La mazza rimase a terra e rotolò ai miei piedi. Le stava urlando ogni genere di insulto, ma le parole nella mia testa si mescolarono in un ronzio. L’anno prima mi aveva picchiata. Aveva picchiato mamma. Non avrebbe più fatto del male a nessuna delle due. Lui alzò la mano. Mamma sollevò le braccia per ripararsi il viso, crollando in ginocchio ai suoi piedi. Afferrai la mazza. Feci due passi. Sollevai la mazza oltre la spalla e… «Polizia! Getta la mazza! Mettiti a terra!» Tre agenti in uniforme ci circondarono. Dannazione. Il cuore mi batteva fortissimo nel petto. Avrei dovuto pensarci, ma non l’avevo fatto e quell’errore mi sarebbe costato caro. Gli sbirri pattugliavano regolarmente le case popolari. Lo stronzo mi puntò contro il dito. «È stata lei. Quella pazza invasata se l’è presa con la mia macchina. Sua madre e io abbiamo cercato di fermarla, ma poi è andata completamente fuori di testa!» «Getta la mazza! Mani sulla testa!» Sbalordita da quella menzogna clamorosa, avevo dimenticato che l’avevo ancora in mano. L’impugnatura di legno era ruvida al tatto. La lasciai cadere e sentii gli stessi rumori sordi di prima, quando rimbalzò a terra. Mentre mettevo le mani dietro la testa, guardai mia madre. In attesa che

spiegasse com’erano andate le cose. In attesa che ci difendesse. Mamma rimase in ginocchio davanti allo stronzo. Scosse leggermente la testa e mimò le parole: “Per favore”. Per favore? Per favore cosa? Spalancai gli occhi, supplicandola di spiegare. Bisbigliò altre due parole: “Libertà vigilata”. Un poliziotto allontanò la mazza con un calcio e mi perquisì. «Cos’è successo?» «Sono stata io» gli dissi. «Ho distrutto io l’auto.»

Le gocce di sudore scivolarono dalla testa fin sulla fronte, obbligandomi ad asciugarla prima di rimettere il cappellino. Il sole del pomeriggio picchiava così forte che mi sembrava di sfrigolare su un barbecue all’inferno. Le partite ad agosto erano le peggiori. Mi sudavano le mani. La sinistra non era un problema, visto che era coperta dal guantone. Era la mano con cui lanciavo, che dovevo strofinare più volte sulla gamba dei pantaloni. Il cuore mi rimbombava nelle orecchie, e ignorai un giramento di testa. Dal chiosco arrivava puzza di panini e popcorn bruciati, e avvertii i crampi allo stomaco. Avevo fatto troppo tardi la scorsa notte. Gettando un’occhiata al tabellone, notai che la temperatura era passata da trentacinque a trentasei gradi. Il tasso di umidità doveva essere altissimo. In teoria, superati i quaranta gradi, l’arbitro avrebbe dovuto sospendere la partita. In teoria. Non che le cose sarebbero andate diversamente se la temperatura fosse scesa al di sotto dello zero. Avrei avuto comunque i crampi allo stomaco e le mani sudate. La tensione non mi dava mai tregua, torcendomi le viscere fino all’implosione. «Forza, Ry!» urlò Chris, la nostra interbase, fra la seconda e la terza. Bastò il suo urlo di battaglia perché partissero grida d’incoraggiamento anche dal resto della squadra, da chi era in campo e da chi sedeva in panchina. Anche se di seduto non c’era proprio nessuno. Erano tutti in piedi, con le dita avvinghiate alla rete. Alla fine del settimo inning eravamo in vantaggio di un punto, due eliminati, e avevo incasinato tutto lanciando un corridore in prima base. Maledetta palla curva! Avevo fatto uno strike e due lanci fuori con quel battitore. Non potevo commettere altri errori. Altri due strike, e avrei chiuso la partita. Altri due lanci fuori, e avrei concesso la prima base al battitore, così l’altra squadra avrebbe avuto un corridore in un’ottima posizione per fare punti. Si unì anche la folla. Battevano le mani, fischiavano e facevano il tifo. Mio padre più di tutti. Stringendo forte la palla, inspirai a fondo, portai il braccio destro dietro la schiena e mi chinai in avanti per vedere il gesto di Logan. Sentivo tutto il peso della tensione. Tutti volevano che la partita finisse. Ma nessuno quanto me. Non avrei perso. Logan si accovacciò dietro il battitore e fece una cosa impensabile. Si portò la maschera da ricevitore sopra la testa, mise la mano fra le gambe e mi mostrò il dito medio. Che stronzo! Logan sfoggiò un sorrisetto e, grazie al suo gesto, sentii le spalle rilassarsi. Era solo la prima partita del campionato autunnale. Un’amichevole, per giunta. Annuii e lui si abbassò la maschera sulla faccia, facendomi due volte il gesto della pace. Ok, un tiro veloce. Prima mi guardai alle spalle. Il corridore era in buona posizione per raggiungere la seconda base,

ma non abbastanza da rischiare di rubarla. Piegai indietro il braccio e lanciai con una scarica di energia e adrenalina. Il cuore mancò un battito al dolce suono della palla che si conficcava nel guantone di Logan, e di nuovo alle parole “Secondo strike” pronunciate dall’arbitro. Logan mi restituì la palla e non persi tempo a prepararmi per il lancio successivo. L’avrei chiusa lì. La mia squadra sarebbe tornata a casa vittoriosa. Logan mi fece un cenno unendo mignolo e anulare. Scossi la testa. Volevo chiudere la partita con una palla veloce, non una curva. Logan esitò, poi mi fece due volte il gesto della pace. Adesso sì che lo riconoscevo. Sapeva che preferivo insistere. Tenendo la mano fra le gambe, dopo una pausa mi indicò nella direzione opposta al battitore, per farmi capire che le mie palle veloci si stavano indirizzando verso l’esterno. Annuii. Dovevo concentrarmi sulla mira, oltre che sulla velocità. Lanciai la palla, che colpì il guantone di Logan proprio al centro, e l’arbitro urlò: «Ball!» Trattenni il respiro. Quello era uno strike. La rete vibrò rumorosamente per i colpi dei miei compagni, che gridarono all’ingiustizia. Urlando contro l’arbitro, il coach scattò in piedi al confine della terra di nessuno fra la recinzione e il campo. I compagni sul diamante fischiarono per la decisione sbagliata. La folla protestò rumorosamente. Sugli spalti, a testa bassa e in preghiera, mamma strinse la sua collana di perle. Dannazione! Diedi uno strattone alla visiera del berretto, cercando di calmare il battito furioso del cuore. Gli errori arbitrali erano una fregatura, ma potevano capitare. Avevo ancora un tiro a disposizione per chiudere la partita. Ancora uno… «Quello era uno strike!» Papà scese dagli spalti e si avviò verso la rete dietro l’arbitro. I giocatori e la folla ammutolirono. Mio padre pretendeva correttezza. Be’, almeno la sua versione. «Torni sugli spalti, signor Stone» rispose l’arbitro. Tutti in città conoscevano mio padre. «Tornerò al mio posto quando avremo un arbitraggio decente. È tutta la partita che non fa che prendere decisioni sbagliate.» Sebbene avesse parlato in modo che tutto il campo sentisse, non aveva mai alzato la voce. Papà era un tipo autorevole, una figura stimata da tutta la città. Anche oltre la rete troneggiava sull’arbitro basso e robusto, e aspettava che qualcuno correggesse quello che, a parer suo, era un errore. Eravamo la fotocopia l’uno dell’altro, mio padre e io. Capelli biondo miele e occhi castani. Gambe lunghe, spalle e bicipiti grossi. Nonna diceva che quelli come noi avevano il fisico per fare lavori faticosi. Papà sosteneva che fosse il fisico da giocatore di baseball. Sia il nostro coach che quello dell’altra squadra entrarono in campo. Giusto. L’arbitro aveva commesso errori a danno di entrambe le squadre, ma – ironia della sorte – nessuno aveva avuto il coraggio di dire niente finché mio padre non aveva dichiarato guerra. «Tuo padre è un grande.» Chris salì sul monte di lancio. «Già.» Un grande. Lanciai di nuovo un’occhiata a mamma e al posto vuoto che una volta occupava mio fratello maggiore, Mark. La sua assenza bruciava più di quanto avessi immaginato. Tesi il guantone verso Logan, che si era allontanato dai quattro uomini impegnati a discutere sulla correttezza dell’arbitraggio, e lui mi restituì la palla con un gesto automatico. Chris guardò verso la folla. «Hai notato chi è venuto a vedere la partita?» Non serviva controllare, Lacy veniva sempre a veder giocare Chris. «Gwen» replicò lui con un sogghigno, soddisfatto come un gatto. «Lacy ha sentito dire che è di nuovo cotta di te.»

Reagii senza accorgermene, e la cercai sugli spalti. Per due anni Gwen e il baseball erano stati tutta la mia vita. La brezza estiva soffiò fra i lunghi capelli biondi di Gwen, e come se si fosse accorta che la stavo fissando, mi guardò e mi sorrise. L’anno prima ero innamorato di quel sorriso. Un sorriso che rivolgeva solo a me. Erano passati parecchi mesi da allora. Mamma le era molto affezionata. Io non ero sicuro di provare ancora qualcosa. Un ragazzo si arrampicò sulle gradinate e le passò un braccio attorno alle spalle. Sì, gira il dito nella piaga, stronzo. So perfettamente che fra me e Gwen è finita. «La partita riprende!» La voce di un nuovo arbitro rimbombò dal box di battuta. Il precedente strinse la mano a mio padre dall’altra parte della rete. Come avevo già detto, papà credeva nell’onestà e riteneva che si dovesse fare giustizia senza distruggere la dignità degli uomini. Tutti tranne mio fratello, ovviamente. Sul campo proruppero tutti in un applauso, mentre mio padre tornava al suo posto. Qualcuno gli strinse la mano. Altri gli diedero una pacca sulla spalla. Fuori dal campo era lui il leader della comunità. Sul campo, ero io. Fuori dal box, il battitore dondolava la mazza e provava un paio di battute. Due strike, tre lanci fuori. E il tipo aveva capito che avrei insistito. Fischiai e feci un cenno a Logan. Accanto a me, Chris rise. Sapeva che avevo in mente qualcosa. Logan si avvicinò con la maschera da ricevitore alzata sulla testa. «Che c’è, Boss?» «Dimmi che ne pensi.» Proprio quello che sapeva fare un ottimo ricevitore. «Battitore fiacco, ma ha avuto una pausa, il che vuol dire che adesso darà tutto quello che gli è rimasto. La tua palla veloce si sta spostando verso l’esterno, e ormai l’ha capito.» Rigirai la palla fra le dita. «Si aspetterà quel tiro?» «Al suo posto, mi aspetterei un lancio veloce» rispose Chris. Scrollai la spalla, e i muscoli protestarono dolorosamente. «E allora facciamo un tiro lento. Crederà che sia una palla veloce e non farà in tempo a cambiare battuta.» Chris sorrise largamente e si coprì la bocca con il guantone. «Vuoi battere una palla spiovente?» «Batterò una palla spiovente» ripetei, coprendomi a mia volta le labbra con il guantone. Mi voltai verso il campo e fischiai per avere l’attenzione di tutti. Chris tornò all’interbase, si passò la mano ben aperta sul petto e toccò due volte il braccio sinistro con la mano destra. L’esterno centrale si avvicinò, e la nostra seconda base gli passò il messaggio. Quando tornai a posizionarmi davanti al battitore, Logan aveva già avvertito la prima e la terza. Poi abbassò la maschera sulla faccia, si mise in posizione e tese il guantone, pronto a ricevere. Ok, era arrivato il momento di chiudere i giochi. «CI VEDIAMO STASERA, AMICO.» Chris mi rifilò un calcetto al piede, superandomi. In una mano stringeva il borsone con la mazza, nell’altra le dita di Lacy. Chris e io avevamo conosciuto Lacy a undici anni, quando le nostre scuole erano state unificate. Avevo capito che mi piaceva il giorno in cui si era sbucciata il ginocchio giocando a calcio con i maschi. Chris se n’era innamorato quando lo aveva spinto a terra dopo che l’aveva eliminata a baseball. Stavano insieme dal secondo anno, quando lui aveva trovato il coraggio di chiederle di uscire. Lacy si sfilò un elastico dal polso e raccolse i capelli castani in un disordinato chignon. La adoravo proprio perché non era la classica femminuccia. Per andare in giro con me, Chris e Logan, una ragazza

doveva avere la pelle dura. Non che Lacy non fosse un gran bel pezzo di ragazza, ma non le importava un accidente di cosa pensassero gli altri di lei. «Andiamo alla festa, stasera. Ho voglia di parlare con qualcuno, di vedere gente e ballare. La vita non è fatta solo di gabbie di battuta e scommesse.» Logan e io alzammo di scatto la testa, le dita ancora impegnate a slacciare le scarpe. Chris impallidì. «Questo è sacrilegio, Lace. Rimangiati tutto.» Seduto accanto a me, Logan infilò i piedi nelle sue Nike e lanciò in borsa le scarpette. «Non hai idea di quanto sia eccitante vincere una bella sfida.» «Le vostre sfide non sono divertenti» replicò lei in tono di rimprovero. «Sono folli. Mi hai dato fuoco alla macchina.» Logan alzò la mano. «Ho aperto il finestrino in tempo. A mia difesa, la tappezzeria si è a malapena bruciacchiata.» Chris e io ridacchiammo al ricordo di Lacy che urlava, curvando a sessanta all’ora. Per farla breve: l’incarto di un hamburger, un accendino, un cronometro e una scommessa. L’incarto in fiamme era caduto di mano a Logan, finendo sotto il sedile di Lacy. Un’occhiataccia della serie ti-spezzo-in-mille-pezzettini da parte di Lacy ci zittì entrambi. «Vorrei tanto che ti trovassi una ragazza, così sarebbe lei a scarrozzare in giro le tue dannate chiappe.» «Non posso.» Logan inarcò le sopracciglia. «Sono la spalla di Ryan.» «La spalla…» ripeté lei con disprezzo, poi puntò il dito – con tanto di unghia laccata – verso me e Logan, indugiando di più su di me. «Uno di voi deve trovarsi una ragazza e mettere la testa a posto. C’è troppo testosterone, qui.» Lacy aveva disprezzato tutte le ragazze con cui ero uscito in estate. Era terrorizzata all’idea che influenzassi Chris a lasciarla, sebbene fosse un pensiero proprio ingenuo. Chris la venerava come fosse la sua religione personale. «Quella con cui mi sono impegnato l’ultima volta non ti piaceva» le risposi. «Perché dovrei riprovare?» «Perché puoi avere di meglio di una senza cuore.» Abbassai la voce. «Gwen non è cattiva.» Pur avendo rotto con lei, non c’era motivo di parlarne male. «Parli del diavolo» mormorò Logan. «Ciao, Ryan.» Mi voltai e vidi Gwen in tutta la sua gloria. Un vestitino di cotone blu le accarezzava le gambe abbronzate, e indossava degli stivali da cowboy che non le avevo mai visto. I lunghi capelli biondi terminavano in boccoli arricciati. Scivolò via circondata dalle tre migliori amiche, ma superandomi tenne gli occhi fissi su di me. «Gwen» le risposi. Una volta raggiunto il chiosco, si passò i capelli oltre la spalla e concentrò altrove la sua attenzione. Rimasi a fissarla, cercando di ricordare il motivo per cui ci eravamo lasciati. «Una recita!» Lacy bloccò di proposito la mia visuale del sedere di Gwen. «Non era altro che una recita. Ti ricordi? Mi hai detto: “Lacy, non c’è niente di vero in lei”; e io ti ho risposto: “Lo so”, e mi sono anche presa la soddisfazione di ricordarti che te l’avevo detto. Poi hai aggiunto: “Non permettermi di tornare con lei”; e ti ho risposto: “Posso strapparti le palle se ci provi”; e tu hai detto…» «No.» Ho detto di no perché Lacy l’avrebbe fatto sul serio e le mie palle stavano bene dov’erano, ma le avevo chiesto di ricordarmi quella conversazione in eventuali momenti di debolezza. Logan e io

avremmo dovuto invitare un paio di ragazze al cinema quel week-end. Diamine, se Miss Skater mi avesse lasciato il numero, avrei perfino pensato di chiamarla. Era maledettamente sexy, e vista la situazione con Gwen, una distrazione avrebbe fatto comodo. «Andiamo, Logan» fece Chris. «Ti do un passaggio a casa.» Vicino alla rete, mio padre passò un braccio attorno alle spalle di mia madre mentre parlavano con il coach e un uomo in polo e pantaloni kaki. Chissà se qualcun altro aveva notato che mamma si era scostata leggermente da papà. Probabilmente no. Mamma era in modalità reginetta del ballo, tutta sorrisi e risate. Con un cenno da sopra la spalla, papà mi fece capire che dovevo avvicinarmi: sul viso aveva dipinto un sorriso carico di orgoglio più unico che raro, e la cosa mi lasciò perplesso. Sì, avevamo vinto, ma vincevamo parecchio. Era quello che dovevamo fare in quanto detentori del titolo nazionale. Che senso aveva tutto quell’orgoglio in quel momento? Ero il clone di mio padre, a eccezione dell’età e della pelle. Anni di pioggia, sole, caldo e freddo avevano segnato il suo viso. Possedere un’azienda edile richiedeva molto tempo esposto alle intemperie. «Ryan, ti presento il signor Davis.» Tesi la mano al signor Davis mentre lo faceva anche lui. Era alto, magro e forse della stessa età di mio padre, solo che il signor Davis non aveva il viso rovinato dal clima. «Chiamami Rob. Congratulazioni, bella partita. Hai un gran tiro veloce.» «Grazie, signore.» Era una cosa che avevo già sentito. Mamma raccontava a tutti che Dio mi aveva fatto un dono, e sebbene non fossi certo di come prendere la cosa, perché far finta di non andarne fiero? Peccato che papà e io non fossimo riusciti a riscuotere interesse alle selezioni per il baseball professionistico. Ero abituato agli incontri e alle presentazioni. Papà era imprenditore e membro del Consiglio Comunale, quindi aveva parecchie conoscenze. Non che questo facesse di lui una persona avida di potere. Aveva rifiutato più volte la candidatura a sindaco, anche se erano anni che mamma lo pregava di pensarci su. Era semplicemente una presenza importante nella comunità. Rob mi indicò il campo con un cenno del capo. «Ti dispiacerebbe fare un paio di lanci per me?» Mamma, papà e il coach si scambiarono dei sorrisi d’intesa, e mi sentii come se qualcuno avesse raccontato una barzelletta senza dirmi la parte finale. O forse ero io la battuta conclusiva. «Certo.» Rob prese dalla borsa un rilevatore di velocità e un biglietto da visita. Tenne nella mano sinistra il rilevatore e mi porse il biglietto. «Oggi sono venuto qui per vedere un giocatore dell’altra squadra. Non ho trovato quello che cercavo, ma credo che ci sia qualcosa di ben più promettente in te.» Papà mi rifilò una pacca sulla spalla e lo guardai, confuso da quella dimostrazione di affetto in pubblico. Papà non era tipo da abbracci, in famiglia non eravamo così. Strinsi il biglietto fra le dita, e ci volle tutta la buona volontà per non farmi scappare un’imprecazione scioccata in presenza di mia madre. Il tizio che si stava dirigendo alle spalle del monte di lancio era Rob Davis, talent scout dei Cincinnati Reds! «Te l’avevo detto che le selezioni della scorsa primavera non sarebbero state l’ultima spiaggia.» Papà mi fece cenno di seguire Rob. «Stendilo.»

Beth

Mi affiancò la guardia carceraria più anziana, che era anche la più gentile. Non mi aveva stretto le manette al massimo come quell’altro imbecille; non mi aveva affrontata a muso duro, cercando di farmi morire di paura e non stava cercando di recitare una scena di un telefilm poliziesco. Si limitò a camminare al mio fianco, facendo finta che non esistessi. Dopo una notte passata a sentire una ragazza che smaltiva gli effetti di una dose in più di LSD, preferivo il silenzio. O forse era successo quel giorno. Non avevo idea di che ore fossero. Mi avevano dato la colazione. Avevano parlato di pranzo. Doveva essere mattina, forse mezzogiorno. La guardia aprì la porta, che dava sulla tipica stanza riservata agli interrogatori. A parte la cella di custodia divisa con una quindicenne strafatta, troppo perfino per i miei gusti, era lì che avevo passato la maggior parte del tempo dopo essere stata arrestata per danneggiamento di proprietà. La guardia si rilassò appoggiando la schiena alla parete. Io presi posto al tavolo. Avevo bisogno di una sigaretta. Disperatamente. Più disperatamente di quanto credessi. Avrei dato un braccio per un tiro. «Che vizio stai cercando di toglierti?» La guardia mi guardò le dita. Smisi di tamburellarle sul tavolo. «Nicotina.» «Roba tosta» rispose lui. «Non è mai stata la mia passione.» «Già. Spacca tutto.» L’agente di polizia che mi aveva arrestato la notte prima – quella mattina – entrò nella stanza. «Parla.» Già. Non avrei voluto farlo. Serrai le labbra. La notte prima, quella mattina – chi diavolo lo sapeva – ero riuscita a rimanere in silenzio quando mi avevano messo sotto torchio per sapere di mia madre, delle mie abitudini, del compagno di mamma. Mi ero rifiutata di aprire bocca, di pronunciare anche solo una parola, perché – se l’avessi fatto – avrei potuto dire la cosa sbagliata e spedire mamma dritta in prigione. Non sarei mai sopravvissuta a una cosa simile. Non avevo idea di cosa fosse successo a lei o al suo uomo dopo che mi avevano ammanettato e infilato sul sedile posteriore della volante. Se Dio aveva deciso di ascoltare le mie preghiere, mamma sarebbe stata al sicuro e il bastardo a dividere un orinatoio con gli altri vincitori del premio Criminale del Mese. Il poliziotto sembrava Johnny Depp a vent’anni, e profumava di pulito… sapone e un vago aroma di

caffè. Non era quello che aveva cercato di farmi parlare la notte prima, ma solo quello che mi aveva arrestato. Si sedette dall’altra parte del tavolo, di fronte a me, e la guardia uscì. «Sono l’agente Monroe.» Fissai torva il tavolo. L’agente Monroe si sporse, mi tolse le manette e le fece cadere vicino a sé. «Perché non mi racconti cos’è successo veramente la scorsa notte?» Solo un tiro. Per la miseria, sarebbe stato anche meglio di un bacio da un ragazzo strafigo. Ma tanto non avrei baciato uno strafigo né mi avrebbero dato una sigaretta perché ero sotto interrogatorio. «Il compagno di tua madre, Trent… sappiamo che è in un pessimo giro, ma è furbo. Non abbiamo mai avuto abbastanza prove per sbatterlo dentro. Forse puoi dare una mano a noi e a te stessa. Aiutaci a spedirlo in carcere, e starà lontano da te e tua madre.» Aveva ragione lui, stavamo parlando di Satana. Ma a parte il fatto che era un ex giocatore di rugby senza futuro e che aveva smesso di placcare gli uomini sul campo per gonfiare di botte le donne, non avevo nient’altro da raccontare se non chiacchiere sentite per strada. I poliziotti di pattuglia a sud del quartiere conoscevano bene le nostre favole della buonanotte sul Bastardo Conosciuto come Trent. La notizia allettante che pestava me e mia madre avrebbe potuto farci ottenere un insignificante pezzo di carta con su scritto ORDINANZA RESTRITTIVA DI EMERGENZA nell’intestazione, ma chi veniva accusato di violenza domestica difficilmente restava in prigione a lungo, e Trent dava fuoco alle ordinanze per divertimento. La polizia gli stava alle calcagna da prima che mamma iniziasse a frequentarlo, ma Trent era la versione in carne e ossa di una fuga di petrolio… sarebbe stato impossibile da fermare una volta rilasciato. Aiutare la polizia avrebbe solo riportato più in fretta quella perdita e la sua collera ripugnante sulla nostra porta di casa. «Vive nello stesso complesso di case popolari di tua madre, giusto? Non ti piacerebbe tornare a vivere con lei, senza doverti preoccupare di lui?» Non avendo idea di come facesse a sapere che non vivevo con mia madre, feci del mio meglio per non guardarlo: volevo evitare di confermare che aveva ragione. «Non sapevamo nemmeno che uscisse con tua madre. Lui, uh, frequenta altre donne.» Evitai di alzare gli occhi al cielo. Come se fosse una novità! «Elisabeth» mi richiamò lui in risposta al mio silenzio. «Beth.» Odiavo il mio nome di battesimo. «Mi chiamo Beth.» «Beth, la tua telefonata ti sta aspettando all’ingresso dalle cinque di stamattina.» Isaiah! Gli occhi scattarono sull’agente Monroe. Il muro che avevo eretto per proteggermi crollò, e subentrò la stanchezza, mentre quell’espressione di gelido distacco che avevo mantenuto per tutta la notte si squagliava come neve al sole, subito sostituita da paura e dolore. Volevo Isaiah. Non volevo restare in quel posto. Volevo tornare a casa. Sbattei le palpebre, realizzando che il bruciore era dovuto alle lacrime. Mi asciugai gli occhi e cercai di recuperare la mia forza… la mia determinazione, ma trovai solo una pesante sensazione di vuoto. «Quando posso tornare a casa?» Qualcuno bussò. L’agente Monroe socchiuse la porta e sussurrò qualcosa in tono concitato prima di annuire. Qualche istante dopo entrò mia zia, una versione più vecchia e più pulita di mia madre. «Beth?»

L’agente Monroe uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Shirley mi raggiunse in pochi passi. Mi alzai e lasciai che mi abbracciasse. Sapeva di casa: di sigarette stantie e ammorbidente alla lavanda. Nascosi il viso contro la sua spalla, desiderando solo di stendermi nel letto del seminterrato di casa sua per una settimana. Oltre a una sigaretta, ovviamente. «Dov’è Isaiah?» Per quanto fossi felice di vederla, il mio cuore si aspettava il mio migliore amico. «Qui fuori. Mi ha chiamata non appena lo hai contattato.» Shirley mi strinse di più, prima di sciogliere l’abbraccio. «Che casino.» «Lo so. Hai visto mamma?» Lei annuì, poi si sporse e mi sussurrò all’orecchio: «Tua madre mi ha raccontato quello che è successo veramente». Sentii i muscoli attorno alla bocca tendersi, e mi morsi il labbro perché smettesse di tremare. «Che cosa faccio, adesso?» Lei mi sfregò più volte le braccia.«Attieniti alla tua versione. Hanno portato qui anche Trent e tua mamma per fare qualche domanda. Ma dal momento che non hai aperto bocca, non hanno niente per cui arrestarli. Tua madre però è agitata. Se parlassi, la sbatterebbero dentro per aver infranto la libertà vigilata e per danneggiamento di proprietà. Ha paura di finire in prigione.» Anche io, ma mamma non era tipo da sopravvivere al carcere. «Che cosa mi succederà?» Shirley distese le braccia lungo i fianchi e si andò a sedere dall’altra parte del tavolo. Erano solo pochi passi, ma crearono una distanza grande quanto un canyon. Il mese prima avevo compiuto diciassette anni. Prima di questa notte, mi ero sentita adulta e grande. Non ero più così grande. In quel momento mi sentivo piccola e molto, molto sola. «Shirley?» «Io e tuo zio non abbiamo i soldi per un avvocato. Isaiah e Noah, e perfino quella ragazza con cui va in giro Noah, hanno offerto tutto quello che avevano, ma tuo zio e io ci siamo spaventati quando gli sbirri ci hanno detto che hai usato una mazza da baseball contro Trent. Poi mi è venuta un’idea.» Il mio cuore sprofondò come se sotto avessero aperto una botola. «Che cos’hai fatto?» «So che non vuoi aver niente a che fare con la famiglia di tuo padre, ma suo fratello Scott… è una brava persona. Ha lasciato la squadra di baseball ed è diventato un uomo d’affari. Lui ha un avvocato, uno in gamba.» «Scott?» Rimasi a bocca aperta. «Come… cosa…» Il respiro divenne affannoso mentre cercavo di dare un senso alla follia appena detta da mia zia. «Non esiste. Se n’è andato via.» «Sì» disse lentamente lei. «Ma il mese scorso si è trasferito di nuovo nella sua città natale e ha chiamato per avere notizie di te. Voleva che andassi a vivere con lui e sua moglie, ma l’abbiamo mandato al diavolo. Quando si è fatto insistente gli ha parlato tua madre, e gli ha detto che eri scappata di casa.» Increspai le labbra in una smorfia al solo pensiero di Scott nelle vicinanze. «Saggia decisione. Quindi perché coinvolgerlo adesso? Non abbiamo bisogno di lui. Possiamo risolvere questo casino anche senza il suo avvocato in gamba.» «Hanno detto che stavi per colpire Trent con la mazza» ripeté Shirley, tormentandosi le mani. «È una situazione seria, e ho pensato che ci servisse aiuto.» «No. Dimmi che non l’hai fatto.» Dovevo essere finita all’inferno. O esserci stramaledettamente

vicino. «Avremmo continuato a rispettare la tua scelta, ma poi è successo questo e… l’ho chiamato. Ascoltami, ha una vita fantastica adesso. Ha un sacco di soldi, e ti vuole con sé.» Mi venne da ridere. Solo che non era divertente, nemmeno lontanamente. Era la cosa più fottutamente triste che avessi mai sentito. Sprofondai nella sedia e nascosi la faccia fra le mani. «No, non è vero.» «Ha fatto cadere tutte le accuse.» Non c’era neanche un po’ di allegria nella sua voce. Mantenni il viso nascosto, senza riuscire a guardarla mentre vuotava il sacco un po’ alla volta e raccontava tutta la verità. «Che cos’hai fatto?» le chiesi di nuovo. Shirley si inginocchiò accanto a me e abbassò la voce: «Quando l’ho chiamato, tuo zio Scott è andato a casa di tua madre. Ha visto delle cose che non avrebbe dovuto vedere. Cose che potrebbero mettere nei guai tua mamma». Barcollai di lato come se mi avesse colpito un’onda, e mi sembrò di sentire il rumore impetuoso dell’oceano che mi risucchiava. Il mondo mi stava crollando addosso. Era entrato nella mia vecchia camera da letto. Mamma mi aveva vietato di entrarci dopo essermi trasferita da Shirley. Le avevo obbedito. C’erano cose che neppure io volevo sapere. «Non ha detto niente alla polizia» mormorò lei. Sconvolta da quello che aveva detto, la guardai attraverso le dita. «Davvero?» Le labbra di Shirley si piegarono in basso, e aggrottò la fronte. «Tua madre non ha avuto scelta. Scott è venuto alla stazione di polizia con l’avvocato e ha preteso che rinunciasse alla tua custodia legale in suo favore, o avrebbe raccontato tutto alla polizia.» Mia zia mi fissò con gli occhi tristi. «Lei lo ha fatto. Ora è lui il tuo tutore legale.»

Grazie alle docce del centro ricreativo, non ci fu bisogno di andare subito a casa. Una volta pulito e vestito normalmente, me ne tornai in paradiso. Tutti quanti avevano già lasciato lo stadio. Gli spalti erano vuoti, il chiosco chiuso. La voce di Kenny Chesney si sentiva in tutto il parcheggio, quindi Chris mi aveva ignorato quando gli avevo detto che l’avrei raggiunto dopo. A Chris riuscivano benissimo tre cose: giocare da interbase, amare la sua ragazza e sapere di che avessi bisogno anche prima di me. Almeno la maggior parte delle volte. Dalla piscina comunale si sentivano gli strilli di gioia dei bambini, insieme agli spruzzi d’acqua e al rumore del trampolino che rimbalzava. Mio fratello Mark e io avevamo passato la maggior parte delle nostre estati in quella piscina. Il resto del tempo giocavamo a baseball. Ero in piedi sul monte di lancio, solo che stavolta avevo addosso i jeans e la mia maglietta preferita dei Reds. Il cielo azzurro del tardo pomeriggio stava diventando arancione e giallo. Non c’erano più un milione di gradi, e soffiava un venticello gradevole verso nord. Quella era la parte che preferivo delle partite… il tempo che passavo da solo alla fine. Mi sentivo ancora su di giri per la corsa alla vittoria e la consapevolezza che un talent scout era interessato a me. Dilatai i polmoni inspirando aria fresca, e i muscoli lasciarono scivolare via la tensione che li aveva appesantiti durante la partita. Mi sentivo rilassato, in pace, vivo. Guardai la casa base, e nella mente rividi Logan che si metteva in posizione e il battitore che faceva ondeggiare la mazza. Serrai le dita come se stessi ancora stringendo la palla. Logan aveva chiesto una palla curva; d’accordo, però… «Sapevo che ti avrei trovato qui.» Con gli stivali marroni da cowboy e il vestito blu addosso, Gwen camminava ancheggiando nella buca della panchina. «Come facevi a saperlo?» le chiesi. «Hai sbagliato la palla curva.» Si sedette sulla panchina con un movimento fluido, e diede una piccola pacca al posto vuoto accanto a lei. Aveva iniziato una partita. Una che avrei perso di sicuro, ma col cavolo che me ne sarei rimasto fermo lì, invece di raggiungerla! Era davvero bella. Molto più che bella, era bellissima. Le sedetti accanto mentre si passava i boccoli biondi dietro la spalla. «Ricordo che mi hai spiegato le basi su questa panchina. La miglior conversazione sul baseball che abbiamo mai avuto.» Mi sporsi in avanti, intrecciando le dita. «Forse non avevi afferrato parte del discorso, perché non ti stavo spiegando il baseball.» Gwen mi rivolse il suo sorriso luminoso. «Lo so, ma la dimostrazione pratica è stata comunque piacevole.» I nostri sguardi si incrociarono per un momento, e guardai altrove quando sentii le guance avvampare. Gwen era l’unica ragazza con cui avessi fatto un po’ di esperienza. Una volta arrossiva

appena sfioravamo l’argomento sesso, ma ora non lo faceva più. Sentii la nausea alla bocca dello stomaco. A che base era arrivata con Mike? «Sembravi distratto durante la partita.» La stoffa del suo vestito frusciò quando accavallò le gambe e si sporse verso di me. Sentivo il calore sprigionarsi nei punti dove le nostre gambe si sfioravano. Chissà se lo aveva notato anche lei. «Hai ancora casini con tuo padre?» Gwen e io avevamo passato un numero infinito di pomeriggi e serate su quella panchina. Sapeva sempre che quando papà faceva troppe pressioni con gli arbitri o giocavo uno schifo, poi tornavo lì a cercare di capire. «No.» «Allora che c’è che non va?» Tutto. I litigi fra mamma e papà. L’assenza di Mark. Il mio rapporto con il baseball professionistico. La situazione di amicizia/non amicizia con Gwen. Per un attimo, presi in considerazione l’ipotesi di raccontarle di Mark. Lei, come il resto della città, era beatamente all’oscuro di ciò che era accaduto. La guardai negli occhi, cercando la ragazzina che avevo incontrato al primo anno. All’epoca non si sarebbe presa gioco di me. Sfortunatamente, da allora ero diventato il suo passatempo preferito. «Non sono dell’umore giusto per i tuoi giochetti, Gwen.» Lei sollevò una mano e prese ad attorcigliare i capelli attorno a un dito. Lo scintillio di un grosso anello con una pietra rossa mi colpì come un punteruolo. Mi scansai in modo che le nostre gambe non si toccassero più. «Mike ti ha dato il suo anello scolastico.» Lei abbassò la mano e la coprì con l’altra; come se nascondendo l’anello, avessi potuto dimenticare che era lì. «Già» mormorò piano. «Ieri sera.» «Congratulazioni.» Se avessi potuto lasciar trapelare più rabbia, l’avrei fatto. «Che avrei dovuto fare?» «Non lo so.» Più parlavo, più alzavo la voce. «Non venire qui da me, tanto per cominciare.» Lei ignorò il commento e anche la sua voce s’indurì: «Mike è un bravo ragazzo e c’è sempre per me. Non ha da fare tutto il tempo e non ha mille impegni come te». Nonostante ci fossimo presi e lasciati tante volte, non avevamo mai litigato né alzato la voce l’uno contro l’altra. Prima non mi era mai capitato di voler urlare contro Gwen, ora era l’unica cosa che avessi voglia di fare. «Ti ho detto che ti amavo. Che altro potevi volere?» «Essere al primo posto. C’è sempre stato prima il baseball per te. Cos’è, avevi bisogno di un disegnino? Ti ho lasciato all’inizio del campionato.» Scattai in piedi, senza più riuscire a starle seduto accanto. Un disegnino? Ovvio che sarebbe stato necessario un disegno dettagliato con tanto di indicazioni scritte. «Avresti potuto dirmi che era quello che provavi.» «E cosa sarebbe cambiato? Avresti rinunciato al baseball?» Serrai le dita attorno alla rete metallica e fissai il campo. Come poteva farmi una domanda del genere? Perché una ragazza avrebbe dovuto chiedere a un ragazzo di mollare qualcosa che amava? Gwen stava giocando una partita in quel momento, e decisi di fare il lancio che avrebbe chiuso l’inning. «No.» La sentii trattenere il respiro, e il senso di colpa per averla ferita fu come un pugno allo stomaco. «È solo un gioco» sputò fuori lei. Come potevo farle capire? Oltre la rete c’era un piccolo dosso, una scia di terra che portava a quattro basi, il tutto circondato da un campo verde di erba rasata. Era l’unico posto a cui sentivo di

appartenere. «Il baseball non è solo un gioco. È l’odore dei popcorn che si disperde nell’aria, gli insetti che ronzano attorno alle luci dello stadio, la terra ruvida sotto le scarpe. È l’attesa che provi mentre intonano l’inno nazionale, la scarica di adrenalina quando la mazza colpisce la palla, e il cuore che impenna quando l’arbitro grida: “Strike!”, dopo un tuo lancio. È una squadra di ragazzi pronti a sostenere ogni tua mossa, spalti pieni di gente che fa il tifo per te. È… vita.» L’applauso alla mia destra mi fece sussultare di brutto. Con tanto di capelli rosa e copricostume coordinato, la mia professoressa di letteratura inglese del terzo anno – presto professoressa dell’ultimo anno – interruppe quel suono fastidioso e portò le mani al mento, come in preghiera. «Che poesia, Ryan.» Scambiai uno sguardo confuso con Gwen, poi ci rivolgemmo entrambi alla signora Rowe. «Cosa ci fa qui?» le chiesi. Lei sollevò la borsa da mare e la fece dondolare. «La piscina ha chiuso per stasera. Ho visto te e la signorina Gardner, e ho pensato di ricordare a entrambi che il termine di consegna del vostro primo tema è lunedì.» Gwen pestò gli stivali a terra mentre accavallava di nuovo le gambe. Il mese scorso, la signora Rowe aveva deciso di rovinarci l’estate con dei compiti per le vacanze. «Non vedo l’ora di leggerli» continuò lei. «Presumo che tu abbia già completato il tuo…» Non l’avevo neppure cominciato. «Già.» Gwen si alzò in piedi e sistemò l’anello di Mike al dito. «Devo andare.» E così fece, senza aggiungere una parola. Infilai le mani in tasca e mi ciondolai sui piedi, in attesa che la signora Rowe seguisse l’esempio di Gwen. Avevo un rito da portare a termine. La signora Rowe si appoggiò con la spalla all’ingresso della panchina, ovviamente senza la minima intenzione di andarsene. «Non scherzavo in merito a quello che ti ho sentito dire, Ryan. L’anno scorso hai mostrato molto talento durante le mie lezioni. Se ci aggiungi quello che ho appena sentito, direi che hai le doti di uno scrittore.» Feci una risatina ironica. Certo, quelle lezioni erano più interessanti di matematica, ma… «Io sono un giocatore di baseball.» «Sì, e per quanto ne so, sei anche bravo. Questo però non vuol dire che non puoi essere entrambe le cose.» La signora Rowe era sempre in cerca di qualcuno da convertire alla letteratura. Aveva perfino aperto un club letterario a scuola, l’anno prima. Il mio nome non era su quella griglia. «C’è un amico che mi sta aspettando.» Lei si guardò oltre la spalla, verso il pick-up di Chris. «Per favore, ricorda al signor Jones che anche il suo componimento dovrà essere consegnato lunedì.» «Certo.» Rimasi di nuovo ad aspettare che se ne andasse, e ancora una volta non lo fece. Si limitò a restare lì in piedi. Sentendomi a disagio, mormorai un arrivederci e mi avviai verso il parcheggio. Cercai di scrollarmi di dosso quell’irritante formicolio che sentivo sottopelle, ma non ci riuscii. Quel momento sul monte di lancio era sacro. Una necessità. Un dovere. Mia madre lo definiva una

superstizione. Avrei potuto chiamarlo in qualsiasi modo, ma se volevo vincere la partita successiva, dovevo tornare su quel monte – da solo – e capire l’errore che avevo commesso con la palla curva. Altrimenti avrei avuto sfiga. Con la squadra. Con i lanci. Nella vita. Con la testa reclinata indietro e gli occhi chiusi, Chris se ne stava seduto nella sua vecchia Ford nera, lo sportello spalancato. Chris aveva lavorato come un mulo per quel pick-up. Aveva arato il campo di grano del bisnonno tutta l’estate in cambio di un colabrodo che aveva superato il confine l’ultima volta quando avevamo sette anni. «Ti avevo detto di andare a casa.» Lui continuò a tenere gli occhi chiusi. «E io ti avevo detto di lasciar perdere quel tiro sbagliato.» «L’ho fatto.» Sapevamo entrambi che non era vero. Chris uscì dal torpore, chiuse lo sportello e accese il motore. «Salta su. C’è una festa che ci aspetta, e che ti farà dimenticare tutto.» «Ce l’ho una macchina.» Gli indicai la jeep parcheggiata accanto. «Il mio obiettivo è assicurarmi che non sarai in grado di guidare fino a casa.» Aumentò i giri del motore per evitare che si spegnesse. «Andiamo.»

Beth

L’agente Monroe si staccò dal muro non appena mi vide uscire dal bagno delle donne. «Beth.» Non avevo alcuna voglia di parlargli, ma non ero nemmeno emozionata all’idea di rivedere lo zio sparito dalla circolazione. Mi fermai, incrociando le braccia al petto. «Credevo di essere libera.» «Infatti.» L’agente Monroe aveva chiaramente imparato a usare lo sguardo da cucciolo di Johnny Depp. «Quando sarai pronta a raccontarmi che cos’è successo veramente la notte scorsa, vorrei che mi chiamassi.» Mi offrì il biglietto da visita. Non sarebbe mai successo. Mi sarei ammazzata piuttosto che mandare mia madre in prigione. Lo superai e raggiunsi l’ingresso. Il sole accecante che entrava dalle finestre e dalle porte a vetri mi fece male agli occhi. Sbattei più volte le palpebre, e riuscii a distinguere Isaiah, Noah ed Echo. Isaiah balzò in piedi, ma Noah gli appoggiò una mano sulla spalla e gli sussurrò qualcosa, facendo un cenno a sinistra. Lui rimase immobile, gli occhi di ghiaccio che mi imploravano di raggiungerlo. Volevo farlo più di qualsiasi altra cosa. Due persone gli passarono davanti, e il dolore fu come una coltellata al petto. Mia mamma. Era avvinghiata al braccio di quello stronzo del suo compagno come una specie di scimmietta fuori di testa. Aveva lo sguardo disperato. Si mordeva l’interno delle guance per non scoppiare a piangere. Quel bastardo l’aveva inghiottita nella sua vita disgustosa. Giurai al cielo che l’avrei trascinata di nuovo fuori. Trent la spinse fuori dalla porta. Non è finita, stronzo. Neanche per idea. Stavo quasi per andare da Isaiah, quando lo sentii. «Ciao, Elisabeth.» Un brivido mi percorse la schiena. Quella voce mi ricordava mio padre. Mi voltai verso quell’uomo, fortemente intenzionato a distruggermi la vita. Assomigliava a mio padre anche nell’aspetto: alto, capelli castano scuro, occhi azzurri. La differenza stava nel fatto che Scott aveva il fisico di un atleta, mio padre quello di un drogato. «Lasciami in pace.» Lui lanciò un’occhiata critica a Isaiah. «Credo che tu sia stata lasciata in pace fin troppo.» «Non fingere che la cosa ti interessi. So che le tue promesse sono solo stronzate.» «Perché non usciamo da qui, ora che sei libera di andare? Possiamo parlare a casa.» Scott mi appoggiò una mano sul braccio, e rimase indifferente quando lo strattonai via. «Non vado da nessuna parte con te.» «Sì, invece» rispose in un irritante tono tranquillo. I muscoli della schiena si tesero come quelli di un gatto che si inarcava prima di soffiare. «Mi hai appena detto quello che devo fare?» Sentii delle dita circondarmi il polso e attirarmi dolcemente a sinistra. Isaiah si avvicinò e parlò a bassa voce: «Devo ricordarti che sei in una stazione di polizia?» Gettai un’occhiata all’agente Monroe e un altro poliziotto, che osservavano la riunione di quel

casino di famiglia. Mio zio guardò interessato me e Isaiah, ma si tenne a distanza. Non sentivo altro che rabbia. Furia. Mi esplodeva nei polmoni, scorreva violentemente assieme al sangue nelle vene, e Isaiah se ne stava lì in piedi a dirmi di controllarla? Dovevo lasciarla libera, perché mi stava consumando. «Che vuoi che faccia?» Isaiah fece una cosa che da sobrio non aveva mai fatto. Mi appoggiò una mano sulla guancia. Il palmo era caldo, forte, sicuro. Mi lasciai coccolare da quella carezza e bastò perché l’ira scivolasse via al volo. Una parte di me desiderava quella rabbia. Non mi importava di quel vuoto spaventoso rimasto indietro. «Ascoltami» sussurrò. «Vai con lui.» «Ma…» «Giuro davanti a Dio che mi prenderò cura io di te, ma non posso farlo qui. Vai con lui e aspettami. Hai capito?» Annuii quando finalmente capii quello che stava cercando di dirmi senza pronunciare le parole esatte. Sarebbe tornato a prendermi. Un barlume di speranza si fece largo in quel vuoto, e mi lasciai andare alla sicurezza dell’abbraccio protettivo di Isaiah, i corpi stretti l’uno all’altro.

Nel campo di rugby, delimitato da tre fattorie, si stava scatenando una festa senza di me, Logan e Chris. Gran bella cosa, le feste! C’erano ragazze a cui piaceva bere birra e ballare, e ragazzi che odiavano ballare ma lo facevano nel tentativo di stare con le ragazze che bevevano birra. Lacy aveva voglia di ballare, Chris di evitare la pista da ballo, a me bruciava ancora per la faccenda di Miss Skater, e Logan era sempre a disposizione per fare cretinate e pazzie. A dieci minuti dall’inizio della festa, Lacy stava ballando e noi tre avevamo già accettato una scommessa. In realtà l’avevo accettata io. Avevo perso la notte prima, e non era mia abitudine. Chris e Logan erano lì per assistere, più che altro. «Questa non la puoi vincere.» Chris camminava al mio fianco mentre ci dirigevamo verso le macchine parcheggiate ordinatamente in fila. La luna piena faceva sì che il campo risplendesse di riflessi argentati, e l’odore di fumo del falò riempiva l’aria. «Perché tu non hai immaginazione.» Grazie al cielo io ne avevo da vendere, e conoscevo un paio di ragazzi che si divertivano da morire a fare casino con gli amici. «Questa sì che sarà interessante» fece Logan, quando cambiai direzione e raggiunsi un gruppo di giocatori di rugby che si stavano godendo il loro party privato. Tim Richardson aveva un furgone grande quanto un mammut, di quelli in grado di sventrare da soli l’ozono, ed era un bene, considerando che i quattro ragazzi seduti sulle sedie da giardino nel cassone pesavano probabilmente centoventicinque chili a testa. Tim prese una lattina di birra dal frigo portatile e me la lanciò. «Che succede, Ry?» «Niente.» Appoggiai la lattina gelida sul paraurti. Avevo da fare, non potevo bere. «Non sei dell’umore giusto per la festa?» Il suo furgone era uno dei pochi in grado di arrivare in cima alla collina, fin sul campo. «C’è una ragazza incazzata con me» mormorò Tim. «Ogni volta che mi avvicino, non riesce a tenere la bocca chiusa.» Logan fece una smorfia ironica e Chris gli rifilò una botta sulla nuca. Incazzata era un eufemismo. Stando alle voci che giravano a scuola, l’ex di Tim lo aveva beccato a limonare con la sorella gemella. Tim rivolse un’occhiata di avvertimento a Logan, prima di tornare a concentrarsi su di me. «Come sta tuo fratello? La squadra ce l’ha a morte con lui. Aveva promesso di darci una mano con gli allenamenti estivi quando tornava a casa dal college.» Odiavo questo genere di domande, così mi spostai e infilai le mani in tasca. Papà aveva detto chiaramente che non dovevamo raccontare a nessuno di quello che era successo a Mark. «Ha da fare.» Prima che Tim potesse fare altre domande, cambiai argomento e passai al motivo per cui ero lì. «Vi dispiacerebbe darmi una mano con un… piccolo problema?» Tim si sporse in avanti, mentre i suoi compagni ridacchiarono. «Che hai scommesso, stavolta?» Dondolai la testa avanti e indietro, come se stessi per chiedere una cosa da nulla. «Niente di

particolare. Rick mi ha sfidato a spostare la sua macchina.» Tim scrollò le spalle, perché in effetti sembrava una cosa da nulla. «Senza le chiavi» precisò Chris. Tim abbassò la testa e si mise a ridere. «Voi tre siete matti da legare. Lo sapete, vero?» «Detto da quello che placca la gente per divertimento» risposi. «Allora, me la dai o no una mano?» La sedia di Tim si spostò assieme a lui mentre si alzava. Quando si mise dritto, la sedia cadde sul pavimento del furgone con un rumoraccio. «Andiamo.» LE DITA RATTRAPPITE STRINGEVANO con forza il metallo, mentre schiena e gambe bruciavano di dolore. Sette ragazzi, un’auto di una tonnellata e ancora due centimetri da fare. «Al tre» esclamai a denti stretti. «Uno…» «Tre» urlò Logan, e feci appena in tempo a togliere le dita dal paraurti della Chevrolet Aveo a due porte, che gli altri sei ragazzi la lasciarono cadere a terra. Il telaio dell’auto blu rimbalzò come una molla prima di stabilizzarsi. «Non male gli ammortizzatori» fece Logan. Avevo la maglietta fradicia di sudore. Mi piegai e appoggiai le mani sulle ginocchia, respirando affannosamente. La vittoria mi provocò una scarica di adrenalina per tutto il corpo, e scoppiai a ridere. Logan stava ammirando la nostra opera. «Spostata di due metri, e ben parcheggiata in linea tra due alberi.» Ben parcheggiata significava che, al momento, il paraurti anteriore e quello posteriore erano incollati ai tronchi. Sembrava che Tim avesse un attacco di cuore, per quanto ansimava. «Sei un fottutissimo pazzo, Ry» sbuffò affannosamente. «Come diavolo farà Ric a spostare questo catorcio?» «Chris, Logan e io resteremo nei paraggi. Appena gli sarà passato l’attacco di panico, solleveremo la parte posteriore e la sposteremo quel tanto da dargli un po’ di spazio per fare manovra.» Tim rise e scosse la testa. «Ci vediamo lunedì a scuola.» «Grazie, amico.» «Figurati. Andiamo, ragazzi, ho bisogno di una birra.» Mi afflosciai a terra, appoggiandomi all’albero vicino al paraurti. Chris si lasciò scivolare lungo lo sportello, finché non finì con il sedere nel terreno. Guardammo entrambi Logan, in attesa che ci raggiungesse, ma era impegnato a studiare le due querce che bloccavano l’auto della nostra terza base. Fuori dal nostro gruppetto, Logan passava per quello silenzioso e costantemente annoiato. In quel momento, le rotelle della testa del cosiddetto ragazzo silenzioso e annoiato si muovevano come un bambino iperattivo. Era ironica come cosa: a scuola erano tutti convinti che quello fissato con l’adrenalina fossi io, perché mi piacevano le sfide toste. Diamine, non mi interessava essere su di giri… mi piaceva semplicemente vincere. Logan, viceversa, dava il meglio di sé quando era sul filo del rasoio. Come non amarlo, uno così? Non ero l’unico ad aver notato l’interesse malsano di Logan per gli alberi. Chris gli rivolse un’occhiata sospettosa. «Che diavolo stai facendo, Junior?» Logan mi strizzò l’occhiolino. «Torno fra un secondo, Boss.» Prese ad arrampicarsi lungo la vecchia quercia. Alcuni ramoscelli secchi, che non potevano sostenere il suo peso, caddero attraverso i rami fino a terra. Chris divenne irrequieto. Non l’avrebbe mai ammesso, ma soffriva spaventosamente di vertigini, e

il fatto che Logan non avesse paura di niente lo terrorizzava anche di più. «Riporta subito il culo quaggiù.» «Ok» rispose Logan quasi in cima all’albero. Scossi la testa. «Non avresti dovuto dirlo.» Da sopra si sentirono dei rametti scricchiolare e rompersi, e le foglie scivolarono giù con un fruscio come se le avesse strappate via una raffica di vento. Solo che non era colpa del vento. Era Logan, e prima o poi si sarebbe rotto l’osso del collo. Un risucchio di polvere accompagnò la caduta a terra. Logan mi aveva schiacciato il piede con il corpo; di schiena a terra, con i capelli neri pieni di foglie spezzate, rideva fino alle lacrime. Evidentemente era destino che non morisse quella notte. Si voltò a guardare Chris. «Eccomi qua.» Dopo aver tirato il piede via dal suo sedere, gli rifilai un calcio ben assestato. «Sei tu il fottutissimo pazzo, non io.» «Pazzo?» Logan rotolò fino a sedersi. «Non sono stato io a seguire una squilibrata in un parcheggio per un numero di telefono. Quei ragazzi avrebbero potuto conciarti per le feste.» Maledizione. Speravo che l’avessero dimenticato. «Me la sarei cavata.» Mi avrebbero rotto le ossa, ma in cambio avrei lasciato a entrambi qualche livido. In due contro uno, non avrei avuto grosse possibilità. «Non è questo il punto» disse Logan. «Dal momento che l’hai menzionato.» Chris si tolse il cappello e lo appoggiò sul cuore. «Voglio approfittare di questo momento per ricordare a tutti quanto segue: ho vinto.» «Stasera ho vinto io, quindi siamo un’altra volta pari.» Chris si infilò di nuovo il cappello in testa. «Questa non conta.» Aveva ragione lui, non contava. Valevano solo le scommesse che ci assegnavamo a vicenda. «Goditi pure questo breve assaggio di vittoria. La prossima volta, ti straccerò.» Ci concedemmo un po’ di silenzio, e fu piacevole. I nostri silenzi non erano mai motivo di disagio. A differenza delle ragazze, i ragazzi non avevano il dovere di parlare di continuo. Di tanto in tanto sentivamo risate e urla provenire dalla festa. E di tanto in tanto, Chris e Lacy si mandavano un messaggio. A lui piaceva lasciarle i suoi spazi, ma non si fidava a lasciare la sua ragazza in mezzo a un branco di ubriachi. Logan giocherellava con un lungo ramoscello caduto a terra. «Papà e io siamo stati a Lexington stamattina, per dare un’occhiata all’Università del Kentucky.» Trattenni il fiato, sperando invano che il discorso non prendesse quella piega. Erano settimane che Logan programmava quella visita. Era un dannatissimo genio e l’anno seguente avrebbe avuto tutte le università a bussare alla sua porta, inclusa quella del Kentucky. «Com’è andata?» «Ho visto Mark.» Mi massaggiai la nuca e cercai di ignorare il dolore che mi schiacciava il cuore. «Come sta?» «Bene. Ha chiesto di te. Di tua madre.» Fece una pausa. «Di tuo padre.» «Sta bene. Tutto qui?» «Senza offesa, ma è stato strano. Non ho nessun problema con tuo fratello e le sue scelte, ma non mi va di giocare allo strizzacervelli con i problemi della tua famiglia, soprattutto considerando che c’era anche altra gente.»

«Altra gente?» ripetei. «Già» rispose Logan. «Il suo ragazzo, credo.» La tensione che in genere era riservata solo alle partite mi serrò lo stomaco e lo prese a cazzotti. Piegai le gambe e abbassai la testa. «Come fai a sapere che era il suo ragazzo?» Logan contrasse il viso in una smorfia. «Non lo so. Era vicino a un altro tipo.» «Poteva essere un amico» fece Chris. «Questo tizio ti è sembrato gay?» «Mark non sembrava gay, stronzone» scattò Logan. «Chi diavolo si sarebbe aspettato che il difensore della squadra di rugby preferisse l’altra sponda? Forse l’altro tipo era veramente etero, ma che cavolo posso saperne io?» Sentire i miei amici che parlavano del potenziale ragazzo di mio fratello gay era piacevole quanto lo era stato ripetere all’infinito a mia mamma che preferivo le ragazze e il corpo femminile. Niente avrebbe potuto spingermi a desiderare anni di terapia come la necessità di pronunciare la parola seno in presenza di mia madre. «Possiamo chiudere qui il discorso?» Presi in considerazione l’idea di tornare al furgone di Tim e accettare quella birra. Mi ero ubriacato seriamente solo due volte nella vita. La prima quando Mark ci aveva detto di essere gay. La seconda quando papà lo aveva cacciato di casa per quell’ammissione. Entrambi i casini erano capitati nell’arco di tre giorni. Avevo imparato una doppia lezione: non avrei mai parlato con papà se mi fossi scoperto gay, e ubriacarsi non serviva a cancellare un bel niente. Portava solo un gran mal di testa la mattina dopo. Logan spezzò il ramoscello che aveva in mano con un rumore secco. Stava cercando un po’ di coraggio, quindi stava per dire qualcosa che non avrei gradito. «Mark è stato molto sibillino, ma ha detto che avresti capito cosa intendeva. Ha detto che non può venire, e spera che tu capisca il perché.» Mi si irrigidì il collo. Mio fratello non aveva avuto neppure il coraggio di dirmelo di persona. Gli avevo mandato un messaggio la settimana prima. Avevo sfidato apertamente i miei genitori e gli avevo scritto. Gli avevo chiesto di venire alla cena in famiglia dell’indomani, e non mi aveva più risposto. Aveva preferito fare il codardo e sfruttare Logan. All’inizio dell’estate, papà gli aveva dato un ultimatum: continuando a preferire i ragazzi, non avrebbe più fatto parte della famiglia. Mark era andato via, perfettamente consapevole di cosa significava: lasciare mamma… lasciare me. Non aveva mai pensato di restare a casa e combattere per tenere unita la nostra famiglia. «Ha preso la sua decisione.» Logan abbassò la voce: «Gli manchi». «E se n’è andato» sbottai. Tirai un calcio alla gomma posteriore dell’auto. Ero furioso. Furioso con papà. Con Mark. Con me. Per tre giorni interi Mark non aveva fatto altro che ripetere sempre le stesse cose. Che era sempre la stessa persona. Mio fratello, il figlio di mia madre. Mi aveva detto di essersi sentito confuso per anni perché voleva essere come me. Voleva essere come papà. E quando gli avevo chiesto di restare, quando gli avevo chiesto di non dargliela vinta… se n’era andato. Aveva raccolto la sua roba e se n’era andato, lasciandosi alle spalle sia me che una famiglia distrutta. «Al diavolo i discorsi seri» fece Chris. «Oggi abbiamo vinto. Vinceremo il campionato autunnale e quello primaverile. Ci diplomeremo da vincitori e, quando lo faremo, Ryan diventerà un giocatore

professionista.» «Amen» disse Logan. Che il cielo li ascoltasse. Anche se a volte Dio decideva di ignorare certe preghiere. «Non aspettatevi chissà cosa. Il talent scout di oggi magari era un caso. La prossima settimana potrebbero innamorarsi di qualcun altro.» Ne sapevo qualcosa. Era già successo alle selezioni della scorsa primavera. «Stronzate» fece Chris. «Il destino sta bussando alla tua porta, Ry, quindi alza il culo e rispondi.»

Beth

Mi ero addormentata. O almeno immaginavo che fosse andata così, perché in alternativa il buon vecchio zio Scott mi aveva drogata. Scelsi di credere che era stato solo sonno. Scott era uno stronzo, ma il tipo di stronzo che cercava di tenere i ragazzi lontano dalla droga. Ne sapevo qualcosa. Una volta mi ero presentata all’asilo con dei nastri rossi e il gagliardetto della polizia. Ironia della sorte. Il chiaro di luna filtrava attraverso le tende bianche di pizzo, attaccate a un’asta di metallo dall’aria raffinata. Alzandomi feci cadere a terra la coperta lavorata all’uncinetto. Le lenzuola sotto di me erano ancora perfettamente intatte e indossavo gli stessi vestiti che avevo addosso venerdì sera. Qualcuno aveva sistemato con cura le mie scarpe sul parquet di legno, accanto al letto. Anche da lucida non l’avrei fatto. Mai stata ordinata. Mi tesi ad accendere una lampada. I cristalli che decoravano il paralume tintinnarono, urtandosi fra loro. La luce tenue attirò la mia attenzione sulle pareti, di un terribile viola acceso. Chiusi gli occhi e cercai di capire quanto tempo era passato. Dunque… venerdì sera ero uscita con Noah e Isaiah, e avevo dato il benservito allo strafigo del Taco Bell. Nella notte fra venerdì e sabato, mamma aveva cercato di diventare una criminale. Sabato mattina Scott mi aveva rovinato la vita. Avevo finto di dormire in auto per non dover parlare con lui, ma mi ero addormentata sul serio come una cretina. Mi aveva svegliata, credo, e mi aveva portato in casa praticamente in braccio. Cavolo. Tanto valeva mettersi un’insegna in fronte per annunciare a tutti che ero una sfigata bisognosa di aiuto. Aprii gli occhi e guardai l’orologio che ticchettava sul comodino. Mezzanotte e un quarto. Domenica. Era domenica, ormai. Mi brontolò lo stomaco. Avevo passato un’intera giornata senza mangiare. Non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima. Scesi dal letto e indossai le mie Converse false. Era arrivato il momento della verità fra me e zio Scott. Ammesso che fosse sveglio. Sarebbe stato meglio se fosse stato a letto… in quel caso sarei sgattaiolata via senza scontri. Forse era il caso di fregare un po’ di cibo prima di chiamare Isaiah. Con una stanza come quella, avrei scommesso che anche i cereali che comprava erano roba di marca. La casa puzzava ancora di vernice fresca e segatura. Fuori dalla camera da letto, invece di un corridoio, mi ritrovai davanti a un enorme vestibolo. Al secondo piano si accedeva tramite una grande scalinata, una di quelle che credevo esistessero solo nei film. Al soffitto era attaccato un lampadario autentico. Il baseball doveva rendere parecchio. «No…» Dal retro si sentì la voce di una donna. Stava ancora parlando, ma aveva abbassato la voce. Scott si era sposato, o teneva in casa la sciacquetta di turno come faceva quando ero piccola? Probabilmente era solo una stronza qualunque. Una volta lo avevo sentito dire a mio padre che non si sarebbe mai sposato.

Seguii i sussurri e mi fermai sulla soglia di uno smisurato soggiorno a pianta aperta. Tutto il retro della casa – o per meglio dire, della villa – era una enorme parete a vetri, e il salone si apriva in una cucina living. «Scott.» La voce della tizia era carica di frustrazione. «Non era questo che avevo accettato.» «Il mese scorso eri d’accordo con me» disse Scott. Una parte di me gongolava, nel sentire che aveva perso quell’irritante tono calmo del giorno prima. «Sì, quando mi hai detto che volevi riallacciare i rapporti con tua nipote. C’è una differenza fra questo e invadere la nostra vita!» «Ti andava bene quando ho chiamato il mese scorso da Louisville, dicendo che la volevo qui a casa con noi.» La donna scattò: «Questo dopo che era scappata di casa. Non credevo che saresti più riuscito a trovarla. Quando hai descritto il posto infernale in cui viveva, ho immaginato che fosse andata via da molto tempo. È una delinquente. Ti aspetti che mi senta al sicuro ad averla in casa mia?» Le sue parole furono una coltellata. Non ero a quel livello. Certo non ero tipo da fare le coccole ai cuccioli, ma non ero nemmeno così perfida. Gettai un’occhiata a quello che avevo addosso. Jeans, canotta, i capelli neri che mi nascondevano in parte il viso. Ma non era importante, perché lei aveva già deciso prima ancora di incontrarmi. Soffocai il dispiacere, entrai nella stanza e lasciai libera la rabbia. Al diavolo quella stronza. «Forse dovresti ascoltarla. Sono una fottuta minaccia.» Valeva quasi la pena essere lì, se non altro per godersi le loro facce sconvolte. Quasi. Strinsi le labbra per evitare di ridere in faccia a Scott. Indossava dei pantaloni di cotone e una camicia a maniche corte con i bottoni al colletto. Niente a che vedere con quello con cui andava in giro quando ero piccola: jeans da teppista da cui sbucavano le mutande. La donna non aveva niente a che fare con le ragazze con cui Scott usciva a diciotto anni. I capelli erano di un biondo naturale, niente tinta. Era magra ma non eccessivamente, e aveva l’aria sveglia. Abbastanza da essersi diplomata, probabilmente. Era seduta all’ampia isola al centro della cucina. Scott era appoggiato al piano da lavoro di fronte a lei. Le lanciò un’occhiata, poi si rivolse a me: «È tardi, Elisabeth. Perché non torni a letto, ne parleremo domani mattina». Avevo i crampi allo stomaco, e la testa frastornata da un vago senso di stordimento. «C’è qualcosa da mangiare?» Lui si raddrizzò. «Sì. Di che hai voglia? Posso prepararti delle uova.» Una volta Scott mi faceva le uova strapazzate tutte le mattine. Cibo che rientrava nei buoni alimentari forniti dallo Stato. Quel ricordo fece male, e al tempo stesso mi procurò una sensazione piacevole. «Odio le uova.» «Oh.» Oh. Quell’uomo era il genio dei dialoghi. «Hai dei cereali?» «Certo.» Scott aprì la dispensa e io balzai su uno sgabello all’isola, il più lontano possibile dalla sua ragazza. Lei guardava un punto proprio davanti a me. Ah, fantastico. Avevo a portata di mano un tagliere pieno di coltelli. Potevo solo immaginare cosa stesse pensando in quel momento, lei e l’unico neurone del suo cervello. Scott mi posò davanti varie scatole di cereali Cheerios, All-Bran e Coco Pops.

«Questo è un fottutissimo scherzo.» Che diavolo erano gli Special K? «Bel modo di esprimersi» commentò la donna. «Grazie» risposi. «Non era un complimento.» «Ti sembra che me ne possa fottere qualcosa?» Scott mi porse tazza e cucchiaio, poi prese il latte dal frigo. «È il caso di darsi una calmata.» Presi i Cheerios e continuai a versare il latte finché un paio di cerchietti tostati non rotolarono sul tavolo. Scott si sedette accanto a me, ed entrambi rimasero a guardarmi in silenzio. Be’, in silenzio per modo di dire. Masticando facevo più rumore di una bomba nucleare. «Scott mi aveva detto che eri bionda» disse la donna. Inghiottii, sebbene fosse difficile farlo con la gola che si era appena stretta. La ragazzina di una volta, quella con i capelli biondi, era morta anni prima e odiavo pensare a lei. Era dolce, era felice. Era… qualcuno che non volevo ricordare. «Come mai hai i capelli neri?» La tipa decorativa dall’altra parte del tavolo era diventata ufficialmente fastidiosa. «Tu chi saresti esattamente?» le chiesi. «Lei è mia moglie, Allison.» I Cheerios mi andarono di traverso e per poco non mi strozzai, tossendo dietro la mano. «Sei sposato?» «Da due anni» rispose Scott. Ugh. La stava guardando con la stessa faccia da pesce lesso di Noah quando guardava Echo. Mi riempii la bocca con un’altra cucchiaiata di cereali. «Appena finisco – crunch crunch crunch – me ne torno a casa.» «È questa casa tua, ora.» Scott parlava di nuovo in tono calmo. «Col cavolo.» Allison continuava a guardare prima me e poi i coltelli. Certo, signora, un paio d’ore di carcere erano bastate a farmi passare dallo status di criminale a quello di sociopatica. «Forse dovresti darle retta» fece lei. «Già» dissi fra un boccone e l’altro. «Forse dovresti darmi retta. Tua moglie è preoccupata che mi trasformi in una specie di Charlie Manson e le tagli la gola nel sonno.» Le sorrisi per fare scena. Scott mi squadrò dalla testa ai piedi, iniziando dai capelli neri, proseguendo con lo smalto nero, il piercing al naso, e per finire, i vestiti. Poi si voltò verso sua moglie. «Puoi darci due minuti?» Allison uscì senza aggiungere una parola. Presi un’altra cucchiaiata di cereali, per poter parlare a bocca piena. «Le hai dovuto comprare anche il guinzaglio, o era compreso nel pacchetto?» «Non le mancherai di rispetto, Elisabeth.» «Faccio quel diavolo che voglio, zio Scott.» Gli feci il verso, imitando il suo tono falsamente altero. «E quando avrò finito questo schifo di cereali, chiamerò Isaiah e me ne tornerò a casa.» Lui: silenzio. Io: crunch crunch crunch. «Che cosa ti è successo?» mi chiese più dolcemente. Ingoiai il boccone, posai il cucchiaio e spinsi via la tazza con metà dei Cheerios ancora dentro. «Cosa pensi che sia successo?»

Scott, campione in carica nell’arte del silenzio. «Quand’è che è andato via?» Non era necessario saper leggere la mente per capire che parlava di quello scroccone di suo fratello. Lo smalto nero si era tolto agli angoli delle unghie. Ne raschiai via un altro po’. Erano passati otto anni, ma facevo ancora fatica a parlarne. «Facevo la terza elementare.» Scott si agitò sulla sedia. «Tua madre?» «È crollata nel momento in cui è andato via.» Il che doveva dirla lunga, perché anche prima che papà se ne andasse, non era esattamente un modello di affidabilità. «Che è successo fra loro?» Non erano affari suoi. «Non sei tornato a prendermi come avevi promesso.» E aveva smesso di chiamarmi quando avevo compiuto otto anni. Il silenzio fu rotto dal motore del frigo. Raschiai via altro smalto, mentre lui prendeva atto del fatto di essersi comportato da stronzo. «Elisabeth…» «Beth» lo corressi. «È Beth. Dov’è il telefono? Me ne torno a casa.» La polizia mi aveva confiscato il cellulare e l’aveva dato a Scott. In macchina aveva detto di averlo buttato nella spazzatura perché “non c’era bisogno di tenermi in contatto con la vecchia vita”. «Hai appena compiuto diciassette anni.» «Davvero? Wow, devo averlo dimenticato, visto che nessuno mi ha organizzato la festa.» Lui mi ignorò e continuò: «Questa settimana i miei avvocati certificheranno la tua tutela legale a mio favore. Fino a che non avrai diciotto anni, vivrai in questa casa e obbedirai alle mie regole». Bene. Se non voleva dirmi dov’era il telefono, l’avrei trovato da sola. Saltai giù dalla sedia. «Non ho più sei anni e non sei al centro del mio universo. Anzi, a dirla tutta, ti considero un buco nero.» «Ho capito che sei arrabbiata perché me ne sono andato…» Arrabbiata? «No, non sono arrabbiata. Tu per me non esisti più. Non provo niente per te, quindi dimmi dov’è quello schifo di telefono così posso andarmene a casa.» «Elisabeth…» Non voleva farselo entrare in testa, ma la cosa non mi importava. «Va’ all’inferno.» In cucina non c’erano telefoni. «Devi capire…» Mi misi a girare nel super salone con i super accessori in pelle, cercando il super telefono. «Prendi qualsiasi cosa tu abbia da dire e ficcatela in quel posto.» «Voglio solo parlare…» Sollevai la mano in aria e piegai le dita, imitando il becco di una papera. «Bla, bla, bla, Elisabeth. Me ne vado solo per un paio di mesi. Bla, bla, bla, Elisabeth. Riuscirò a fare i soldi per andare via da Groveton insieme a te. Bla, bla, bla, Elisabeth. Non crescerai mai come me. Bla, bla, bla, Elisabeth. Mi assicurerò che tu abbia sempre qualche fottuta cosa da mangiare!» «Avevo diciotto anni.» «E io sei!» «Non ero io tuo padre!» Spalancai le braccia. «No, hai ragione. Credevo che fossi migliore di lui! Complimenti, sei ufficialmente diventato la copia di quell’essere inutile di tuo fratello. Ora, dove diavolo è il

maledettissimo telefono?» Scott sbatté il palmo sul tavolo e ruggì: «Riporta il culo sulla sedia, Elisabeth, e chiudi quella fogna!» Dentro di me tremai, ma avevo abbastanza esperienza con quei bastardi dei compagni di mia madre per evitare di mostrarlo apertamente. «Wow. Si può strappare un ragazzo dal parcheggio delle roulotte e fargli fare bella figura nella divisa del campionato di baseball, ma non si può cancellare quel parcheggio dall’animo del ragazzo.» Lui emise un respiro profondo e chiuse gli occhi. «Mi dispiace. Ho esagerato.» «Se lo dici tu. Dov’è il telefono?» Una volta Noah mi aveva detto che avevo un dono simile a quello dei farabutti più incalliti… la capacità di spingere la gente oltre il limite della sanità mentale. Dal modo in cui Scott aveva appena sospirato e si stava massaggiando la fronte, capii che lo avevo portato ben oltre quel limite. Bene. Scott provò di nuovo con quell’odioso tono piatto, ma non riuscì a mascherare una punta di irritazione. «Vuoi il ragazzo del parcheggio delle roulotte, e allora d’accordo, lo avrai. Tu resterai a casa mia e seguirai le mie regole, altrimenti spedirò tua madre in prigione.» «Sono stata io a spaccare i finestrini dell’auto. Non lei. Non hai niente contro di lei.» Scott strinse gli occhi. «Vogliamo parlare di quello che c’è nel suo appartamento?» Sbandai a sinistra e sentii il sangue ghiacciarsi nelle vene, dandomi la sensazione di un leggero formicolio. Shirley mi aveva già avvisata, ma sentirlo da lui fu comunque uno shock. Scott sapeva quello che nemmeno io conoscevo… il segreto di mia madre. «Insisti, Elisabeth, e andrò alla polizia a fare esattamente questo discorso.» Barcollai per cercare di restare in piedi. Urtai un tavolino da caffè alle mie spalle, persi la battaglia e crollai a sedere. Proprio accanto a me c’era un telefono ma, per quanto lo volessi, non potevo toccarlo. Scott mi aveva fregata. Il bastardo aveva barattato la mia vita con la libertà di mia madre.

Mi appoggiai alla ribalta chiusa del furgone di papà, e rimasi ad ascoltare, mentre mio padre raccontava a un gruppo di uomini che bazzicava fuori dal barbiere ogni singolo dettaglio del nostro incontro della sera prima con il talent scout. Alcuni di loro avevano già sentito il resoconto quella mattina in chiesa. La maggior parte erano agricoltori da generazioni per cui valeva la pena sentire più volte quel tipo di notizie, anche se significava stare lì a soffrire l’afa di agosto, che portava con sé l’odore acre del bitume che si squagliava. Con la coda dell’occhio vidi un uomo fermarsi sul marciapiede, e osservare interessato sia la cerchia di ascoltatori che il narratore. Se fosse stato uno del posto si sarebbe unito al gruppo, quanto ai turisti, evitavo di prestar loro attenzione. Meglio lasciarli stare. Bastava guardarli perché attaccassero bottone. Groveton era una piccola città. Per attirare i turisti, papà aveva convinto gli altri membri del Consiglio a chiamare Storica la serie di vecchie palazzine di pietra del 1800, aggiungendoci le parole Zona Commerciale. Quattro bed&breakfast e nuovi tour della vecchia distilleria di bourbon più tardi, anche la gente di città affrontava i ventiquattro chilometri di tortuose strade di campagna che ci separavano dall’autostrada. Nei week-end parcheggiare era un inferno, ma questa cosa aveva dato lavoro a tante brave persone in un momento economicamente difficile. «Qual è il gossip del posto?» chiese l’uomo. Mi stava parlando anche se non avevo incrociato il suo sguardo. Audace, per essere un turista. Incrociai le braccia al petto. «Il baseball.» «Sul serio?» Qualcosa nel suo tono catturò la mia attenzione. Mi voltai e spalancai gli occhi praticamente al rallentatore. Assurdo. «Lei è Scott Risk!» Tutti in quella città sapevano chi era Scott Risk. Il suo viso era uno dei pochi a osservare gli studenti dal Wall of Fame della Bullitt County High. Nel ruolo di interbase, aveva guidato la squadra del liceo ai campionati nazionali per ben due volte. Subito dopo il diploma era entrato nelle squadre professionistiche. Ma la vera conquista, l’impresa che lo aveva reso il re di quella piccola città, era stata il periodo di undici anni con i New York Yankees. Era tutto quello che ogni ragazzo a Groveton sognava di diventare, a cominciare da me. Scott Risk indossava un paio di pantaloni kaki, una polo azzurra e sorrideva benevolo. «E tu sei?» «Ryan Stone» fu mio padre a rispondere al mio posto, apparendo dal nulla. «È mio figlio.» Il gruppetto di uomini fuori dal barbiere ci guardava con curiosità. Scott tese la mano a papà. «Scott Risk.» Papà gliela strinse, nascondendo a fatica un sorrisetto compiaciuto. «Andrew Stone.» «Il consigliere comunale?» «Sì» rispose con orgoglio. «Avevo sentito dire che sarebbe tornato in città.» Davvero? Di solito quel genere di notizie le condivideva con me.

«Questa città ha sempre amato i pettegolezzi.» Scott aveva un’aria amichevole, eppure il tono leggero sembrava un po’ forzato. Mio padre ridacchiò. «Certe cose non cambiano mai. Sapevo che voleva acquistare una proprietà in vendita nelle vicinanze.» «Infatti» disse Scott. «Ho comprato la vecchia fattoria Walter la scorsa primavera, ma ho chiesto all’agenzia immobiliare di non diffondere notizie sulla vendita finché non ci fossimo trasferiti nella casa che abbiamo fatto costruire al limite della tenuta.» Inarcai le sopracciglia e altrettanto fece papà. Era la fattoria proprio accanto alla nostra. Papà si avvicinò e si spostò, in modo da creare un cerchio solo con me e Scott. «La proprietà a poco più di un chilometro lungo la strada è la mia. Ryan e io siamo da sempre suoi grandi fan.» No, lui non lo era. Papà rispettava Scott perché era di Groveton, ma detestava tutti gli Yankees. «Tranne quando ha giocato contro i Reds. La squadra di casa ha la precedenza.» «Non mi sarei aspettato niente di diverso.» Scott notò il mio cappello da baseball. «Tu giochi?» «Sissignore.» Cosa potevo dire esattamente all’uomo che veneravo da tutta la vita? Potevo chiedergli l’autografo? Supplicarlo di dirmi come faceva a mantenere la calma durante le partite, quando la situazione era in bilico? O era meglio continuare a fissarlo come un idiota perché non riuscivo a trovare niente di coerente da dirgli? «Ryan è un lanciatore» precisò mio padre. «Un talent scout del campionato professionistico è venuto a vederlo giocare ieri sera. Pensa che abbia il potenziale per essere scelto da una squadra della Minor League dopo il diploma.» Il sorrisetto accomodante di Scott divenne un’espressione seria quando si rivolse a me. «Notevole. I tuoi lanci non devono essere al di sotto delle ottanta miglia orarie.» «Novanta» fece papà. «Ryan sa lanciare tre palle dritte consecutive a novanta miglia orarie.» Un lampo di interesse illuminò lo sguardo di Scott, e sorridemmo entrambi. Conoscevo quella scintilla e la scarica di adrenalina che l’accompagnava. Condividevamo una passione: il baseball. «Novanta? E solo adesso gli scout si accorgono di te?» Mi sistemai il cappello. «Papà mi ha portato al ritiro dei Reds per le selezioni, la scorsa primavera, ma…» Mio padre mi interruppe: «Gli hanno detto di rinforzare i muscoli». «Li hai ascoltati, a quanto pare» disse Scott. «Voglio giocare a baseball.» Pesavo nove chili in più dall’ultima primavera. Correvo tutti i giorni e di sera facevo sollevamento pesi. A volte si univa anche papà. Quel sogno era anche suo. «Tutto può succedere.» Scott guardò oltre la mia spalla, ma con lo sguardo lontano di chi stava ricordando qualcosa. «Dipende da quanto lo vuoi.» Lo volevo da morire. Papà controllò l’orologio, poi tese la mano a Scott. Voleva passare a prendere alcuni attrezzi nuovi prima di cena. «È stato un piacere conoscerla ufficialmente.» Scott ricambiò la stretta. «Anche per me. Le dispiace se prendo in prestito suo figlio? Mia nipote vive con me e da domani andrà alla Bullitt County High. Immagino che il cambiamento le sembrerà più semplice, conoscendo qualcuno che possa farle da guida. Naturalmente se per te non è un problema, Ryan.» «Sarebbe un onore, signore.»

Papà mi sorrise con fare saccente. «Sai dove trovarmi.» La folla davanti al barbiere si divise come le acque del Mar Rosso agli ordini di Mosè, mentre mio padre si avviava verso il ferramenta. Scott diede le spalle alla folla, si avvicinò a me e si passò una mano sul viso. «Elisabeth…» Si fermò, appoggiò le mani sui fianchi e ricominciò: «Beth ha un carattere un po’ brusco, ma è una brava ragazza. Le farebbe comodo trovare qualche amico». Annuii come se avessi capito, ma in realtà non era così. Che intendeva con carattere un po’ brusco? Continuai ad annuire, perché non aveva importanza. Era la nipote di Scott Risk, e mi sarei assicurato che fosse felice. Beth. Provai una strana sensazione di inquietudine all’altezza dello stomaco. Perché mi suonava familiare? «Le presenterò un po’ di gente, farò in modo che si inserisca nell’ambiente. Il mio migliore amico, Chris, è in squadra con me.» Perché avrei fatto in modo di introdurre Chris e Logan in tutte le mie conversazioni con Scott Risk. «Ha una ragazza eccezionale che sono sicuro sua nipote adorerà.» «Grazie. Non sai quanto significhi questo per me.» Scott si rilassò come se avesse lasciato cadere un sacco da cinquanta chili di foraggio. La campanella sulla porta del negozio di abbigliamento suonò, e lui mi appoggiò una mano sulla spalla, facendo un cenno verso la boutique. «Ryan, vorrei presentarti mia nipote, Elisabeth.» La ragazza uscì dal negozio e incrociò le braccia al petto. Capelli neri. Piercing al naso. Esile e con un accenno di curve. Camicia bianca abbottonata solo in quattro punti fra il seno e l’ombelico, jeans blu e occhi al cielo nell’istante in cui mi vide. Lo stomaco mi sprofondò come se avessi inghiottito del piombo. Molto probabilmente quello era il giorno peggiore della mia vita.

Beth

«È un piacere conoscerti» disse il Tipo Strafottente Del Taco Bell, come se non ci fossimo mai visti prima. Forse non lo ricordava. In genere i fanatici di sport non erano svegli. I muscoli ci facevano un banchetto, con il cervello. «Cos’è, un fottuto scherzo?» Ero finita all’inferno, senza ombra di dubbio. Di sicuro in quella brutta copia della città di Un tranquillo week-end di paura faceva un caldo infernale. La calura in quel posto sperduto si accompagnava a una foschia asfissiante, che mi avvolgeva e mi soffocava i polmoni. Scott si schiarì la gola. Un modo discreto per ricordarmi che fottuto non era una parola tollerabile in pubblico. «Voglio presentarti Ryan Stone.» Tanto tempo prima, Scott diceva cose come “come butta” e “rottura di palle”. I sinonimi di fottuto erano i soli aggettivi e avverbi del suo vocabolario. Ora sembrava tanto il classico ricco presuntuoso, ben vestito e pieno di sé. Oh, ma lo era davvero. «Ryan si è offerto di farti da guida a scuola, domani.» «Ovviamente» mormorai. «Perché la mia vita non fa già abbastanza schifo da quarantott’ore a questa parte.» Dio doveva aver deciso che non poteva smettere di incasinarmi la vita. Non aveva smesso quando Scott mi aveva ricattato per farmi restare a vivere lì. Né quando sua moglie mi aveva comprato quei terribili vestiti da borghese. Né quando Scott aveva annunciato di avermi iscritta al liceo frequentato dai campagnoli del posto. No, nemmeno allora aveva finito di incasinarmi la vita. La dannata ciliegina sulla torta era lo stronzo strafottente in piedi di fronte a me. Gesù, se c’era da ridere! Fregata in tutti i modi. «Rivoglio i miei vestiti.» «Come?» chiese Scott. Bene, ero riuscita a provocarlo anche senza dire parolacce. «Lui non è vestito come un deficiente, quindi perché dovrei farlo io?» Feci cenno ai jeans firmati e alla camicia inamidata da studentessa di una scuola cattolica, una vergogna per il mio corpo. Per obbedire alla richiesta di Scott di comportarmi bene con Allison, ero uscita dal camerino a controllare quell’immagine atroce nello specchio a figura intera. Al ritorno, i miei vestiti erano spariti. Quella sera avrei cercato un paio di forbici e della candeggina. Scott mi censurò scuotendo leggermente la testa. Avevo ancora da scontare quasi un anno con quella specie di bestione davanti a me, mentre non potevo neppure vedere la donna che stavo cercando di proteggere… mia madre. Una parte di me rabbrividì per il panico. Come stava? Il suo compagno l’aveva picchiata di nuovo? Era preoccupata per me? «Ti piacerà stare qui» fece Taco Bell… o meglio, Ryan. «Come no.» Si capì dalla voce che quel posto mi sarebbe piaciuto quanto una pallottola in testa. Scott si schiarì la gola di nuovo, e mi chiesi se si rendesse conto che la gente lo avrebbe creduto malato. «Il padre di Ryan è il proprietario di un’azienda edile della città ed è membro del Consiglio Comunale.» Messaggio subliminale per me: evitare casini proprio in quel momento.

«Certo.» Appunto. La storia della mia dannata vita. Il ragazzino ricco che aveva tutto. Paparino imprenditore e a capo della città. Ryan, il ragazzo che, per quel motivo, credeva di poter fare qualsiasi cosa. Ryan mi fece un sorriso amichevole, quasi ipnotico. Come se l’avesse fatto solo per me. Era un sorrisetto magnifico. Perfetto, rilassato, con un accenno di fossette. Una promessa di amicizia, felicità e risate, e mi venne voglia di sorridere in risposta. Le labbra fecero per piegarsi, ma mi fermai immediatamente. Perché continuavo a farmi del male da sola? I ragazzi come lui non volevano quelle come me. Per loro ero un giocattolo, un passatempo. E quelli così giocavano sempre secondo le stesse regole: sorridevano, mi facevano credere di essere interessati a me e, una volta usata, mi gettavano via. Con quanti altri sfigati dovevo finire a pomiciare come una cretina, per poi pentirmene la mattina dopo? Nell’ultimo anno ce n’erano stati fin troppi. Ma mentre ascoltavo Ryan che divagava tranquillamente, parlando di baseball con Scott, giurai che non ce ne sarebbero stati altri. Non mi sarei più lasciata usare. Fine dei giochi. E non avrei infranto la promessa quella volta, non aveva importanza quanto mi sarei sentita sola. «Già» disse Ryan a Scott come se nemmeno fossi stata lì, come se non fossi stata abbastanza importante da essere coinvolta nella conversazione. «Secondo me, quest’anno i Reds hanno una possibilità.» Quanto odiavo Ryan. Se ne stava lì in piedi tutto perfetto, con la sua vita perfetta, il corpo perfetto, il sorriso perfetto, a fingere di non avermi mai vista prima. Mi guardò con la coda dell’occhio e capii perché stava cercando di compiacere Scott. Ryan voleva fare una buona impressione. Be’, peccato per lui che all’infelicità piacesse girare in compagnia. Non era giusto che solo la mia vita facesse schifo. «Ci ha provato con me.» Grazie alle mie parole, il silenzio sostituì quella stupida conversazione sul baseball. Scott si massaggiò gli occhi. «Lo hai appena conosciuto.» «Non adesso. Venerdì sera. Ci ha provato con me, e per tutto il tempo non mi ha staccato gli occhi dal culo.» Gioia. Gioia completa. Ok, non completa, ma la prima da quel venerdì sera. Ryan si strappò il cappello di testa, si passò una mano in quel casino di capelli biondi, e infilò di nuovo il cappello. Mi piaceva di più senza. «È vero?» chiese Scott. «S-sì» balbettò Ryan. «No. Voglio dire, sì. Le ho chiesto il numero di telefono, ma non me l’ha dato. Però sono stato rispettoso, lo giuro.» «Mi hai guardato il culo. Un sacco.» Mi voltai e mi chinai appena in avanti, per dare una dimostrazione. «Ti ricordi, c’era uno strappo proprio qui.» Passai il dito lungo il retro della coscia. «Dopo mi hai offerto i taco. E da bere. Quindi devo desumere che tu abbia apprezzato il panorama.» Sentii dei commenti maschili a mezza voce e gettai un’occhiata alla folla di uomini dall’altra parte del marciapiede. Feci il primo sorriso genuino da che ero lì. Scott sarebbe stato contentissimo dello spettacolo. Forse insistendo abbastanza, sarei tornata a casa a Louisville per ora di cena. «Elisabeth.» Scott abbassò la voce, ed era tornato il tono del parcheggio delle roulotte. «Girati.» Le guance di Ryan erano di una dozzina di diverse sfumature di rosso. Non aveva nemmeno provato

a guardarmi il sedere, fissava mio zio. «Ok… sì, le ho chiesto di uscire.» Scott reagì a scoppio ritardato. «Le hai chiesto di uscire?» Ehi! Perché quel tono sorpreso? Non ero un cesso! «Sì» rispose Ryan. «Volevi un appuntamento con lei?» Oh-oh. Scott sembrava contento. No, non era quello il piano, non volevo farlo contento. «Sì.» Ryan allargò le braccia. «Ho pensato… ho pensato…» «Che fossi una facile?» scattai, e Scott fece una smorfia. «Che fosse divertente» disse Ryan. Come no, sono sicura che fosse proprio quello a cui pensava. «O piuttosto hai pensato che sarebbe stato divertente venire a letto con me. O farsi una semplice sveltina.» «Basta» fece bruscamente Scott. Gli occhi blu carichi di rabbia si strinsero quando mi guardò, mentre infilavo le mani nelle tasche rigide dei jeans nuovi. Abbassò la testa e si pizzicò il ponte del naso, prima di ostentare di nuovo quel sorrisetto falsamente tranquillo. «Mi scuso a nome di mia nipote. Ha avuto un week-end piuttosto difficile.» Non volevo che Scott si scusasse a nome mio proprio con nessuno. Soprattutto non con quello stronzetto strafottente. Spalancai la bocca, ma la sua breve occhiataccia vecchio stile me la fece richiudere. Scott tornò a essere Mister Superficialità. «Capisco benissimo se non vuoi più aiutare Elisabeth a scuola.» Ryan fece finta di niente, con un’espressione fin troppo innocente. «Non c’è problema, signor Risk. Mi farebbe piacere aiutare Elisabeth.» Si voltò e mi sorrise. Quel sorriso non era autentico né rassicurante, ma dannatamente sfrontato. A noi due, invasato. Non te la caverai nemmeno dando il meglio di te.

Una volta le pareti della cucina erano bordeaux. Da bambini, Mark e io facevamo a gara a correre dalla fermata del pullman fino a casa, ed entrando in cucina venivamo accolti dal profumo dei biscotti appena sfornati. Mamma ci chiedeva com’era andata la giornata, e noi inzuppavamo i biscotti caldi nel latte. Quando papà tornava a casa dal lavoro, sollevava mamma fra le braccia e la baciava. La risata di mamma nell’abbraccio di papà era la quotidianità, tanto quanto i costanti battibecchi fra me e Mark. Con un braccio attorno ai fianchi di mamma, papà si voltava verso di noi e diceva: «Come stanno i miei ragazzi?» Come se io e Mark non esistessimo separatamente. Grazie ai lavori che papà aveva finito la settimana prima, le pareti della cucina ora erano grigie. E grazie all’annuncio di mio fratello e alla reazione di mio padre al suddetto annuncio durante l’estate, il rumore più forte in cucina adesso era quello dei coltelli e delle forchette contro la porcellana. «Gwen è venuta alla tua partita» disse mamma. Era solo la terza volta che lo ripeteva nelle ultime ventiquattro ore. Sì, con Mike. «Uh-uh.» Mi ficcai in bocca un grosso pezzo di brasato. «Sua madre ha detto che parla ancora di te.» Mi bloccai con il boccone in bocca e guardai mamma. Soddisfatta di aver ottenuto una reazione, mi sorrise. «Lascialo in pace» fece papà. «Non gli serve una ragazza che lo distragga.» Mamma strinse le labbra, e per cinque minuti buoni non si sentì che il rumore di forchette e coltelli. Il silenzio bruciava… come ghiaccio. Mi schiarii la voce, incapace di sopportare oltre quella tensione. «Papà ti ha raccontato che abbiamo incontrato Scott Risk e la…» sua psicopatica «…nipote?» «No.» Mia madre infilzò con la forchetta il pomodorino nella sua insalata. E nello stesso istante, lanciò un’occhiataccia a papà. «Ha una nipote?» Lui resse lo sguardo con irritata indifferenza, senza abbassare gli occhi quando prese un sorso di birra direttamente dalla bottiglia. «Ti ho dato un bicchiere» gli ricordò mamma. Papà appoggiò la bottiglia, che gocciolava per la condensa, vicino al bicchiere e direttamente sul legno del tavolo, senza sottobicchiere. Mamma si agitò sulla sedia, come un corvo che gonfiava le ali. Le mancava solo di gracchiare per la rabbia. Erano mesi che con papà cenavamo in salotto davanti alla TV. Mamma aveva rinunciato alle cene in famiglia dopo che Mark era andato via. I miei genitori avevano iniziato terapia di coppia da qualche settimana, anche se dovevano ancora dirmelo ufficialmente. La necessità di fingersi perfetti non avrebbe permesso a nessuno dei due di ammettere una falla del genere: il loro matrimonio aveva bisogno di aiuto da una risorsa esterna. Così

l’avevo scoperto nello stesso modo in cui venivo a sapere ogni cosa in quella casa: sentendoli urlare in salotto mentre ero a letto, di notte. La settimana prima il consulente matrimoniale aveva consigliato a mamma e papà di provare a fare qualcosa come una famiglia. Avevano litigato per due giorni sull’oggetto della scelta, infine avevano optato per la cena della domenica. Ecco perché avevo invitato Mark. Non cenavamo tutti insieme da quando era andato via… se fosse venuto, forse tutti insieme avremmo trovato un modo per riallacciare i rapporti. Chissà se mamma e papà percepivano il vuoto sulla sedia accanto alla mia. Mark aveva il potere magico di impedire ai nostri genitori di litigare. Se erano irritati, Mark raccontava qualcosa, una barzelletta, e rompeva il ghiaccio. L’inverno polare che avvolgeva casa non esisteva, quando lui era qui. «Sì, ha una nipote» risposi, sperando di sbloccare la conversazione e riempire il vuoto che sentivo dentro. «Si chiama Elisabeth. Beth.» E mi stava rendendo la vita un inferno… non che arrivare alla fine di quella cena fosse granché diverso. Spezzai un panino e lo spalmai di burro. Beth mi aveva messo in imbarazzo di fronte a Scott Risk, e per colpa sua avevo perso una scommessa. Lasciai cadere il panino…la scommessa! Mi si era appena accesa una lampadina nel cervello. Chris e io non avevamo messo limiti di tempo, quindi potevo ancora vincerla. Mamma distese il tovagliolo che aveva in grembo, interrompendo i miei pensieri. «Sii gentile con lei, Ryan, ma mantieni le distanze. I Risk non avevano una bella reputazione anni fa.» Papà fece strisciare la sedia sulle mattonelle nuove, con una smorfia gutturale di disgusto. «Cosa c’è?» chiese mamma. Lui raddrizzò le spalle e si concentrò sulla carne, invece di rispondere. «Se hai qualcosa da dire» lo punzecchiò mamma «dilla.» Papà posò la forchetta nel piatto. «Scott Risk ha dei contatti molto utili. Io dico di diventare suo amico, Ryan. Portala in giro, falle vedere il posto. Se gli farai un favore, sono certo che lui ne farà uno a te.» «Certo» fece mamma. «Dagli un consiglio completamente opposto al mio.» Il tono di papà si fece più alto, coprendo la voce di mamma, e le loro urla combinate mi fecero scoppiare il mal di testa. Non avevo più fame, così allontanai la sedia dal tavolo. Mi dava il voltastomaco stare a sentire la continua distruzione della mia famiglia. Non esisteva un suono peggiore di quello sulla faccia del pianeta. Finché non squillò il telefono. I miei genitori ammutolirono e tutti e tre guardammo verso il telefono: sul display c’era il nome di Mark. Un mix confuso di speranza e dolore mi serrò la gola e lo stomaco. «Lascia stare» mormorò papà. Mamma si alzò in piedi al secondo squillo, e il cuore mi rimbalzò fin nelle orecchie. Dai, mamma, rispondi. Ti prego. «Potremmo parlargli» disse, fissando il telefono. «Dirgli che può tornare a casa, se ha intenzione di tenerlo segreto.» «Sì» provai, sperando che uno dei due cambiasse idea. Forse in quel caso Mark avrebbe scelto di restare e lottare, invece di andarsene e lasciarmi indietro. «Dovremmo rispondere.»

Il telefono squillò per la quarta volta. «Non in casa mia.» Papà non aveva mai smesso di guardar male il piatto. Fu la segreteria telefonica a rispondere. La voce allegra di mamma annunciava che eravamo momentaneamente fuori, e chiedeva di lasciare un messaggio. Poi fu la volta del bip. Niente. Nessun messaggio. Nessuna interferenza. Nulla. Mio fratello non aveva avuto le palle di lasciarmi un messaggio. Non ero stupido. Se avesse voluto parlarmi, avrebbe potuto chiamarmi sul cellulare. Quello era un test. L’avevo invitato a cena e lui aveva chiamato per capire se ero l’unico che lo voleva di nuovo a casa. Un test che avevamo fallito tutti quanti. Mamma strinse fra le dita la collana di perle, e quel briciolo di speranza che avevo si trasformò in un attacco di rabbia. Mark se n’era andato. Mi aveva lasciato solo ad affrontare quel casino. Mi alzai di scatto e lei si voltò a guardarmi. «Dove stai andando?» «A fare i compiti.» Il pannello di sughero appeso sopra la scrivania vibrò quando sbattei la porta. Andai avanti e indietro nella stanza, tenendomi la testa tra le mani. Avevo un maledetto compito da svolgere… e la concentrazione e la calma di una barca in balia delle onde. Avevo bisogno di sfogare la rabbia, di sollevare i pesi fino a sentire i muscoli bruciare, di lanciare fino a slogarmi la spalla. Non certo di scrivere un dannato tema di inglese di quattro pagine su quello che desideravo. Mi scaraventai sulla sedia girevole davanti alla scrivania. Premendo un bottone, il monitor del computer si accese. Il cursore lampeggiava con impudenza sulla pagina bianca. Quattro pagine. Interlinea singola. Margini di due centimetri. La professoressa si aspettava decisamente troppo. Soprattutto considerando che, tecnicamente, quello era il compito per le vacanze estive. Cominciai a premere le dita sulla tastiera. Gioco a baseball da quando avevo tre anni. Smisi di digitare. Il baseball… era l’argomento di cui avrei dovuto parlare, quello che conoscevo. Ma avevo bisogno di sfogare le emozioni in tumulto dentro di me. Mamma e papà si sarebbero trasformati in un paio di tori furiosi se avessi raccontato in giro delle reali condizioni della nostra famiglia. Le apparenze erano tutto per loro. Ero pronto a scommettere che non avevano raccontato neppure alla psicoterapeuta il motivo per cui si erano rivolti a lei. Una nuova emozione placò parte della rabbia. Non dovevo farlo. Se qualcuno avesse capito, sarei finito in guai seri, ma al momento avevo solo bisogno di scaricare il rancore. Cancellai la prima riga e lasciai che a parlare fossero le emozioni che invocavano la libertà. George si svegliò con un vago ricordo di quello che era una volta, ma bastò un’occhiata a sinistra per rendersi conto di che nuova, terribile realtà era diventata la sua. Più precisamente, di cosa era diventato.

Beth

«Potrebbero ricordarsi di me.» Il lunedì faceva schifo e ne ebbi la riprova il mio primo giorno di scuola nella Terra dei Mezzadri, Stati Uniti. Mi appoggiai alle finestre nell’ufficio del consulente studentesco, e mi guardai in giro. L’arredamento era anni Settanta: pareti rivestite da pannelli di compensato, scrivania e sedie prese in saldo al centro commerciale. La stanza puzzava di muffa. E quella era la più elegante fra le scuole di quel posto dimenticato da Dio e dagli uomini. «È precisamente questo il punto, Elisabeth.» Scott stava sfogliando un ampio opuscolo sui programmi. «La tua vecchia scuola elementare è uno dei tre istituti che sono confluiti in questo. Conoscerai qualcuno e potrai riallacciare qualche vecchia amicizia. Che ne pensi di economia domestica? Abbiamo preparato insieme i biscotti un paio di volte, ricordi?» «Beth. Mi chiamo Beth.» Ma aveva dei problemi a capire le cose? «E l’ultima volta che ho cucinato qualcosa, erano cioccolatini e ho messo…» «Ok, niente economia domestica. Comunque preferisco il nome Elisabeth. Come si chiamava la tua migliore amica? Mi ricordo che ti accompagnavo in auto a casa sua.» E giocavamo con le bambole per ore. Sua madre ci lasciava usare il servizio da tè per giocare. Avevano una casa vera con letti veri, e adoravo rimanere a cena da loro. Il cibo era caldo. Inghiottire divenne difficile. «Lacy.» «Giusto. Lacy Harper.» Il consulente studentesco si affacciò per un attimo alla porta dell’ufficio. «Ancora qualche minuto, signor Risk. Sono al telefono con la Eastwick High.» Scott fece un sorriso vuoto. «Faccia con comodo. Per caso in questa scuola c’è una certa Lacy Harper?» Qualcuno poteva spararmi? In quel preciso istante, grazie. «Sì.» Non c’era limite al peggio. Scott mi guardò. «Non è meraviglioso?» La mia risposta fu fin troppo falsa. «Fantastico.» Lui scelse di ignorare il sarcasmo o credere all’entusiasmo. «Signor Dwyer, potrebbe fare in modo che Beth frequenti qualche lezione con Lacy?» Per poco il signor Dwyer non si gettò a terra in venerazione. «Faremo senza dubbio un tentativo.» Arretrò e chiuse la porta dell’ufficio. «Ti hanno colpito con una mazza in testa?» Ancora non riuscivo a credere che Scott volesse iscrivermi a quella scuola. «Solo a cinque anni… e nei giorni feriali e festivi» mormorò lui, continuando a sfogliare l’opuscolo. Quella risposta mi fece stringere il cuore. Avevo fatto del mio meglio per dimenticare quella parte

della mia vita. Nonno, suo padre, passava il tempo a gonfiare di botte sia lui che papà. Scott gli aveva impedito di fare lo stesso anche a me. «Che ne dici di spagnolo?» Feci un sorriso sincero. «Il mio amico Rico mi ha insegnato qualcosa. Se un ragazzo è permaloso, posso dirgli…» «Niente spagnolo.» Al diavolo. Sarebbe stato divertente. «Parlo sul serio, Scott. Vuoi davvero che venga a scuola qui? Ci hai pensato bene? Il tuo animaletto con l’anello al dito…» «Allison. Il suo nome è Allison. Ripeti con me: Al-li-son. Vedi, non è così difficile.» «Vabbè. A lei piace che la gente ti veneri. Quanto credi che durerà, quando si ricorderanno di te come il poveraccio del parcheggio delle roulotte nella periferia di Groveton?» Lui smise di sfogliare l’orario. Per quanto avesse ancora gli occhi sui fogli, sapevo che non stava più leggendo. «Non sono più quel ragazzino. Alla gente interessa solo chi sono diventato.» «E quanto pensi che ci metteranno a ricordarsi di me e mia madre?» Volevo essere acida, minacciarlo, invece venne fuori un tono dolce che mi irritò da morire. «Ricorderanno la stessa persona che ricordo io… una bellissima bambina innamorata della vita.» Ancora a parlare di quella creatura patetica. Innervosita, distolsi lo sguardo. «Quella bambina è morta.» «No, niente affatto.» Lui s’interruppe. «Per quanto riguarda tua madre, si è trasferita qui al secondo anno di liceo e si è ritirata a quindici anni. La gente l’avrà dimenticata.» Provai un senso di nausea così forte che mi coprii lo stomaco con la mano. Scott non c’era quando la polizia era venuta nella roulotte, non era lì ad asciugare le mie lacrime. Quella era una piccola città e si conoscevano tutti. Anche se avevano giurato di mantenere il segreto su quella notte, ero certa che qualcuno avesse parlato. «Che ci succederà quando qualcuno si ricorderà di mio padre?» chiesi. «Nessuno ti adorerà più, a quel punto. Stai per commettere un grave errore, Scott. Rimandami a casa.» «Signor Risk.» Il consulente studentesco della Terra dei Mezzadri si affacciò di nuovo alla porta dell’ufficio. La fronte larga era aggrottata, e stringeva un fax così forte che le dita erano diventate bianche. Avevo avvertito Scott che alla Eastwick avevo collezionato un numero incredibile di ore di punizione. «Posso parlarle un momento?» Inclinai il capo, sapendo già cosa dire per mettere in imbarazzo il signor Dwyer. «Che corso mi aveva proposto prima? Mmm…» Tamburellai l’indice sul mento. «Letteratura inglese?» «Siediti, Elisabeth.» Scott stava diventando fin troppo bravo a dare ordini senza alzare la voce. «Ok, signor Dwyer, parliamo dell’orario scolastico di Beth.»

Signore e signori, chinate la testa e intonate un Alleluia tutti insieme! La nipote di Scott Risk sarebbe venuta a scuola alla Bullitt County High, e la scommessa era ancora aperta. Mi intrufolai nell’atrio affollato con una marcia in più. Sconfitta era davvero una brutta parola. Una parola che non avrei più dovuto accettare. Il buonumore si vaporizzò alla vista di Chris, che stava spingendo Lacy di schiena contro un armadietto. Inclinò il capo e lo abbassò proprio mentre lei sollevava appena il suo. Non era la posizione migliore in cui farsi beccare dal vicepreside, che usciva dal suo ufficio. L’anno prima aveva fatto una predica a quelli del terzo anno su ormoni, impulsi carnali e conseguenze per chi invadeva lo spazio personale altrui. Tradotto in lingua corrente: un giorno di punizione per chiunque venisse beccato troppo vicino a una persona dell’altro sesso. Partecipare a un campionato nazionale dopo l’altro richiedeva allenamento, non punizioni. «Il sedile posteriore di un’auto è più comodo.» Mi piazzai dall’altro lato di Chris e Lacy, per bloccare la visuale del vicepreside in arrivo. «Magari dopo scuola.» Chris fece un verso di protesta quando Lacy gli appoggiò una mano sul petto, respingendolo finché non furono a una distanza “accettabile”. Lei emise un sospiro carico di frustrazione. «Buon giorno, Ry.» «Sparisci» mi disse risoluto Chris. «Il vicepreside sta cercando la preda del giorno, e non sposteremo gli allenamenti come l’anno scorso perché sei di nuovo in punizione.» Chris sospirò proprio come Lacy. «Tu hai bisogno di una ragazza.» «Esatto!» Lei spalancò le braccia. «Sono mesi che lo dico! Non una odiosa, stavolta niente ragazze malefiche. Ero stufa di andare in giro con i crocifissi addosso. Avevo anche pensato di passare all’acqua santa, ma avrei dovuto intrufolarmi in chiesa, e poi…» «Piantala» le dissi. Tra Gwen e Lace scorreva cattivo sangue da sempre, ma Gwen era stata la mia ragazza. Non avrei permesso a nessuno di mancarle di rispetto. Al primo squillo della campanella, ci dirigemmo tutti e tre a lezione di inglese. Logan se ne stava in piedi per i fatti suoi, sempre con la solita aria annoiata, e ci aspettava sulla linea invisibile che divideva gli armadietti degli studenti del terzo anno da quelli dell’ultimo. Cercavamo di seguire il maggior numero di corsi tutti e quattro insieme. Per divertimento, spirito di squadra… e perché Lacy e Logan aiutassero me e Chris con i compiti. Visto che Logan era più intelligente di Einstein, e molti ragazzi in quella scuola erano più ignoranti delle capre, gli facevano seguire le nostre lezioni. Di lì a un anno non ci sarebbero stati altri corsi avanzati per lui, quindi molto probabilmente lo avrebbero sbattuto in un angolo della biblioteca, fingendo che non esistesse. Mi guardai in giro nel corridoio, cercando di individuare Beth. «Allora, riprendendo la questione

della scommessa di venerdì…» «Intendi dire la scommessa che hai perso venerdì.» Chris entrò in aula e prese i nostri soliti posti vicino alla finestra. Lacy era rimasta in corridoio a parlare con un paio di amiche. «No, la scommessa che vincerò.» Chris mi rivolse un sorrisetto incredulo. «Logan, hai sentito la cavolata che ha appena detto?» Lui sprofondò nella sua sedia. «Hai perso, Ryan, e pure male.» «Male?» «Erano settimane che non ridevo così» disse Chris. «Anzi, voglio rivivere il momento. Ciao, sono Ryan e voglio il tuo numero di telefono.» Tese la mano a Logan. «Lasciami pensare» fece Logan. «Aveva questo modo di parlare da vera signora. Ah, già, mi pare che la risposta sia stata: “Fottiti”.» «Si chiama Beth.» «La scommessa non era scoprire il nome.» Per evitare che la signora Rowe gli sequestrasse anche quel cappello, Chris lo infilò nella tasca posteriore. «Hai perso. Sii uomo e fattene una ragione. Oppure sii consapevole che continueremo a sfotterti. Va bene in entrambi i modi per me.» «Io preferisco sfotterlo» fece Logan. Abbassai la voce e mi sporsi di lato, così che solo Chris e Logan potessero sentire. Avevo poche opportunità con Beth, e più la gente restava all’oscuro sull’identità di suo zio, più speranze avevo di ottenere il suo numero. Scott era considerato un dio in quella scuola, quindi lei sarebbe diventata automaticamente una specie di divinità. «Il suo vero nome è Elisabeth Risk, ed è la nipote di Scott Risk.» «Beth.» Qualcuno sbatté con forza dei libri sul mio banco, e tutti e tre sussultammo e alzammo lo sguardo. Capelli neri, piercing al naso e una camicia bianca aderente volutamente sbottonata lì dove i ragazzi avrebbero sbirciato. Perlomeno, dove stavo sbirciando io. Santissima miseria, quella ragazza era maledettamente sexy. «Te lo ripeto lentamente e usando parole brevi, così forse riuscirai a seguirmi. Chiamami di nuovo Elisabeth, e mi assicurerò che tu non possa più avere figli. Racconta a qualcun altro di chi sono la nipote, e respirerai solo con un tubo in gola.» Chris fece la sua solita risata profonda e gutturale, quella che mi faceva capire quanto fossero complicati i casini in cui ci stavamo cacciando. «Piacere di conoscerti. Ryan ci ha appena detto che aveva una voglia pazza di chiamarti, non è così, Ry?» Din-don, Chris aveva appena suonato la campanella del secondo round, e interferendo aveva anche violato le regole del gioco. Se l’era giocata bene, avrei fatto la stessa dannatissima cosa. «Ho provato a cercarti stamattina, ma la segretaria ha detto che eri nell’ufficio del signor Dwyer.» I suoi occhi blu mi trafissero, mentre un sopracciglio si inarcava lentamente sempre più in alto. Il silenzio che si creò divenne insostenibile. Chris si agitò sulla sedia e Logan sprofondò un altro po’ nella sua. Avrei preferito che se ne andasse, ma per vincere la scommessa mi serviva che restasse. Mi sforzai di sembrare rilassato. Se avessi anche solo provato a respirare, Miss Skater avrebbe capito di avere il coltello dalla parte del manico. «Uh-uh» disse alla fine. «L’hai fatto di sicuro, è roba da leccapiedi. Ti propongo un patto. Io evito te, tu eviti me, e quando mio zio mi chiederà se mi hai aiutato oggi, ridacchierò come una di quelle

ragazze patetiche in corridoio e racconterò di come la mia povera, indifesa persona non ce l’avrebbe mai fatta in questa scuola brutta e cattiva senza l’aiuto del grande e forte Ryan.» «Sai ridacchiare?» chiese Logan. Lei lo fulminò con un’occhiataccia. Lui scrollò le spalle. «Non mi sembri il tipo da risatine, tutto qua.» Maledizione, anche Logan aveva fatto invasione di campo, quindi avrebbe scommesso anche lui. Era arrivato il momento di salvare la situazione. «Questi sono Chris e Logan. Giocano a baseball con me. Chris ha una ragazza che adorerai di sicuro, e se ti fa piacere, a pranzo puoi sederti insieme a noi.» «Buon Dio, tu hai veramente problemi mentali.» La campanella suonò e Miss Skater andò a sedersi nell’angolo dall’altra parte dell’aula. Be’, era andata bene. Entrambi i miei amici sorridevano, e io avevo una voglia pazza di rompere le ossa a tutti e due. «Venti bigliettoni che ti avrà preso a parolacce prima di pranzo» fece Chris. «Trenta che ti avrà ucciso prima di pranzo» aggiunse Logan. «Avrò il suo numero.» Loro scoppiarono a ridere, e i muscoli delle mie braccia si contrassero al pensiero di un’altra sconfitta. Accartocciai nel pugno una pagina del quaderno. «Secondo voi non ho speranze?» «Non basta la speranza con quella lì» rispose Logan. «Vi dimostrerò che vi sbagliate.» Sbirciai Beth con la coda dell’occhio. A testa china, i lunghi capelli neri che le nascondevano il viso, stava scarabocchiando sul quaderno impugnando la penna con la sinistra. Toh, una mancina! Chris scosse la testa. «Mi dispiace, amico. Il fatto che Beth venga a scuola alla Bullitt High cambia tutto. Vedi, i numeri di telefono sono per quelle che non si rivedono più. Invece ora hai a disposizione mesi per lavorartela. Se proprio vuoi vincere, allora dobbiamo alzare la posta… devi chiederle di uscire, e lei deve accettare.» «E l’appuntamento deve tenersi in un luogo pubblico e durare non meno di un’ora» aggiunse Logan. «Sai com’è, perché sia autentico.» Sarebbe stato meglio non accettare. Se fosse andato storto qualcosa, avrei fatto incazzare Scott Risk; d’altro canto, giocandomela bene, Scott Risk mi avrebbe portato in palmo di mano. Mi aveva praticamente supplicato di diventare amico della figlia di Satana laggiù. Inoltre, se avessi rifiutato, avrei automaticamente perso e non ero tipo da sconfitte. «Bene» dissi. «Sfida accettata.» A noi due, Miss Skater.

Beth

Avevo bisogno di una sigaretta e di un fumatore che si fidasse di me. Sfortunatamente non avevo trovato niente di tutto quello, nelle quattro ore trascorse a vivere la versione adolescenziale di Un tranquillo week-end di paura. Mentre gli studenti del terzo e quarto anno si avviavano a pranzo, stavo seguendo a distanza due ragazzi con i capelli lunghi e i jeans fin troppo larghi. Speravo di poterne convincere almeno uno a farmi fare un tiro. Svoltarono l’angolo e diedi a entrambi qualche istante. Se mi fossi avvicinata prima ancora che avessero acceso la sigaretta, avrebbero detto che non stavano facendo nulla. E non ci sarebbe stato niente da dire per convincerli che non avevo intenzione di fare la spia. Buon Dio, non avrei creduto neppure io alla ragazza nuova con la camicia bianca e i bottoni al colletto. Avevo lasciato passare abbastanza tempo. Girai l’angolo, pronta a dire a entrambi di stare tranquilli, ma le parole mi rimasero in gola. Non erano lì. Era un piccolo corridoio con tanto di doppia porta a vetri che dava sul retro. Feci appena in tempo a vedere i due ragazzi che filavano via di soppiatto nel parcheggio. Mi ritrovai a sbattere la testa contro la porta. Maledizione. Non avrei mai creduto che se la sarebbero svignata il primo giorno di scuola. Dei veri duri. Qualcuno bussò e il cuore quasi non mi schizzò fuori dal petto, per poi sciogliersi dopo un’occhiata fuori dalla porta a vetri. Era lui. Mi afflosciai per il sollievo. Era davvero lui. Aprii la porta e non appena il sole estivo mi accarezzò il viso, Isaiah mi strinse fra le braccia. Normalmente non l’avrei fatto… toccarlo da sobria. In quel momento non mi dispiaceva. Anzi, mi accoccolai nel suo abbraccio. «Va tutto bene.» Isaiah mi baciò i capelli e mi posò una mano sulla nuca, tenendomi vicina. Mi aveva dato un bacio. Quell’abbraccio avrebbe dovuto darmi fastidio, avrei dovuto respingerlo. Non era così che comunicavamo, non da lucidi. Eppure, in quel momento, il suo tocco mi faceva venir voglia di stringerlo più forte. «Come facevi a saperlo?» mormorai contro la stoffa della sua camicia. «Immaginavo che a un certo punto avresti cercato una sigaretta. Questo è l’unico posto dove ho visto fumare gli altri.» Il suo cuore aveva un ritmo forte e regolare. A volte, nel tentativo di sentirmi libera e senza legami, esageravo. Bevendo troppo, tirando più di quanto avrei dovuto. Stando con ragazzi che non andavano bene per me. Andavo ben oltre la sensazione di leggerezza, come un palloncino senza filo… lasciato solo a fluttuare in un abisso inquietante. Con un solo tocco, Isaiah sapeva riportarmi a terra. Mi impediva di volare via, le sue braccia erano la mia ancora. Il suo battito regolare mi ricordava che non mi avrebbe lasciato volare via. A malincuore, misi di nuovo un po’ di distanza fra noi. «Come facevi a sapere che ero in questa scuola?»

«Te lo spiego dopo. Andiamo, prima che ci becchi qualcuno.» Mi tese la mano. «Dove?» Gli ressi il gioco, sapendo già cosa rispondere. Volevo giocare con la fantasia, anche se solo per un istante. «Ovunque tu voglia. Una volta hai detto che volevi vedere l’oceano. Andiamo verso la costa, Beth. Possiamo vivere lì.» L’oceano. Potevo quasi immaginare la scena. Io in un paio di jeans scoloriti e canotta, i capelli lasciati liberi al vento. Isaiah con la testa rasata e senza camicia, così da spaventare i turisti con i suoi tatuaggi. Mi sarei seduta senza scarpe sulla sabbia, e sarei rimasta a guardare le onde mentre lui avrebbe fissato me. Isaiah mi teneva d’occhio da sempre. Mi strinsi nelle braccia e serrai la presa sull’orlo della camicia, per evitare di avvinghiarmi a lui. «Non posso.» Il suo braccio era rimasto teso, ma il peso delle mie parole lo aveva fatto vacillare. «Perché no?» «Perché se scappo, se infrango le regole di Scott, lui spedirà mia madre in galera.» Isaiah strinse il pugno e lasciò cadere il braccio lungo il fianco. «Che si fotta.» «È mia mamma!» «Che si fotta anche lei! Anzi, spiegami perché eri con lei venerdì notte. Mi avevi promesso che le saresti stata lontana. È capace solo di farti del male.» «No, è stato il suo compagno. Mamma non mi avrebbe mai fatto soffrire.» «Ha permesso che pagassi tu le conseguenze delle sue stronzate, ed è rimasta a guardare mentre lui ti usava come una dannatissima pentolaccia. Tua madre è un incubo.» Dal parcheggio si sentì lo sportello di un’auto che si chiudeva, e ci spostammo subito verso le due pareti opposte ai lati della porta. «Dobbiamo parlare, Beth.» Aveva ragione lui. Annuii in direzione della pineta. «Andiamo lì.» Isaiah si affacciò e controllò la zona. Mi fece un cenno con la mano, e lo seguii. Non corremmo, camminammo in assoluto silenzio. Una volta raggiunto l’interno della pineta mi voltai, in attesa della domanda che lo stava tormentando. «Mi hai mentito.» Isaiah nascose le mani nelle tasche dei jeans e guardò gli aghi di pino marroni per terra. «Avevi detto di non aver mai conosciuto tuo padre.» Ok, non era una domanda ma un’accusa. Una che meritavo, comunque. «Lo so.» «Perché?» «Non volevo parlare di lui.» Continuava a fissare quegli stupidissimi aghi. Qualche anno prima, avevo propinato a Isaiah la stessa bugia su mio padre che raccontavo a tutti quanti. Lui si era sentito coinvolto al punto da confidarmi qualcosa che non aveva confessato a nessuno prima: che sua madre non aveva idea di chi fosse suo padre. La bugia che gli avevo detto ci aveva legati per la vita. Quando avevo capito cosa aveva cementato la nostra amicizia – la sua convinzione che entrambi avessimo due enormi punti interrogativi al posto di un padre – era passato troppo tempo per raccontargli la verità. «Sai com’è la gente.» Maledetta disperazione nella mia voce. «Adora i pettegolezzi. Se c’è una storia che vale, scavano a fondo pur di scoprirne i dettagli, e non volevo più saperne niente di quel bastardo. Quando ti ho detto che non avevo idea di chi fosse mio padre, non sapevo che fosse la tua

situazione. Non sapevo che saremmo diventati amici per quella storia.» Isaiah strinse gli occhi alla parola amici e la mascella scattò, come se avessi detto qualcosa per fargli del male. Ma eravamo amici. Era il mio migliore amico, l’unico che avevo. «Isaiah…» Dovevo dargli qualcosa. Qualcosa che gli avrebbe fatto capire che valore aveva lui per me. «Quello che è successo con mio padre…» Anche respirare faceva male. «Quando ero in terza elementare…» Perché diavolo ci stavo mettendo tanto? Gli occhi grigi di Isaiah cercarono i miei. La loro dolcezza sfumò mentre si spalancavano. «Tuo padre è ancora in giro?» Fece una manciata di passi verso di me, con gli stessi movimenti da predatore di una pantera. «Sei in pericolo?» Scossi la testa. «No. Se n’è andato. Zio Scott e papà si odiavano. Scott non sapeva nemmeno che fosse scappato.» «Tuo zio?» «È uno stronzo, ma non mi ha mai messo un dito addosso. Lo giuro.» Isaiah sbatté gli occhi, non più sbarrati, ma aveva ancora i muscoli tesi e carichi di rabbia. «Io mi fidavo di te.» Quelle cinque semplici parole mi colpirono dritto allo stomaco. «Lo so.» Ora potevo essere onesta con lui. «Vorrei poter venire via con te.» «Allora fallo.» «È mia madre. Speravo che potessi capire.» Fu un colpo basso. Rimasi in silenzio, immobile, in attesa che mettesse da parte i suoi demoni. «Lo capisco» disse in tono duro. «Ma non significa che sono d’accordo.» Bene. Mi aveva perdonata. I sensi di colpa mi stavano ancora torturando lo stomaco, ma se non altro, i muscoli si distesero. «Bella camicia» disse, e sorrisi al tono giocoso. «’fanculo.» «Ora ti riconosco. Mi chiedevo se ti avessero succhiato via la personalità già alla prima ora.» «Non ci sei andato tanto lontano.» Il tempo stringeva e avevo già perso così tanto. Non potevo perdere anche lui. «Cosa facciamo?» «Quali sono i termini di tuo zio?» «Non posso scappare né vedere te e Noah.» Scott voleva che dimenticassi completamente la mia vecchia vita. Sosteneva che l’unico modo per ricominciare bene era fare piazza pulita del passato, e che ci avrebbe pensato lui, se non l’avessi fatto spontaneamente io. Isaiah fece una smorfia. «E poi?» «Niente bigiate a scuola, vietato mancare di rispetto alla moglie, ai professori o alla gente in generale.» «Tu sì che sei nei casini.» «’fanculo di nuovo.» «Ti voglio bene anch’io, raggio di sole.» Lo ignorai. «Buoni voti. Niente fumo. Niente droga. Niente alcol. E… nessun contatto con mamma.» «Mmm. Sull’ultimo punto sono d’accordo. Credi di poterlo rispettare, stavolta?»

Gli scoccai un’occhiataccia. Lui mi fece il dito medio. Dio, quanto era irritante. «Niente parolacce. Rispettare il coprifuoco.» Isaiah alzò di scatto la testa. «Ti lascia uscire?» «Probabilmente con un GPS impiantato sotto la fronte. Devo rendergli conto di ogni singolo secondo tutte le volte che metto piede fuori. Che cosa pensavi?» «Che sei una ragazza in gamba, sapresti fregare il diavolo per sgattaiolare fuori dall’inferno. Tu cerca di uscire da quella casa, e io verrò a prenderti. In qualsiasi momento. A qualsiasi ora. E ti riporterò indietro sana e salva prima del coprifuoco.» Mi sentii piena di speranza, anche se ancora non bastava. Avevo bisogno anche di altro, non solo di Isaiah. Giocherellai con un lembo della camicia. «Mi porti da mia madre?» Lui sospirò. «No. Non ti fa bene.» «Quello la ucciderà.» «Lasciaglielo fare. La decisione l’ha presa lei.» Barcollai indietro come se mi avesse dato un pugno. «Come puoi parlare così?» I suoi occhi si riempirono di nuovo di rabbia. «Come? Qualche mese fa è rimasta a guardare mentre ti dissanguavi proprio davanti a lei. Come ha fatto a tornare con quel bastardo? Come ha potuto permettere che pagassi tu le conseguenze dei suoi casini? E non ci provare, la compassione non attacca con me. Nessuno ha il fottuto diritto di farti del male. Mi sono spiegato?» Annuii per calmarlo, ma dovevo cercare un altro sistema. Aveva ragione lui. Avrei potuto fregare Scott, non perdere Isaiah e trovare il modo di occuparmi di mamma. Lui si sfilò qualcosa dalla tasca posteriore e me la passò. Era un cellulare grigio nuovo di zecca. «Abbiamo visto Scott che buttava nella spazzatura il tuo, quindi te ne ho comprato un altro e ti ho inserito nel mio piano tariffario.» Mi sfuggì un sorrisetto. «Hai un piano tariffario?» Lui scrollò le spalle. «Noah e io ne abbiamo uno e ti abbiamo incluso, così costa meno.» «Davvero…» Tipico di Echo. «Maturo.» «Già. È un po’ che Noah fa cose come queste.» «Come lo sapevi? Che sarei stata qui, a Groveton? A scuola?» Isaiah spostò lo sguardo sugli alberi. «Echo. Alla stazione di polizia, si è seduta vicino a tuo zio e tua madre ed è riuscita a sentire cosa stava succedendo. Poi è andata da Shirley e l’ha convinta a raccontarci anche il resto. Scott aveva parlato con Shirley dei suoi progetti.» «Grandioso» mormorai. «Sono in debito con la psico-stronza.» Non feci in tempo a pronunciare quelle parole, che provai rimorso. Non era completamente pazza, ma onestamente il nostro rapporto era comunque teso. Era dolce e gentile, e faceva felice Noah… ma aveva portato dei cambiamenti, troppi cambiamenti. E come poteva piacermi una cosa simile? Lui si spostò da un piede all’altro. Non era un buon segno. «Che altro c’è, Isaiah?» «Echo ha venduto un quadro.» Inarcai le sopracciglia. «E allora?» Era dalla scorsa primavera che Echo vendeva i suoi quadri. Infilò di nuovo la mano nella tasca posteriore, e ne tirò fuori un rotolo di banconote. Santissimo cielo, dovevo decisamente iniziare a dipingere. «Era uno dei suoi preferiti. Qualcosa che aveva realizzato per suo fratello prima che morisse. Noah è andato su tutte le furie quando l’ha scoperto.»

Mi porse i soldi. «L’ha fatto per te.» Adesso ero molto più che incazzata. «Non voglio la sua carità.» Non l’aveva fatto per me, ma per Noah e Isaiah. E l’aveva fatto soprattutto perché così sarei stata in debito con lei, sapendo che l’orgoglio era una delle poche cose che avevo a buon diritto. Isaiah accorciò la distanza e mi infilò i soldi in tasca prima che avessi la possibilità di scansarmi. «Prendili. Voglio essere sicuro che tu abbia un po’ di denaro con te, se dovessi essere costretta a pagare una cauzione in fretta e furia. È un debito che le ripagherò io.» Tutti quei soldi sembravano così pesanti in tasca. Sebbene fossi decisa a passare l’anno lontano dalle sbarre, sapevo anche quanto facesse schifo la vita. Meglio essere preparati. La campanella suonò, segno che la pausa pranzo era finita. «Devo andare.» Quando feci per superarlo, Isaiah mi trattenne per un braccio. «Un’ultima cosa.» Gli occhi si erano incupiti. «Chiamami. A qualsiasi ora. Ti giuro che risponderò.» «Lo so.» Mi ci volle un momento per trovare il coraggio di dirlo, ma era il mio migliore amico e meritava quella parola: «Grazie». «Per te, qualsiasi cosa.» Isaiah mi lasciò libera, e mentre tornavo verso la scuola, mi sfiorai il punto in cui la pelle ancora bruciava per il contatto con le sue dita. Era mio amico… il mio unico amico. Tirai la maniglia della stessa porta da cui ero uscita, e il cuore sprofondò quando rimase chiusa. No. Avevo infranto la regola base delle fughe da scuola: accertarsi sempre di poter rientrare. Spinsi la maniglia. Niente. Provai con quella dell’altra porta. Stesso risultato. La paura mi strinse lo stomaco, e in un secondo si trasformò in un’ondata di panico. Non riuscivo a rientrare, e non vedendomi alla lezione successiva mi avrebbero scoperta. Scott l’avrebbe saputo e si sarebbe fatto esplodere una vena. Afferrai di nuovo la maniglia, ma con entrambe le mani. «Andiamo!» Diedi uno strattone. La porta si socchiuse. Una mano schizzò fuori, mi afferrò per un braccio e mi trascinò nell’edificio. Alzai lo sguardo verso il mio salvatore, e mi squagliai di fronte al bellissimo paio di occhi castani che mi stavano fissando. Peccato che il proprietario di quegli occhi decise di parlare, e rovinare il momento. «Non sono sicuro che tuo zio intendesse questo, quando mi ha chiesto di farti vedere il posto.» «Al diavolo, schifo di vita» mormorai. Era Ryan. E io odiavo con tutto il cuore quella città.

In quel momento era Miss Skater a essere in svantaggio. Si divincolò dalla mia stretta e mi rivolse uno sguardo truce, con quegli occhi blu che non sbatteva mai. «Non voglio il tuo aiuto.» Che magnifica sensazione, la vittoria. Strepitosa. Mi mandava su di giri più di qualsiasi altra cosa al mondo. La tensione e lo stress che sentivo ultimamente erano spariti. Vincere distendeva i muscoli, faceva camminare a testa più alta e, porca miseria, faceva venir voglia di sorridere. «Puoi non volerlo, ma ne hai bisogno.» La seconda campanella suonò, e, superandomi, Beth mi diede una spallata. Venti dollari che era convinta di essere in ritardo per la lezione. «È solo la seconda campanella.» Esitò, e la sua schiena si irrigidì. «Quante ce ne sono?» «Dopo pranzo?» Mi avvicinai a lei con noncuranza. Era troppo divertente. «Tre. Una all’inizio della pausa pranzo. Una per quando mancano pochi minuti. E infine, la campanella dei ritardatari.» Emise un sospiro di sollievo attraverso le labbra perfette, e anche l’espressione sul suo viso si distese. Quella ragazza era sexy, ma anche un vero terremoto. Se non fosse stato per la sfida, l’avrei evitata come la peste. «Che lezione hai adesso?» «Va’ all’inferno.» Beth si incamminò rapida lungo il corridoio, e la seguii senza fretta. Si sentivano gli armadietti aprirsi e chiudersi, e le chiacchiere degli studenti. La gente si fermava a guardare Beth che avanzava. E avanzava decisamente bene. Camminava a testa alta, proprio al centro del corridoio. Ne avevo visti pochi trasferirsi in quella scuola da che ero al primo anno, ma tutti avevano passato le prime due settimane a cercare di mimetizzarsi con le pareti. Beth no. Muoveva i fianchi in un modo così naturale, attirando lo sguardo di tutti i ragazzi, incluso il mio. Controllava i numeri sulle porte, senza dubbio alla ricerca dell’aula per la quinta ora. Affrettai il passo e la raggiunsi, mentre prendeva dalla tasca un orario scolastico piegato male. Scorse la lista con il pollice fino a trovare il suo obiettivo: scienze motorie e sanitarie. Le mie possibilità di vincere erano appena aumentate. Era la mia lezione. «Ti posso mostrare dov’è.» «Mi stai seguendo? Perché in quel caso, ne prenderai di calci nel sedere!» «Da chi? Dal ragazzo con cui sei andata a sbaciucchiarti nella pineta?» Avevo difficoltà a credere che un uomo della portata di Scott Risk permettesse a sua nipote di uscire con quel tizio tatuato, ma forse era per quello che lei aveva cambiato scuola. Come non amare un uomo che si prendeva cura della propria famiglia? «Mi dispiace dirtelo, ma mi so difendere piuttosto bene.» Beth mi rivolse un’occhiata assassina. «Minaccia di nuovo Isaiah, e sarò io a fracassarti il culo.» Mi venne da ridere al pensiero di quell’esserino minaccioso dai capelli neri che mi prendeva a pugni. Li avrei sentiti come un leone avrebbe sentito i morsi di un coniglio. Dal modo in cui stringeva le labbra, capii che la mia risata la stava innervosendo. Meglio finirla lì. «Sto solo cercando di aiutarti.»

«Aiutarmi? Vuoi dire che stai cercando di aiutare te stesso. Ti eccita anche solo l’idea di vedere mio zio.» Il muscolo all’angolo dell’occhio si contrasse spasmodicamente. In rare occasioni anche i conigli convogliavano la rabbia, e Scott mi aveva avvertito che Beth aveva un caratteraccio. Aveva dimenticato di menzionare che il lato più dolce erano le lamette del suo rasoio. Stavo per chiederle che diavolo avesse, quando Lacy si materializzò fra noi e mi ammonì con lo sguardo. «Ci penso io.» «Andiamo, amico.» Chris inarcò appena le sopracciglia, e capii che aveva mandato Lacy a interromperci, convinto che stessi cercando di corteggiarla. «Andiamo in classe.» «Sì.» In classe. Volevo vincere la scommessa, ma non ci sarei riuscito perdendo la calma. Seguii Chris, disposto a tutto pur di allontanarmi da Beth.

Beth

Non appena Ryan si voltò, mi appoggiai a un armadietto viola. L’odore acre di pittura fresca mi pizzicò il naso. Ecco… il maledetto armadietto era stato appena riverniciato, e adesso avrei avuto il sedere viola. Tutti quegli strani studenti in corridoio mi fissavano come se fossi un animale in gabbia. Inghiottii a vuoto quando un paio di ragazze mi passarono davanti ridacchiando. Entrambe allungarono il collo per vedere meglio il nuovo fenomeno da baraccone della scuola. La gente era capace solo di giudicare. E ora stava giudicando me. «Una volta eri bionda» disse Lacy. Che problema avevano gli abitanti di quella città con i miei capelli? Feci fatica a riconoscere la ragazza che una volta ritenevo mia amica. Ci eravamo squadrate a vicenda durante inglese, cercando di capire se avevamo avuto l’intuizione giusta nel riconoscerci. Lacy aveva gli stessi capelli castani di quando eravamo piccole, solo meno sottili. Erano voluminosi, ora. Annuì all’amico di Ryan, facendogli cenno di seguirlo in classe, e lui lo fece. «Una volta andavi in giro con gente sveglia» le dissi. Lei curvò un angolo delle labbra in un sorrisetto. «Andavo in giro con te.» «Appunto.» La campanella suonò e i pochi rimasti fuori corsero in aula. Che fortuna, un’altra lezione in comune con Ryan. Con un colpo di reni mi allontanai dal muro, controllai se ero sporca di pittura, e mi accorsi con sorpresa che Lacy mi stava seguendo. Il gruppo si divise con la stessa rapidità degli scarafaggi in fuga da una fonte di luce. Ryan e un altro paio di ragazzi presero posto tranquillamente in fondo all’aula, atteggiandosi come fossero un dono del cielo mandato alle donne. Magliette e jeans costosi, con i simboli delle stupidissime squadre del cuore, urlavano tutto il loro amore viscerale per lo sport. Porsi il modulo di iscrizione al professore, immerso in una conversazione con altri due invasati. Parlavano di baseball, rugby, basket. Bla, bla, bla. Doveva essere tipico dei maschi, parlare di come giocare con le palle. Lacy prese posto a un banco vuoto e allontanò la sedia con un piccolo calcio, perché mi unissi a lei. «Ryan dice che ti fai chiamare Beth.» Sprofondai sulla sedia e gettai un’occhiata a Ryan, che si affrettò ad abbassare lo sguardo. Avvertii una sensazione di formicolio… davvero mi stava fissando? Piantala. Il formicolio scomparve. Certo che lo stava facendo. Sei il fenomeno da baraccone, ricordi? «Che altro ti ha detto Ryan?» «Tutto. Di quando ti ha incontrata venerdì sera. E ieri con Scott.» Merda! «Quindi lo sa anche tutta la maledetta scuola.» «No» rispose gentilmente Lacy. Mi squadrò dalla testa ai piedi, probabilmente in cerca della patetica mocciosa di tanto tempo prima. «L’ha detto solo a me, a Chris e a Logan. Quello con i capelli scuri seduto vicino a Ryan è il mio ragazzo, Chris.»

«Mi dispiace per te.» «Ne vale la pena.» Fece una pausa. «Quasi sempre.» Ero riuscita a farmi ignorare dalla gente per ben quattro lezioni, sedendomi sempre in fondo all’aula e guardando male chiunque mi fissasse per più di un secondo. Lacy tamburellò le dita sul banco. Al polso aveva due piccoli elastici per capelli. Indossava un paio di jeans a vita bassa, e una maglietta verde fuori moda con un quadrifoglio bianco stampato sopra. «A quante persone l’hai raccontato?» le chiesi. Le sue dita si fermarono. «Raccontato cosa?» Abbassai la voce e tirai via dalle unghie quel che restava dello smalto nero. «Chi sono e perché ho lasciato la città.» Stavo cercando di sondare il terreno. Grazie al modulo di iscrizione, nessuno aveva pronunciato il mio nome in classe né aveva menzionato mio zio. Quel giorno sarei rimasta anonima, ma per quanto? Volevo anche capire quanto fossero informati in quella città di pettegoli. Il padre di Lacy era un agente di polizia, e quella notte era entrato per primo nella roulotte. «Nessuno» rispose lei. «Dirai alla gente di tuo zio quando ti sentirai pronta. È disgustoso. Nessuno se ne fregava un accidente di Scott prima del campionato di baseball. Adesso tutti lo venerano.» Un gruppetto di ragazze scoppiò a ridere. Ognuna di loro aveva una manicure perfetta, e lo stesso tipo di borsa sul banco. Taglia e colori erano diversi, ma il modello era identico. La bionda che rideva di più si accorse che la stavo guardando, e mi passai i capelli sulla spalla come uno scudo. La conoscevo, e non volevo che si ricordasse di me. «Gwen ti sta ancora fissando» disse Lacy. «Forse il criceto che ha nel cervello ci impiegherà qualche giorno per far girare la ruota, ma presto capirà chi sei.» Avrei apprezzato il sarcasmo, se non fossi stata distratta dalla bionda. Gwen Gardner. L’estate prima dell’asilo, la madre di Lacy aveva proposto a Scott di farmi andare insieme alla figlia al campo estivo della parrocchia. Avevo messo il mio vestito preferito, uno degli unici due che possedevo, mi ero riempita la testa di nastri ed ero entrata saltellando nella stanza. Quando mi ero presentata, ero stata circondata da un gruppo di bambine con dei bellissimi vestiti vaporosi. Con le risatine e i mormorii delle altre ragazzine come sottofondo, Gwen aveva evidenziato ogni singolo buco o macchia del mio amato vestito. Quello era stato il punto più alto del mio rapporto con lei. Da lì era stata una caduta libera. «È ancora una stronza?» chiesi. «Peggio.» Lacy abbassò la voce: «Eppure tutti credono che sia una santa». «E io che pensavo che la terza elementare fosse uno schifo.» Lacy fece una smorfia. «Immagina cos’è stato superare le medie e i primi reggiseni con lei. Giuro, è diventata una terza fra quinta elementare e prima media. Grazie al cielo, alla fine Ryan ha rotto con lei la scorsa primavera. Non sarei riuscita ad averla intorno un minuto di più.» Ovvio che Ryan fosse stato con Gwen. Sicuramente era una rottura temporanea, presto si sarebbero sposati e avrebbero avuto tanti altri perfetti figli del demonio, per torturare le future generazioni di gente come me. Scivolammo in un silenzio imbarazzante. Era strano parlare con Lacy. Una volta eravamo noi due unite contro il resto del mondo. Poi io ero andata via. Avrei giurato che in mia assenza fosse diventata una di loro… un membro del gruppo delle ragazze perfette. Aveva il potenziale per farne parte. I

genitori erano ricchi, la madre le avrebbe comprato i vestiti. Lacy era carina e simpatica. Per qualche incomprensibile motivo, era incollata a me… quella con due vestiti che viveva nel parcheggio delle roulotte. Rimossi quel che restava dello smalto. Il giorno prima Allison me ne aveva comprato uno di un irritante color malva. Perché tutti, guardandomi, avrebbero pensato alla malva! «Che ti ha raccontato tuo padre?» Lacy batté più volte il mignolo sul banco. «Che è stato chiamato a casa tua e che dopo ti sei trasferita in un’altra città.» Stupita, alzai lo sguardo per assicurarmi che i suoi occhi scuri fossero sinceri. «Tutto qui?» «Sono tutti convinti che sia arrivato Scott a salvarti. Papà e gli altri agenti che sono intervenuti quella notte hanno lasciato credere che fosse vero.» Increspò la fronte. «È così che è andata, no? Sei andata a vivere con Scott?» Mi grattai la guancia, cercando di non reagire in alcun modo. Avrei potuto mentire e dirle di sì, ma sarebbe stato come ammettere che mi vergognavo di mamma. E non era così. La amavo, le dovevo tanto. Eppure a volte… «Ho passato tre mesi a piangere quando te ne sei andata» continuò Lacy. «Eri la mia migliore amica.» Avevo pianto anche io, e tanto. Grazie a me e alle mie stupide decisioni, mamma aveva pagato un prezzo troppo alto e io avevo perso la mia migliore amica. Tipico di me, un uragano in grado di lasciarsi dietro nient’altro che devastazione. «Vai a sederti con i tuoi amici, Lacy. Io porto solo casini.» «In quest’aula, gli unici veri amici che ho sono quei due ragazzi seduti laggiù.» Lacy tamburellò di nuovo le dita. «A parte te.» Inarcai un sopracciglio. «La tua vita deve fare proprio pena.» Lei rise. «Nah. Non è niente male.» L’insegnante richiamò all’ordine la classe, e scansai leggermente la sedia da quella di Lacy. Sentivo una stretta invisibile e fastidiosa al petto. Alla gente normale non piacevo. Non voleva avermi come amica, eppure lì c’era qualcuno che mi stava offrendo spontaneamente la propria amicizia. Il professore iniziò l’appello, fece il nome di Ryan e lui rispose: “Presente”, con voce profonda e rassicurante. Ne approfittai per sbirciare verso di lui, e mi accorsi che mi stava fissando di nuovo. Non sorrideva. Non era arrabbiato. Nemmeno arrogante. Aveva solo un’espressione pensierosa e un po’ confusa. Si massaggiò la nuca e mi ritrovai a osservargli i bicipiti. Il mio stomaco fece le capriole. Dio, quel ragazzo era un idiota, ma un idiota ben fatto. E quelli come lui non volevano le ragazze come me. Mi usavano e basta. M‘imposi di spostare altrove lo sguardo, tirai le ginocchia al petto e le avvolsi con le braccia. Lacy invase il mio spazio personale e mi sussurrò: «Sono felice che tu sia tornata, Beth». Una scheggia di speranza oltrepassò tutti i muri che avevo eretto intorno a me, e mi affrettai a sbattere fuori qualsiasi emozione. Pessimo affare, le emozioni. La gente che voleva farmene provare era anche peggio. Cercai conforto nella parte più dura di me. Quello che non sentivo, non avrebbe potuto farmi male.

Se ne vedevano di cose dal mio posto sul divano nel salotto del sindaco, mentre servivano la cena della domenica. Per esempio, il modo in cui papà stringeva le labbra in un’espressione seria e si sporgeva verso il signor Crane implicava che stessero parlando di affari. Affari seri. Mamma, invece, non faceva altro che sorridere, in piedi accanto alle mogli del sindaco e del pastore, ma da come continuava a toccarsi la collana di perle, si capiva che era agitata. Qualcuno doveva averle chiesto di Mark. A mamma mancava. E anche a me. Il potere dell’osservazione. Una dote di cui avevo bisogno per giocare a baseball. Il mio avversario avrebbe provato a rubare una base? Il battitore avrebbe optato per un fuoricampo o per una volata di sacrificio, così da far avanzare il compagno in terza? Miss Skater era davvero cocciuta come credevo? Nelle ultime due settimane avevo osservato Beth in giro per la scuola. Era interessante. Completamente l’opposto delle ragazze che conoscevo. A pranzo se ne stava seduta per i fatti suoi, e mangiava un pasto completo. Non l’insalata, non una mela. Pranzo completo. Primo, secondo, contorno e dolce. Nemmeno Lacy arrivava a tanto. Beth sedeva in fondo all’aula a tutte le lezioni, tranne a scienze motorie e sanitarie, durante la quale Lacy si rivolgeva a lei pazientemente anche se Beth restava in silenzio. A volte Lacy riusciva a strapparle un sorriso, ma era raro. Mi piaceva vederla sorridere. Non che mi riguardasse la sua felicità. Quello che trovavo davvero interessante era che nonostante fosse Miss Asociale, non evitava la gente. Molti ragazzi si nascondevano alla luce del sole. Se la filavano in biblioteca prima di scuola o a pranzo. Evitavano gli sguardi e camminavano sulla scia degli altri, nella speranza di frequentare la scuola senza essere notati. Beth non era così. Teneva duro, si prendeva tutto lo spazio che voleva e rivolgeva un sorrisetto a chiunque osasse avvicinarsi troppo, come se li stesse sfidando a provocarla. Un sorrisetto di sfida che mi eccitava da morire. «Sei pronto per il test di domani?» La signora Rowe, la professoressa di letteratura inglese, si appoggiò al bracciolo del divano. Caso voleva che fosse anche la figlia del sindaco. Tutti lì dentro indossavano completi eleganti, cravatte e vestiti decorosi. Per l’occasione, la signora Rowe sfoggiava un abito a fiori da hippie e i capelli viola. Considerando i litigi che c’erano stati in famiglia per Mark, ero curioso di sapere che razza di azzuffate si facevano a porte chiuse in quella casa. O forse nelle altre famiglie si trovava un sistema per accettarsi a vicenda. «Sissignora.» Per evitare di dover iniziare a chiacchierare, mi infilai in bocca un involtino di gambero e pancetta. A papà piaceva che presenziassi ai consueti incontri domenicali. Ero utile quando gli uomini si mettevano a discutere di sport. Ero anche più utile prima, quando stavo con Gwen. Suo padre era il capo della polizia, e inoltre le amiche di mia madre pensavano che fossimo “carini

insieme”. «Alla tua età odiavo queste cose» continuò la signora Rowe. Assaggiai un altro involtino e annuii. Se davvero le odiava, sapeva anche che una conversazione inutile riusciva a far male fisicamente. «Mio padre mi obbligava a partecipare a tutte le cene che dava.» Inghiottii il boccone e realizzai che nemmeno una volta in quattro anni, da quando ero diventato adulto abbastanza per rappresentare la famiglia, mi era capitato di vedere la signora Rowe a una di quelle serate. Per un attimo pensai di chiederle come mai fosse lì quella sera, ma poi ricordai che non mi interessava. Era arrivato il momento di assaggiare le polpette. «Ho letto il tuo compito» disse lei. Scrollai le spalle. Era il suo lavoro, dopotutto. «È buono. Anzi, direi ottimo.» Incrociai il suo sguardo e imprecai mentalmente quando sorrise. Maledizione, non aveva alcuna importanza che fosse un buon lavoro. Volevo giocare a baseball, non scrivere. Finsi di guardare nella direzione opposta. «Hai preso in considerazione l’idea di ampliarlo in un racconto breve?» A quello avevo una risposta. «No.» «Be’, dovresti farlo» rispose. Feci di nuovo spallucce e mi guardai intorno nella stanza, alla ricerca di una scusa per scappare… magari le tende in fiamme. La signora Rowe fece un sorrisetto furbo. «Ascolta, ho ricevuto delle belle notizie e sono molto felice di non dover aspettare fino a domani per dartele. Ricordi quel progetto di scrittura a cui abbiamo lavorato l’anno scorso?» Sarebbe stato impossibile dimenticarlo. Avevamo passato l’anno a divorare libri e film, per poi smembrarli come macchine, e scegliere le parti che avremmo unito per realizzare una storia. Finito quello, la signora Rowe aveva schioccato la frusta e preteso che ognuno di noi scrivesse qualcosa. Il corso più stramaledettamente difficile che avessi mai seguito, nonché quello che mi era piaciuto di più. L’avevo anche detestato. Quando mi interessavo un po’ troppo alle lezioni o sembravo troppo coinvolto, il resto della squadra mi metteva in croce. «Ti ricordi che ho iscritto tutti al concorso nazionale di scrittura?» Annuii, ma in realtà non era vero. Solo perché mi piacevano le sue lezioni, non significava che dovessi ascoltare ogni cosa che diceva. «Perché? Ha vinto Lacy?» Il suo racconto breve era fantastico. «No…» Presi un’altra polpetta. Peccato, Lacy sarebbe stata al settimo cielo se avesse vinto. «Sei in finale, Ryan.» Ingoiai la polpetta tutta intera e per poco non mi strozzai. DISMESSI GLI ABITI ELEGANTI per i pantaloni della tuta e una maglietta dei Reds, mi rilassai sulla sedia alla scrivania e guardai il compito che avevo consegnato alla signora Rowe. In quattro pagine, il povero George aveva scoperto di essere diventato uno zombie. La parte che preferivo era la frase finale: Mentre si guardava le mani, mani che molto probabilmente un giorno avrebbero ucciso,

George prese atto della tremenda verità: non aveva più alcun potere. Perché fosse la mia preferita, non ne avevo idea. Ma ogni volta che la rileggevo, si risvegliava qualcosa dentro di me, una sorta di giustificazione. Mi passai una mano fra i capelli, non riuscivo a crederci… ero in finale a un concorso di scrittura. Forse di lì a poco l’inferno si sarebbe congelato e gli asini avrebbero cominciato a volare. A quel punto, tutto era possibile. Ruotai la sedia ed esaminai la stanza. Trofei, medaglie e riconoscimenti ottenuti giocando a baseball erano sparpagliati sulle pareti, sulle mensole e sul cassettone. Sopra il mio letto era attaccato il gagliardetto dei Reds. Conoscevo bene il baseball. Ero bravo. Dovevo esserlo, era tutta la mia vita. Ryan Stone… il giocatore di baseball, fissato per lo sport, leader della squadra. Ma Ryan Stone… lo scrittore? Ridacchiai fra me e me, e presi il mucchio di scartoffie dalla scrivania. Era una descrizione nel dettaglio di come passare alla fase successiva del concorso di scrittura, e come vincere. Mai una volta nella vita mi ero tirato indietro di fronte a una gara. Ma quella… quella non aveva niente a che fare con me. Lasciai perdere quei fogli. Dovevo restare concentrato su quello che era realmente importante, e la scrittura non lo era di certo.

Beth

Educazione fisica era un’offesa all’autostima. Mentre sostituivo la camicia bianca spiegazzata con la tenuta richiesta per la lezione – una maglietta rosa della Bullitt County High con i pantaloncini coordinati – mi soffermai a guardare le altre ragazze. Parlottavano fra loro mentre si cambiavano. Molte si pettinavano, altre si sistemavano il trucco. Tutte magre. Tutte in forma. Tutte belle. Tranne me, ovviamente. Ero abbastanza magra, ma non certo carina. Le ragazze che mi irritavano per davvero erano quelle a cui Dio aveva dato tutto: soldi, bellezza e una terza di seno. La peggiore era Gwen. Appena entrata nello spogliatoio, si era subito tolta la camicia per gironzolare in reggiseno di pizzo. Quel tanto per ricordare tacitamente di essere superiore a chiunque di noi avesse solo una seconda. Uscii dallo spogliatoio e tirai un sospiro di sollievo nel notare che la palestra era vuota. La scuola era territorio off-limits per i cellulari, ma la palestra no. Avevo un bisogno disperato di parlare con mamma. Erano passate due settimane dall’ultima volta che l’avevo sentita, e l’ultima cosa che mi aveva detto era stata quel patetico: “Ti prego… libertà vigilata” nel vicolo dietro al bar. Trent non le avrebbe permesso di dirmi addio alla stazione di polizia. Dio, quanto lo odiavo. Mi posizionai sotto gli spalti, presi il telefono dalla tasca dei pantaloncini e digitai il numero di mamma. Nelle ultime due settimane l’avevo chiamata più volte, ma non aveva mai risposto. Dopo le quattro se ne andava sempre al bar. Una volta mi aveva detto che un alcolista si riconosceva dal fatto che iniziasse a bere prima di mezzogiorno. Fortuna che mia madre non si svegliava mai prima delle tre del pomeriggio. Il telefono squillò una volta, poi risposero tre bip piuttosto acuti. Un’irritante vocetta pacata pronunciò il messaggio di guasto: «Siamo spiacenti, il numero da lei selezionato è stato disattivato». Il rimorso mi fece sprofondare lo stomaco. Il mese prima avevo dovuto fare una scelta, usare i soldi dell’invalidità civile di mamma per pagare la bolletta della luce o quella del telefono. La compagnia elettrica aveva mandato un avviso di potenziale distacco. Pensando di avere più tempo per la bolletta del telefono, avevo pagato quella della luce. La gola si strinse e gli occhi pizzicarono. Maledizione… mia madre. Avevo combinato l’ennesimo casino, tanto per cambiare. Avrei dovuto pagare la bolletta del telefono. Avrei dovuto trovare il modo, lavorando qualche ora in più nel magazzino del ‘Tutto a Un Dollaro’, calpestando l’orgoglio e chiedendo i soldi a Noah o Isaiah. Avrei potuto fare talmente tante cose che non avevo fatto. Perché ero tanto incapace? All’improvviso desiderai che fossero già le dieci di sera. A quell’ora parlavo sempre con Isaiah, di solito per poco tempo, anche solo pochi istanti. Lui non era tipo da stare al telefono, però la prima volta che l’avevo chiamato mi aveva chiesto di farlo ogni sera, ed era quello che facevo. La sua voce era l’unica cosa che mi impedisse di impazzire. Infilai il cellulare in tasca mentre tutti gli altri entravano in palestra. Chiacchieravano e ridevano,

estranei ai veri problemi del mondo reale. Dovevo trovare un passaggio per Louisville, e anche in fretta. Provai una fitta di dolore alla tempia, pericolosamente vicina a trasformarsi in mal di testa. Lacy si separò da Chris e Ryan per raggiungermi. «Ti sei cambiata in fretta» esordì. «Tutto a posto? Hai l’aria tesa.» «Sto bene.» Invece avevo una voglia pazza di asciugarmi gli occhi. Per qualche motivo erano umidi e gonfi, ma non li avrei mai toccati in presenza di Lacy o di nessun altro. Non avevo mai pianto e non avrei permesso a nessuno di credere che fossi capace di una cosa così idiota. «Vi voglio tutti qui per cinque minuti!» esclamò il signor Knox, l’insegnante. Dal collo gli penzolava un fischietto. «In bacheca sono esposti tutti gli esercizi che dovrete fare per ottenere i crediti di questo corso. Passeremo tre giorni in palestra e due in aula. Alcuni esercizi potrete farli anche da soli. Altri richiedono lavoro di squadra. Avete due possibilità di fare bella figura, quindi vi suggerisco di usare con attenzione il tempo a disposizione, e non venite a chiedermi crediti se prima non sarete in grado di svolgere tutti gli esercizi alla perfezione.» Lo fissammo in silenzio. Il signor Knox sollevò il pollice dietro di sé. «Al lavoro!» Rimasi indietro rispetto agli altri, pregando di poter fare per i fatti miei la maggior parte degli esercizi. Mi si strinse lo stomaco nel vedere gente che formava gruppetti di due o tre per svolgere il compito. Una volta rimasta sola, mi avvicinai alla bacheca e sospirai così forte che i fogli si mossero. Avevo ottime possibilità di convincere il signor Knox che, dentro di me, mi sentivo una piramide a quattro piani. «Puoi lavorare con me.» Il cuore sobbalzò al suono della voce di Ryan. Maledizione. Ma perché doveva piacermi tutto di quel ragazzo? La voce, il viso, le braccia, gli addominali… Piantala! Incrociai le braccia al petto e mi voltai a guardarlo. «Credevo che avessimo un accordo.» «No. Hai fatto i capricci il primo giorno di scuola. Questo non costituisce un accordo.» Ryan stava bene senza il cappello da baseball in testa. Sui capelli biondo miele spiccavano dei riflessi dorati. Forse inizialmente li aveva anche pettinati, ma adesso erano un casino di onde morbide sparate in tutte le direzioni. Contegno, Beth. I ragazzi come lui non sceglievano le sfigate. «Lasciami in pace.» Fui io ad allontanarmi, perché Ryan non diede segno di volerlo fare. Lungo il muro dall’altra parte della palestra erano accatastati tutti gli attrezzi. Uno dei quattro esercizi che potevo portare a termine da sola era il salto della corda. Potevo riuscirci. Almeno credevo. Da piccola lo facevo spesso. Ne presi una e altre venti caddero dalla scatola. Tutte annodate e intrecciate. Gwen e alcune ragazze mi guardarono e si misero a ridere. Chissà, magari avrebbero continuato a farlo anche quando le avrei gonfiate di botte con quella infernale corda annodata. «Il salto della fiducia.» Lacy mi apparve magicamente davanti. La fissai, con il treno di corde ancora in mano. «Che?» «Il salto della fiducia. Io e i ragazzi lo stiamo per fare, e tu lo farai con noi.» «Ma anche no.» «Oh, sì invece. È fra i requisiti, ogni gruppo deve includere almeno due ragazze.» Sbattei due volte gli occhi. «Chiedi a una di quelle che si spazzolano a vicenda come delle scimmie.» «Quelle non sono ragazze, sono avvoltoi.»

Ryan e Chris ci stavano guardando. Il terzo tipo del gruppo esaminava la piattaforma di un metro e mezzo di altezza da cui dovevamo “lasciarci cadere”. «Che ci fa qui il ragazzo con i capelli neri?» chiesi. La settimana prima non era venuto, ma frequentavamo insieme inglese e aveva avuto le palle di prendermi in giro il primo giorno. Quel tizio era fortunato a essere ancora vivo. Lacy lo salutò. «Quello è Logan. Ha già finito il compito in classe di matematica, perciò gli hanno cambiato l’orario, e tutto il resto non ha alcuna importanza. Andiamo.» Mi afferrò per la mano, e mi trascinai dietro la corda fino a quando non ricordai di mollarla. Mi lasciò solo quando fummo sotto la piattaforma. Ryan mi rivolse un sorriso comprensivo. «Hai cambiato idea? Non preoccuparti, le ragazze lo fanno sempre quando ci sono di mezzo io.» Quanto avrei voluto una giacca in cui avvolgermi e nascondermi. Siccome non ce l’avevo, scelsi la seconda fra le opzioni migliori. «Hai dovuto comprarti anche quelle ragazze con i taco, o ti sei scomodato solo con me?» Chris e Logan risero, e Ryan mi diede le spalle. Dall’altra parte della palestra, Lacy spingeva a calci un enorme tappeto in gommapiuma. I ragazzi andarono ad aiutarla, sollevandolo in aria come se non pesasse un grammo e sistemandolo davanti alla piattaforma. Un accenno di panico mi soffocò il respiro nei polmoni. «A che serve?» «In caso non riuscissimo a prenderti» rispose Logan. «In caso che cosa?» Esaminai freneticamente la piattaforma di legno, che mi ricordava il trampolino di una piscina pubblica. Non sapevo nuotare e non era mia abitudine saltare. «Se non riuscissimo a prenderti» ripeté lui. Lacy gli rifilò uno scapaccione sulla nuca. «Smettila. Non ti faremo cadere.» Ovvio, perché non avrei fatto il salto. Feci un passo indietro. «Qual è il piano, Boss?» chiese Logan, guardando Ryan. Feci una smorfia e lui mi guardò. Era chiaro che vedessero Ryan Il Perfetto come loro impavido leader. Ryan spostò il materasso finché non fu allineato centralmente rispetto alla piattaforma. «Facciamo un giro di prova a testa e poi lo facciamo vedere al coach. Logan, inizia tu. Così se dovessimo usare la tecnica sbagliata, faremo cadere un ragazzo e non una ragazza.» Chris, Ryan e Lacy si posizionarono ai lati del materasso. Io rimasi dov’ero. «Se sei il capo, perché non cominci tu?» «Perché Logan è pazzo, e si offrirebbe per primo anche se non glielo avessi chiesto. Almeno stavolta c’è qualcuno pronto a prenderlo.» «È vero» aggiunse Lacy. «Logan è troppo intelligente per avere un po’ di sale in zucca.» «Paura.» Logan era già seduto sulla piattaforma, con le gambe che ciondolavano di lato. «Troppo intelligente per avere paura.» Lacy scrollò le spalle. «Idem con patate.» «Per niente.» «Sì, invece.» «Dateci un taglio» disse Ryan. «Dai, Beth. Tu e Lacy gli prendete le gambe, Chris e io pensiamo alla schiena.» «E perché? Così ci prendiamo un bel calcio in testa? Sei un vero gentiluomo.»

«No» rispose Ryan, cercando di non perdere la pazienza. «Logan è tutto busto. Chris e io ci prendiamo la parte più pesante.» Logan si colpì il petto con il pugno. «Questo è marmo, tesoro.» «Meno chiacchiere e più salti» fece Chris. «Muoviti, amico.» Mi posizionai di fronte a Lacy, che non mi lasciò molta scelta e mi afferrò le mani. Pochi istanti dopo ci ritrovammo a serrare la presa, perché un paio di gambe pesanti ci erano atterrate sulle braccia. «Sei un grandissimo stronzo, Junior» imprecò Chris. «Dovevi contare prima di saltare! Lasciate andare questo imbecille.» Ok. Lacy e io sciogliemmo la stretta e Logan cadde sul materasso. Lui rise e si rialzò. «Mi avete preso senza problemi.» «Tocca a me!» Lacy saltò sul materasso e si arrampicò sulla piattaforma. Ryan prese il posto di Lacy di fronte a me, e tese le mani. Le fissai. Non toccavo le persone e loro non toccavano me. Insomma, Lacy l’aveva fatto, ma era diverso. Eravamo amiche una volta, anche se ne era passato di tempo. Strofinai i palmi sudati sui pantaloncini, poi li posai su quelli di Ryan. Lui intrecciò le dita alle mie. La sua pelle era un mix perfetto di forza e calore, e quel contatto mi fece rabbrividire. Erano due tremende settimane che non toccavo una sigaretta, e ne desideravo pazzamente una in quel preciso momento. «Ok, Lace» fece Ryan, con la solita voce profonda e rassicurante. Erano cinque secondi che ci tenevamo per mano. «È piuttosto alto.» Lacy era in piedi sul bordo della piattaforma. Il fuoco che le animava sempre lo sguardo si era ridotto. Ryan mi rivolse il suo sorrisetto meraviglioso… quello dolce, con un accenno di fossette. Mi sentii invadere da una sensazione di calore. Dannazione, quanto mi piaceva quel sorriso! «Puoi farcela, tesoro» la spronò Chris. Ryan mosse leggermente il pollice sul dorso della mia mano, e ogni singola cellula del mio corpo divenne una presa elettrica. Erano dieci secondi che ci tenevamo. «Lo so.» Dal tono sembrava proprio il contrario. Lacy pareva insicura tanto quanto lo ero io all’idea di prenderla. «Forse dovrebbe provare prima uno di voi.» «Voltati, Lace, e buttati di schiena.» Il tono di Ryan era gentile e al tempo stesso autoritario. Anche se si era rivolto a Lacy, i suoi luminosi occhi castani erano rimasti puntati su di me. Il pollice mi fece saltare un altro battito, muovendosi sul dorso della mano. «È una cosa che puoi fare, e sai che ti prenderemo.» Come sarebbe stato essere stretta da quelle braccia? Mi sarei sentita viva come in quel momento? «Hai ragione.» Lei sospirò. «Dammi un attimo.» Mi stavano sudando di nuovo le mani, e non volevo più pensare ai nostri corpi vicini, né alle sue mani sulla mia pelle, o illudermi che il suo sorriso fosse per me. Non volevo più essere toccata da nessuno. Soprattutto non da un ragazzo forte, sensuale, a volte dolce, e in grado di farmi battere il cuore. Cercai di tirare via le mani, ma Ryan le trattenne. «Ma che fai?» «Non ce la fa» dissi. «E non dovrebbe essere costretta a farlo.» Ryan mi studiò per un secondo. «Sì che ce la fa. Lacy riesce in tutto quello che si mette in testa di fare.»

Cercai di tirare indietro le braccia ancora una volta, ma la stretta di Ryan era troppo salda. «Questa cosa è stupida.» Il panico mi stava ottenebrando il cervello, mi sembrava di dare i numeri. «È tutto molto stupido. Che senso ha?» «Imparare il gioco di squadra, e fidarsi l’uno degli altri.» La voce di Ryan era un balsamo rassicurante per il mio panico, finché non mi resi conto di quanta voglia avessi di ascoltarlo. Non andava bene, non andava bene per niente. Non era così la storia del pifferaio magico? Con lui che suonava qualcosa di tranquillizzante, e tutti i topi che annegavano? «Io non faccio parte della tua stupida squadra.» «Lo so, ma per qualche istante fingiamo il contrario.» «È pronta» disse Chris. Un secondo dopo mi ritrovai le Nike di Lacy a pochi centimetri dalla faccia. Ormai al sicuro fra le nostre braccia, Lacy rise. «È stato fantastico! Facciamolo di nuovo!» Ryan mi lasciò e aiutò i ragazzi a rimettere in piedi Lacy. Feci un passo indietro e cercai di sfregare sui vestiti ogni traccia di Ryan. Non volevo delle mani forti strette alle mie braccia. Non volevo far parte di una squadra e, maledizione, non avevo proprio niente da provare saltando da una specie di davanzale. «Tocca a te, Beth» disse Ryan. «No.» La risposta fu automatica. «Tanto lo devi fare prima o poi, perciò togliamoci il pensiero.» «Ti giuro che non è male.» Lacy mi affiancò al volo. «All’inizio ho pensato “col cavolo”, poi Ryan ha fatto quel discorso da “Puoi farcela”, e ho pensato “Questi ragazzi non mi farebbero mai cadere”, così è diventato “Ok!” e l’ho fatto, ed è stato talmente veloce!» Logan e Chris mi scrutavano attentamente. Mi avrebbero lasciata cadere, proprio come Ryan. Figuriamoci, lui l’avrebbe fatto di sicuro. «A che gioco stai giocando?» lo aggredii. Lui strinse gli occhi. «Come?» «Hai usato Lacy per attirarmi qui. Qual era il piano, farmi credere di potermi fidare di te e poi lasciarmi cadere, così tutti ne avrebbero riso?» A ogni parola mi ritrovai ad alzare di più la voce, e il cuore batteva sempre più forte. Ryan scosse la testa. «No.» Girai sui tacchi e mi diressi verso lo spogliatoio. Avrei dato la colpa ai crampi, al sangue, ai tamponi, e avrei continuato a usare il termine mestruazioni fino a ottenere dal professore il permesso di andarmene. Proprio sulla soglia della porta, mi ritrovai l’ampia sagoma di Ryan a bloccarmi la strada. «Dove credi di andare?» «Togliti di mezzo» ringhiai. Mi puntò contro un dito. «Fai parte di questa squadra, e ci aiuterai finché non avremo portato a termine la prova.» «No, non faccio parte della tua squadra perfetta.» «Torna subito di là.» «È questo il bello di vivere in America: non puoi costringermi a fare un accidente.» Gli rifilai una spallata ed entrai negli spogliatoi, al sicuro.

Il coach Knox ci aveva rispedito negli spogliatoi in anticipo, e mi sbrigai a cambiarmi. Beth sarebbe stata una delle prime a uscire, visto che era entrata per prima. Avevo una questione in sospeso con lei. Aveva messo in difficoltà la squadra, per di più aveva mandato a monte il mio piano di chiederle di uscire. La trovai seduta per i fatti suoi in cima alle panche in legno degli spalti, con la schiena contro il muro di cemento e le gambe distese in avanti. I capelli neri le scivolarono oltre le spalle mentre digitava qualcosa sul cellulare. Curvò le labbra in un leggerissimo sorriso. Un’espressione che non le avevo mai visto fare… quasi serena. Scalai le panche, superando due file alla volta. Il suono cupo dei miei passi echeggiò nella palestra vuota. Beth chiuse il cellulare e lo infilò in tasca. Il sorrisino e l’aria rilassata svanirono, lasciando il posto ai soliti artigli. «Sbaglio o voi gente popolare dovreste onorare con la vostra presenza gli spogliatoi, lasciando in pace noi poveri sfigati?» «Dobbiamo parlare.» «Be’, io voglio stare da sola.» Era evidente, ma in quel modo non avrei vinto la scommessa. «Sarà un anno decisamente lungo se continuerai a rifiutare tutti. Potrei aiutarti ad ambientarti, sai.» Con un movimento lento e sensuale, Beth si passò i capelli setosi dietro l’orecchio. «Capisco, ti piace fare beneficenza. Ammirevole, ma credo proprio che ne farò a meno.» Non avevo idea di come ci riuscisse, ma aveva un modo ipnotico e seducente di modulare la voce che, per qualche istante, mi fece dimenticare perché non mi piaceva. Poi il cervello ripercorse i suoi commenti maligni… accantonai in un angolo il suo corpo e il timbro della sua voce, e presi posto sulla fila sotto la sua. Beth scrollò le dita in aria. «Via» disse, e sembrava si stesse rivolgendo a un cane. «Sciò.» Dovevo mantenere il sangue freddo, come avevo già fatto tante altre volte. E tirar fuori il fascino. Meglio non far caso al fatto che aveva rifiutato di stare insieme a me durante l’ora di educazione fisica. Meglio fingere di non aver dovuto usare Lacy per ottenere quel che volevo. E continuare a ripetermi che abbandonare una squadra che dipendeva anche da lei non era così importante. «Stai molto bene.» Lei si guardò: pantaloni neri aderenti alla moda e un’altra camicia bianca con i bottoni al colletto, solo che questa aveva le maniche a sbuffo. Decisamente non era lo stile della Beth che avevo incontrato al Taco Bell. Se li avesse indossati Gwen quei vestiti, avrebbe avuto l’aspetto di una modella appena uscita da una sfilata. Su Beth… avevo nostalgia dei jeans con i buchi. «Sì, se fossi un clown in un circo itinerante. Che stai cercando di ottenere?» Una dannatissima tregua. «Esci con me.» «È un tentativo di accalappiare la nipote per far colpo su Scott, o vuoi portarmi a letto per stupire i tuoi amici?»

Al suo sguardo attento non sfuggì il modo in cui avevo serrato la mascella. Ormai detestavo quel sorrisetto perfido. Ma dovevo essere gentile, anche se lei non lo era. La rabbia non mi avrebbe aiutato a vincere. E poi non ero così lontano dal traguardo. «Venerdì sera organizzano una festa all’aperto. Sarebbe una buona opportunità per conoscere gente, invece di evitarla.» Lei si chinò in avanti, e colsi un distinto profumo di rose. «Ti svelerò un segreto. A me piace evitare la gente. Va a braccetto con quello che penso di questa scuola, che – per quanto mi riguarda – può anche sprofondare.» Che diavolo di problema aveva quella ragazza? Beth tornò a rilassarsi sulla panca. «Te lo chiederò di nuovo. A che gioco stai giocando, invasato?» «Nessun gioco» risposi troppo in fretta, e cercai di rallentare un po’. La porta degli spogliatoi si aprì e in palestra risuonò un coro di risate. Avevo solo pochi secondi per far colpo su di lei, prima che gli spalti si riempissero. «Sei carina, Beth.» All’improvviso era diventato difficile guardarla. Era carina sul serio, molto più che carina. Spostai lo sguardo sulle scarpe. Ripigliati, Ryan. È solo una sfida. «Sono carina» ripeté lei a voce alta, abbastanza perché anche il resto della palestra sentisse. La scintilla di crudeltà che le vidi negli occhi mi fece capire quanto la divertiva quell’umiliazione pubblica. «È la frase migliore che ti è venuta? Mandiamo avanti questa conversazione, così magari la smetti di farmi perdere tempo.» Sollevò il palmo della mano e, per quanto non ci fossero più scritte le parole di quella sera, ci lessi la mia sconfitta: Non puoi farcela. Tim Richardson imitò il fischio di una bomba in caduta libera dal cielo, e simulò l’esplosione con le mani. «Colpito e affondato, Ry. Buono a sapersi che la ragazza nuova ha degli standard. Quando hai finito di giocare con quello lì, Beth, puoi venire a divertirti con me.» «Levati di torno, Tim» ringhiai a bassa voce, in tono di avvertimento. Se Tim voleva prendersi gioco di me poteva anche farlo, ma doveva lasciar stare Beth. Le ragazze dovevano essere trattate con rispetto. «Non fingere di volermi difendere.» Beth strinse gli occhi. «Sei solo incazzato perché non ti sono caduta ai piedi in adorazione come tutto il resto di questa patetica scuola.» Altre risate dal gruppo. Ma che imbecilli! Aveva appena offeso anche loro. «Non hai speranze» sussurrò. «Quindi stammi alla larga.» Al diavolo. Non c’era niente che non potessi fare. Il coach Knox fischiò e tutta la classe si voltò a guardarlo. «Ultima comunicazione di servizio della giornata. Dobbiamo nominare un ragazzo e una ragazza dell’ultimo anno per la corte del ballo d’autunno. Cominciamo con i ragazzi.» Si alzarono parecchie mani. Non avevo speranze? Quanto si sbagliava. «Alzi la mano chi è per Tim Richardson.» Il coach fece un cenno con il capo per ogni mano che contò. In quella scuola ero un re. Potevo vincere qualsiasi sfida, in qualsiasi momento. Avrei vinto qualsiasi partita. Beth voleva giocare? Bene. Non voleva che il mondo sapesse che era la nipote di Scott Risk. Miss Skater mi aveva umiliato, e ora avrebbe avuto un assaggio della sua stessa medicina. «Vediamo le ragazze» fece il coach. Alzai la mano insieme a tutti gli altri, ma non lasciai a nessuno il tempo di pronunciare un nome.

«Beth Risk.» Le mani si abbassarono. Gli occhi di tutti erano puntati ora su di me, ora su Beth. Lei mise giù i piedi dalla panca, uno alla volta… thud, thud. «Che cos’hai detto?» «Hai detto Risk?» chiese Tim. «Come Scott Risk? Il dio del baseball che è appena tornato in città?» Una bordata di mormorii si diffuse fra gli studenti seduti sugli spalti, e il nome di Beth divenne l’argomento di ogni conversazione a mezza voce. Ignorando Tim, mi voltai a guardare Beth. Ardeva il fuoco nei suoi occhi blu, sembravano le lingue di fuoco di una fiamma ossidrica. Chi era senza speranza, adesso? «Io nomino te, Beth Risk, per la corte del ballo d’autunno.» «No.» Lei scosse la testa. «Non puoi.» «Sì che posso.» Quanto amavo vincere. «Sono d’accordo» disse Gwen con un sorriso luminoso stampato in faccia, e a quel punto si alzò la bandiera rossa. Desiderava la corona del ballo d’autunno da quando aveva tre anni. Beth si alzò di scatto e sbatté il piede sulla panca, come una bambina capricciosa. «Non puoi. Perché non ti autocandidi?» «Va tutto bene» rispose Gwen. «Mi hanno già scelta alla prima e alla seconda ora.» «Lo stesso vale per me.» Inarcai le sopracciglia guardando Beth. «Potremmo scendere in campo insieme. Non sarebbe divertente?» Beth rimase completamente immobile, le labbra appena socchiuse, le braccia lungo i fianchi e le dita aperte a ventaglio. Finalmente avevo colpito al cuore la ragazza che da settimane non faceva altro che flagellarmi. Il coach Knox batté le mani per ottenere attenzione. «Tutti coloro che sono favorevoli ad aggiungere Beth Risk alla corte del ballo d’autunno, alzino la mano.» Tutta la classe la alzò, tenendo gli occhi puntati su Beth. Tutti tranne Lacy. La sua occhiataccia mi stava trivellando la testa, ma non aprì bocca. «Chi è contrario?» disse il coach. «Io» urlò Beth. Sorrisi. Adoravo vincere. «Congratulazioni» disse annoiato il coach. «Fai parte della corte del ballo d’autunno.» «Che diavolo avete in quelle fottute teste?» Il coach la indicò. «Siediti e modera i toni.» Al suono della campanella, Beth afferrò la borsa e mi affrontò a muso duro: «Sei morto, stronzo».

Beth

Razza di presuntuoso… presto avrebbe abbassato la cresta. Bah! Non sopportavo il modo in cui tutti lo veneravano. Ryan questo, Ryan quello, Ryan il dio. Ryan era uno stramaledetto idiota! Avevo già incontrato ragazzi simili. Diamine, me n’ero anche portata uno a letto. O meglio, lui si era portato a letto me. Non ero più una ragazzina e non mi sarei lasciata ingannare dalle belle apparenze. La professoressa di calcolo, con tanto di capelli grigi cotonati, ci guardava dietro il gigantesco paio di occhiali. «Quando vi chiamo, venite qui davanti e scrivete la soluzione dell’esercizio alla lavagna.» Esaminò la classe. «Morgan Adams, Sarah Janes, Gwen Gardner e Beth Risk.» Diedi un colpetto con la nuca alla parete alle mie spalle. Maledizione. Era tutta colpa di Scott. Lo stupidissimo consulente scolastico gli aveva detto che non sarei stata all’altezza di quel corso, ma Scott aveva insistito perché seguissi tutte lezioni speciali. Quella sera, davanti al tofu con i piselli che sua moglie si ostinava a chiamare cena, mi aveva spiegato che stava cercando di alzare il livello delle mie aspirazioni. «Quindi è vero» disse qualcuno dai primi banchi. «Il tuo cognome è Risk.» Clank, clank. Sentii rimbombare in testa il rumore delle catene che mi serravano i polmoni. Dopo la bella performance di Ryan in palestra, tutta la scuola aveva iniziato a parlarmi alle spalle, e non perché fossi uno scherzo della natura. No, mormoravano per motivi ben peggiori. Mi esaminavano con occhio critico e invidioso perché volevano conoscermi… o meglio, volevano conoscere mio zio. «Sei parente di Scott Risk?» chiese una ragazza castana con i capelli corti. Tutta la classe si voltò a guardarmi. Mi stavano sudando le mani. «Signorina Risk?» mi esortò la professoressa. Non ero sicura del motivo del richiamo: perché ero l’unica a non essere andata alla lavagna, o perché non avevo risposto alla domanda. Guardai il quaderno vuoto. Avevo il batticuore per il panico. Che potevo fare? La professoressa distese le labbra in un ghigno sdolcinato. «Prego, soddisfi pure la curiosità dei suoi compagni.» Il primo giorno di scuola Scott aveva incontrato in privato ciascuno dei miei insegnanti, per “assicurarsi che fossi in mani più che buone”. La strega aveva flirtato con Scott finché non le aveva fatto un autografo. Probabilmente aveva il suo viso tatuato sul sedere. Sentii il sudore bagnarmi la nuca, e mi girò la testa. Tutti quei cambiamenti… troppe cose. Avevo perso mia madre. Isaiah. La mia casa. Ci avevo provato, davvero. Avevo vagato per i corridoi come una specie di eremita fuori di testa. Quella risposta avrebbe cambiato di nuovo le carte in tavola. «Sì.» I mormorii e i commenti si diffusero in aula come raffiche di vento prima di un temporale. La professoressa divenne stranamente allegra. «Sono certa che Beth sarà felice di rispondere alle vostre domande sullo zio dopo la lezione. Ora, signorina Risk, vuole cortesemente venire qui e scrivere la soluzione all’equazione di oggi?» «No» dissi senza pensare. No a entrambe le richieste. Non avrei risposto a nessuna domanda e non avrei scritto nessuna soluzione. La mia risposta zittì la classe.

«Prego?» chiese lei. Guardai di nuovo il foglio bianco. Col cavolo che sarei andata a quella lavagna pulita, così tutto il mondo avrebbe visto la nipote del grande Scott Risk fare fiasco, solo perché ero un’idiota. «Non ho intenzione di scrivere la soluzione.» La campanella suonò, e l’espressione della professoressa diede un nuovo significato al termine furioso. Un altro chilo di catene mi avvolse lo stomaco. Alla fine l’avevo fatto… avevo infranto una delle regole di Scott, e anche pubblicamente. Non avevo pensato alle conseguenze per mamma? «Signorina Risk» mi richiamò dalla cattedra, mentre il resto della classe sgusciava fuori. La raggiunsi, sapendo che – per quanto fossi nei casini – non era ammesso un pubblico. «Ci sono un paio di regole di cui dovremmo discutere.» E ne “discusse” per molto tempo, finché non si decise a lasciarmi andare e mi lanciai di corsa giù per le scale. Scott aveva detto chiaramente che non dovevo mai perdere il pullman. Intravidi gli autobus ancora fermi dalla finestra del pian terreno. Sarebbero partiti in una manciata di secondi. Un fischio acuto richiamò la mia attenzione. Ryan se ne stava appoggiato all’ultimo armadietto, con un sorrisino infame sul viso. Sollevò la mano destra, rivolgendo il palmo verso di me. C’erano scritte due parole che mi fecero venire voglia di vomitare: Posso farcela. I pullman lasciarono il parcheggio. Ryan ritrasse la mano e uscì dalla porta principale.

Una profonda risata gutturale riempì la sala pesi della scuola quando Chris si strappò dalla schiena il foglio con su scritto PRENDETEMI A CALCI, omaggio di Logan. Altre risate quando Chris appallottolò il foglio, lo lanciò a Logan e gli alzò il medio. «D’accordo, signorine.» Il coach sbatté la mano contro un armadietto per ottenere attenzione. «Ho la lista dei recuperi di questa settimana.» La risata sfumò in un lamento. Il coach prendeva molto sul serio i nostri voti. Ogni settimana tormentava i professori per avere un resoconto dei nostri progressi, e se i voti vacillavano, ci toccavano le ripetizioni con un tutor dopo scuola. Passai le mani sull’asciugamano e mi preparai a stendermi per finire la serie di sollevamenti. Non ero Logan, ma avevo dei voti decenti. «Allen, Niles e Jones.» Chris gettò indietro la testa e gemette. «Maledette scienze.» Gli lanciai l’asciugamano. «Divertiti.» Non c’era niente che potesse scalfire il mio buonumore. Finalmente avevo avuto la meglio su Beth. Ed era anche ora, dannazione! Nessuno era mai riuscito a tenermi testa per tanto tempo. «Va’ al diavolo, Ryan.» Chris lasciò la sala senza guardarsi indietro. «Stone!» «Sì?» Il coach mi fissò perplesso, e sollevò il pollice nella direzione appena presa da Chris. «Aula studio.» «Per che cosa?» I miei voti erano buoni. Lui scrollò le spalle. «La professoressa di letteratura inglese ha chiesto di te.» Rispondere a tono mi avrebbe procurato solo flessioni o giri di campo, così ingoiai qualsiasi commento e uscii dalla sala, verso i corridoi vuoti. Quando raggiunsi l’aula studio, fui accolto dalle risatine di Chris. Si rilassò sulla sedia, ignorando il libro di scienze che aveva davanti. «La mia vita è appena migliorata.» Se non ci fossero stati professori e tutor nella stanza, lo avrei mandato al diavolo adeguatamente. «Di qua, Ryan.» La signora Rowe mi fece un cenno con la mano, neanche fossi dall’altra parte di uno stadio. Quel giorno aveva i capelli verdi. La salutai con un cenno del mento mentre raggiungevo il banco. Le sedetti accanto. «Ho superato il test e ho consegnato i compiti.» Lei agitò la mano. «Oh, non sei certo qui per i voti.» Strinsi gli occhi, e i muscoli si tesero. «Allora che ci sto a fare?» Lei si mise a frugare in una pila di fogli, alla ricerca di qualcosa. Forse del cervello. «Il coach ha detto che potevamo richiedere la vostra presenza per qualsiasi motivazione di ordine scolastico. Non deve necessariamente essere brutta. Smettila di essere così pessimista.»

Pessimista? «Mi sto perdendo gli allenamenti con i pesi.» «A quanto pare, sì» rispose lei mentre prendeva dal mucchio la mia storia di George lo Zombie. «Non hai ancora consegnato il racconto per il concorso di scrittura. Quello che davvero dovrebbe preoccuparti è perdere questa opportunità di ottenere una borsa di studio per l’università. Se vincerai il concorso, avrai in premio del denaro per qualsiasi università del Kentucky che sceglierai. Non è una borsa di studio completa, ma è già qualcosa.» «Io non andrò all’università» le dissi, schietto. Lei si bloccò e mi fissò come se le avessi appena preannunciato una morte prematura. «Perché no?» Le indicai la maglietta. Ma faceva sul serio? «Sono un giocatore di baseball. Ho intenzione di giocare.» «Puoi giocare a baseball all’università, Ryan…» farfugliò, poi mi mostrò il racconto. «Non avevo mai letto un componimento migliore scritto da uno studente del liceo. Mai. Hai mai pensato di essere qualcosa di più che un giocatore di baseball?» Aprii la bocca per risponderle, ma non sapevo cosa dire, e ne fui talmente sorpreso che la richiusi. Avevo il vuoto in testa. Ero un giocatore di baseball, e maledettamente bravo, anche. Non era sufficiente? «Ti sei almeno preso la briga di leggere le informazioni che ti ho dato sul concorso? Sono tre anni che ti osservo, sei ossessionato dalla vittoria. Non ti interessa vincere anche questa competizione?» Non dissi nulla, e arrossii. La signora Rowe mi aveva appena dato una strigliata, e a buon diritto. Non avevo letto l’opuscolo. Non avevo nemmeno preso in considerazione il concorso, dalla sera in cui mi aveva detto che ero in finale. «Ho la sensazione che ti sia piaciuto scrivere questo racconto. Ti è riuscito troppo bene perché non sia così.» E aveva di nuovo ragione. Mi era piaciuto. Trovare quelle parole, essere nella testa di George… guardai i fogli stampati… era stato liberatorio. La stessa sensazione del momento in cui salivo sul monte di lancio prima di una partita, e l’adrenalina schizzava a mille. Quel momento in cui c’eravamo solo io, la palla e il guantone in cui lanciarla. E si chiese cos’era successo al mondo intorno a lui. Il caos era arrivato fin lì? La realtà aveva smesso di essere tale, proprio come la sua vita era sprofondata in un vortice di vuoto? O il resto del mondo era andato avanti normalmente, perché tutto sommato il suo ruolo non era poi così importante? Sembrava che le parole che io stesso avevo scritto mi stessero guardando in tono accusatorio. Un dolore assillante mi serrò lo stomaco. Ero fiero di quelle parole, e negare il concorso sarebbe stato come negare una parte di me. Davanti al computer non c’erano segreti, difficoltà… solo un mondo che ero in grado di controllare. «Per poter vincere il premio» continuò la signora Rowe «devi completare un racconto breve e consegnarlo una settimana prima della premiazione. Comunque vada, vogliono che tu sia presente quel giorno, perché il tuo lavoro verrà recensito e incontrerai i membri del consiglio di facoltà delle università dello Stato. È solo un giorno. Solo un sabato.»

Già immaginavo la reazione di mio padre. «Di sabato ci sono le partite.» Con la coda dell’occhio guardai Chris, che mi stava fissando attentamente. Quanto era riuscito a sentire? «La squadra ha bisogno di me.» Lei diede un colpetto alle pagine che avevo davanti. «Cominciamo a piccoli passi, ok? Inizia trasformando queste quattro pagine in un vero racconto breve. Posso farti esonerare dagli allenamenti con i pesi, o puoi promettermi che scriverai nel tempo libero a casa. A te la scelta.» Piuttosto scontata. «Lo farò nel tempo libero.» «Bene.» Le si illuminarono gli occhi. «Ma resterai comunque qui per la prossima ora. Voglio che inizi subito.»

Beth

L’auto di Allison era una Mercedes. Interni in pelle. Carrozzeria nero corvino. Isaiah si sarebbe eccitato all’ennesima potenza per tutto il ciarpame nel cofano. Allison guidava rapida per le strade di quella campagna isolata, e un paio di volte lo stomaco mi andò sottosopra come sulle montagne russe. «Puzzi di fumo.» Indossava un completo rosso e tacchi a spillo neri. I capelli biondi erano raccolti in uno chignon fin troppo stretto. Forse era per quello che aveva quell’aria nervosa. Mentre aspettavo che si congedasse dal Comitato Organizzativo Femminile, avevo fumato una sigaretta scroccata a un tossico prima dell’incidente alla lezione di calcolo. Speravo mi aiutasse a superare la discussione che avevo avuto con Ryan. Non capivo perché, ma litigare con lui mi faceva star male. Un po’ come mi succedeva dopo uno scontro con Isaiah. «Te lo sei sognato.» «Quando torni da scuola, puzzi sempre di fumo. Scott forse vuole passarci sopra, ma non potrà ignorare la bravata che hai combinato in classe.» Allison imboccò l’ampio viale circondato dai boschi, e si accorse della mia occhiataccia. «Hai capito bene, la professoressa ha telefonato.» Merda. Non avevo idea di come tirarmi fuori da quel casino. Scott e Allison vivevano in una casa bianca a due piani, con tanto di portico. Sembrava tanto una di quelle che si vedevano nei film sulla Guerra Civile, con i ricchi proprietari terrieri e le piantagioni. Una parte della casa era circondata dai boschi, l’altra dava su un pascolo con un fienile. Allison parcheggiò l’auto fuori dal garage a quattro posti, e mi afferrò il polso prima che potessi schizzare fuori. «Hai idea di quando mi sia sentita in imbarazzo ad andarmene prima dalla riunione, a causa della tua telefonata? Questa è una piccola città. I tuoi professori frequentano la nostra chiesa. Quanto tempo credi che servirà prima che tutti si rendano conto di che minaccia sei? Non ti permetterò di rovinarci la vita.» «Toglimi le mani di dosso.» Prima abbassai lo sguardo sulle dita, poi lo puntai dritto nei suoi occhi. Nessuno aveva il permesso di toccarmi. Lei mi lasciò come se avesse toccato il fuoco. «Perché non te ne vai? Perfino Scott sa che sei insopportabile.» Avrei scommesso che Scott riteneva insopportabile anche lei. Non l’avrei mai immaginato con una così. Una donna con la manicure, tirata a lucido e senza cuore. «Ti ha stupito scoprire che non sarebbe stato difficile incastrarlo?» «Cosa?» «Quando gli hai…» mimai il gesto delle virgolette. «…raccontato di essere incinta, sei rimasta sorpresa quando ti ha chiesto di sposarlo? Scott ha un debole per i bambini. Per quale altro motivo avrebbe dovuto metterti l’anello al dito?» Una vampata di rossore le colorò il décolleté, e si portò le mani al collo. «Non so nemmeno che cosa mi stai chiedendo.» Si schiarì la gola, palesemente sconvolta. «Scott non ha nessun debole per i bambini.»

Ma ci aveva mai parlato con il marito, quella? «Se non fosse stato per mia mamma, avrebbe sposato metà delle ragazze incinte del nostro parcheggio delle roulotte.» Pur non essendone il padre. Lei si portò le mani all’addome e smise praticamente di respirare. «Che cos’hai detto?» «Mi hai sentito.» «Fuori di qui» ringhiò. «Con piacere.» Aprii lo sportello e lo chiusi con forza, facendo poi la stessa cosa con la porta di casa. Prima ancora che potessi raggiungere la stanza degli ospiti che Scott mi aveva assegnato, entrò anche Allison e sbatté la porta con la stessa forza, anzi forse anche di più. Scott aprì la porta del suo ufficio… la stanza in fondo al vestibolo, di fronte alla mia camera da letto. Portava una camicia di cotone con i bottoni al colletto. Dannazione! Era tornato a casa prima dal lavoro, una fabbrica di mazze da baseball a Louisville. Aggrottò le sopracciglia. «Che diavolo succede?» Allison mi puntò contro il dito. «Sbarazzati di lei.» Scott appoggiò le mani sui fianchi. «Allison…» «Hai avuto dei figli con le ragazze nel parcheggio per roulotte?» A mia difesa, non era quello che avevo detto, ma perfino io capii che era il caso di tenere la bocca chiusa. Scott si fece rosso in viso, poi violaceo. «No.» Allison si portò le mani ai capelli, stringendoli e allentando lo chignon perfetto. «Lascia perdere i parcheggi. Non riesco a crederci, gliel’hai detto. Avevi giurato che non l’avresti detto a nessuno.» La mano scivolò all’altezza della pancia. Maledizione. Ci avevo preso, in un certo senso. Gli aveva detto di essere incinta, solo che non gli aveva mentito come credevo. Era davvero incinta, ma doveva aver perso il bambino. Se l’avessi saputo, non avrei mai detto quelle cose. Il senso di colpa mi diede la nausea. «Aspetta. Non le ho detto niente.» Scott cercò di avvicinarsi, ma si bloccò con la mano in aria quando Allison arretrò. Ci provò di nuovo, e quando la vide immobile, la strinse fra le braccia attirandola a sé. Chinò la testa e prese a sussurrarle qualcosa all’orecchio. Le spalle di Allison stavano sussultando, e mi sentii una guardona a invadere quel momento così intimo. Scivolai in camera mia e cercai di chiudere la porta senza far rumore. Il sole risplendeva attraverso le pareti a finestra. Mi trascinai al centro del letto, tirando le gambe al petto e raggomitolandomi. Odiavo quella casa. C’erano troppe finestre, tutte panoramiche e aperte. Mi facevano sentire… esposta.

Ero in garage, appena fuori dall’ufficio di papà a prepararmi per la chiacchierata che stavamo per fare. Strinsi forte in mano i documenti per l’iscrizione al concorso letterario. Bussai due volte alla porta, e papà mi disse di entrare. Mio padre aveva costruito da sé tutto il mobilio della stanza, tranne la poltrona su cui sedeva: la scrivania cromata e l’armadio coordinato, il mobiletto della stampante, il grande tavolo da disegno su cui c’erano un mucchio di progetti per i clienti del momento. Era stato lui a sparare ai due cervi, le cui teste erano appese alla parete. L’aria condizionata si accese e un paio di fogli fecero rumore scontrandosi a terra vicino allo sfiato. Papà teneva bene l’ufficio, ordinato e curato. Mi guardò per un istante, poi tornò a fissare il manuale rilegato sulla scrivania. Si era tolto la cravatta, ma aveva ancora la camicia bianca che usava per lavoro. «Che posso fare per te, Ryan?» Presi posto sulla sedia di fronte a lui, in cerca delle parole. Prima che Mark se ne andasse, non avevo mai avuto problemi a parlare con lui. Le parole venivano automaticamente. Adesso era difficile trovarne. Guardai i fogli che stavo stringendo. Non era vero. Dalla partenza di Mark, scrivere aveva reso la mia vita leggermente più tollerabile. «Ti ricordi il compito dell’anno scorso, quello del racconto breve?» Papà mi guardò con aria confusa e si massaggiò la nuca. «Quello che hai definito fastidioso perché si doveva consegnare durante gli spareggi in primavera» gli ricordai. Gli si accese la lampadina e annuì, tornando al manuale. «Hai scritto di un lanciatore che era tornato dal regno dei morti, se non sbaglio.» In realtà era un lanciatore che si era venduto l’anima al diavolo per un campionato perfetto, ma non ero lì per puntualizzare. «La professoressa di inglese ha fatto storie? Troppa violenza?» Inghiottii, con la gola secca. «No. Uhm… sono arrivato in finale a un concorso letterario.» Quello attirò la sua attenzione. «Ti sei iscritto a un concorso letterario?» «No, la signora Rowe ha fatto partecipare tutta la classe al concorso nazionale di scrittura. Era aperto a tutti gli studenti del liceo che non dovevano diplomarsi in primavera. D’estate hanno esaminato i lavori, e sono arrivato in finale.» Papà sbatté gli occhi e sorrise. Molto lentamente, ma alla fine sorrise. «Congratulazioni. L’hai detto a tua madre? Le dai una gioia andando bene a scuola.» «Nossignore, non ancora. Volevo parlarne prima con te.» L’avrei detto a tutti e due insieme, ma da quando Mark era andato via, facevano fatica a stare nella stessa stanza. «Dovresti dirglielo.» Il sorriso sparì, e guardò altrove. «Ne sarà felice.» «Lo farò.» Inspirai a fondo. Potevo farcela. «Fra un paio di settimane c’è l’ultimo turno del

concorso a Lexington. Devo andarci se voglio vincere.» «Del viaggio se ne occuperà la signora Rowe o la scuola ti fa andare per conto tuo?» «È di sabato, posso arrivarci in auto da solo.» «Di sabato» ripeté papà. «La signora Rowe ha fatto storie quando le hai detto che non puoi? In quel caso, le parlerò io. Non vedo perché dovrebbe avercela con te. Sono certo che può sostituirti con un altro dei suoi studenti.» Si rilassò nella poltrona e incrociò le dita all’altezza dello stomaco. «Ho incontrato Scott Risk alla partita, ieri. Non si è fermato molto per problemi familiari, ma ti ha visto lanciare e ne è rimasto colpito. Ha parlato di un raduno che gli Yankees dovrebbero tenere in autunno. So cosa stai per dire: “Non gli Yankees”, ma una volta che avrai mostrato il tuo talento, potrai cambiare squadra.» Mi persi in un turbinio di pensieri. Scott Risk mi aveva visto giocare. Era una cosa fantastica e strana insieme. Fantastica perché Scott aveva dei contatti… soprattutto fra i talent scout. Strana perché Beth mi avrebbe crocifisso agli occhi di suo zio. Non era importante. O forse lo era, ma non in quel momento. Ero lì per parlare del concorso letterario. Un concorso che papà non aveva nemmeno preso in considerazione. «Vorrei gareggiare. Posso giocare la partita di giovedì, e sabato cedere il posto a uno dei lanciatori di riserva.» Papà aggrottò la fronte. «E perché dovresti? Le squadre di un certo livello giocano di sabato.» Scrollai le spalle. «La signora Rowe ha detto che ci saranno un sacco di delegati universitari, e che parecchi finalisti ottengono delle borse di studio. Magari unendo una borsa di studio per meriti sportivi a quella che potrei vincere con il concorso letterario, non dovresti spendere più di tanto.» Papà sollevò la mano. «Aspetta, aspetta un attimo. Delegati universitari? Borse di studio? Da quando ti interessano queste cose?» Più o meno dalla chiacchierata con la signora Rowe. «Tu e Mark avete esaminato le varie università. Con me non ne hai ancora parlato, così ho pensato che sarebbe stata l’occasione giusta per…» Papà divenne rosso in viso e, quando parlò, sputò praticamente fuori ogni parola. «Il suo era un caso diverso. Non si accede al campionato di rugby dopo il liceo, devi per forza andare all’università. Tu dopo il diploma puoi cominciare subito con la Minor League. Diavolo, Ryan, potresti cominciare direttamente con la Major!» «Ma Mark ha detto…» «Non pronunciare di nuovo quel nome in mia presenza. Non parteciperai al concorso. Fine della storia.» No, non era finita lì. «Papà…» Mio padre prese una busta dalla scrivania e me la lanciò. «Duecento dollari di auto al mese per consentirti di andare alle partite e agli allenamenti.» La busta mi finì sulle gambe, e mi si strinse la gola. «L’assicurazione della macchina, il tesseramento, le uniformi, i viaggi, le tasse della lega…» «Papà…» Volevo che la smettesse, ma niente. «La benzina per la jeep, gli allenamenti privati… sono diciassette anni che ti finanzio!» Scattai per la rabbia. «Ti avevo detto che mi sarei trovato un lavoro!» «È questo il tuo lavoro!» Papà diede un pugno alla scrivania, nello stesso modo in cui un giudice avrebbe interrotto qualsiasi discussione. Una pila di fogli in bilico cadde a terra.

Silenzio. Restammo a guardarci senza batter ciglio, immobili. L’aria si riempì di una tensione palpabile. Papà lasciò scorrere lo sguardo sulla scrivania e inspirò profondamente. «Vuoi sprecare quattro anni della tua vita ad andare a scuola, quando puoi stare in campo a giocare a baseball con tanto di stipendio? Guarda Scott Risk. Non aveva niente, e guarda cos’è diventato. Tu almeno parti da qualcosa. Hai una serie di possibilità che lui non aveva. Pensa a cosa puoi fare della tua vita.» Strinsi i pugni così forte che i documenti del concorso si spiegazzarono rumorosamente. Era giusto? Anche se si trattava di una sola partita, era giusto che voltassi le spalle a qualcosa per cui i miei genitori avevano fatto tanti sacrifici e sforzi? E poi, si parlava del baseball. Il baseball era tutta la mia vita… per mia scelta. Non aveva proprio senso quella lite. «Ryan…» Papà si passò una mano sulla faccia, e la voce gli tremò: «Ryan… mi dispiace. Per aver urlato». Fece una pausa. «Problemi al lavoro… con tua madre…» Mio padre e io non avevamo mai litigato. Strano, forse. Conoscevo una marea di ragazzi che si beccavano di continuo con i propri padri. Io no. Papà non mi aveva mai imposto un coprifuoco. Mi aveva sempre ritenuto abbastanza responsabile da scegliere se infilarmi nei casini, e diceva che se anche mi ci fossi ritrovato, avrei saputo uscirne. Mi aveva sempre incoraggiato con il baseball. Più di quanto avrebbe fatto la maggior parte dei genitori. Si era sempre preoccupato per me, e anche in quel momento… lo stava facendo. Annuii parecchie volte prima di rispondere, senza sapere nemmeno a cosa stavo acconsentendo. Qualsiasi cosa, pur di mettere un punto a quella confusione. «Va bene. Ok. Ho detto una cavolata.» Accartocciai i fogli in mano. «Hai ragione. Questo…» Sollevai la pallina di carta. «Non è niente. Una cosa stupida.» Papà cercò di sorridere. «Va tutto bene. Vai a dirlo a tua madre. Ne sarà entusiasta.» Mi alzai per andarmene, cercando di ignorare il senso di vuoto che provavo nel cuore. «Ryan» mi richiamò e io mi voltai a guardarlo dalla soglia. «Fammi un favore… non raccontare a tua madre dell’ultima parte del concorso. È molto nervosa ultimamente.» «Certo.» Che senso avrebbe avuto parlargliene? Mamma aveva un suo sistema per capire se non ero sincero, e non avevo voglia di scoprire che le parole appena mormorate a mio padre erano tutte bugie.

Beth

L’orologio segnava le nove e quarantacinque e Isaiah finiva di lavorare alle dieci. Il dito fisso sul tasto di chiamata rapida si era intorpidito. Il sole era tramontato poco prima, lasciando la stanza al buio. Non mi ero spostata di un millimetro dal mio posticino sul letto. Scott non era venuto, né tantomeno Allison. Né per rimproverarmi per la scuola e la lite con Allison, né per la cena. Mi erano venuti i conati di vomito per due volte. Scott avrebbe mandato mamma in prigione. Forse aveva già chiamato la polizia. La parte ironica di tutto quell’incubo? Che ci avevo provato. Ci avevo provato, e avevo fallito. Roba da non credersi. Alle dieci avrei chiamato Isaiah, e sarebbe venuto a prendermi. Ci saremmo diretti verso la costa. Saremmo scappati. Peccato non poter convincere mamma a venire con noi. Isaiah e io l’avremmo raggiunta prima della polizia. Mi tirai su a sedere, invasa da un fiotto di speranza tale che mi girò la testa. Sarei riuscita a convincere mamma a scappare. Sarebbe venuta via con noi. Qualcuno bussò alla porta. Feci scivolare il cellulare sotto il cuscino. «Avanti.» Scott entrò nella stanza e accese la luce. Indossava una maglietta nera e un paio di jeans. Per la prima volta, mi sembrò di rivedere il ragazzo che si prendeva cura di me quando ero piccola, e il mio stupido cuore ebbe un sussulto. Mi alzai dal letto. Dovevo dirgli che mi dispiaceva. «Scott…» Non mi lasciò continuare, gli occhi fissi sul tappeto. «Non ho intenzione di ascoltare le tue lamentele. Rivolgiti di nuovo in quel modo ad Allison, e ti assicuro che te ne farò pentire. È mia moglie e la amo.» Annuii, ma lui non mi stava guardando e non se ne accorse. Prese il portafogli e sbatté un biglietto da visita sul comò. C’erano il nome e il numero del funzionario che si occupava della libertà vigilata di mamma. «Ho parlato con lui, stasera. È una brava persona. Sapevi che tua madre si farà dieci anni dentro, se viola la libertà vigilata? Dieci anni. Questo senza contare le accuse che le cadranno addosso se racconto ciò che so. È una tua scelta, Elisabeth. In qualsiasi caso, resterai a vivere qui fino ai tuoi diciott’anni. Saranno le tue azioni a decidere se tua madre andrà in prigione.» Mi tremarono le gambe dal sollievo. Non aveva ancora denunciato mamma. Potevo ancora farcela. La testa era già concentrata su come muovermi. Dovevo trovare un modo per arrivare a Louisville, convincere mamma a partire con me, poi trascinare a bordo anche Isaiah… «Ultima chance.» Scott mi strappò ai miei pensieri. «Questa volta voglio la perfezione.» Sbatté la mano contro il cassettone, e l’ultima sigaretta che avevo scroccato rotolò fuori da una cartellina e poi a terra. Maledizione. Scott si accovacciò a fissare la sigaretta, prima di prenderla. Si comportava come se fosse una canna, non semplice tabacco. Che cavolo, a quel punto poteva anche essere una siringa con dell’eroina dentro. «Posso spiegare.» In realtà no, ma una volta avevo sentito Noah usare quella frase con Echo, e

gli aveva fatto guadagnare tempo. Quando si alzò, vidi che gli tremava la mano. Le mani di mio padre tremavano sempre. «Stronzate. Ti porto a casa mia.» Esitò, cercando chiaramente di tenere sotto controllo la rabbia. Mi faceva paura il fatto che non mi guardasse. «Ti metto un tetto sulla testa, e non hai nemmeno la decenza di seguire le mie regole.» La rabbia silenziosa mi faceva paura. Ubriachi, idioti, quelli facili agli scatti d’ira… tutta gente che sapevo gestire. Capivo quando era il momento di defilarmi. Quelli che si tenevano dentro la collera, che riuscivano a pensare a cosa fare e come farlo, quelli sì mi spaventavano perché facevano danni seri. Una vocina, che assomigliava tanto alla mia da bambina, mi sussurrò che Scott non mi avrebbe mai fatto del male. Che mi avrebbe protetta. Una volta. Non conoscevo l’uomo che era diventato. «Ci ho provato» sussurrai. «Stronzate!» Scott urlò così forte che i cristalli sulla lampada tintinnarono. Feci una piccola smorfia e un passo indietro. «Hai fatto tutto quello che potevi per far del male a me e ad Allison.» Inghiottii. Il compagno di mamma, Trent, iniziava in quel modo. Veniva a casa calmo e tranquillo, con la rabbia che gli ribolliva in corpo. Poi iniziava a urlare. E infine a colpire. Anche mio padre aveva quella rabbia. Come nonno. Il cuore iniziò a battere all’impazzata quando Scott stritolò la sigaretta nel pugno. Per la prima volta, mi guardò. «Gesù, tu stai tremando.» Fece un passo verso di me e io arretrai. Quando sentii la finestra contro la schiena, tesi le mani alla ricerca di qualcosa – qualsiasi cosa – con cui proteggermi. «Vai fuori.» La rabbia è passata, sentii la voce di quella bambina nella mente, ma la ignorai. Era morta insieme al mio amore per i nastri, i vestiti e la vita. Non era altro che un fantasma. «Mi dispiace» disse lentamente lui, mantenendo la distanza. «Non mi sono reso conto di averti spaventata. Ero furioso. Allison stava male. Detesto vederla piangere, e poi ha chiamato la tua professoressa… ma sono calmo, te lo giuro.» Ci avevo provato. L’avevo fatto davvero. Ci avevo provato, ed ecco cosa ci avevo guadagnato. Ero intrappolata in una stanza piena di finestre, con un uomo che assomigliava a mio padre. Anche lui diceva di essere calmo, ma non lo era mai. «Esci!» «Elisabeth…» «Fuori!» Agitai le mani in aria davanti a me, facendogli cenno di allontanarsi. «Vattene!» Scott spalancò gli occhi. «Non voglio farti del male.» «È tutta colpa tua!» urlai, e avrei voluto fermarmi, ma se l’avessi fatto avrei cominciato a piangere. Gli occhi umidi mi bruciavano. Il labbro era così pesante che tremava. Non potevo piangere e non l’avrei fatto. Mi aggrappai alla rabbia, e aprii di nuovo la bocca. Col cavolo che gli avrei permesso di farmi piangere. «Sei tu che mi hai trascinato qui. Non ti basta avermi strappato via da casa? Devi umiliarmi anche a scuola?» «Umiliarti? Elisabeth, di che stai parlando?» «Io non sono Elisabeth! Guardami!» Con una mano per poco non mi strappai i vestiti di dosso, con l’altra afferrai il libro di calcolo dal comodino e glielo lanciai addosso, mirando alla testa. Scott lo evitò, e il libro fece un rumoraccio schiantandosi contro il muro. «Tu vorresti che fossi un’altra persona, non vuoi me. Sei esattamente come papà! Non mi vuoi qui!» Annaspai, come se l’aria non fosse abbastanza. Cadde un pesante silenzio, in cui mi sembrò di annegare.

«Non è vero.» Scott si fermò, come in attesa di una risposta. Raccolse il libro e lo posò sul comò. Proprio accanto al biglietto da visita del funzionario di mamma. «Cerca di dormire. Ne parliamo domattina.» No, non avremmo parlato. Lui andava a lavorare prima che io mi svegliassi per andare a scuola. Scott chiuse piano la porta. Mi lanciai di corsa a chiuderla a chiave e spegnere le luci, poi tirai via le coperte dal letto, in cerca del cellulare. Le dita tremavano mentre digitavo il numero. Sentivo il cuore battere fin nelle orecchie, a ritmo con il nome della persona di cui avevo bisogno: Isaiah. Un battito. Isaiah. Il telefono squillò. Isaiah. «Ehi.» Mi appoggiai all’anta dell’armadio al suono della sua voce pacata. «Mi stavi facendo preoccupare. Sono le dieci e cinque. Sei in ritardo per la nostra telefonata da un minuto.» Sperando che il labbro smettesse di tremare, chiusi gli occhi e cercai di tenere a freno le lacrime. Fu tutto inutile. Alla prima parola sarei scoppiata in lacrime, e piangere non era da me. «Beth?» C’era preoccupazione nella sua voce. «Sono qui» sussurrai, e bastarono quelle due parole a farmi esplodere. Isaiah e io non eravamo gente da chiacchierate al telefono, nemmeno prima. Guardavamo la TV, andavamo alle feste. Ce ne stavamo seduti l’uno accanto all’altra. Eravamo lì, l’uno per l’altra. Come potevamo riuscirci al telefono? Ed era proprio di quello che avevo bisogno, che Isaiah ci fosse e basta. «Beth…» esitò lui. «È quel Ryan, ti sta dando altri problemi?» Inghiottii una sorta di singhiozzo. Non avrei pianto. No. «Diciamo.» Insieme ad Allison, mio zio, la scuola, tutto, e mi sembrava che le mura stessero crollando, una valanga pronta a seppellirmi. Isaiah restò in silenzio. Mi morsi il labbro quando una lacrima scivolò sulla guancia. «Vuoi che ti lasci andare?» Maledizione. Maledizione e basta… non era da me piangere. «Perché lo so che non parli. Voglio dire, noi. Noi non parliamo.» Imprecai fra i denti, la voce tremolante. Lo avrebbe capito da solo che stavo male. Ancora silenzio. Si sentiva l’aria frusciare. Mi avrebbe lasciata andare, e io sarei crollata. Non avrei avuto niente a cui aggrapparmi. Niente che potesse farmi da ancora. Sarei stata proprio quello che tutti volevano che fossi… nulla. «Mi sta bene anche il silenzio, Beth.» Ero ancora in quella casa, in quella stanza con troppe finestre, ancora esposta – completamente – e in una realtà infernale. Ma avevo Isaiah, lui era la mia ancora. Mi lasciai scivolare contro il muro fino a terra, dove mi raggomitolai con le ginocchia al petto. «Ho bisogno di te.» «Sono qui.» E restammo seduti in silenzio.

Seduto sul letto, lessi il messaggio. Prima la litigata con papà, poi, alle dieci di sera, Gwen mi aveva mandato quelle due parole: Beth Risk??? Si aspettava una risposta. Almeno nel baseball, ero in grado di afferrare le palle che mi lanciavano. Papà e Gwen? Mi stavano letteralmente facendo a pezzi. Non avevo il dovere di risponderle. Potevo fingere di non aver letto il messaggio. Lei adorava il teatro. Io il baseball. Lei detestava le mie partite e io detestavo i suoi spettacoli. Avevamo smesso di baciarci e toccarci, di uscire insieme, eppure in qualche modo, come quella sera sulla panchina, i giochi non erano finiti. Le risposi: Che c’entra? L’attesa della replica si prolungò all’infinito. Guardai ovunque tranne che verso il cellulare, come se servisse a farla rispondere più in fretta. D’estate, dopo la partenza di Mark, mamma aveva ritinteggiato di azzurro la stanza. Le piaceva ristrutturare tanto quanto a papà piaceva costruire. Una volta lavoravano insieme ai progetti, prima che il nostro mondo andasse in frantumi. Gwen: Dimmelo tu. Quanto odiavo i messaggi. Non si capiva quello che l’altra persona intendeva veramente. Decisi di osare. Correre il rischio di fare la figura dell’idiota, se avesse ignorato la mia richiesta. Io: Chiamami. Il cuore prese a battere più in fretta. L’avrebbe fatto? Mi avrebbe lasciato in sospeso? Da quando ci eravamo lasciati, se iniziavamo a mandarci messaggi, ero io a chiamarla. Il cellulare squillò e sorrisi. Risposi al terzo squillo. «Gwen.» «Stone» disse lei, senza particolare entusiasmo. «Che succede?» Era un tira e molla imbarazzante che detestavo. Una volta passavamo le ore al telefono a parlare, adesso invece valutavamo all’inverosimile ogni singola parola e pausa. «Sapevi chi era fin dall’inizio.» Colsi una vaga accusa nella sua voce. Cercai di suonare indifferente. «E anche se fosse?» «Avresti potuto dirmelo.» Guardai i poster delle mie squadre preferite. Perché avrei dovuto dirle che Beth era la nipote di Scott Risk? Avevano alcune lezioni in comune. Avevano fatto le elementari insieme. Avrebbe potuto parlarci da sola con lei. «Perché l’hai nominata?» chiese. Sentii un vago fruscio. Gwen si era sdraiata sui cuscini. Ne aveva ben cinque nel letto, e dormiva con tutti e cinque. Potevo immaginare i capelli biondi spandersi a ventaglio. «Sai cosa significa per me il titolo di reginetta del ballo» disse. Già. Ero abituato a sentirla parlare incessantemente del suo sogno di vincere quel diadema luccicante. In realtà fingevo sia di interessarmi che di ascoltarla. «Sei stata tu ad appoggiare la

candidatura.» «Perché avrei fatto la figura della sfigata se non l’avessi fatto, e adesso devo lottare per ottenere voti. Sarebbe stato tutto più semplice se mi avessi detto prima che era la nipote di Scott Risk. Sul serio, Ryan, credevo che fossimo amici.» «Cosa te ne frega? Nessuno la conosce e lei non vuole amici.» Il suo sospiro frustrato mi fece irrigidire i muscoli ancora di più. «È diventata subito una celebrità e, per qualche folle motivo, alcune persone pensano che sia forte. L’hai nominata tu, e a scuola tutti sanno che le hai chiesto di uscire, quindi le hai dato credibilità. Se mi avessi detto fin dall’inizio chi è, avrei potuto ridimensionare il danno. Farmela amica, qualcosa del genere. Per colpa tua, ha una seria possibilità di vincere.» Avevamo rotto, quello non era un mio problema. Scelsi la solita risposta d’emergenza. «Mi dispiace di averti rovinato la vita, Gwen. La prossima volta che deciderò di fare qualcosa, mi assicurerò di avere il tuo permesso.» «Non è il tuo tipo» sputò fuori lei. Sbattei gli occhi. «Cosa?» «Beth è un tantino, come dire… bizzarra. Be’, è anche carina per chi ama lo stile la-mia-vita-è-undramma. Quello che intendo è che non saresti in grado di darle le attenzioni di cui ha bisogno. Insomma, con il baseball. Tutte ma… non lei.» Non lei. La rabbia mi serrò lo stomaco. Eravamo di nuovo al discorso della panchina… il baseball aveva rovinato la nostra storia. «Ti ricordo che abbiamo rotto, e che ora stai con Mike.» Avrei giurato che stesse sorridendo. «Ma avevi promesso che saremmo rimasti amici. Mi sto comportando da buona amica.» Amici. Odiavo quella parola. «Hai ragione. Beth è carina.» «Ha un piercing al naso.» Dalla voce, Gwen aveva smesso di sorridere. «Io lo trovo sexy.» Era vero. «Ho sentito che fuma.» «Sta cercando di smettere.» Ok, me l’ero inventato. «Pare che abbia un tatuaggio sulla schiena, proprio all’altezza dei reni.» Interessante. «Non sono arrivato a tanto, ma ti farò sapere visto che siamo amici.» Immaginai di sollevare la camicia di Beth e scoprirle la pelle, strappandole un sorriso. Avrei scommesso che aveva la pelle liscia come il petalo di un fiore. Le dita fremevano dal desiderio di sfiorarla, e mi ribollì il sangue all’idea della sua voce che sussurrava il mio nome. Dannazione, quella ragazza mi eccitava da morire. Mi passai una mano fra i capelli, cercando di liberarmi di quel pensiero. Che diavolo! «Ryan, non sto scherzando. Non è il tuo tipo.» «Allora dimmi tu chi lo è.» Lo dissi più rabbiosamente di quanto avrei voluto, ma ero stanco di quei giochetti. «Non lei, ok?» piagnucolò Gwen. L’idea di accarezzare Beth mi attirava e mi confondeva insieme. Sentii tre piccoli colpi alla porta prima che entrasse mamma. «Devo andare.» «Buona notte» replicò delusa Gwen. Mamma portava una giacca blu coordinata alla gonna. Quella sera era andata a una cena per sole

signore con la moglie del sindaco. «Ho interrotto qualcosa?» «No.» Lasciai cadere il cellulare sul comodino. «Mi sembri un po’ nervoso.» Si avvicinò all’armadio, guardò con soddisfazione il proprio riflesso allo specchio, e si sistemò la collana di perle. «Ti ho sentito dal corridoio.» Scossi la testa. «Solo Gwen.» Le mani si bloccarono sulla collana, e piegò le labbra in un sorrisetto. «Siete tornati insieme?» «No.» Mamma adorava Gwen, probabilmente aveva sofferto più lei di me per la nostra rottura. Continuò a guardarsi allo specchio. «Dovresti pensarci. Ho sentito che siete stati entrambi nominati per la corte del ballo d’autunno.» Le notizie viaggiavano alla velocità della luce nella nostra città. «Già.» «Sai, tuo padre e io fummo nominati per entrambe le corti, sia al ballo d’autunno che a quello d’inverno.» «Sì.» L’aveva già detto. Qualcosa come un milione di volte. E avevano vinto entrambe le volte. E se i suoi continui racconti non fossero stati sufficienti a rinfrescarmi la memoria, in soggiorno c’erano anche le loro foto mentre ballavano con le corone in testa. «Ho sentito anche che hanno candidato la nipote di Scott Risk.» «Uh-uh.» Se mamma era già al corrente di tutto, perché rompeva le scatole a me? «Cosa ne pensi di lei? Sua zia, Allison Risk, si è candidata per il seggio vacante al comitato per l’organizzazione degli eventi in parrocchia.» Ed ecco la risposta. La rispettabilità. Se Beth era un’emarginata, allora i suoi tutori sarebbero stati considerati dei pessimi genitori. Mamma voleva il merito di aver votato per la moglie di Scott Risk, ma non lo scandalo di aver appoggiato la tutrice di una “ragazzaccia”. Sia la famiglia di mia madre che quella di mio padre erano membri di quella comunità fin dai tempi della sua fondazione, e si parlava di centinaia di anni prima. Gli Stone erano un patrimonio. «È interessante.» Mamma si voltò. «Interessante. Che significa?» Scrollai le spalle. Significava che Beth mi stava impedendo di vincere la scommessa. Che metteva alla prova la mia pazienza. Che volevo vedere il suo tatuaggio. «Interessante.» Mamma si passò una mano sulla fronte, frustrata. «D’accordo. È interessante. Se ti venisse in mente un’altra parola, sai dove trovarmi.» Sì che lo sapevo. In pubblico, sarebbe stata al fianco di papà. In privato, nel punto esattamente opposto a dov’era lui. Mamma si fermò sulla soglia della porta. «E Ryan, ho parlato con la signora Rowe stasera.» Abbassai la testa e chiusi gli occhi per un attimo. Non era buono. Per niente. «Uh-uh.» «Vorrebbe sapere quando consegnerai il tuo racconto per la finale del concorso letterario a Lexington.» Porca miseria. Alzai la testa, ma le spalle si afflosciarono guardando mia madre. «Non ci sto lavorando. Interferisce con il baseball.» Mamma si irrigidì. «È una decisione di tuo padre o tua?» «Mia» mi affrettai a replicare. L’ultima cosa che volevo era che iniziassero un’altra litigata di dodici ore, soprattutto se riguardava me.

«Ne sono certa.» Mamma fece un cenno sprezzante. Qualcosa scattò dentro di me. «Logan ha visto Mark a Lexington qualche settimana fa. Ha chiesto di noi.» Lei divenne stranamente immobile. «Logan lo sa, mamma. E anche Chris.» La collera le alterò il viso. «Se tuo padre viene a sapere che l’hai detto a qualcuno… se in città si viene a sapere…» «Non lo racconteranno.» Lei chiuse gli occhi per un istante e sbuffò. «Ti prego, cerca di ricordare che quello che succede in questa casa, resta in questa casa. Chris e Logan sono tuoi amici. Non sono la tua famiglia.» Sentii la rabbia ribollire sul fondo dello stomaco. Come faceva a tagliar fuori qualsiasi emozione per suo figlio maggiore? «Non ti manca?» «Sì.» La sua risposta immediata mi colse di sorpresa. «Ma c’è troppo in ballo.» «Che cosa significa?» le chiesi. Mamma si guardò intorno nella stanza. Lo sguardo si soffermò sui poster. «Ho l’impressione che ridipingerò la camera. L’azzurro non è il tuo colore.»

Beth

Tump, tump, tump. Spalancai gli occhi, con il cuore che mi rimbombava nelle orecchie. I poliziotti. No, il compagno di mamma. A volte bussava di prima mattina, per sfruttare la confusione del sonno e farsi aprire la porta. Sbattei gli occhi quando vidi l’ombra delle tende sulla finestra. Tende. Non ero a casa. Inspirai e l’aria fresca si mescolò all’adrenalina nel sangue. Le vecchie abitudini erano dure a morire. «Elisabeth» disse Scott oltre la porta. «Svegliati.» Merda. Le sei di mattina. Ma perché non mi lasciava in pace? Il pullman sarebbe passato non prima delle sette e mezza. Mezz’ora era più che sufficiente a prepararmi per la scuola. Rotolai giù dal letto e trascinai i piedi scalzi fino alla porta. La luce accecante del vestibolo mi ferì gli occhi, perciò li strizzai e a stento riuscii a rendermi conto che Scott mi stava mettendo in mano una borsa. «Tieni. Ho preso le tue cose.» Mi stropicciai gli occhi assonnati. Scott indossava la stessa maglietta e lo stesso paio di jeans della notte prima. «Quali cose?» Mi rivolse la tipica occhiata da faccio-sul-serio e curvai le labbra in un sorriso accennato. Era uno sguardo che mi destinava sempre quando ero piccola, soprattutto quando non volevo mangiare la verdura o lo supplicavo di leggermi qualcosa. Scott replicò con un sorriso esitante. «Sono passato da tua zia a prendere i tuoi vestiti. C’era quel ragazzo, Noah, e mi ha fatto vedere dov’erano le tue cose. Mi dispiace se ho dimenticato qualcosa. In tal caso dimmelo, e un giorno di questi posso cercare di fare un salto dopo il lavoro.» Guardai la borsa. Le mie cose. Mi aveva riportato i miei vestiti e aveva parlato con… «Come sta Noah?» L’espressione allegra ed esitante sparì dal suo viso. «Non abbiamo parlato. Elisabeth, questo non cambia nessuna delle mie regole: voglio che ti sistemi qui a Groveton e lasci perdere la tua vecchia vita. Fidati di me su questo. Ok, marmocchia?» Ok, marmocchia. Era quello che mi diceva sempre, e mi ritrovai ad annuire prima di realizzarlo. Un’abitudine d’infanzia, quando credevo che Scott mettesse la luna in cielo e desse ordini al sole. Pessima abitudine per una ragazza. Smisi di annuire. «Posso mettere i miei vestiti?» «Pelle coperta e niente buchi in posti indecenti. Non provocarmi su questo, o darò fuoco a tutta la borsa.» Con il capo accennò alla cucina. «Colazione fra mezz’ora.» Presi il borsone in braccio come fosse un neonato. Le mie cose. Mie. «Grazie.» Un ringraziamento rigido e impacciato, ma avevo il merito di averlo espresso. TIRAI SU I JEANS SBIADITI A VITA BASSA fino ai fianchi, e sospirai di soddisfazione. Quanto mi siete mancati, amici miei. Jeans un po’ troppo aderenti. Qualche strappo sulle gambe. L’altro paio, quello che adoravo con i buchi proprio sotto il sedere, Scott lo avrebbe cosparso di benzina. Lo piegai

con cura e lo riposi nell’armadio. Per la prima volta in due settimane, mi sentivo me stessa. Una maglietta di cotone nera che aderiva ai fianchi. Cerchi d’argento alle orecchie. Cambiai l’anellino al naso con un punto luce falso. Mi guardai allo specchio e accolsi con gioia quel senso di leggerezza, perché sapevo che, una volta in cucina, mi sarei sentita di nuovo pesante. Alle sei e mezza in punto, entrai in cucina. Il rosso dell’alba colorava qui e lì il cielo. Scott era ai fornelli a friggere la pancetta, e l’odore mi fece venire l’acquolina in bocca. Di Allison nessuna traccia. Mi sedetti all’isola, dove c’erano un bicchiere con del succo di arancia e un piatto. Piatto e bicchiere dall’altra parte dovevano essere per lui. In mezzo c’era una pila di toast imburrati e polpette di salsiccia. «È tacchino o tofu o qualsiasi cosa cercate di far passare per cibo?» In quella casa era tutto salutare. Presi un toast e lo annusai. Mmm. Pane bianco e profumava di burro. Provai a leccarlo con la punta della lingua per verificare. Scott rise. Imbarazzata, rigirai in bocca la lingua e chiusi gli occhi in estasi. Oh, sì. Del burro vero. «No, non è tacchino. È tutto vero. Sono stufo di vederti digiunare.» Mentre si sedeva, appoggiò al centro un piatto con uova e pancetta fritte. «Se provassi la cucina di Allison, ti accorgeresti che non è affatto male.» Attaccai il toast, parlando fra i morsi. «È proprio questo il punto. Il cibo non dovrebbe essere “affatto male”. Dovrebbe essere buono e basta.» Scott controllò il mio abbigliamento prima di mettersi nel piatto un’abbondante porzione di uova strapazzate. «Mi piace il punto luce. Quand’è che ti sei fatta il piercing al naso?» «Quando ho compiuto quattordici anni.» Presi pancetta e polpette senza smettere di fissare le uova. Scott faceva delle uova strepitose quando ero piccola. Peccato che gli avessi detto che le odiavo. «Tua madre ne voleva uno. Diceva spesso di voler andare a Louisville a farselo fare.» Mamma si confidava con Scott mentre lui si prendeva cura di me. Si era trasferita nella roulotte di nonno quando papà l’aveva messa incinta e sua madre l’aveva sbattuta fuori. Scott aveva dodici anni alla mia nascita. Mi si spezzò il cuore. Mamma non mi aveva mai detto di aver voluto un piercing al naso. Quando mi ero fatta fare il mio, a stento lo aveva notato. Perché questo mi mettesse tristezza, non ne avevo idea. Mamma non mi diceva un sacco di cose. Picchiettai la forchetta sul ripiano. Al diavolo. Avrei mangiato le uova. Chi poteva sapere quando avrei fatto un altro pasto decente? Scott fece un sorrisetto compiaciuto quando infilzai le uova con la forchetta e le misi nel mio piatto. «È una cosa di chi gioca a baseball?» chiesi. «Cosa?» «Ryan fa lo stesso sorrisetto strafottente quando pensa di avermi in pugno.» Scott prese un sorso di aranciata. «Tu e Ryan vi frequentate a scuola?» Mi strinsi nelle spalle. Frequentarsi. Fracassarsi le palle a vicenda. Stessa cosa. «Diciamo.» «È un bravo ragazzo, Elisabeth. Ti farebbe bene averlo come amico.» Noah era un bravo ragazzo. Isaiah era il migliore… ma Scott non avrebbe voluto sentirselo dire. «Mi chiamo Beth.» Mi fece un’altra domanda, come se non avessi detto niente. «Come va a scuola?» «Verrò bocciata.»

Lui smise di mangiare mentre io mi riempivo la bocca di cibo. Iniziavo a odiarli, quei silenzi. «Ti stai impegnando?» chiese. Valutai cosa rispondere mentre assaporavo un pezzo di pancetta. All’ultimo morso, decisi di dire la verità. «Sì, ma non mi aspetto che tu ci creda.» Lui lasciò cadere il tovagliolo sul piatto vuoto e mi guardò, con gli occhi blu carichi di sincerità. Avevamo entrambi gli stessi occhi di nonna. Anche mio padre li aveva, ma i suoi non avevano mai avuto un’aria gentile. «Non sono intelligente. So lanciare una palla, prenderla e colpirla. Mi ha reso ricco, ma è molto meglio essere intelligenti.» «Peccato per me, non so fare niente di tutto questo. Incluso essere intelligente.» «Allison lo è» mi disse, sollevando una mano quando alzai gli occhi al cielo. «È molto preparata. Ha un master in inglese. Fatti aiutare da lei.» «Mi odia.» Scott si rifugiò in un altro dei suoi lunghi silenzi. «Lascia che mi occupi io di questo. Tu concentrati sulla scuola.» «Come ti pare.» Lanciai un’occhiata all’orologio: le sei e quarantacinque. Eravamo riusciti a parlare per un quarto d’ora senza urlarci addosso. «Non dovresti essere al lavoro?» «Oggi lavoro a casa. Faremo questo ogni mattina. Ti alzerai alle sei, e alle sei e mezza verrai a fare colazione.» Se cucinava lui, non avevo niente in contrario. «Ok.» Scott prese i piatti e li mise nel lavello. «Parlando di ieri sera…» E pensare che le cose stavano andando così bene… «Lasciamo perdere.» «Stavi tremando.» Scattai in piedi, improvvisamente irrequieta. «Devo andare a preparare lo zaino.» «Qualcuno ti ha fatto del male? Fisicamente?» I piatti. I piatti dovevano andare nella lavastoviglie. Li presi. «Ho veramente bisogno di aiuto con calcolo. Voglio smettere di seguirlo.» Perché gli stavo dicendo quelle cose? Scott mi sfilò di mano i piatti, e non mi piacque la sensazione di restare a mani vuote. Li appoggiò sul ripiano e incrociò le braccia al petto. «Cos’è successo dopo che ho lasciato la città? Mio padre era morto e sepolto. Mio fratello gli ha rubato il titolo di bastardo del quartiere?» Stavo di nuovo tremando. O forse c’era un terremoto in corso. La testa scattò indietro quando la realtà mi investì come un camion, e capii cosa avevo permesso che succedesse. Ero un’idiota! Scott aveva cercato di insinuarsi abilmente oltre i miei muri. «Vaffanculo.» Mi aspettavo che Scott urlasse o mi rimproverasse. Invece ridacchiò. «Sei testarda come quando avevi quattro anni. Vai a prepararti per la scuola, oggi ti accompagno io.» Lo odiavo. «Prendo l’autobus.» Lui si voltò di spalle e caricò la lavastoviglie. «Domani faccio i pancake.» «Non li mangio.» Rise. «Sì che lo farai. Stasera Allison prepara lo stufato di tofu e formaggio di capra.»

Entrai con la jeep nel parcheggio degli studenti e accostai accanto alla macchina di Chris. Se ne stava appoggiato al paraurti mentre Lacy era vicina al cofano, ad almeno un metro di distanza. Stringeva i libri al petto e mi snobbò voltandosi verso la scuola quando spensi il motore. Non era un buon segno. Inspirai a fondo e mi preparai. Lacy aveva un gran caratteraccio. L’ultima volta che le avevo fatto girare le scatole, le mie orecchie avevano continuato a fischiare per due giorni interi. Chris mi salutò quando aprii lo sportello. «Ce l’ha con te, amico.» «Lo vedo.» Prima che potessi rivolgermi a lei, Lacy si girò. «Una scommessa? Hai umiliato Beth in palestra ieri per una scommessa? Sto cercando di riallacciare la nostra amicizia, mentre tu, Chris e Logan avete deciso di fare di lei l’obiettivo di una scommessa?» Vai al diavolo, Chris! «Hai cantato come una bambina beccata con le mani nel barattolo dei biscotti, non è così?» «Scusa» disse mortificato lui. «Ha delle tattiche brutali. Dovrebbero arruolarla nei Marines.» Lacy si infilò in mezzo, sventolando in aria la mano. «Non c’è niente da ridere. Non conosci Beth. Non sai com’era la vita per lei. Non sai che amica è stata per me. Rovinerai tutto!» La fissai, allibito. Aveva gli occhi lucidi. Non era solo furiosa, stava soffrendo. «È solo una scommessa, Lace. Le ho chiesto di uscire. Deciderà lei se rispondere sì o no. Non sto facendo del male a nessuno.» «Sì, invece.» Lei guardò da un’altra parte. «Stai facendo del male a me.» Quella che consideravo la mia migliore amica si lanciò dritta verso la scuola. «Devo andare da lei» disse Chris. «Lo so.» Volevo che lo facesse. «Si sbaglia su questa cosa. Ma non ti preoccupare, probabilmente ha il ciclo.» Già. Lacy era emotiva a volte, ma una fastidiosa sensazione dentro mi diceva che poteva anche aver ragione. «Ryan?» Chris e io ci voltammo a guardare Beth, e il mio cuore si fermò. Era tornata lei… Miss Skater del Taco Bell. Niente più vestiti di marca, era tornata al suo stile. Maglietta nera aderente, jeans con i buchi. Curve da urlo. Era maledettamente sensuale come la prima sera che l’avevo vista. «Possiamo parlare un momento?» La sua voce dolce e seducente fu come una carezza a fior di pelle, e ne rimasi ipnotizzato. Quella ragazza doveva essere una specie di maga. «Certo.» Attesi che Chris si ricordasse di dover raggiungere la sua ragazza, ma era troppo preso a guardare il sedere di Beth per accorgersi che entrambi lo volevamo fuori dai piedi. Lo sollecitai in modo sfacciato. «Lacy ha bisogno di te.» «Già» mormorò Chris, come se si stesse svegliando da un sogno. «Lacy. Ci vediamo dopo, amico.

Ciao anche a te, Beth.» Lei tamburellò le dita sulla coscia in segno di saluto. Mentre Chris si dirigeva verso la scuola, cercai di decifrare il cambio di atteggiamento di Beth. Il giorno prima, sarebbe stata la sospettata numero uno se qualcuno mi avesse ucciso. Quella mattina era sensuale e amichevole. Altro che cambiamenti di umore! Nella mente si fece spazio il senso di colpa. L’avevo umiliata a scuola. Era il momento di farmi perdonare. «Ieri, in palestra…» «Lascia perdere.» Beth mi zittì. «Credo che tu abbia ragione. Dovrei farmi qualche amico, e mi piacerebbe molto che fossi tu ad aiutarmi.» Posso farcela. Trattenni il sorriso che stava per spuntarmi sulla faccia. Non c’era bisogno di girare il coltello nella piaga. Perché Lacy non era lì ad assistere a quella scena? «Vieni con me alla festa di venerdì?» «Sì, ma c’è una rogna.» «Che tipo di rogna?» Dovevo concentrarmi sulla parola rogna, ma non ci riuscivo con Beth che si mordicchiava il labbro inferiore. Adoravo quelle labbra. «Diciamo che mo zio è un maniaco del controllo e ti vorrà parlare.» Quella giornata non faceva che migliorare. Avrei vinto la scommessa e parlato con il mio eroe. In più, avrei passato del tempo insieme a Beth. Forse aveva ragione Lacy. Forse era più di quanto mostrava. «Certo. Posso venire prima, venerdì.» Beth si sistemò meglio la borsa sulla spalla. «In realtà, pensavo che potresti passare stasera per incontrarlo. Magari dopo possiamo uscire un po’.» Quanto amavo la mia vita. Era lei che mi stava chiedendo di uscire. «Certo, come no.» Maledizione. Non appena mi ricordai dei miei piani, mi si incasinò la testa. «Aspetta. Mi piacerebbe, ma ho gli allenamenti di baseball con la squadra e stasera le esercitazioni di lancio a Louisville.» Lei chinò il capo. «Oh. Ok… se non puoi, non puoi. Però mio zio sarà a casa solo stasera.» Non mi sarei lasciato sfuggire quest’occasione. Se Beth era anche solo un po’ simile a Lacy, in tre minuti avrebbe potuto cambiare completamente idea. «Potrei passare da tuo zio subito dopo gli allenamenti, e poi potresti accompagnarmi a Louisville. Usciamo appena finisco le esercitazioni, sempre che non ti dia fastidio rimanere a guardare mentre mi alleno per un’ora.» Lei alzò la testa e mi rivolse un sorriso meraviglioso. «Se a te non dispiace.» Dispiacermi? Non c’era cosa che volessi di più. Avevo appena vinto la scommessa. IN PIEDI SULLA PARTE FRONTALE del portico di Scott Risk, diedi uno strattone alla visiera del berretto e mi ripulii le mani sui pantaloni della tuta. Era arrivato il momento. Stavo per entrare in casa del mio eroe. Due colpetti alla porta, e quella si aprì. A restituirmi lo sguardo, in jeans e maglietta, c’era Scott Risk. «Buon pomeriggio, Ryan.» Inarcò le sopracciglia, sembrando quasi sorpreso. «Buon pomeriggio.» Mi massaggiai la nuca, per allentare la tensione che mi irrigidiva il collo. «Uh, Beth è in casa?» Un sorrisetto benevolo gli distese le labbra. «Farà meglio a esserci, l’ho appena fatta arrabbiare. Non sarebbe una cattiva idea controllare se è scappata dalla finestra.» Non sapevo cosa rispondere, così infilai le mani in tasca. Lui rise. «Elisabeth e io non siamo una

buona squadra quando si tratta dei suoi compiti. Vieni dentro. Mi ha detto che avete dei piani, ma devo ammettere che mi sono chiesto se non stesse solo cercando di fregarmi.» «È pronta, signor Risk?» Entrai, sbalordito ed emozionato. Quel posto era enorme. «Chiamami Scott» disse lui, poi strillò: «Elisabeth!» Qualcosa di rigido colpì la porta alla nostra destra. «Vaffanculo!» Sospirai profondamente e mi si irrigidirono le spalle. Il pendolo oscillava, riempiendo il silenzio spettrale che si era creato. Quindi… eravamo tornati agli attacchi isterici! Non vedevo l’ora di vedere come sarebbe arrivata a venerdì sera. «Hai compagnia!» Silenzio. La porta cigolò e si aprì lentamente. «Ciao, Ryan.» Beth appoggiò il fianco allo stipite della porta e il mio cuore perse un battito. Aveva cambiato la maglietta con una canotta, che mostrava un accenno del bellissimo décolleté. «Visto, te l’avevo detto che si mette a fissare.» Maledizione. Era vero. E l’avevo fatto proprio davanti a Scott Risk. Lui mi assestò una pacca sulla spalla. «È tutto a posto. Ma cerca di non farlo troppo alla mia presenza. A un certo punto smetterò di trovarlo divertente, e potrei doverti rompere le ossa. E, Elisabeth? Vaffanculo non è permesso.» Lei scrollò le spalle, evidentemente indifferente a cosa fosse permesso. «Finisci di prepararti» disse Scott a Beth. «Scambio due parole con Ryan, e poi potete andare.» Beth si guardò i vestiti. «Sono pronta.» «Vedo della pelle. Molta pelle. Torna qui quando se ne vedrà di meno.» Lei sospirò e si girò lentamente. Mentre rientrava nella stanza, ancheggiò in quel modo così naturale che mi ritrovai a fissarla… di nuovo. «Ieri ho ricevuto qualcosa che apprezzerai.» Scott attraversò il vestibolo, dirigendosi verso la stanza opposta a quella di Beth, e mi fece cenno di seguirlo. Non appena entrai nell’ampio ufficio, rimasi senza fiato. Baseball. Ovunque. Casacche esposte in vetrina. Palle. Mazze. Tesserini nelle custodie. Scott prese una scatola trasparente e me la porse. Restai a bocca aperta. «Babe Ruth. Ha una palla da baseball autografata da Babe Ruth?» «Sì.» Scott sorrise in un modo che potevo capire; quell’ufficio era territorio consacrato. Il telefono sulla grande scrivania in mogano squillò. «Dammi un attimo.» Feci per uscire, ma Scott mi fermò. «Resta. Non ci metterò molto.» Amavo quell’uomo. Avrei potuto passare le ore in quell’ufficio a sbavare sulle sue cose. Scott parlava al telefono, in tono professionale e grammaticalmente corretto. Gironzolai intorno a una mazza con l’autografo di Nolan Ryan. Quello poteva essere il mio ufficio, un giorno. Diavolo, no. Quello sarei stato io. Dall’altra parte della stanza c’era un tavolino con delle foto incorniciate. Scott e Pete Rose. Scott e Albert Pujols. Le cornici erano rivolte leggermente verso il centro del tavolino. In ogni foto c’era una persona più importante di quella nella cornice dietro. Al centro c’era una foto del matrimonio di Scott con sua moglie, e il mio rispetto per quell’uomo aumentò. Dava grande importanza alla sua famiglia. Mi accigliai notando la piccola foto 10x15 centimetri. Mostrava Scott con una bambina. Almeno

credevo che fosse Scott. La presi. Era giovane e sembrava goffo nella versione vecchio stampo dell’uniforme da baseball della Bullitt County High. Aveva in braccio una bambina molto piccola, di massimo cinque anni. Attorcigliati e appuntati un po’ ovunque nella lunga chioma bionda c’erano un mucchio di nastri rosa. Il vestitino bianco e vaporoso la faceva sembrare una principessa. Aveva le braccia strette forte attorno al collo di Scott. Il suo sorriso era contagioso e i suoi occhi erano blu come l’oceano, proprio come quelli di… «Elisabeth adorava i nastri» mormorò Scott dietro di me. «Gliene regalavo ogni volta che potevo.» Assurdo. «Questa è Beth?» Mi tolse la cornice di mano e la rimise dolcemente a posto, proprio al centro del tavolino. «Sì.» Lo disse con il tono greve di un uomo a lutto. Cacchio, potevo immaginare come si sentisse! Beth era lontanissima dalla bambina di quella foto. Scott recuperò il tono spensierato. «Sono andato a prendere Allison a una cena ieri sera, e ho incontrato tua madre. Ha detto che sei in finale in un concorso di scrittura.» Abbassai lo sguardo. Papà sarebbe stato felice di sapere che adesso tutti in città lo sapevano. «Già.» «Tuo padre ha detto che hai scelto il baseball professionistico dopo il diploma, ma ci sono tante università che farebbero a pugni per avere un lanciatore con il tuo potenziale. Soprattutto se hai anche talento in ambito scolastico.» «Grazie.» Non sapevo che altro aggiungere. «Ti va di dirmi che succede fra te e mia nipote?» Mi pietrificai. Ecco quello che avrei definito un cambio di marcia. Scott aveva smesso di sorridere allegramente, e mi accorsi che aveva gli stessi occhi di Beth. Nemmeno lui li sbatteva mai. Era il momento di comportarsi da uomo. «Le ho chiesto di uscire.» Per una scommessa. «E Beth ha accettato. Ha detto che lei avrebbe voluto incontrarmi, prima.» «Dove la porti stasera?» «Alle mie esercitazioni di lancio, poi dovunque le vada di mangiare. C’è un…» Taco Bell… meglio evitarlo, quello. «McDonald’s e anche un Burger King nei paraggi.» Scott annuì come se stesse ragionando su come fare un intervento chirurgico al cervello. «E dove la porti venerdì?» «Non lontano. In realtà, è proprio al confine fra la sua proprietà e quella di mio padre. Il mio migliore amico vive dall’altra parte e invitiamo gli amici per stare un po’ insieme.» Scott soppresse l’espressione divertita e si tese al tempo stesso. «Vuoi portare mia nipote a una festa all’aperto.» Inghiottii a vuoto. «Sono cresciuto a ventiquattro chilometri da Groveton» disse. «So come funzionano quelle feste, io stesso ho partecipato a più di una.» Fregato. «Ho pensato che sarebbe stata una buona opportunità per lei di passare del tempo con i miei amici.» Scott si grattò la mascella. «Non lo so.» Dovevo offrirgli di più. Molto di più. «A me Beth piace. È carina.» Lo era eccome. «È più che carina. È diversa dalle altre ragazze che ho incontrato finora. Beth mi tiene sempre sul filo del rasoio. Con lei non so mai cosa succederà, e lo trovo…» Meraviglioso. Elettrizzante. «Divertente.» Scott non replicò e ne fui contento. Fino a quando non avevo pronunciato quelle parole – parole che

credevo di dover inventare per far colpo su di lui – non avevo capito quanto vere fossero. Una voce sensuale, che conoscevo anche troppo bene, fece fare al mio stomaco le montagne russe… prima in salita, poi in discesa. Beth aveva sentito tutto. «Questo è uno scherzo.» «È maleducazione origliare.» Scott continuò a darle le spalle, tenendo gli occhi incollati su di me. «Non ho mica detto che è un fottuto scherzo» ribatté lei. Lui inclinò la testa a destra, come a voler ammettere che in effetti era una gran concessione. «Quando?» «Quando cosa?» gli chiesi. «Quando vieni a prenderla venerdì?» «Alle sette.» «La voglio a casa per le nove, stasera. E venerdì a mezzanotte.» «Sissignore.» Scott si voltò verso Beth. «Tu che hai intenzione di fare mentre lui si allena?» «Guardo.» Scott piegò la testa con fare incredulo. Beth sospirò profondamente. «Va bene. Mi porto i compiti. Diventerò una persona studiosa e aggiungerò “colossale imbranata” alla mia etichetta di fenomeno da baraccone. È quello che vuoi, no?» «È il mio sogno più grande. Forza, andate a divertirvi.» Lui entrò nel vestibolo e le labbra di Beth si curvarono in un sorrisetto perfido. In che diavolo di casino mi stavo cacciando?

Beth

Una volta ogni tanto il destino si schierava dalla mia parte. Sì, era parecchio difficile da credere, ma quello era uno dei rari giorni in cui era capitato. La settimana prima, Lacy mi aveva raccontato che Ryan andava in auto a Louisville tutti i mercoledì per le esercitazioni di lancio, e il giorno prima mi aveva detto che l’impianto si trovava nel quartiere a sud di Louisville, a ottocento dolcissimi metri da casa mia. Fuori da una grossa struttura ricoperta di lamiera, Ryan prese dal retro della jeep la borsa con le sue cose del baseball, e feci del mio meglio per non sembrargli irrequieta. Era quasi impossibile stare ferma con i nervi tanto tesi. Ero così vicina a mia madre che riuscivo quasi sentire sulla lingua il sapore delle sigarette. Calmati, Beth. Questa mano va giocata con attenzione. «Quanto dura l’allenamento?» «Un’ora, forse un po’ di più.» Ryan si caricò la borsa sulla schiena. Quel ragazzo aveva le spalle più larghe di qualsiasi studente del liceo avessi mai incontrato. Indossava una maglietta aderente, e il mio stomaco fece un paio di capriole quando si sollevò, mettendo in mostra gli addominali. Sospirai e scacciai quei pensieri. Un ragazzo stupendo e perbene non si sarebbe mai abbassato a desiderare una come me. E per quanto potesse essere un idiota, Ryan era… perbene. Non serviva un brillante scienziato per capire che quello che gli stavo facendo era sbagliato. Sbagliato ma necessario. Inoltre, qualsiasi cosa stesse succedendo fra noi era un qualche genere di gioco. Solo che non avevo ancora capito le sue intenzioni. Non che importasse. Alla fine della serata, Ryan mi avrebbe odiato e così anche Scott. Non mi sentivo in colpa per Scott, comunque. Era stato lui a trascinarmi in quel casino, e sarebbe stato molto più felice senza di me. Di lì a un’ora avrei raggiunto mia madre, contattato Isaiah, e saremmo andati via dalla città. I tempi erano un po’ stretti, ma potevamo farcela. «Dove vuoi andare a mangiare? Qui vicino ci sono Burger King e McDonald’s. Con un po’ di fortuna, a cena la conversazione sarà meglio del silenzio durante il viaggio.» Ryan fece una pausa. «Se preferisci, possiamo andare al fast-food. So che ti piacciono i taco.» Il primo venticello autunnale soffiò nel parcheggio e mi fece venire la pelle d’oca sulle braccia. Di lì a un’ora sarei stata in viaggio, in direzione oceano. «Ho parlato di taco, Beth. Niente “vaffa”? In genere scatta automatico.» Alzai il viso verso di lui e sbattei le palpebre. Lo stavo facendo davvero. Stavo per scappare. Ryan aggrottò le sopracciglia e si avvicinò, facendo da scudo contro il vento, o forse fu il calore del suo corpo a riscaldarmi. «Stai bene?» «Sì, bene.» Era più alto di me. Enormemente. Non lo avrei più rivisto, quindi mi permisi di guardarlo con attenzione. Era proprio sexy con quelle spalle larghe, la curva dei muscoli, l’adorabile casino di capelli biondo miele sparati fuori dal cappello e quegli irresistibili occhi di un caldo castano. Per un attimo finsi di credere che quello sguardo di sincero interessamento fosse reale… e rivolto a

me. Il vento soffiò di nuovo, più forte, e mi spostò alcune ciocche di capelli davanti al viso. Ryan le seguì con lo sguardo. Le sue dita mi sfiorarono la guancia e la pelle sensibile del collo, mentre le riportava dietro la mia spalla. La carezza mi solleticò la pelle, e al tempo stesso la infiammò. Avvampai e mi affrettai a coprirmi le guance con le mani. Che diamine…? Stavo arrossendo. I ragazzi non mi facevano arrossire. E nemmeno volevano che lo facessi. Confusa dalla reazione, arretrai e frugai in tasca alla ricerca di una sigaretta scroccata al tossico a scuola. «Dammi un minuto, ok?» «Se ti annoi in sala d’attesa e ti va di guardare, chiedo il permesso al coach.» Scossi la testa. «No.» Ryan strinse le labbra e si avviò verso l’ingresso. Gettai un’occhiata alla sua sagoma che si allontanava, e il cuore mi sprofondò. Qualsiasi strampalata emozione avessimo appena provato, non cambiava niente. Ryan voleva una ragazza come Gwen, si divertiva e basta con quelle come me. Non aveva senso sfidare un destino già scritto. Quello succedeva solo nelle favole. Mi dispiaceva per lui. Scott lo avrebbe ucciso entro la fine della serata. «Ryan?» Lui mi guardò da sopra la spalla. Cosa potevo dire? Mi sono divertita a provocarti, ma devo salvare mia madre. Mi dispiace se più tardi, quando tornerai a Groveton senza di me, mio zio ti strapperà le palle e mia zia le servirà per cena con contorno di alghe? «Grazie.» Che sapore strano aveva quella parola sulle mie labbra. Lui si sfilò il berretto, si passò una mano fra i capelli e se lo ficcò di nuovo in testa. Mi guardai intorno per evitare di essere schiacciata dal senso di colpa. «Scusami» disse. Sbattei le palpebre, senza capire per cosa si stesse scusando, ma non chiesi spiegazioni. Avevo detto la mia parte. Lui aveva detto la sua. Eravamo pari. Un ragazzo, uscendo dal palazzo, tenne la porta aperta per Ryan. Lui entrò e l’altro si mise a giocherellare con le chiavi dell’auto. Un grazie di cuore al destino, che mi stava dando una mano. Infilai in tasca la sigaretta e gli rivolsi un sorriso che gli facesse pensare di avere una possibilità. «Posso scroccarti un passaggio?» LA TENSIONE MI STAVA STRAPAZZANDO lo stomaco e continuavo a respirare profondamente. Non importava quante volte inspirassi, riempirmi d’aria i polmoni era più che difficile. Ti prego, Signore, solo per questa volta, fa’ che il bastardo non ci sia. E ti prego, ti supplico, fa’ in modo che Isaiah accetti il mio piano folle, una volta che lo raggiungerò con mamma a rimorchio. Avevo pensato di condividere con lui il piano, ma, alla fine, sapevo che non sarebbe stato d’accordo a portarci dietro mia madre. La riteneva responsabile di tutti i problemi della mia vita, ma conoscevo Isaiah. Se mi fossi presentata da lui insieme a lei, supplicandolo di andare via, non mi avrebbe delusa. Avrebbe portato via entrambe. L’Ultima Fermata era deserto, ma nel giro di un paio d’ore il bar si sarebbe riempito. Anche di giorno quel posto era buio come una prigione. Sempre con i soliti jeans e camicia di flanella, Denny sedeva al bancone e aveva gli occhi fissi su un laptop, che dava al suo viso un riflesso bluastro. Con la coda dell’occhio, si accorse di me. «Ho sentito che non sei più sotto la tutela di tua madre.» «Già.»

Prese un sorso di birra da una bottiglia. «Mi dispiace, ragazzina.» «Come se la cava?» Avevo la gola secca, e ci volle tutta la forza d’animo per fingere che la risposta non mi interessasse. «Vuoi davvero saperlo?» No, non veramente. «Quanto ti devo?» Lui chiuse il laptop. «Niente. Torna da dove sei venuta. Ovunque è meglio di qui.» Uscii dal retro. Era la strada più breve per l’appartamento di mamma. Di sera, quel posto pieno di ombre era inquietante. Di giorno, il complesso fatiscente di case popolari aveva solo un’aria triste e patetica. L’amministrazione condominiale aveva usato la vernice bianca a spray per ricoprire i murales sul muro in mattoni arancioni che risaliva agli anni Settanta. Un tentativo inutile. I ragazzini delle elementari tornavano a scriverci le parolacce la sera dopo. Visto che le finestre erano perlopiù rotte, gli inquilini usavano cartoni e nastro adesivo grigio per coprire il vetro, tranne per le finestre con i rumorosi condizionatori, che gocciolavano come dei rubinetti. Mamma e io non avevamo mai avuto uno di quegli affari. Non eravamo abbastanza ricche né fortunate. Trent Il Bastardo viveva nell’edificio dall’altro lato del parcheggio. Al posto della sua auto c’era solamente una grande macchia nera di olio, che colava sempre dalla macchina quando era parcheggiata. Bene. Inspirai di nuovo per placare ogni fremito. Bene. Quando mio padre se n’era andato, mamma e io ci eravamo trasferite a Louisville ed eravamo diventate delle vagabonde a tutti gli effetti, spostandoci da un appartamento all’altro ogni sei, massimo otto mesi. Alcuni facevano talmente schifo che li avevamo lasciati volontariamente. Altre volte ci avevano sbattuto fuori perché mamma non pagava l’affitto. La roulotte a Groveton e il seminterrato a casa di zia Shirley erano le uniche case stabili che avessi mai avuto. L’appartamento non lontano da Shirley era quello in cui mamma era rimasta più a lungo, ed era uno schifo che l’avesse fatto per Trent. Bussai piano. La porta scricchiolò mentre mamma sbloccava le varie serrature e, come le avevo insegnato, lasciò ancorata la catenella quando socchiuse la porta. Strizzò gli occhi come se non avesse mai visto il sole. Era più pallida del solito, e i capelli biondi se ne stavano su dritti come se non si pettinasse da giorni. «Che c’è?» sbottò. «Sono io, mamma.» Lei si stropicciò gli occhi. «Elisabeth?» «Fammi entrare.» E andiamocene da qui. Mamma chiuse la porta, staccò la catenella, lasciandola penzoloni, e aprì. Pochi secondi dopo mi aveva gettato le braccia al collo. Per poco non mi graffiò la testa con le unghie. «Piccolina? Oh, Signore, piccolina. Credevo che non ti avrei più rivista.» Stava tremando, e sentii il rumore familiare che faceva tirando su col naso ogni volta che piangeva. Appoggiai la testa alla sua spalla. Puzzava di uno strano mix di aceto, erba e alcol. Solo l’aceto era di troppo. Una parte di me era così felice di vederla viva. L’altra parte era più che imbufalita. Era strafatta, dannazione! «Che cosa hai preso?» Mamma si fece indietro e mi passò le mani fra i capelli con dei movimenti fin troppo veloci.

«Niente.» Notai gli occhi rossi e le pupille dilatate, e inclinai il capo. «Ok, solo un po’ di erba.» Mi sorrise, e una lacrima le scivolò sulla guancia. «Ne vuoi una ciotola? Abbiamo dei nuovi vicini a cui piace condividere. Andiamo.» La presi per mano, la superai ed entrai nell’appartamento. «Devi fare i bagagli.» «Elisabeth! No!» «Ma che diavolo?» Quel posto era una discarica. Non il solito casino. Andava ben oltre i piatti sporchi, i pavimenti inzaccherati di cioccolato e gli incarti del fast-food sui mobili. I cuscini del divano erano sul tappeto logoro, entrambi squarciati. La parte interna della piccola televisione di mamma se ne stava in bella vista vicino al metro quadrato di cucina. «Ci sono stati i ladri.» Mamma si chiuse la porta alle spalle, facendo scattare una delle serrature. «Stronzate.» Mi voltai a guardarla. «I ladri rubano, e qui non c’è proprio un accidenti da fregare. E che diavolo è questa puzza?» Una volta avevo decorato le uova di Pasqua con Scott, e la nostra roulotte aveva continuato a puzzare di aceto per giorni. «Sto ripulendo» disse mamma. «Il bagno. Prima ci ho vomitato.» Quelle parole mi colpirono con forza. Il vomito poteva essere sintomo di overdose. Il peggiore incubo che avevo su di lei. «Che cosa hai preso?» Mamma scosse la testa e fece una risatina nervosa. «Te l’ho detto, erba. E un po’ di birra. Sono solo un po’ sballata.» Ah, merda. «Sei incinta?» Quanto odiavo quando doveva riflettere prima di rispondere. «No. No. Prendo le pillole. È un bene che tu sia riuscita a farmele avere per posta.» Massaggiandomi gli occhi con i palmi, cercai di pensare lucidamente. Quel casino non aveva importanza. «Raccogli le tue cose. Ce ne andiamo.» «Perché? Non ho ricevuto un avviso di sfratto.» «Siamo due vagabonde, ricordi?» dissi, cercando di alleggerire l’atmosfera. «Non restiamo mai ferme troppo a lungo.» «No, Elisabeth. Sei tu che hai l’animo della vagabonda, non io.» Quella frase mi frenò e aspettai che si spiegasse. Mamma barcollò. Vabbè… era fatta e non avevo tempo da perdere. Superai il tavolino da caffè ridotto a pezzi. «Isaiah si è offerto di portarmi sulla costa e tu verrai con noi. Eviteremo di farci notare finché non avrò compiuto diciott’anni l’estate prossima, e poi saremo al sicuro.» «E Trent?» «Ti riempie di botte. Non hai bisogno di quel bastardo!» Vidi un paio di sacchetti di plastica in un angolo. Sarebbero stati sufficienti. Mamma aveva pochissime cose che valeva la pena di portarsi dietro. «Elisabeth!» Diede un calcio a quel che restava del tavolino da caffè e mi rincorse. Mi agguantò per un braccio. «Fermati!» «Fermarmi? Mamma, dobbiamo andare. Lo sai che se Trent torna e mi trova qui…» Lei mi zittì e mi passò di nuovo le mani fra i capelli. «Ti ucciderà.» Gli occhi le si riempirono un’altra volta di lacrime. «Ti ucciderà» ripeté. «Non posso andarmene.»

Provai la stessa sferzante sensazione di quando tornavo improvvisamente lucida dopo essermi sballata. «Devi farlo.» «No, piccolina. Ora non posso. Dammi qualche settimana. Devo occuparmi di alcuni affari e poi ce ne andremo insieme. È una promessa.» Affari? «Ce ne andiamo. Adesso.» Affondò le dita fra i miei capelli e li strinse fino a farmi male, tirandoli. Chinò la testa e appoggiò la fronte contro la mia. Aveva il fiato che puzzava di birra. «Te lo giuro. Ti giuro che verrò con te. Ascoltami. Devo prima rimettere a posto delle cose. Dammi un paio di settimane, e poi ce ne andiamo.» La maniglia della porta sussultò e il mio cuore prese a battere a tutta velocità. Era tornato. Mamma mi strinse la mano tanto da farmi male. «La mia stanza.» Mi trascinò per l’appartamento e perse l’equilibrio inciampando nei pezzi di mobili rotti. «Esci dalla finestra.» La bile mi arrivò fino in gola e mi ritrovai a tremare. «No. Non senza di te.» Lasciare lì mia madre era come restare a guardare la sabbia che scorreva in una clessidra mentre ero incatenata al muro, senza poterla girare al contrario. Un giorno Trent si sarebbe spinto oltre, e non sarebbero stati solo lividi e ossa rotte. L’avrebbe uccisa. Con Trent il tempo era un nemico. «Sky!» urlò lui, entrando nell’appartamento. «Ti ho detto di non chiudere la porta a chiave.» Mamma mi abbracciò con forza. «Vai, piccolina» sussurrò. «Torna a prendermi fra qualche settimana.» Staccò il cartone dal vetro e feci un salto indietro quando vidi una mano nella finestra già aperta. «Vieni.» Isaiah fece capolino e mi afferrò i fianchi con tutte e due le mani. Trattenni il respiro e capii che in un modo o nell’altro, uno di quei due mi avrebbe uccisa.

Feci scattare il braccio in avanti. Con un tonfo sordo, la palla colpì un punto al di fuori della scatola arancione fissata al sacco nero di tela, che fungeva da bersaglio. Non ci stavo mettendo la testa quella sera, e invece avrei dovuto. Saper mirare era una priorità per dei buoni lanci. Se Logan mi chiedeva una palla interna, dovevo lanciare verso l’interno. Se me la chiedeva bassa sul piatto, dovevo riuscire a sbatterla anche lì. Continuavo a pensare a Beth. Sembrava così maledettamente piccola e sperduta che avrei voluto stringerla fra le braccia e proteggerla dal mondo intero. Non era certo la reazione che mi aspettavo di avere nei confronti di Miss Skater. Schiaffai il guantone sulla gamba. A cena avrei scoperto che problema aveva. Non avrei accettato altro silenzio. Ruotai la spalla nel tentativo di sgranchirla, ma fu inutile. Era un’ora che lanciavo, e i muscoli del braccio erano ridotti a gelatina. L’impianto in cui mi allenavo non era granché, solo un capannone rivestito con un manto erboso verde e un climatizzatore saldato al soffitto. Si sentiva il ronzio del condizionatore dall’alto e i continui colpi delle mazze. Il coach, John, si staccò dalla parete rivestita di lamiera. «Bene, ma lanci ancora con il braccio. La potenza e la fermezza devono venire dalle gambe. Come va il braccio?» Stanco. Beth odiava di sicuro quel posto. Un magazzino pieno di ragazzi che non facevano altro che lanciare palle a vuoto. In parte ero deluso. Non mi aveva nemmeno chiesto di poter assistere. «Posso lanciarne un altro paio, se vuoi.» «Hai fatto riposare il braccio, come abbiamo detto?» «Sissignore.» Non quanto avrei dovuto. Sentivo il punto preciso in cui l’articolazione collegava scapola e omero: un paio di centimetri circa al di sotto della spalla, e al momento faceva male. «Basta così per stasera.» Rigirai la palla fra le dita. Beth non era l’unico pensiero che mi aveva tormentato durante l’allenamento, e non importava quanto cercassi di ignorare quei pensieri… quelli continuavano a tornare. «Posso chiederti una cosa?» «Spara.» «Se dovessi scegliere fra giocare a baseball all’università e iniziare con il professionismo appena dopo il diploma, che faresti?» John si grattò la guancia e mi guardò, meravigliato e confuso insieme. «Vuoi andare all’università?» Bella domanda. «Se avessi avuto la possibilità di fare questa scelta, che avresti fatto?» «Non l’ho avuta. Mi è stato offerto solo di giocare all’università.» «Ma se avessi potuto?» «Avrei scelto il professionismo.»

Tirai la palla nel guantone. Appunto. Con tutti quei discorsi su università e concorsi letterari, mi stavano incasinando. «Grazie.» «Il punto non è cosa avrei fatto io. La domanda è, cosa vuoi fare tu…»

Beth

Isaiah mi cinse con forza i fianchi e mi trascinò fuori dalla finestra. Mamma mi rivolse un’ultima occhiata vuota e carica di una tristezza opprimente, prima di richiudere la vetrata e ricoprire la finestra con il cartone. «No!» L’avevo abbandonata. Di nuovo. La stretta di Isaiah divenne d’acciaio, e più lottavo per tornare verso la finestra, verso l’appartamento di mamma, più lui mi trascinava via. Mi si spezzò il cuore, letteralmente. Doveva essere successo davvero, perché il dolore al petto mi lacerava come una scheggia di vetro. Le mie gambe si intrecciarono a quelle di Isaiah. Mi teneva saldamente per i fianchi e lottava contro la forza di gravità, sollevandomi e spingendomi nella direzione opposta a mia madre. Lottai per rimettere i piedi a terra, prendendogli a calci gli stinchi, sbattendo le ginocchia contro le sue. «Isaiah, Trent è lì dentro. La ucciderà.» «Andiamo.» Il suo ruggito mi rimbombò nell’orecchio. «Mi hai sentito?» Certamente no. Isaiah non mi avrebbe mai lasciata a morire, quindi non l’avrebbe fatto nemmeno con mia madre. L’unica persona di cui avessi bisogno. «Sì.» Mi spinse con il corpo e il mio, più minuto, capitolò. No. Piegai indietro i gomiti e sbattei con forza i palmi aperti contro il suo petto. Il cuore si strinse dolorosamente per la botta che gli avevo rifilato. Lo avevo colpito… il mio migliore amico. L’avrei fatto ancora se non mi avesse lasciata. «Ti odio!» «Bene» disse lui. Gli uscì il fuoco dalle narici quando mi scrollò leggermente per i fianchi. «Perché non mi sentirò in colpa quando ti caricherò in spalla e ti infilerò in quella dannata macchina.» Avevo i palmi che ancora formicolavano per il colpo, ed erano ancora sul suo petto. Il cuore gli batteva all’impazzata, come folle era la rabbia nel suo sguardo. Isaiah non stava scherzando. Nemmeno io. «Non me ne vado senza di lei.» «Sali in macchina prima che ti ci faccia salire io.» Strinse i pugni. Era un segnale. Una minaccia. L’oppressione al petto rendeva impossibile anche respirare. Pensare. «La riempie di botte.» Lo dissi come se fosse un segreto. Perché lo era. Era il mio segreto. Quello che nascondevo a tutti. Quello che portava al mio peggior segreto: picchiava anche me. Isaiah lo sapeva già, ma era diverso. Lo stavo dicendo ad alta voce. Lo stavo rendendo reale. E gli stavo chiedendo di salvarmi. Gli stavo chiedendo di salvare lei. Isaiah portò il viso a un millimetro dal mio. «Non ti toccherà mai più.» La gola mi si gonfiò e la voce venne fuori a stento. «Glielo lascerò fare, se servirà a salvarla.» Lo vidi rabbrividire e mi tolse le mani dai fianchi. Divaricò i piedi a terra e incrociò le braccia al petto, un vero e proprio muro di mattoni, e mi stava praticamente sfidando a superarlo. Feci un passo a sinistra. Lui fece altrettanto. Andai a destra, e lui fece lo stesso movimento. «In

macchina, Beth. Ora.» «Levati di mezzo!» Non lo fece, e mi sentii come un gatto intrappolato in una scatola. Gli graffiai il petto. Spinsi. Colpii. Strillai. Imprecai. Gridai. Finché le mie mani non fecero altro che colpirlo a ripetizione. Frustrata. Furiosa. Tradita. Lui tese le braccia, schivando il mio attacco, e mi posò le mani calde sul viso. Mi asciugò con dolcezza le guance umide. Non capivo perché lo fossero. Gliele schiaffeggiai via. «Se fossi mio amico… se ci tenessi a me, mi aiuteresti!» «Maledizione, Beth, lo sto facendo perché ti amo!» Il cuore palpitò una volta e si bloccò, mentre il mondo intorno diveniva terribilmente immobile. Era lì, nei suoi occhi… la sincerità. Scossi la testa. «Come amico» sussurrai. «Mi ami come amico.» Restammo a fissarci l’un l’altra. Il petto di entrambi si alzava e si abbassava frettolosamente. «Dillo, Isaiah. Dimmi che mi ami come amico.» Lui tacque e la mia testa fu sul punto di spaccarsi. «Dillo!» Non volevo preoccuparmi di quello. Non ne avevo il tempo. Gli girai intorno. «Io vado a prenderla.» «Fanculo» sibilò lui, piegandosi. Sentii la sua spalla contro la pancia, e un secondo dopo penzolavo a testa in giù dalla sua schiena, scalciando. Gridai e in qualche modo confuso riuscii a vedere che stava mettendo sempre più distanza fra me e mia madre. Lo sportello della macchina si aprì. Isaiah mi fece scivolare giù dalla sua spalla, mi coprì la testa e usò la forza e la stazza fisica per spingermi sul sedile posteriore e contemporaneamente impedirmi di schizzare fuori. Lo sportello si richiuse e lui mi afferrò con forza il polso. Guardai di scatto a sinistra. L’altro sportello. Era chiuso. Cercai di liberarmi il polso per recuperare la libertà di movimento, per aprire l’altro sportello, ma Isaiah mantenne la presa. L’auto partì in retromarcia e il motore sibilò per l’accelerazione. «Che diavolo pensavi di fare, Beth?» Spalancai gli occhi. Noah era appoggiato allo sportello del guidatore, una mano sul volante. Non aspettò nemmeno che gli rispondessi. «Isaiah aveva detto che saresti tornata per tua madre, ma speravo che avessi il buonsenso di restare lontana. Grazie al cielo, almeno sei prevedibile. Credevi davvero che non ci sarebbe venuto in mente che avresti controllato quel dannatissimo bar prima di andare all’appartamento? Isaiah, ricordami di pagare un extra a Denny per aver chiamato così in fretta.» Denny. Stronzo traditore. Aveva detto lui a Noah e Isaiah che ero andata da mamma. «Come hai fatto ad arrivare a Louisville?» chiese Isaiah con un tono stranamente calmo. «Vaffanculo.» Aveva detto di amarmi. La mia pelle si coprì di una patina di sudore freddo, e iniziai a tremare. Il mio migliore amico aveva detto di amarmi. E mia madre. Mi aveva costretta a lasciare mia madre. «Hai convinto quel bastardo che ti sta tormentando, quel Ryan, a portarti?» Rivolsi un’occhiataccia a Isaiah e lui imprecò. Strattonai il polso per liberarlo dalla presa. «Levami le mani di dosso.» Negli occhi cupi di Isaiah scoppiò una rabbia che se non fosse venuta da lui, mi avrebbe fatto paura. Era il tipo da rabbia calma, controllata. Quella che esplodeva se compressa troppo e per troppo tempo. «No, finché non sarò certo che avrai smesso di pensare come un’idiota e di fare cose stupide. Ti potevi

far ammazzare. Sono settimane che Trent si vanta al bar di come ti farà a pezzi se ti rivede. Secondo lui è colpa tua se i poliziotti sono andati a casa sua la settimana dopo che ti sei trasferita a Groveton. Anche se dimentica di avere nemici dappertutto.» Qualcosa scattò nella mia testa, e trasalii. Parlavo con Isaiah tutte le sere, e non mi aveva mai riferito quelle chiacchiere. Chiacchiere che mi avrebbero spinto ad agire più in fretta. Se Trent dava la colpa a me, allora la dava anche a mamma, e già si divertiva a picchiarla senza motivo. Isaiah mi aveva strappato a mamma e l’aveva lasciata con quel bastardo. La sua mano era ancora stretta attorno al mio polso, e non volevo che quel Giuda traditore mi toccasse. Alzai il piede e lo riempii di calci, uno dopo l’altro. «Ho. Detto. Leva. Queste. Mani!» Lui mi lasciò il braccio per respingere il piede. «Ma che ti prende?» «L’hai lasciata a morire!» Isaiah sferrò un pugno al retro del sedile di Noah, poi sprofondò nel suo. Lasciò cadere indietro la testa e si coprì gli occhi con la mano. Dalla radio partirono le note piatte e amare di una canzone dei Nine Inch Nails e mi rintanai nel mio angolo dell’auto, tirando le ginocchia al petto. Mi si spezzò il cuore sentendo quelle parole. Era un brano impresso nella mia anima, un testo che raccontava di come le persone che ci stavano a cuore alla fine… se ne andavano. Isaiah mi aveva portato via da mamma; non mi avrebbe aiutato a salvarla… aveva detto di amarmi. Quello che prima era il mio legame più forte, il migliore di tutti, era diventato una foglia appassita e morente su una vite in decomposizione. Era vero, quindi, che nella vita tutto era destinato a finire.

Dieci minuti prima, avevo finito gli allenamenti e non l’avevo trovata. Mentre ero lì a perdere la testa, decidendo cosa fare, Beth era in giro a divertirsi con i suoi amici. Ero in panico, non sapevo se fosse meglio chiamare Scott, la polizia o mio padre. Mi figurai il viso addolorato di Scott, e pensai a quanto si sarebbe inferocito mio padre a sentire che avevo perso la nipote dell’eroe della città. Ma soprattutto, ero preoccupato per Beth. Terrorizzato all’idea che qualcuno l’avesse rapita. Pregavo che non fosse ferita, o spaventata. Adesso mi sentivo un autentico cretino. Pochi minuti prima avevano parcheggiato l’auto e Beth stava litigando con quel punk pieno di tatuaggi che avevo già visto. Non osai muovere un muscolo, perché temevo che avrei strappato ogni singolo capello nero dalla testa di Beth. Restai fermo vicino alla mia jeep, a guardare mentre lei e i suoi amici punk continuavano la loro accesa discussione. Beth si era presa gioco di me come non mi era mai capitato prima. Avevo commesso un errore terribile. Avevo cercato di farmela piacere. Poteva andare al diavolo. Rovinarsi la vita per i cavoli suoi. Aveva accettato di venire alla festa con me venerdì. Avevo vinto la scommessa. Tanto bastava. Beth schizzò fuori da quella macchina da quattro soldi. «Beth!» Il tizio tatuato l’afferrò per la cintura. «Non te ne andrai. Non così.» Feci una smorfia, ma mi imposi di restare fermo. Lei voleva quel ragazzo. Mi aveva lasciato per stare con lui. «Allora mantieni la promessa che mi hai fatto, Isaiah. Portami via. Stanotte.» Cercò il suo sguardo, e la disperazione sul suo viso rese imbarazzante assistere a quella scena. Qualsiasi risposta stesse cercando, lui non l’aveva. Guardò altrove, gli occhi bassi. L’altro ragazzo chiuse lo sportello dell’auto e si avvicinò lentamente, mantenendo comunque la distanza. Fantastico, eravamo di nuovo due contro uno. Questo se avessi avuto voglia di mettermi in mezzo, e non ne avevo. Isaiah scoccò un’occhiata all’altro ragazzo. «Hai sempre detto di volere una casa, e ora ne hai una.» Beth sbatté gli occhi. «Non questa.» Mi raddrizzai. Non c’era traccia del suo tipico atteggiamento strafottente. Era piccola, molto piccola. Soprattutto rispetto a due ragazzi dall’aria minacciosa. E non sembrava solo minuta, ma anche tanto… smarrita. «Aspetta il diploma. Solo un altro paio di mesi. Noah e io ne abbiamo parlato…» Al nome di Noah, Beth voltò di scatto la testa e la rabbia negli occhi blu divenne bruciante. «Me l’avevi promesso.» «Beth.» L’altro ragazzo – Noah, per quanto avevo capito – usò un tono calmo che, ne ero certo, le avrebbe fatto montare il nervoso ancora di più. «Tu appartieni a Groveton.» Come un lampo scuro, Beth si scagliò su Noah. La mano scattò e lo schiaffeggiò in pieno viso. Il

rumore echeggiò contro le mura dell’impianto. Beth ansimava come se non riuscisse a respirare. «Vaffanculo.» Un colpo di reni, e mi allontanai dalla jeep. Che cacchio? Noah si toccò delicatamente la guancia, poi piegò la testa come per lasciar andare la tensione. «Iniziavo a sentirmi escluso dopo quello spettacolino alle case popolari.» «È tutta colpa tua!» gridò lei. «Tu ed Echo, e la tua nuova vita. Hai messo Isaiah contro di me perché hai troppa paura di essere te stesso. Vuoi comportarti da falso, proprio come la tua ragazza!» Il tizio tatuato – Isaiah – posò una mano sul braccio di Beth e la strattonò via da Noah. Al diavolo, no! Punk o meno, una ragazza che alzava le mani su un ragazzo si metteva in guai seri, e un uomo non avrebbe mai dovuto toccare una donna. Serrai le dita a pugno e marciai verso di loro. «Sta’ lontano da lei.» «A Groveton» disse Isaiah, ignorandomi. «Con tuo zio. È lì che devi stare.» Puntò il dito a sud, lontano da Louisville, verso casa. «Quel mondo può darti quello che io non posso. Non adesso. Dammi il tempo di diplomarmi.» «Se quello che mi hai detto è vero» replicò lei in un ringhio basso «manterrai adesso la tua promessa.» Sembrò che un’ombra scura lo stesse avvolgendo, e affrettai il passo. «Ho detto di starle lontano.» Il cuore mi batteva forte nel petto. Due contro uno. Le probabilità non erano a mio favore, ma avrei corso il rischio. «Non ti permettere di rinfacciarmelo» le disse Isaiah, poi smise di guardare lei per rivolgersi a me: «Questi non sono affari tuoi, quindi levati dalle palle». «Al diavolo, lo sono eccome. È venuta qui con me e torna a casa con me. Tutto quello che le succede nel mentre sono affari miei.» Lui si voltò completamente verso di me. «Lo dici come se fosse tua.» «Isaiah» sussurrò Beth. «Smettila.» C’era a malapena mezzo metro a dividerci, ma feci un altro passo avanti, i muscoli pronti per lo scontro. «È diventata mia nel momento in cui le hai messo le mani addosso.» Lui azzerò la distanza, e ci ritrovammo muso contro muso, il suo viso a un pugno di centimetri dal mio. Sentivo la rabbia pulsare dal suo corpo. «Non è tua. È mia, e non mi piace il modo in cui la tratti.» Un braccio esile si insinuò fra i nostri corpi. «Isaiah» disse Beth. «Lascia perdere.» «Il modo in cui la tratto?» Questo tizio era fatto? «Non mi pare che ti voglia.» «Ryan, smettila, ti prego.» Non avevo mai sentito Beth implorare prima, e avrei voluto guardarla per essere certo che quelle parole fossero uscite proprio dalla sua bocca, ma non osai. Continuai a mantenere lo sguardo fisso sullo stronzo davanti a me. Un sorriso folle gli piegò le labbra. «Pensi che voglia te? È questo che credi? Che sei un vero uomo perché a scuola la tormenti? Perché sveli a tutti i suoi segreti? Perché la umili? Credi che voglia un ragazzo che la fa piangere?» «Isaiah!» gridò Beth. Facemmo scattare il braccio indietro esattamente nello stesso momento. Una sagoma robusta si materializzò alla mia sinistra, e invece del pugno che mi aspettavo di ricevere, Noah spinse Isaiah contro un’auto. «Calmati, fratello.»

«Come hai potuto!» Mi aspettavo che lo sguardo gelido e accusatorio di Beth fosse rivolto a me, invece era puntato su Isaiah. Tremava dalla testa ai piedi, e si stava strofinando il braccio sinistro con la mano destra. Un movimento che continuava a ripetere ossessivamente, senza smettere. «Come hai potuto dirglielo?» Isaiah sbatté le palpebre e la rabbia gli scivolò di dosso. «Beth…» Lei marciò dritta verso la jeep. «Andiamocene.» Non fu necessario ripetermelo una seconda volta. Infilai le chiavi nel quadro prima di chiudere lo sportello, e uscii sgommando dal parcheggio. Quando imboccammo la superstrada, mi allacciai la cintura di sicurezza e Beth appoggiò la testa al finestrino del passeggero. Cercai dentro di me la rabbia provata prima e un motivo per addossare a lei la colpa. Era stata lei ad andare via. Era stata sempre lei ad andarsene in giro con quei due ragazzi. Eppure l’unico pensiero che mi arrovellava il cervello era l’accusa che Isaiah mi aveva sputato addosso: l’avevo fatta piangere.

Beth

Vivere era come essere incatenata sul fondo di uno stagno poco profondo con gli occhi aperti e senza aria. Riuscivo a vedere delle immagini distorte di felicità e luce, perfino sentire delle risate ovattate, ma era tutto fuori dalla mia portata mentre giacevo al suolo in una soffocante agonia. Se la morte era l’opposto della vita, allora mi augurai che morire fosse come volare via. Non avevo mai litigato in quel modo con Isaiah e Noah. Non avrei mai creduto che Isaiah potesse tradirmi, eppure l’aveva fatto. Mi fidavo del mio migliore amico, gli avevo confidato segreti che non avevo mai detto ad anima viva. Sapeva di mio padre, di mia madre, di ogni volta che un uomo mi aveva picchiata… sapeva quanto male mi avesse fatto Ryan, con le sue offerte di amicizia, benché fossi consapevole che si stava solo prendendo gioco di me. Con la fronte appoggiata contro il finestrino del passeggero, guardai le varie linee bianche al centro della superstrada che stavamo percorrendo. Sulla strada a doppia corsia verso casa di mio zio, Ryan superò un trattore con rimorchio, raggiungendo probabilmente i cento chilometri orari in quarantacinque secondi. Avrei voluto avere il coraggio di aprire lo sportello e lanciarmi fuori. Avrebbe fatto male, ma poi, una volta morta, il dolore sarebbe sparito. Insieme a tutta la sofferenza. Quell’indescrivibile male al petto, la testa pesante, il nodo alla gola… sarebbero scomparsi. Restammo in silenzio per tutto il tragitto. Non ero sicura che fosse una cosa sgradevole, dal momento che ero quasi del tutto insensibile. Volevo smettere di sentire. Lo desideravo con tutta me stessa. Volevo sballarmi. La jeep svoltò a sinistra e imboccammo il viale d’accesso. Il mio stomaco brontolò. Non avevamo avuto il tempo di mangiare. Quando raggiungemmo la casa, Ryan parcheggiò e spense subito il motore. Maledetta campagna. Senza luci, i boschi e i campi diventavano un parco giochi per i miei incubi. La pelle mi pizzicava al pensiero del diavolo che mi attendeva nel buio per afferrarmi e scagliarmi nel nulla. C’erano così tante cose che Ryan poteva fare. Poteva urlare. Poteva entrare e raccontare tutto a Scott. In quel caso si sarebbe comportato come la persona onesta che Scott voleva che diventassi. E avrebbe anche distrutto quel che restava della mia vita. Scott avrebbe mandato mamma in prigione. E io? Io avrei desiderato di morire. Fino a quattro ore prima, l’orgoglio non mi avrebbe mai lasciato pronunciare quelle parole, ma non me ne era rimasto più. «Mi dispiace.» Le rane gracidavano vicino al ruscello al confine con la fattoria di Scott. Ryan non replicò e non potevo dargli torto. Non c’era niente che uno come lui potesse dire a una come me. Esaminò le chiavi che aveva in mano. «Ti sei presa gioco di me per avere un passaggio a Louisville.» «Sì.» E se il mio piano avesse funzionato, sarei partita e mio zio avrebbe dato a lui la colpa.

«Il piano era di incontrarti con quel ragazzo, invece di passare un po’ di tempo con me.» «Sì.» Meritava sincerità, e quella era la risposta più onesta che potessi dargli. Ryan roteò le chiavi attorno al dito. «Fin da quando hai messo piede al Taco Bell, non sei stata nient’altro che una scommessa. Chris e Logan mi hanno sfidato a ottenere il tuo numero, e poi un appuntamento con te.» Ogni parola fu una staffilata, ma lottai per impedire al dolore di emergere. Che altro potevo aspettarmi? Lui rappresentava tutto quanto di giusto c’era nel mondo. Io solo gli errori. I ragazzi come lui non andavano dietro alle ragazze come me. «Sono stato quasi coinvolto in una rissa per te.» «Lo so.» E pronunciai di nuovo quelle parole così rare: «Mi dispiace». Ryan infilò le chiavi nel quadro e accese il motore. «Sei in debito con me. Passo a prenderti venerdì alle sette. Niente scherzi stavolta. Una serata tranquilla. Andiamo alla festa. Ci restiamo per un’ora. Vinco la scommessa, poi ti riporto a casa. Tu riprendi a ignorare me, io ignoro te.» «Va bene.» Avrei dovuto essere contenta, ma non lo ero. Era quello che volevo. Oltre la sensazione di intorpidimento c’era un dolore pronto a torturarmi. Aprii lo sportello della jeep e lo richiusi senza guardarmi indietro.

Secondo il regolamento, non potevo lanciare per più di quindici inning a settimana. Giocavo le partite del giovedì solo se gli altri due lanciatori ci scavavano la fossa. Tre inning prima, quando il coach mi aveva fatto entrare, eravamo finiti dentro a una così profonda che non riuscivamo a vedere nemmeno la luce del sole. Non che la pioggia fosse di aiuto. Erano due settimane che pioveva. Due settimane di partite rimandate. Due settimane di feste cancellate. Due settimane che Beth e io ci ignoravamo a vicenda. Quella doveva essere l’ultima sera di pioggia, e finalmente l’indomani ci sarebbe stata la festa al campo. Anch’io ero pronto… ansioso di vincere la scommessa ed escludere ufficialmente Beth dalla mia vita. Alla fine del settimo inning in parità, dovevo trattenere quell’ultimo battitore per andare agli extrainning. La pioggerellina mi rinfrescò la nuca bollente. Dalla visiera del cappello cadevano le gocce che si erano accumulate sopra. La palla era scivolosa, e anche la mia mano. Odiavo giocare sotto la pioggia, ma i professionisti lo facevano sempre. La pioggia aumentò di intensità. Riuscii a malapena a vedere il segnale di Logan. Per abitudine gettai un’occhiata al corridore in prima base, ma non si vedeva un accidente. Mi voltai e fu la natura a intervenire, cambiando le carte in tavola: tuoni e fulmini. «Fuori dal campo!» urlò l’arbitro. Gli scarpini sprofondarono nel fango mentre mi dirigevo alla panchina. Era la terza volta che quella partita veniva rimandata per la pioggia. Non ce ne sarebbe stata un’altra. Si era conclusa così. «Ottimo lavoro, ragazzi.» Il coach diede a ciascuno una pacca sulla spalla inzuppata man mano che entravamo. «Guidate con prudenza. Tempesta in arrivo.» La pioggia batteva sul soffitto. Non capivo che senso avesse un soffitto se tutto quello che stava al di sotto era bagnato. I sedili. L’equipaggiamento. Le borse. Mi cambiai rapidamente le scarpe, stringendo i lacci delle Nike più del solito. Poiché mi conosceva meglio di chiunque altro, Chris si sedette sulla panca accanto a me. «Non abbiamo perso.» Le partite cancellate per la pioggia non contavano. «Non abbiamo nemmeno vinto.» «Ci avresti fatto vincere.» «Forse.» Mi alzai e misi la tracolla in spalla. «Ma non lo sapremo mai.» Gli altri membri della squadra rimasero a chiacchierare, a cambiarsi le scarpe, aspettando in panchina che spiovesse almeno un po’. Io non avevo voglia di compagnia ed ero già bagnato. La pioggia mi martellò la schiena mentre mi avviavo al parcheggio. «Ehi!» Chris corse per raggiungermi. «Che problema c’è, amico?» «Nessuno.» «Non raccontare stronzate» urlò oltre la pioggia. «Sono due settimane che sei strano.»

Aprii lo sportello della jeep e gettai la borsa sul retro. Beth. Ecco cosa mi era successo, ma non potevo dirlo a Chris. L’indomani avrei messo fine all’infilata di sconfitte che avevo collezionato, la pioggia se ne sarebbe andata e Beth sarebbe venuta alla festa con me. «Forse a me lo dirà.» In piedi accanto a Chris, Lacy sembrava un topolino bagnato con i capelli appiccicati al viso. Quando aveva iniziato a piovere un’ora prima, aveva cercato riparo nell’auto di Chris. «Accompagnami a casa, Ryan.» L’ultima cosa che volevo era restare intrappolato in macchina con lei. «Non sono il tuo ragazzo.» «No» urlò lei, mentre il rombo di un tuono si propagò nel cielo. «Sei mio amico.» Lacy baciò Chris sulla guancia e corse al posto del passeggero. Lanciai un’occhiata a Chris e lui annuì. «Non le va più di tenerti il muso.» Balzai nella jeep e la feci partire. Nel suo tipico stile, Lacy si diede da fare per accendere l’aria calda e sintonizzare alla radio la sua stazione locale preferita, prima di abbassare il volume. «Tu e Beth avete litigato?» I tergicristalli a pieno ritmo presero a lamentarsi mentre uscivo dal parcheggio. Chissà cosa sapeva Lacy. Non avevo raccontato a nessuno che Beth e io eravamo andati a Louisville. «È quello che ti ha detto lei?» «No. La settimana scorsa sono finalmente riuscita a scoprire il suo numero di casa, e suo zio mi ha detto che eravate usciti.» Calcolai che effetto potesse avere questa cosa sulla scommessa. «L’hai detto a Chris?» «Non sono affari miei. L’hai portata a Louisville per via della scommessa?» «Sì.» «Allora è una storia conclusa. È per questo che la stai ignorando?» Silenzio. Perché Lacy mi stava facendo sentire uno stronzo? Era stata Beth a fregarmi. Era in debito con me. «Ti tratta uno schifo, Lace. Perché ci tieni?» Lacy non abitava lontano dal campo di baseball della città. Imboccai il vialetto di casa sua e mi soffermai a guardare i rami pendenti delle felci fuori dal suo portico mentre si agitavano per il vento. «Era mia amica.» «Era! Lo era…» Lacy alzò entrambe le mani. «Basta! Ascoltami. Io non sono te, non lo sono mai stata. In qualunque situazione tu ti trovi, la rendi automaticamente perfetta. Io non sono perfetta, non lo sono mai stata.» Ma di che stava parlando? Se solo Lace avesse saputo che disastro era la mia famiglia; come si stava distruggendo da quando Mark era partito. «Non sono perfetto.» «Vuoi stare zitto?! Santo cielo, la maggior parte delle volte non riesco a far dire un accidente a nessuno di voi, e poi quando voglio veramente dire qualcosa che vale la pena, uno di voi mi interrompe. Silenzio assoluto!» Le feci cenno con la mano di continuare. «Non piacevo a nessuno, Ryan. Papà ci aveva fatto traslocare a Groveton quando avevo quattro anni e sapevo di non essere simpatica a nessuno. Mamma cercava di organizzare feste su feste e mi mandò alla scuola materna, ma non aveva importanza, ero considerata sempre un’estranea. Io non sono te. Non sono Logan. Non sono Chris. Non ho antenati fra i fondatori della città. Non posso andare a pranzo da mia nonna ogni domenica dopo la messa perché non vive nella proprietà accanto, ma a tre

Stati di distanza.» Mi massaggiai la nuca, non sapendo se potevo risponderle, e cosa dirle. Non sembrava che a Lacy interessasse quel che la gente pensava di lei. «Non ti abbiamo mai trattata diversamente.» Lei sospirò profondamente. «Perché pensi che stia appicicata a voi ragazzi dalla prima media? Credi davvero che il baseball mi piaccia così tanto?» Ridacchiai. «Non farti sentire da Chris a dire che non sei una fan sfegatata.» «Io amo lui» disse, e capii che intendeva dire che amava qualsiasi cosa piacesse a lui. «Comunque, il punto è che a Beth piacevo. Quando Gwen si comportava male con me…» Aprii la bocca per protestare. Lei mi puntò contro il dito e strinse gli occhi. «Non una parola. Uno, ti ho detto di stare zitto. Due, questo è il mio monologo, non il tuo. Tre, è una stronza. Come stavo dicendo, Gwen mostrava la sua vera indole e non l’atteggiamento da fingo-di-essere-perfetta-cosìtutto-il-mondo-mi-amerà, e rendeva la mia vita un inferno. Ero stata etichettata come strana prima ancora di entrare all’asilo, eppure a Beth piacevo. «Quando Gwen mi faceva piangere, Beth mi teneva per mano e mi ricordava che mi voleva bene. Quando le amiche di Gwen mi dicevano che non potevo giocare sulle altalene, Beth le spingeva a terra e diceva che le altalene erano tutte per me. Beth mi ha insegnato cosa significa avere degli amici. Non so cosa diavolo le sia successo fra la terza elementare e oggi, ma glielo devo. Le cose stanno così… voglio bene sia a te che a lei, ma giuro sulla mia testa che ti rompo le ossa se le fai del male.» Lacy aveva raccontato troppe cose per poterle assorbire tutte insieme, così mi concentrai su quello che sapevo. «Mi rompi le ossa?» Lei si lasciò sfuggire un sorriso. «Ok, forse no, ma sarei furiosa, e odio essere furiosa con te.» Nemmeno a me piaceva quando capitava. «Viene alla festa con me.» Lei si rabbuiò, delusa. «Scommessa o appuntamento?» «Scommessa.» Non mentivo agli amici. «Ma Beth lo sa.» «Il fatto che lo sappia non infrange le regole?» Scrollai le spalle. «Non abbiamo un codice.» La luce nel portico si accese e la porta si aprì. Faticai a vedere la madre di Lacy attraverso la pioggia scrosciante. La salutai con la mano. Un attimo dopo lei rispose al saluto. «Pensa che tutto quel che facciamo Chris e io sia pomiciare in auto.» Con un gesto vago della mano, Lacy lasciò cadere qualsiasi discorso su lei e Chris che si sbaciucchiavano in macchina, il che mi andò più che bene. Preferivo pensare a Beth. Chi era? La vera amica che Lacy giurava che fosse? La bambina bionda innamorata di nastri e vestitini? La ragazza che mi era entrata sottopelle e ci era rimasta? Quella forte abbastanza da dirmi cosa ne pensava di me? Quella che a volte sembrava così piccola e indifesa che mi domandavo se fosse in grado di sopravvivere da sola? Lacy forse mi avrebbe odiato per quello che stavo per dire, ma dovevo farlo. «Forse Beth non è chi credi che sia.» «Buffo» replicò lei. «Stavo per dirti la stessa cosa.»

Beth

Ryan cambiò marcia quando il manto stradale terminò e le ruote della jeep incontrarono la ghiaia. Il vento mi sferzò i capelli sul viso e sul collo, pizzicando come fossero i piccoli tentacoli di una medusa. Accese i fari non appena il sole tramontò a ovest, lasciando al buio i boschi intorno a noi. A parte lo scambio di saluti obbligatoriamente allegri sotto lo sguardo vigile di mia zia, Ryan e io non avevamo aperto bocca da quando era venuto a prendermi. Le cose che mi aveva detto due settimane prima facevano ancora male… non ero nient’altro che una scommessa. Le offerte di amicizia, i sorrisi, le belle parole… tutti trucchetti. In fondo l’avevo sempre saputo, ma una parte di me aveva sperato in qualcosa di più. Mi ero concessa di sperare. Stupida Beth, avevo commesso un altro stupido errore! La storia della mia vita. «Sai, è maleducazione mandare messaggi quando sei fuori con qualcun altro.» Ryan mise una mano sul volante e appoggiò il gomito al finestrino con fare presuntuoso. «Soprattutto considerando che ti ho salvata.» Lo ignorai e controllai il cellulare. Essendo in debito con lui, avevo accettato di passarci insieme un’ora alla festa. Non stava scritto da nessuna parte che dovessi anche parlarci. Il continuo su e giù della jeep rese quasi impossibile leggere i messaggi di Isaiah. Era la prima volta che trovavo il coraggio di aprirli. Ogni messaggio diceva la stessa cosa: Mi dispiace. Anche a me. Mi dispiaceva di essermi fidata di lui. Di essere stata tradita da lui. Di aver pensato di poter leggere i suoi messaggi senza che il cuore soffrisse come sotto l’attacco di uno sciame di api. Volevo che la tristezza e il dolore sparissero. Come potevo perdonarlo per aver rivelato a Ryan il mio segreto? Come potevo perdonarlo per avermi costretta ad abbandonare mia madre? E ancora peggio, come potevo parlare con lui adesso che sapevo che mi amava, mentre io ero più che certa di non provare lo stesso? Mi si strinse la gola. Isaiah era il mio rifugio. Lo era da sempre. Era quel luogo in cui mi riparavo quando il mondo veniva travolto dal caos. A volte mi era passato per la testa che potessimo essere qualcosa di più, ma poi… mi paralizzavo completamente. Isaiah e io eravamo fatti per essere amici, e adesso stavo perdendo il mio unico amico. Il cellulare mi vibrò fra le mani. Come se avesse percepito che ero finalmente dall’altra parte. Chiamami. Mandami un messaggio. Ti prego. Gettai il cellulare sul pavimento della jeep di Ryan. Se gli avessi risposto, avrei solo acutizzato il dolore… di entrambi. Ryan era concentrato sulla strada, perso nei suoi pensieri. Avrei volentieri fatto a cambio con la sua vita. Nessun dolore. Nessun problema. Solo leggerezza e libertà. «Tutto ok?» Si era accorto che lo stavo fissando. Tenni bene a mente che la sincerità di quegli occhi castani non era reale. Gli invasati come lui erano bravi a fingere. I capelli uscivano dal berretto da baseball che portava al contrario. Cambiò di nuovo marcia, e nel farlo i muscoli del braccio si contrassero. Era vagamente sexy. Non vagamente… Ryan era sexy.

«Perché siamo su una strada non asfaltata? Abbiamo raggiunto ufficialmente la fine del mondo civilizzato?» «È una strada sterrata» disse Ryan. «Di qui si va a casa mia.» Casa sua. Per favore! Anche quel bastardo di Luke, alla mia vecchia scuola, mi aveva “mostrato” casa sua. «Non ci scopo con te.» «Quant’è bello sentirti parlare. A Louisville immagino che tutti i ragazzi pendessero dalle tue labbra.» Distese le dita e rafforzò la stretta sul volante, prima di rispondere in tono sbrigativo: «Questa è la strada più breve per la festa». Ryan mi odiava e non potevo dargli torto. Mi odiavo io per prima. Quello che più detestavo al momento era che a una parte di me lui piacesse. Mi aveva difeso come avrebbe fatto il principe con la principessa delle favole che Scott mi leggeva da piccola. Non ero una principessa, ma Ryan era un cavaliere. Solo che apparteneva a un’altra persona. «Sei sicura che sia tutto a posto? Sei pallida.» «Sto bene.» Maledizione, mi era venuto fuori un tono troppo acido. Fantastico. Gli avevo anche ringhiato addosso. Un altro motivo per sentirmi uno schifo. Ryan oltrepassò quella che immaginai fosse casa sua, grande, a due piani e con un ampio garage accanto, e cambiò marcia ancora una volta quando finimmo sull’erba. La jeep sobbalzò in avanti, scrollandomi sul sedile come sulle montagne russe. Mi aggrappai alla maniglia del passeggero in alto e Ryan rise. Un sorrisetto folle gli illuminò il viso, e di nuovo mi sentii attratta da lui. Si mise seduto eretto, senza più tenersi a distanza da me, una mano sul volante e l’altra impegnata a cambiare marcia mentre sfrecciavamo giù dalla collina verso un ruscello. La jeep accelerò come una palla di neve sempre più simile a una valanga. C’erano varie opzioni. Lo schianto. L’acqua. L’urto. La terra. Il cuore mi batteva all’impazzata nel petto, e per la prima volta dopo settimane, mi sentii viva. Il motore ruggì quando schiacciò l’acceleratore. La jeep raggiunse le rocce. Sia Ryan che io gridammo quando un’ondata d’acqua colpì la macchina e si infranse sul parabrezza, togliendoci la possibilità di vedere. Lui accelerò, facendo superare il ruscello alla jeep grazie alle rocce. Avendo il coraggio di continuare anche senza vedere cosa ci fosse dall’altra parte. Si azionarono i tergicristalli, liberandoci la visuale, e Ryan girò di scatto il volante a destra per evitare un albero dalla forma irregolare. Raggiunse una radura e spense il motore. Sentii delle risate e trattenni il respiro quando capii che erano le mie… e le sue. Insieme. Avevano un bel suono. Quasi musicale. Ryan stava facendo di nuovo quel sorriso. Quello genuino che mi faceva fare le capriole allo stomaco. Aveva sorriso così al Taco Bell. E anche quando Scott ci aveva presentati. Lo faceva con tanta naturalezza, e per un attimo pensai che fosse per me. «Stai sorridendo» disse. Mi sfiorai il viso distrattamente, come se la notizia mi avesse colto di sorpresa. «Dovresti farlo più spesso. È carino.» Si interruppe. «Tu sei carina.» Il mio cuore prese a battere il modo strano. Come se si fosse fermato e fosse ripartito nello stesso istante. Sentii una vampata salirmi su per il collo e il viso. Ma che diamine, stavo arrossendo di nuovo? «Scusa.» Ryan continuò a sorridere in quel modo, ma poi sembrò pentirsene e abbassò lo sguardo

timidamente. «No, è stato divertente.» La cosa più divertente che avessi fatto in settimane. La più divertente fatta da lucida in… feci qualche calcolo e non trovai risposta. La vita da lucida faceva schifo. «Già.» Il suo sguardo si fece distante e il sorrisetto gli rimase stampato in faccia, ma si capiva benissimo che era forzato. Poi sbatté gli occhi e riprese a sorridere con aria disinvolta. «Sì. Il ruscello. Avrei dovuto dirti che era sulla strada. O rallentare.» Perché non riuscivo a reggere il suo sguardo per più di un secondo, proprio non lo sapevo. Quella timidezza insolita mi faceva sentire a disagio e un po’… come una ragazza? Intrecciai le mani e mi concentrai su quelle. «Davvero, è tutto ok. Mi sono divertita.» «Beth?» Esitò. «Possiamo ricominciare daccapo?» Lo guardai… dalla testa ai piedi. Nessuno mi aveva mai offerto una seconda possibilità prima. Probabilmente nessuno pensava che ne valessi la pena. Qualcosa dentro mi spinse a sorridere, e per quasi tre secondi mi sembrò di volare. Ben consapevole che ogni cosa nella vita durava poco, smisi di sorridere e mi lasciai invadere dalla tristezza. Accettai comunque l’offerta. «Certo.» Le urla di un ragazzo attirarono la nostra attenzione. Più in là nella radura, c’erano dei pick-up disposti a cerchio, con i fari accesi, e un falò al centro. Era pieno di ragazzi della nostra scuola. Che ci facevo lì? «Pronta?» mi chiese Ryan. No, ma quando avevo cercato di scappare, avevo combinato un casino. «Credo di sì.» Non che fossi nuova alle feste, ma era la prima volta che andavo a una nei boschi con tanto di falò. Alcuni ballavano di fronte a una grande jeep arrugginita, altri se ne stavano davanti al fuoco o sul retro dei furgoni. Tutto l’allestimento ricordava un po’ Il Signore delle Mosche. Almeno la versione cinematografica. Ryan e io attraversammo il campo d’erba, che arrivava al ginocchio, e la sentii frusciare contro le Converse false. Gli steli più lunghi mi colpirono, graffiando la pelle nuda nei buchi dei jeans. Quanto odiavo la campagna! Più ci avvicinavamo alla festa, più rallentavo, e Ryan si adeguò la mia andatura. A ogni passo, accorciava la distanza fra noi e un paio di volte mi sfiorò le dita con le sue. Avevo le farfalle nello stomaco, e la ragazzina stupida dentro di me avrebbe voluto sentire ancora il suo tocco. L’altra parte gli avrebbe dato un cazzotto, se solo ci avesse provato. «Le feste ti mettono a disagio?» mi chiese. «Soltanto quando mi fanno sentire come Daniele nella fossa dei leoni.» Cercai di trattenere il sorriso quando sentii la sorpresa nella sua voce. «Conosci la storia?» Grazie al breve periodo passato al campo estivo della parrocchia con Lacy, sapevo recitare i libri della Bibbia, il Nuovo e l’Antico Testamento, e un mucchio di altri versi a caso. «Anche il diavolo sa chi è Dio.» «Tu non sei il diavolo, Beth.» «Ne sei sicuro?» Sorrise di nuovo in quel modo adorabile. «No.» Scoppiai a ridere. Fu una bella risata, di quelle che arrivavano fino alle dita dei piedi e solleticavano lo stomaco. E ancora più bello fu sentire Ryan che rideva insieme a me. «Andiamo. Prometto che non ti mangeranno. Metà delle ragazze qui sono vegetariane, e ai ragazzi

ci penso io.» Fece esattamente quello che speravo e temevo: intrecciò le dita con le mie e mi tirò dolcemente perché lo seguissi. Mi piaceva il contatto con la sua mano. Era calda, forte. Per qualche istante lasciai libera quella parte di me che amava i nastri, e risposi alla stretta. Se c’era una cosa che avevo imparato al campo estivo della parrocchia, era che riportare in vita i morti era possibile. Ryan proseguì in direzione di un pick-up sul cui cassone erano seduti Chris e Logan. Stavano entrambi ridendo ad alta voce, ma appena si accorsero di me si interruppero. Lacy, seduta comodamente fra le gambe di Chris, mi rivolse un sorriso amichevole. «Hai sentito di nuovo il richiamo del fango, Ryan?» chiese lei. Ryan ridacchiò. «Già.» Fango? Come faceva Lacy a sapere… mi controllai i vestiti. Fango dappertutto. Fantastico. «Diamine» fece Chris. «Sei davvero riuscito a convincerla a venire. Gli hai dato anche il numero di telefono, Beth?» Sbattei gli occhi. «Cosa?» «Gli stai tenendo la dannatissima mano.» Giusto. Era vero. Che stupida. La scommessa. Prima il numero di telefono. Poi l’appuntamento. Per un momento il giro sulla jeep mi aveva fatto dimenticare tutto. Il dolore mi punzecchiò il cuore, e ricacciai la ragazzina con i nastri in un angolo buio della mente. Certe cose non si dovevano riportare indietro. Liberai la mano dalla stretta. E meno male che Ryan mi aveva chiesto di ricominciare! «Non ti far fregare da lui» disse Chris, mentre faceva scivolare un dito lungo il braccio di Lacy. «Ryan è un seduttore.» Noah toccava Echo in quel modo. Mi ero accorta già a scuola che Chris era innamorato di Lacy. Alcuni ragazzi toccavano le ragazze per amarle. Altri per usarle. I peggiori lo facevano per far loro del male. Guardai Chris e valutai se mandarlo al diavolo, ma non trovai la rabbia necessaria. Ero io l’imbecille che si era cacciata in quel casino. «Non starlo a sentire, Beth» replicò Ryan. «Gli girano perché l’ho completamente fottuto.» Chris rise di cuore. Ryan mi passò un braccio attorno alle spalle e mi condusse via dal gruppo. Mmm… no. Forse prima ci ero cascata con la storia del tenersi per mano, ma non avrei commesso di nuovo lo stesso errore. «Togli quel braccio, prima che te lo stacchi e lo usi per prenderti a bastonate.» Stavamo andando verso il falò. Mi sentivo piccola sotto quel braccio forte, come una ragazza, e quel senso di vulnerabilità mi metteva a disagio. Invece di lasciarmi andare, Ryan mi strinse a sé senza sforzo. «Quando baci un ragazzo, dopo crolla stecchito a terra per il veleno che ti esce dalle labbra?» «Se così fosse, ti avrei baciato giorni fa. Non sto scherzando, levati di dosso.» «No.» No? «Ma allora hai davvero voglia di morire!» Ryan superò il falò, e mi assalì il panico quando mi guidò verso la massa di ragazzi che ballava. «Mi devi un’ora, ricordi?» Il rap rimbombava così forte da un furgoncino che la terra sotto i piedi vibrava. Intorno a noi la gente ballava. Si dimenava. Si agitava. Rideva. Si muoveva a un ritmo ipnotico, pelle contro pelle, corpo a corpo.

Lo stomaco si contrasse e mi vennero i conati di vomito. «Merda. Questo no.» Ryan si piazzò davanti a me, impedendomi di fuggire. «Che ne dici di un patto? Un ballo e il tuo debito è ripagato.» «Io non ballo.» Era vero, non ballavo. Verità completa? Non avevo mai ballato con un ragazzo. Lui inarcò un sopracciglio, scettico. «Non balli?» «No.» La luce del fuoco guizzò sulla pelle abbronzata di Ryan, dando al suo viso un bellissimo colorito. I capelli sembravano dorati. Era splendido. Lo era davvero, e voleva ballare con me. Poteva andare peggio di così? Ryan si avvicinò e mi rivolse quel sorriso impudente che rendeva lui adorabile e me debole. Lo odiavo e odiavo anche me stessa, perché volevo che mi toccasse di nuovo. Il ritmo della musica cambiò da super veloce a un po’ più lento. Le battute scandivano con forza il battito accelerato del mio cuore. Ryan mi appoggiò una mano sul fianco, e il suo calore si propagò sulla pelle fino a incendiarmi il sangue nelle vene. Avvicinò le labbra al mio orecchio e il suo respiro mi stuzzicò la pelle alla base del collo. «Balla con me, Beth.» «No.» Quando avrei imparato la lezione? La risposta mi era venuta fuori in un sussurro. Avrei fatto prima a gridare di sì. È un errore, Beth. Un errore gigantesco e lampante. Scappa, ora! Ryan mi appoggiò l’altra mano sulla parte bassa della schiena e fece aderire il corpo al mio. Inspirai e diedi il benvenuto all’odore della terra calda e della pioggia estiva. Ryan aveva un profumo… meraviglioso. «Funziona meglio se fai lo stesso anche tu» disse lui. Gli appoggiai le mani sulle spalle senza stringere. Un po’ come avevo visto fare a Echo una volta, quando Noah l’aveva tirata giù dal letto per ballare. Mi formicolava la pelle. Sfiorare Ryan, santo cielo, era troppo… troppo intimo. «Lo sto facendo solo perché sono in debito con te.» «Va bene.» Ryan muoveva i fianchi da un lato all’altro, seguendo il ritmo. Abbassò appena la mano e la leggera pressione che mi fece sulla gamba mi spinse a muovermi insieme a lui. Per quanto non avessimo staccato i piedi da terra, mi sembrava di volare. «Io sto ballando con te perché mi piace la faccia che fai» mi sussurrò di nuovo. Ti pareva. «Ti piace vedere che mi rendo ridicola?» «No. Mi piace vedere la ragazza che Scott e Lacy dicono che puoi essere.» Mi fissava come se potesse scrutarmi dentro, e il cuore prese a battere tanto forte nel petto che avrei giurato lo sentisse anche lui. Avevo i nervi a fior di pelle. Con quel suo modo di guardarmi, Ryan mi faceva sentire vulnerabile… come se fossi nuda, in piedi davanti a una grande finestra aperta. Feci scivolare giù le mani, ma quando tentai di allontanarmi, lui mi strinse i fianchi e mi impedì la fuga. «Ryan! Mi chiedevo quando saresti arrivato.» Il suono di una voce fin troppo familiare mi diede la stessa scossa elettrica che avevo preso a quattro anni, quando avevo infilato le dita in una presa di corrente. Mi irrigidii, poi con dei passi impacciati mi scostai da Ryan. Gwen indossava un prendisole rosso a fiori bianchi. Increspò le labbra nel notare le mie Converse false, i jeans logori e la maglietta nera. Intrecciò il braccio a quello di Ryan. «Non ti dispiace se te lo rubo per un momento, vero? Ci sono delle cose di cui dobbiamo parlare.» Stavano bene insieme. Ben assortiti. Come doveva essere una coppia. «È tutto tuo.»

Pochi secondi prima, Beth e io avevamo condiviso qualcosa… un momento, un legame. L’avevo visto nei suoi occhi. Qualcosa di vero, che ora era sparito. Beth mi diede le spalle e si diresse verso Lacy, Chris e Logan. «Beth, aspetta.» Si voltò, ma prese a camminare all’indietro… lontano da me. «Non ti preoccupare» disse con una punta di amarezza. «Non sparisco.» «Lasciala andare» mormorò Gwen. «Puoi parlarci dopo con lei.» Non trattenni Beth solo perché sapevo quanto Gwen potesse essere insistente. Mi avrebbe seguito fino a ottenere quel che voleva. «Che c’è?» «Non c’è bisogno di essere bruschi» mi rimproverò. «Non lo sono.» Al limitare del bosco notai Tim Richardson e Sarah Jones. Lei barcollava e rideva un po’ troppo forte. «Sì che lo sei.» Che dialogo inutile. Un altro dei motivi per cui avevamo rotto. «Sarah è ubriaca?» Gwen le rivolse un’occhiata da sopra la spalla e poi tornò a guardare me. «Sì. Era in condizioni pietose già prima di venire qui. Allora, stavo pensando che dovremmo entrare insieme sul campo di rugby, al ballo. La folla ama le coppie.» «Noi non siamo una coppia.» Tim mise una mano sul sedere di Sarah e lei smise di ridere. «Sarah e Tim stanno insieme?» «No. Lei lo ritiene un rifiuto, ma è ubriaca e, be’, lui è Tim. Tornando a noi… eravamo una coppia e forse dovremmo riprovarci. Insomma, alla fine del tuo piccolo esperimento con Beth. Voglio dire, non devi andare a tutti gli allenamenti, no? Ryan… Ryan? Perché continui a guardare dietro di me?» Sarah stava spingendo le mani sul petto di Tim. Lui non si mosse, io sì. «Scusami» farfugliai a Gwen. Lei mi bloccò la strada e mi fermai, irritato dalla sua presenza. «Che c’è?» ringhiai. «Hai sentito quello che ho detto?» Qualcosa sul ballo e su Beth. «Ne possiamo parlare dopo?» Sarah spinse di nuovo Tim. «La tua amica ha bisogno di aiuto.» Gwen si fece da parte e avanzai verso gli alberi. Tim stava allungando le mani e Sarah continuava a schiaffeggiargliele. «Ehi, Tim» dissi. «Ho idea che Sarah voglia tornare alla festa.» «No, siamo a posto» replicò lui. Sarah gli scansò le mani a suon di schiaffi. «Lasciami stare.» «Tim» dissi in tono più basso. Alle parole avrei fatto seguire i fatti, e lui questo lo sapeva. Lui lasciò andare Sarah e sbuffò quando la vide ciondolare verso la festa. Mi tenni pronto, mantenendo ben salda la posizione. Tim non aveva una bella reputazione, fra la passione per il rugby e

gli scatti d’ira quando era ubriaco. «Che problema hai, Ryan?» «Non ne ho, se lasci a Sarah il suo spazio.» Mi puntò contro un dito in modo goffo, poi sbandò. «Sei stato tu a farle credere che avesse bisogno di spazio.» «Andiamo, Tim. Torniamo alla festa.» Lui raddrizzò la schiena. Cercava la rissa. Io no. «Sai cosa penso?» mi disse. «Io credo che dovremmo tornare.» «Penso che tu abbia un problema con le ragazze.» Mi irrigidii. «Che cos’hai detto?» Lui piegò le labbra in un sorrisetto. «Già» continuò. «Hai un problema con le ragazze. Hai mollato Gwen, che è fantastica. Sei gay, amico?» La rabbia mi esplose dentro e i muscoli si tesero, pronti a scattare in avanti, quando delle dita delicate si strinsero intorno al mio braccio. «Non ne vale la pena» fece Beth in tono calmo. Chris e Logan si misero fra me e Tim, una barriera di pelle, muscoli e ossa fra me e il ragazzo che volevo pestare. Tim continuò a stuzzicarmi: «I veri uomini non si fanno salvare dalle ragazze». «Sei ubriaco» gli rispose con fare annoiato Logan. Alle sue spalle, Tim alzò le mani. «Vieni a prendermi, Ryan. Dimostra di essere un uomo.» Serrai i pugni e feci un passo avanti. «Ci sto, Tim. Facciamolo.» Chris mi diede uno spintone al petto, ma non bastò a tenermi indietro, così urlò a Beth: «Portalo via da qui!» Lei intrecciò le dita alle mie, e la sua voce dolce e femminile si fece strada nella rabbia. «Andiamo.» La guardai. «Ryan» disse. «Per favore.» Quel singolo per favore fu abbastanza da farsi spazio nel caos che mi annebbiava il cervello, e spingermi nella direzione opposta rispetto a Tim. Strinsi la presa sulla mano di Beth e la condussi verso la jeep, non prima di aver fregato una confezione da sei birre da un congelatore. Proseguimmo verso l’erba alta senza una parola, sempre per mano. La lasciai solo quando arrivammo alla macchina e ci entrammo. Avevo il cuore a pezzi e la rabbia mi avvelenava il sangue. Accesi il motore e mi allontanai dalla radura. Mio fratello se n’era andato. Mio fratello era gay ed era andato via, e non sarebbe più tornato. Mio padre si comportava come se non fosse mai esistito. Mia madre era a pezzi. I miei genitori – che una volta si amavano – si odiavano. Guidando lungo il torrente, cercai un punto poco profondo per guadarlo. Avevo torturato Beth a sufficienza. Con quella jeep. Con la mia presenza. Isaiah aveva detto che la facevo piangere. Serrai le dita sul volante. Beth aveva ragione… ero un idiota. L’avrei riportata a casa, poi sarei andato al campo dietro casa mia. E avrei bevuto per conto mio. Bere non avrebbe cambiato il passato, ma mi avrebbe permesso di dimenticare tutto per qualche ora. Sterzai a sinistra nel punto in cui il letto del torrente si riduceva a un rivolo. L’acqua sfiorò a malapena le gomme mentre lo attraversavo, ma nell’istante in cui raggiunsi l’altra sponda, capii di

essere fregato. Il fango! Troppo fango. Profondo, oltretutto. Schiacciai l’acceleratore e sterzai a destra, per cercare di spingere le gomme anteriori sul terreno prima che le posteriori affondassero nella melma, ma era già troppo tardi. Gli pneumatici posteriori fecero un rumoraccio e impedirono qualsiasi movimento. «Merda!» Sbattei la mano sul volante. Sapevo che se avessi insistito, avrei solo fatto affondare di più le gomme, così spensi il motore. Ero bloccato. Mi strappai il cappello di testa e lo scaraventai sul pavimento. Era un po’ il riassunto della situazione… c’ero dentro fino al collo, ed ero bloccato. Misi piede fuori e la gamba sprofondò nel pantano. Beth ne avrebbe avute di paroline colorite, quando le avrei detto che ci toccava andare a piedi. Il fango sembrava cemento in fase di solidificazione e rendeva quasi impossibile ogni passo. I jeans si sfregarono e sciabordarono nello sporco. Ero un casino totale, ma non era necessario che anche Beth si riducesse in quel modo. Non mi ero comportato in modo molto cavalleresco con lei. Anzi, avevo fatto l’opposto. Non che la sua brillante personalità fosse stata di aiuto. Aprii il suo sportello e tesi le braccia. «Vieni qui.» Lei aggrottò la fronte. «Che?» «Ti porto in braccio fuori dal fango.» Lei inarcò un sopracciglio, incredula. «Lo spettacolo è finito, Batman. Non devi continuare a essere gentile con me.» Non ero in vena di parolacce né di litigi, così le passai le braccia sotto le ginocchia e la sollevai dal sedile. Non mi avrebbe rotto le palle durante il ritorno a casa per averle rovinato le scarpe. «Aspetta!» Beth si dimenò e si tese verso la jeep. Non poteva permettermi un atto di gentilezza? «Maledizione, Beth, lasciati aiutare!» Lei mi ignorò e si sporse verso il sedile del passeggero. La maglietta le si alzò sulla schiena, scoprendo la pelle liscia e dei caratteri cinesi tatuati lungo la spina dorsale. Seguii il percorso dei simboli finché non sparirono sotto i jeans. Fin troppo in fretta per i miei gusti, si rimise dritta fra le mie braccia, tenendosi strette al petto due confezioni di birra. Scoccai un’occhiata alle lattine e poi a Beth. Lei fece spallucce. «Sei non erano abbastanza.» Per me lo erano eccome. Non volevo bere in compagnia quella sera e, anche in quel caso, non avrei scelto lei come compagna. Chiusi con un calcio lo sportello e attraversai il fango. Beth era leggera. Probabilmente pesava meno di cinquanta chili, cinquanta da bagnata. «Deve piacerti un sacco toccarmi» disse. La scrollai per farla tacere. Le lattine si scontrarono fra loro mentre si destreggiava per non farle cadere. “Risistemandomi fra le braccia” Beth, le avevo impedito di parlare, ma per come l’avevo posizionata, il suo viso era più vicino al mio. Guardai dritto in avanti e cercai di non pensare al dolce profumo di rose che veniva dai suoi capelli. «Deve piacerti un sacco toccarmi, visto che avresti potuto mettermi giù una vita fa.» Completamente assorbito dai miei pensieri, non mi ero accorto che eravamo entrati nella proprietà di suo zio. «Scusa.» La rimisi a terra, le tolsi di mano entrambe le confezioni di birra e marciai verso casa sua. Scott aveva praticamente messo i manifesti su quanto l’alcol fosse off-limits per Beth. Fortunatamente per lei, avevo guidato lungo il torrente in direzione della proprietà di Scott. Altrimenti sarebbe stata una camminata infernale… per lei. Qualcosa mi diceva che non fosse

un’amante dell’aria aperta. Beth si tenne un paio di passi indietro e le fui grato per il silenzio. Si sentiva il verso dei grilli d’autunno, e una leggera brezza soffiò facendo frusciare le foglie sugli alberi. Oltre la collina successiva c’era il pascolo di Scott e, in fondo, il fienile. Un ramoscello schioccò dietro di me e Beth mi affiancò di corsa. «Dove stiamo andando?» «Ti riporto a casa.» Mi trattenne per un braccio, stringendo leggermente. «Col cavolo.» Mi fermai, non perché la stretta di Beth potesse frenarmi, ma perché trovavo divertente il suo tentativo di trattenermi fisicamente. «Hai fatto il tuo dovere, sei venuta alla festa. Ora ti riporto a casa. Siamo a posto. Io non devo guardare te e tu non devi guardare me.» Beth si morse il labbro inferiore. «Credevo che volessimo ricominciare.» Ma che diavolo…? Non era quello che voleva… essere lasciata in pace? «Tu mi odi.» Beth non disse nulla, senza confermare né negare quello che avevo detto, e il pensiero che quelle parole fossero vere mi spezzò il cuore. Merda. Non dovevo cercare di capirla, non avevo bisogno di lei. Le diedi le spalle e avanzai… oltre l’erba alta della radura, verso il fienile rosso. «Hai mai bevuto da solo?» mi chiese. Mi bloccai. Quando non risposi, lei continuò: «Fa schifo. Una volta l’ho fatto… a quattordici anni. Ti fa sentire peggio farlo da solo. Il mio amico…» Esitò. «Il mio migliore amico e io avevamo deciso che non avremmo mai più bevuto per conto nostro. Ci siamo promessi di guardarci le spalle a vicenda.» Era strano sentir parlare Beth così apertamente, e una parte di me voleva che tornasse a esprimersi a suon di parolacce e insulti. Sembrava meno umana in quel modo. «C’è un motivo particolare per cui mi stai dicendo queste cose?» L’erba frusciò sotto i suoi passi irrequieti. «Sei di quelle birre sono mie, e mancano un po’ più di quattro ore al mio coprifuoco. Suppongo che potremmo concederci una tregua per stasera, e nessuno dei due dovrebbe restare da solo.» «Tuo zio Scott mi crocifiggerebbe.» «Quello che non sa non può fargli male.» Mi guardai alle spalle e la vidi mentre si faceva strada fra le spighe di grano che ondeggiavano per raggiungermi. «Ti giuro che ho molto più io da perdere di te. Non lo saprà.» Il fango le era schizzato in faccia, si era incrostato sui capelli e le macchiava i vestiti. Metà di quella sporcizia, Beth se l’era procurata durante il viaggio di andata. Avrei dovuto dirle come era conciata prima di andare alla festa, ma stava ridendo. Sorridendo. Mi ero aggrappato a quel momento come un egoista. Per di più, Isaiah aveva detto che la facevo piangere. Esaminai la bellezza minuta di fronte a me. C’era qualcosa di più in lei, sapevo che c’era. L’avevo letto nei suoi occhi mentre rideva con me nella jeep. L’avevo sentito nel modo in cui mi aveva sfiorato mentre ballavamo. Evidentemente stavo perdendo la testa. «Una sola birra.»

Beth

La paglia era morbida, ci si poteva stare sdraiati. Un po’ ruvida. Comoda. Ottima per la sensazione di inconsistenza. Puzzava di muffa, polvere e sporco. Feci una smorfietta con le labbra in un momento di gioia. Muffa. Polvere. E sporco. Quelle parole suonavano bene insieme. Inspirai a fondo, osservando le ombre create dalla luce della lampada da campeggio che Ryan aveva trovato nel fienile di Scott. Finalmente mi ero sballata. Non che avessi fumato erba. Ryan era troppo moralista per quello. Leggera grazie all’alcol era una descrizione migliore. Tre birre. Isaiah avrebbe riso fino alle lacrime. Tre birre e già mi pareva di volare. Ecco cosa capitava a restare sobri per due settimane di fila. Isaiah. Sentii una fitta al petto. «Il mio migliore amico ce l’ha con me, e io ce l’ho con lui.» Ruppi il silenzio per prima, oltre il rumore delle lattine stappate, del gorgoglio della birra e degli uccelli che tubavano sulle travi. «Il mio unico amico.» Ryan voltò la testa al rallentatore per guardarmi. Era seduto a terra, appoggiato in malo modo con la schiena a una balla di fieno. Gli occhi castani erano appannati. Dopo sei birre, dovevo riconoscergli il merito che reggeva l’alcol meglio di me. «Quale sarebbe?» «Isaiah» dissi, e il cuore si strinse. «È il ragazzo con i tatuaggi.» «L’altro è il tuo ragazzo?» Avrei voluto ridere. Invece mi venne fuori un verso a metà fra un grugnito e un singhiozzo. Ryan ne rise, ma mi sentivo così leggera che non ebbe importanza. «Noah? No, è perdutamente innamorato di una squilibrata. E poi, Noah e io non siamo amici. Siamo più come fratello e sorella.» «Davvero?» Il tono di Ryan suonò incredulo. «Non vi assomigliate.» Agitai freneticamente la mano in aria. «No, non siamo parenti. Noah non mi sopporta, ma mi ama. Mi guarda le spalle. Come un fratello.» Amore. Diedi volontariamente un colpetto con la nuca a terra per la frustrazione. Isaiah aveva detto di amarmi. Provai a frugare negli angoli del cuore alla ricerca delle emozioni, coperte di ragnatele, cercando di capire se potessi ricambiare. Trovai solo il vuoto. Era quello l’amore? Un vuoto? Ryan strinse gli occhi in un’espressione concentrata, ma dopo sei birre in un’ora ero abbastanza sicura che fosse andato. «Quindi non hai un ragazzo?» «No.» Si aprì un’altra birra. Stavo per protestare perché aveva preso una delle mie, ma poi lasciai perdere.

Avevo voglia di sentirmi leggera, non di vomitare. Di lì a tre ore sarei dovuta tornare a casa di Scott e serviva un minimo di lucidità. «Perché Isaiah ce l’ha con te?» domandò lui. «È innamorato di me» dissi senza pensare, e subito me ne pentii. «E altre cose.» «E tu sei innamorata di lui?» Era la risposta più veloce di Ryan dalla seconda birra. Sospirai profondamente. Bella domanda. «Mi lancerei davanti a un camion in corsa, per lui.» Se fosse stato necessario a salvargli la vita. Se l’avesse reso felice. Era quello l’amore, no? «È una cosa che farei anch’io per un sacco di persone, ma non significa che ne sono innamorato.» «Oh.» Oh. Allora non avevo idea di cosa fosse l’amore. «Quali altre cose?» mi incitò. Altre cose? Ah, giusto. Ryan mi aveva chiesto perché Isaiah era arrabbiato con me. Scossi la testa avanti e indietro, facendo scricchiolare la paglia. «Non capiresti. I miei casini…» Mia madre. «La mia non è una famiglia perfetta. Abbiamo dei problemi.» Ryan ridacchiò e prese un sorso di birra. Mi sollevai sui gomiti. «Che diavolo ci trovi di divertente?» Abbassò la birra e vidi la sua gola muoversi mentre inghiottiva. Accartocciò la lattina vuota in mano. «Perfetto. Famiglia, problemi. Fratelli gay.» Era ovvio che non stessimo più parlando di me e Isaiah. «Sei ubriaco.» «Bene.» Nonostante fosse brillo, il suo sguardo si scurì per lo stesso dolore che avevo visto prima, mentre mi tirava fuori dalla jeep. «È per questo che sei andato subito sulla difensiva con quello stronzo di prima?» gli chiesi. «Perché hai un fratello gay?» Ryan lanciò la lattina vicino alle altre ormai vuote e si stropicciò gli occhi. «Sì. E se non ti dispiace, preferirei non parlarne. Preferirei non parlare e basta.» «Va bene.» Il silenzio mi stava bene. Allungai le braccia sopra la testa, tornando a sdraiarmi sulla paglia. Isaiah mi avrebbe lasciato parlare. Potevo parlare incessantemente di tutto… di nastri e vestiti, e mi avrebbe rassicurato quando gli avessi chiesto se ero troppo dura con Noah. A volte pensavo a come sarebbe stata la vita se avessi dato tregua a Echo. Insomma, faceva felice Noah e a Isaiah piaceva. A volte era forte. «Stai parlando» disse Ryan. «Anzi, lo stai facendo da quando hai finito la prima birra.» Sbattei le palpebre e chiusi la bocca, non avevo realizzato di aver parlato a voce alta. Un uccello nero in alto sbatté le ali, creando un’ombra sul soffitto. Mi figurai l’angelo della morte venuto a distruggerci. L’uccello si agitò ancora di più, e gli altri volarono via verso una trave dalla parte opposta del fienile. Si lanciò in aria e colpì il muro, planò in basso, volò dall’altra parte del fienile e si schiantò contro l’altro muro. Il mio cuore sussultò a ogni colpo. Lo guardavo con gli occhi sbarrati e le mani tremanti. «Dobbiamo aiutarlo.» Scattai in piedi e barcollai verso la porta del fienile. Cercando di mantenere l’equilibrio, aprii a forza una delle porte, provocando un forte cigolio. Rimasi appoggiata e aspettai che l’uccello, che continuava a farsi del male, scappasse. «Vai! Esci da qui!» «Chiudi la porta» disse Ryan. «Gli uccelli sono stupidi. Se vuoi farlo uscire, devi intrappolarlo e portarlo fuori.» Gesticolai all’impazzata verso l’esterno. «Ma la porta è aperta!»

«E l’uccello è talmente terrorizzato che non se ne accorgerà mai. Tutto quello che stai facendo è invitare tuo zio a venire qui e beccarci. A meno che tu non sia pronta a tornare a casa, chiudi la porta.» L’uccello sbatté di nuovo contro il muro e svolazzò verso la trave vicina. Continuò ad arruffare le penne, poi finalmente si avvolse nelle ali per riposare. Avevo lo stomaco sottosopra. Perché non riusciva a vedere la via d’uscita? «Chi è Echo?» chiese Ryan. «Ma l’uccello…» dissi, ignorando la domanda. «Non capisce che stai cercando di aiutarlo. Ti vede perfino come una minaccia. Adesso dimmi, chi è Echo?» Emisi un profondo respiro e chiusi la porta. Volevo che l’uccello acquistasse la libertà, ma non ero pronta a tornare da Scott. Ridotta com’ero, tornai al mio letto di paglia in parte camminando e in parte inciampando. Dannato volatile. Almeno per una volta, le cose non potevano essere semplici? «La ragazza di Noah.» «È un nome strano» fece lui. Ridacchiai. «È una ragazza strana.» Smisi di ridere pensando a come Noah la guardava: come se fosse l’unica persona veramente importante sulla faccia della Terra. «Ma Noah la ama.» Doveva essere quello l’amore: quando il resto del mondo poteva anche implodere e non avrebbe avuto alcuna importanza, fintanto che la persona amata fosse rimasta al proprio fianco. Isaiah non aveva capito niente. Per tanti motivi. Non mi amava, non poteva. Prima di tutto, non mi guardava nel modo in cui Noah guardava Echo. E poi, io non meritavo quel genere di amore. L’uccello nascose la testa sotto l’ala. Capivo bene quella sensazione, quando vorresti che il mondo intero sparisse. Se avessi avuto le ali, anch’io mi ci si sarei nascosta sotto. «È solo un uccello, Beth. Alla fine riuscirà a uscire.» Qualcosa di profondo, oscuro e triste dentro di me diceva che non ci sarebbe riuscito. Quel povero uccello sarebbe morto nel dannato fienile e non avrebbe più rivisto il cielo azzurro. Ci fu un fruscio di paglia e Ryan si sdraiò accanto a me, liberando in aria una nuvola di polvere. Si rotolò goffamente sul fianco, per guardarmi in faccia. Il suo corpo caldo sfiorò il mio, l’espressione particolarmente intensa. «Non farlo» mormorò. Il mio cuore fece una capriola. Ryan era rimasto senza cappello e mi piaceva più di quanto avrebbe dovuto. I capelli erano un casino, e davano un’aria sbarazzina al viso di un uomo. «Fare cosa?» gli chiesi, vergognandomi del fatto che la voce fosse uscita fuori un po’ affannosa. Lui corrugò le sopracciglia e avvicinò la mano al mio viso. Si fermò, togliendomi il respiro. Mi guardò le labbra, poi mi accarezzò la guancia. «Lo fai spesso.» Le dita continuarono a scivolare fino alla mia bocca. Ovunque mi sfiorasse, avevo i brividi. «Sembri triste. Non lo sopporto. Pieghi la bocca vero il basso. Le guance impallidiscono. Perdi tutto quello che ti rende… te.» Mi inumidii le labbra con la punta della lingua, e mi accorsi che aveva seguito il movimento con lo sguardo. Il suo dito si fermò, prima di tracciare un’altra scia di brividi lungo la guancia. Mi venne il batticuore, e il calore si diffuse per tutto il corpo. Quella carezza – oddio – era una sensazione così bella. E avevo così tanta voglia di belle sensazioni. Ma non volevo lui. Almeno, non credevo di volerlo. «Che cosa sei, uno stalker?» Lui esplose in un sorriso e ritirò la mano. «Bentornata.»

«Questo che vorrebbe dire?» Ryan lo fece di nuovo… il suo sorriso. Quello che mi faceva fare le capriole allo stomaco. «Mi piaci» disse. Inarcai un sopracciglio. Doveva aver tirato qualcosa prima, o forse prendeva qualche schifezza tipo steroidi. Com’è che li chiamavano? Integratori. Ecco. Quel ragazzo era decisamente fatto di integratori. E ubriaco. «Ti piaccio?» Scosse la testa e gli venne fuori un gesto impacciato a metà fra un sì e un no. Era ubriaco fradicio. «Non lo so. Il modo in cui parli. Come ti comporti. So cosa potrei aspettarmi da te, ma poi non lo so più. Insomma, sei imprevedibile, eppure so che le tue reazioni sono spontanee, capisci?» Mettendolo ufficialmente a tacere, presi le birre che restavano e le nascosi nel fieno, cercando di non farmi beccare. Quella dichiarazione lo aveva classificato come ben più che sbronzo, e non sarei riuscita a trascinarlo a casa nemmeno volendo. «Vorresti dire che ti piace sapere che le nostre conversazioni finiranno sempre con me che ti mando a fanculo?» Lui rise. «Precisamente.» «Sei strano.» «Anche tu.» Su quello aveva ragione. «Ti è rimasto ancora qualcosa da farti infilzare?» Ryan mi stava fissando l’ombelico. La maglietta si era sollevata, mostrando il piercing rosso che pendeva sulla pancia. Isaiah mi aveva regalato il piercing all’ombelico per il mio sedicesimo compleanno. Al diciassettesimo mi aveva regalato il tatuaggio. Entrambe le volte era riuscito a materializzare il “consenso del genitore”. Isaiah era una volpe. «Forse sì… o forse no.» Ryan mi guardò dritto negli occhi e mi resi conto che aveva colto l’allusione. Risi quando lo vidi arrossire. «Che cosa sei, Ryan?» «Mi hai appena chiesto cosa sono?» Annuii. «Perché un invasato dovrebbe rintanarsi con me in un fienile, a bere birra, quando potrebbe farsi metà della popolazione femminile della scuola? Il tuo profilo non corrisponde.» Lasciò vagare lo sguardo sul mio viso e ignorò la domanda. «Che significa il tatuaggio?» «È un promemoria.» Significava libertà. Qualcosa che non avrei mai avuto. Il mio destino era già stato scritto ancora prima che iniziassi a respirare. «Lo stai facendo di nuovo» disse Ryan, e mi accarezzò ancora. Questa volta lo stomaco, senza staccare gli occhi dai miei. Il dito esplorò delicatamente i contorni del piercing, facendomi il solletico e mandandomi in trance. Facendo aumentare la confusione nella mia mente. Ed era esattamente quello che volevo… non capire nulla. «Cosa diresti, Ryan, se ti dicessi che non voglio stare da sola?» Le dita scivolarono sul mio fianco, e il palmo caldo aderì alla curva della vita, portandomi anima e corpo sempre più vicina al paradiso. «Ti direi che nemmeno io voglio restare solo.»

La luce della lampada tremolò, formando delle ombre sul viso di Beth. La proposta nei suoi occhi blu e l’invito delle dita lungo la curva del mio braccio non potevano essere mal interpretati. Con i capelli neri sparsi a ventaglio sul fieno dorato, sembrava una versione moderna di Biancaneve… labbra rosse come petali di rosa, pelle bianca come la neve. Un bacio avrebbe riportato in vita Beth? Quella sera mi aveva mostrato qualche breve flash della ragazza nascosta dietro la facciata. Forse potevo farla uscire ancora un po’. Magari baciandola… no, niente baci. Non ero un principe e quella non era una favola. Cercando di ritrovare lucidità, mi massaggiai la testa. «Tutto ok?» mi chiese. «Sì.» No. Nella mia mente i pensieri si accavallavano come le onde dell’oceano. E a ogni ondata facevo sempre più fatica a rimanere aggrappata al buon senso. «Va tutto bene.» La voce di Beth era dolce, come se stesse lanciando un incantesimo. «Stai pensando troppo. Rilassati.» «Dovremmo parlare» mi affrettai a dire prima che il pensiero scivolasse via, ma le stavo disegnando pigramente un altro cerchio sullo stomaco. I suoi muscoli prendevano vita sotto le mie carezze, rabbrividendo di piacere, e morivo dalla voglia di dargliene ancora. «No, invece» mi rispose. «Le parole sono sopravvalutate.» Annuii come se fossi d’accordo, ma il pensiero risalì in superficie: dovevamo parlare. Lo avevo combattuto per tutta la notte; diamine, lo avevo ricacciato indietro da che la conoscevo, ma mi piaceva sentirla parlare perché, quando lo faceva, Beth mostrava la vera se stessa… diventava qualcosa di più. Mi piaceva quel qualcosa di più. Mi piaceva lei. Quello che mi attirava davvero era il modo in cui la sua pelle morbida risplendeva alla luce della lampada, com’era delicata al tatto. Beth si inumidì di nuovo le labbra, e inclinai il capo in attesa. Sembrava brillassero, e ne memorizzai la forma perfetta mentre immaginavo come sarebbe stato sfiorarle con le mie. Il fieno frusciò quando Beth sollevò la testa. Ero completamente avvolto dal suo profumo di rose. «Baciami» mormorò. Solo un bacio e l’incantesimo oscuro, quello che lei stessa aveva tessuto e che la opprimeva senza darle tregua, sarebbe stato spezzato.

Beth

La canotta si sollevò un altro po’ quando Ryan mi accarezzò la pelle nuda dello stomaco. Si avvicinò di più e fui immediatamente sopraffatta dalla sua stazza. Avevo i brividi per tutto il corpo. «Sei morbida» sussurrò. Intrecciai le dita fra i suoi capelli, guidandogli la testa verso la mia. «Tu parli troppo.» «Già» mormorò, e finalmente le sue labbra si posarono sulle mie. All’inizio fu un bacio innocente. Un tenero incontro di labbra, una lieve pressione che accese un fuoco lento. Il tipo di bacio che si dà a qualcuno a cui si tiene. Di certo, non il tipo di bacio da sprecare con me. Eppure lo prolungai, assaporando il suo labbro superiore e accarezzandogli le guance rasate. Per un singolo momento, mi sarei concessa di sentire. Di fingere che Ryan ci tenesse a me. Di credermi il tipo di ragazza che meritava quel genere di bacio, e quando avvertii quell’emozione diventare più forte e guadagnare terreno, mi feci indietro. Ryan inghiottì e mi fissò dall’alto. Pressai in maniera innocente le labbra contro le sue un’ultima volta, poi feci scivolare la lingua fra le sue labbra. L’aria divenne carica di scintille mentre socchiudevamo entrambi la bocca, in cerca di più. Fu una tempesta di baci ardenti e gemiti di puro piacere. Traevamo energia l’uno dall’altra, creando una bufera ancora più grande… una nube pronta a liberare tuoni e fulmini. Lasciai vagare le mani sulla sua schiena, agguantandogli l’orlo della maglietta, ansiosa di esplorare tutti quei fantastici muscoli che nascondeva. Ryan seguì il mio esempio e accelerò il passo. L’aria fresca mi punzecchiò la schiena quando ci passò un braccio sotto e mi sfilò la canotta. Ryan si fermò per un attimo. Gli occhi incerti incrociarono i miei, e subito reclamai le sue labbra. Lui rispose a stento. Stava pensando di nuovo, e se avesse seguito il filo del ragionamento, avrei perso la mia occasione di sentirmi ancora più sballata. Percorsi con la mano la curva della spina dorsale… un tocco a fior di pelle, una danza che scese di lato lungo la vita, sul fianco, e quando le dita ruotarono verso il basso, Ryan ansimò e si unì di nuovo al gioco. Inclinai la testa, assecondando il suo bacio. Amavo sentirlo gemere. Amavo il modo in cui le sue mani stavano esplorando e memorizzando la mia pelle, scendendo sempre più in basso verso le gambe. Amavo che ci fossimo mossi entrambi senza più dar retta alla coerenza. Amavo sentirmi così leggera. Rovesciammo le posizioni e aiutai Ryan a togliersi la maglietta. In una manciata di secondi, avevamo le gambe intrecciate. Mi aggrappai ai suoi muscoli, mentre mi tracciava una generosa scia di baci ardenti sul collo. Si fece audace, abbassando la bretellina del reggiseno dalla spalla. Ricompensai quell’audacia. Perdemmo il controllo in fretta, così velocemente che passammo dal senso di leggerezza alla sensazione di spiccare il volo. Inspirai e tutto ciò che mi invase fu il profumo di Ryan: l’odore dolce della pioggia estiva. Ero così intontita che avrei quasi potuto ridere… ero finalmente sballata. Molto

più di quanto lo fossi mai stata con le droghe, con gli altri ragazzi, con… La mano di Ryan mi incorniciò il viso, il palmo caldo sulla guancia. Eravamo entrambi a corto di fiato quando appoggiò la fronte alla mia. Si stava fermando, e la cosa non mi piaceva. Fermarsi significava pensare. «Sei bellissima» sussurrò. Le mani continuarono ad esplorare; le labbra non smisero di premere dolcemente contro la mia pelle. Forse non si stava fermando. Forse stava… cosa? Che stava facendo? Il corpo diceva una cosa, e la bocca un’altra. «Basta parlare.» Non volevo parlare. Volevo sballarmi. Volevo di più. Ryan mi scansò i capelli dal viso e il mio cuore ebbe un fremito. «Mi piaci» mi sussurrò all’orecchio. «Proprio tu, Beth.» Mi bloccai completamente e curvai le labbra in un sorriso timido. Gli piacevo. Gli piacevo, e lui piaceva a me, e… all’improvviso rimasi senza un briciolo di fiato, con i polmoni in affanno per un po’ di ossigeno. Serrai le dita a pugno e le spinsi contro il petto di Ryan. «Lasciami andare.» Invece la sua stretta si fece più ferma. Gli occhi si svuotarono di ogni stordimento e corsero sul mio viso, in cerca del problema. «Che c’è che non va?» «Lasciami andare!» urlai, e subito mi liberò. Mi misi sulle ginocchia e lottai per sfuggire da lui… da me… da tutto. Che stupida. Quanto ero stupida! A Ryan non piacevo, non veramente. Come avevo fatto a lasciarmi coinvolgere emotivamente? Perché non ero riuscita a usarlo per non pensare e basta? Afferrai la maglietta e scattai verso la porta. Dietro di me il fieno scricchiolò, mentre Ryan lottava per rimettersi in piedi nonostante il suo stato. «Beth… aspetta! Mi dispiace! Ti prego!» Esitai sulla porta. Gli altri ragazzi, quelli che avevo usato per provare qualcosa di fisico, non si erano mai scusati. Non mi avevano mai chiesto di restare. Azzardai un’occhiata alle mie spalle e lo stomaco ebbe un sussulto quando vidi l’angoscia impressa sul suo viso. Ryan mi tese la mano. «Per favore. Parlami.» Parlare era ciò che mi aveva cacciata in quella situazione. Aveva trasformato ciò che non doveva essere niente in qualcosa. Parte di me voleva disperatamente restare… parlare. Invece mi lanciai fuori nel buio della notte. Restando avrei solo sofferto, correre via era l’unica soluzione.

Quel giorno vincemmo, e non avevo idea di come ci fossimo riusciti. Durante la partita il sole mi aveva dato fastidio agli occhi. La testa rimbombava a un ritmo irritante e doloroso. Avevo vomitato due volte, fra un inning e l’altro. Giocare con i postumi di una sbronza aveva dato un nuovo significato alla parola inferno. Anche in quel momento, stavo lottando contro lo stimolo di accostare, appoggiare la testa al volante della jeep e dormire, ma non potevo. Mi piaceva. Beth mi piaceva veramente. Lo avevo capito nel momento in cui mi aveva sorriso nella jeep, dopo il tuffo nel ruscello. Sì, era ostinata, ma al tempo stesso non lo era. La sera prima, i suoi muri avevano mostrato delle falle. Abbracciandola mentre ballavamo, l’avevo vista… la bella ragazza a cui piacevano i nastri. Quando mi aveva preso la mano per impedirmi di fare a botte con Tim, avevo visto la bambina che proteggeva Lacy alle elementari. Nel fienile ero rimasto ad ascoltarla mentre parlava a raffica della sua vita: Isaiah, Noah, Echo, e le spiagge. Sentendola, avevo capito quanto fosse leale nei confronti di chi amava. E per la prima volta avevo visto ciò che nascondeva la ragazza che si teneva tutto dentro. Mi stavo innamorando di lei. Profondamente. E nel momento stesso in cui l’avevo toccata, avevo fatto un casino. Come avevo potuto essere tanto stupido? Gli ultimi raggi di sole della giornata filtravano attraverso gli alberi allineati lungo il viale di ingresso alla proprietà di Scott Risk. Ripassai mentalmente cosa dirgli quando mi avrebbe aperto la porta. Non avevo una scusa valida per vedere Beth. Né sarebbe stata di aiuto la verità: Salve. Sono uscito con sua nipote ieri sera, ci siamo ubriacati, ci siamo rotolati nel fieno finché non è scappata, e gradirei molto se mi permettesse di scusarmi con lei e convincerla a darmi una possibilità. Come no. Sarebbe andata a finire benissimo. China in avanti con la testa fra le mani, Beth sedeva sulle scale della parte anteriore del portico. Lo stomaco mi precipitò in fondo alla jeep. L’avevo ridotta io così. Beth mi lanciò un’occhiata attraverso i capelli mentre parcheggiavo davanti al garage. Si tirò a sedere e si strinse le braccia attorno allo stomaco. «Ehi» le dissi, mentre mi avvicinavo. «Come ti senti?» «Uno schifo.» Era scalza, indossava una maglietta aderente viola e un paio di jeans pieni di buchi. La maglietta le lasciava scoperta una spalla, su cui spiccava la bretellina del reggiseno nero. Mi imposi di distogliere lo sguardo. Avevo preso anche troppa familiarità con quel reggiseno tentatore, la notte prima. Mi fermai in fondo alle scale e infilai le mani in tasca. Si sentiva uno schifo perché anche lei aveva i postumi della sbronza, o perché rimpiangeva di avermi baciato? «È tutto il giorno che mi scoppia la testa.» Beth sospirò lentamente, sbuffando qualche ciocca di capelli via dal viso. «Che vuoi?» «Te ne sei andata di corsa ieri notte.» Mi tornarono in mente alcune immagini della serata insieme.

Le sue mani che tiravano via la mia maglietta, calde sulla mia pelle, mentre si insinuavano fra i miei capelli. Il sapore dolce del suo collo sotto le labbra. La curva dei suoi fianchi fra le mani. Le sue unghie sulla schiena. «Volevo essere sicuro che stessi bene.» «Sto bene» tagliò corto. Beth si era ritirata oltre il suo muro di mattoni. Barricata al suo interno. Le emozioni cementate dentro. La guardai, e lei mi restituì lo sguardo. Non sapevo cosa dirle. La sera prima non era un vero appuntamento, ma un accordo. Lei non era la mia ragazza, con cui avevo “superato una base” dopo l’altra. Non era una ragazza che avevo portato a cena un paio di volte, e che avevo baciato un po’ troppo e troppo a lungo. Con Beth, avevo varcato un confine che un vero uomo non avrebbe oltrepassato. «Mi dispiace.» «Di cosa?» La sua occhiataccia mi fece sentire come se fossi davanti al plotone d’esecuzione in attesa della risposta. «Di…» Di cosa ero dispiaciuto? Di averle tolto la maglietta? Di averla baciata fino a pensare di perdere la testa? Di averla toccata? Sentita? Mi rammaricavo per tante cose della mia vita, ma onestamente non per quello. «Di essermi approfittato di te.» L’angolo destro delle sue labbra si curvò verso l’alto, poi verso il basso, e infine di nuovo all’insù. «Non abbiamo fatto sesso la notte scorsa.» Avvampai e mi guardai le scarpe. «Lo so.» Una parte di me le era grata per essere scappata via prima. Non appena avevo posato le labbra sul suo corpo, ci avevamo messo poco a diventare un vulcano in eruzione. Rovente e veloce. Molto veloce. Abbastanza perché mi sentissi pronto a perdere la verginità con lei. «Allora di che cosa ti stai scusando?» Raccolsi il coraggio e la fissai. «Te ne sei andata. Di corsa. E quello che ho fatto… eravamo ubriachi. Non è da me sbronzarmi e approfittare delle ragazze. Sei andata via triste. Mi sono spinto troppo oltre, e il modo in cui sei scappata via… mi dispiace.» Beth si schiarì la gola. «Ryan.» Pronunciò il mio nome lentamente, come per prendersi il tempo di pensare. «Sono io che mi sono approfittata di te.» Rimasi immobile. «No. Le ragazze non si approfittano dei ragazzi. Siamo noi a farlo.» Lei arricciò le labbra e le storse di lato mentre scuoteva la testa. «Per niente. Ricordo perfettamente di averti detto che non volevo restare sola.» «E in quel momento avrei dovuto alzarmi e andarmene.» «Non era quello che volevo.» «Ma avrei dovuto farlo. È così che si comporta un uomo d’onore, soprattutto con la ragazza che gli piace.» Beth mi puntò un dito contro. «Vedi, è qui che ti confondi. Io non ti piaccio.» Perché doveva rendere delle scuse così difficili? Perché doveva complicare ogni cosa? «Sì, invece.» «No. Te la stai raccontando e basta.» Mi faceva uscire di senno con quel suo modo di entrarmi sottopelle. «Questa cosa non ha senso.» «Ti senti in colpa per essere stato con me, quindi stai cercando di sentirti meglio convincendoti che ti piaccio, quando non è così.» «Cos…» Più parlava, più mi incasinava il cervello. «Tu mi piaci. Tu. Mi. Piaci. Lo ammetto, sei irritante. A volte mi fai uscire di matto, ma mi sbatti le cose in faccia come nessun altro. Quando ridi,

mi viene voglia di ridere. Quando sorridi, io voglio sorridere. Al diavolo, voglio essere io a farti ridere! E sei bella. O meglio, sei sexy, e ieri notte è stato…» «Basta.» Beth alzò la mano. «Sei un bravo ragazzo e non riesci a tollerare di aver fatto qualcosa di sbagliato, ok? Quello che abbiamo fatto non è stato terribile. Di certo disdicevole, però non così terribile. Non cercare di leggerci dentro chissà che cosa.» I bellissimi occhi blu di Beth mi stavano supplicando. Supplicando! Voleva che fossi d’accordo con lei. «Se è davvero quello che provi, allora perché sei scappata?» La porta d’ingresso si aprì e, dietro i doppi battenti, Scott mi fulminò con gli occhi stretti a due fessure. Beth lo fissò da sopra la spalla, reggendo il suo sguardo, fino a quando lui non si allontanò lasciando la porta spalancata. Mi si irrigidirono le spalle. Non era un buon segno. «Faresti meglio ad andartene» mi consigliò lei. Forse, ma non potevo. Non con Beth convinta di non piacermi. Perché ci credeva davvero. «Esci di nuovo con me… un vero appuntamento, stavolta.» «Che?» Salii tre scalini e le sedetti accanto. La notte prima eravamo così vicini, pelle a pelle. Ora era a pochi centimetri da me, eppure la sentivo a chilometri di distanza. Avevo una voglia pazza di sfiorarla, confortarla. Alzai la mano. E la riabbassai. Diamine, non mi ero fatto scrupoli a toccarla la notte prima. Ci riprovai, e le coprii la mano con la mia. Beth si irrigidì al contatto. Il cuore mancò un battito, e mi fece male. Non volevo che odiasse il mio tocco. «Abbiamo cominciato con il piede sbagliato. Mi piaci. Vediamo che succede.» «Uscire con te?» «Uscire con me.» «Come amici…» Beth fece una smorfia disgustata. «…di letto?» Potevo quasi rievocare la sensazione del suo corpo sotto il mio, e scacciai dalla testa il ricordo. Non sarei riuscito a dimostrarle che mi piaceva ripetendo la performance della notte prima. «No. Amici che escono insieme. Io offro. Tu sorridi. Qualche volta ci baciamo.» Lei inarcò un sopracciglio alla parola baciamo e feci subito marcia indietro. «Ma prima usciamo insieme… per un po’. Amici che si piacciono e vogliono frequentarsi.» «Non ho mai detto che mi piaci.» Ridacchiai, e il cuore saltò un battito quando mi rivolse quel piccolo sorriso rilassato. «Non hai nemmeno detto che mi odi.» «Amici che si frequentano» disse ad alta voce, come se volesse trovare il significato recondito dietro quelle parole. «Amici che si frequentano» ripetei, stringendole la mano. Beth si tese e la sfilò via. «No.» Scese le scale a piedi nudi. «No. Non è così che funzionano le cose. Quelli come te non escono con quelle come me. A che gioco stai giocando? È per la scommessa?» Le sue parole mi strapparono una smorfia, ma non furono una sorpresa. La sera prima avevo esagerato, non le avevo mostrato alcun rispetto. Non aveva motivo di credermi, eppure volevo che lo facesse. «No. La scommessa è chiusa.» «Perché hai già vinto?» Non avevo vinto. La scommessa richiedeva che Beth e io restassimo alla festa per un’ora. Ci

eravamo rimasti per quindici minuti scarsi. «È finita, Beth. Non gioco con i sentimenti delle persone a cui tengo.» Una miriade di emozioni le comparvero sul viso, come se stesse facendo a cazzotti con angeli e diavoli. «Forse stai giocando con i miei. Se questa è una scommessa, dimmelo e basta.» «Te l’ho detto, infatti. La scommessa è chiusa.» Avevo assicurato a Lacy che nessuno si sarebbe fatto del male con le mie scommesse. Soprattutto in quel caso. Quanto ero stato cieco? Credevo che Beth fosse scappata prima di quel salto della fiducia per farmi un dispetto. Credevo che volesse assistere al fallimento della mia squadra. Sbagliato. Beth non aveva fatto il salto perché non si fidava, e – per colpa di quella scommessa – avevo mandato all’aria qualsiasi forma di fiducia potesse aver avuto in me. «Allora hai vinto?» Beth continuava a tenere ostinatamente il discorso sulla sfida. «Ti avevano sfidato anche a baciarmi?» Il dolore cedette il passo al panico. «Che fottutissimo stronzo, ti sei preso gioco di me, non è così? Lo sanno già tutti a scuola? Sei qui per un bonus? Cercare di portarsi a letto la ragazza, raccontarlo agli amici e poi convincerla che vuoi di più?» «No!» gridai, poi mi ricordai di mantenere il controllo. L’avevo insinuato io quel dubbio, nel momento in cui avevo accettato la scommessa. «No. Quello che è successo fra noi ieri notte non riguardava alcuna scommessa. Non l’avevo programmato e non lo racconterei a nessuno.» «Quindi sono un segreto. Usciremo in privato, ma non in pubblico. No, grazie.» Dannazione. Non riuscivo a vincere. Mi passai una mano sulla faccia. «Voglio stare con te. Qui. A scuola. Dovunque. Non ti ho preso in giro. Fidati di me.» Beth si scansò. Fiducia doveva essere la più orribile delle parole nel suo vocabolario. Cercando disperatamente di rimettere tutto a posto, sparai fuori: «Chiedimi qualsiasi cosa e la farò. Fidati di me. Ti dimostrerò che me lo merito». Lei mi esaminò: partendo dalle Nike, risalendo per i jeans, la maglietta dei Reds e infine il viso. «Mi riporterai di nuovo a Louisville?» La nausea contro cui avevo lottato tutto il pomeriggio tornò. Tutto tranne quello. «Beth…» «Non sparirò di nuovo. Ho bisogno di un passaggio in un posto, e giuro che tornerò nel punto esatto in cui mi lascerai, all’ora esatta in cui mi dirai di tornare. Mi stai chiedendo di fidarmi di te, be’… dovrai prima fidarti tu di me.» Non mi sembrava corretto, ma avevo lanciato fuori dalla finestra ogni tipo di correttezza nel momento stesso in cui l’avevo sfiorata, la notte prima. O forse già quando avevo accettato la sfida al Taco Bell. «Mi sono fidato di te.» Chiusi la bocca e i muscoli si tesero. Le parole avevano un sapore amaro sulla lingua. «Ti ho raccontato di mio fratello.» Beth si morse il labbro inferiore. «È un segreto?» Annuii. Non avevo molta voglia di parlare di Mark. Aveva la fronte aggrottata. «Le confessioni da sbronzi non sono una dimostrazione di fiducia.» Sospirai profondamente. Aveva ragione. «Va bene. Ho una partita a Louisville fra due settimane, di sabato… però verrai a vederla. Su questo sono irremovibile. Prendere o lasciare.» Beth esplose in un sorriso radioso, e gli occhi blu brillarono come il sole. E a quel punto mi sciolsi. Quel momento era speciale e non volevo perdermelo: lei stava sorridendo in quel modo grazie a me. «Davvero?» mi chiese. Volevo che venisse alla partita? Volevo la possibilità di dimostrarle che ero un po’ più che uno

stupido invasato? «Sì. Non fregarmi, Beth.» Perché mi sto innamorando di te, più di quanto dovrei, e se mi tradisci di nuovo, farà un male cane. Il sorriso scivolò via, e lei giurò solennemente: «Non lo farò. Quando saremo a Louisville, mi servirà solo un’ora per conto mio». Un’ora. Per fare cosa? Vedere Isaiah? Ne aveva il diritto. Le avevo solo chiesto di uscire con me. Se avessi parlato di relazione sarebbe scattata, nonostante non fossi minimamente interessato a vedere altre ragazze. Ero andato troppo in fretta con lei, la notte prima. Ora avrei rallentato. «Ti lascerò da sola per un’ora a Louisville. Poi avremo il nostro vero appuntamento, dovessimo rimetterci il collo!» Beth tornò a sedersi accanto a me sui gradini. Il suo ginocchio si appoggiò al mio e restammo in silenzio. Di solito stare in silenzio con una ragazza mi metteva a disagio, ma in quel caso non fu così. Lei non aveva niente da dire e neppure io. Non mi andava ancora di andarmene, e sembrava che nemmeno lei fosse pronta a vedermi levare le tende. Beth più di chiunque altro mi avrebbe detto cosa voleva o pensava veramente. Alla fine fu lei a rompere il silenzio. «Come faccio a depennarmi dalla corte per il ballo d’autunno? Servono i voti di due terzi degli studenti, o devo chiedere a qualcuno in segreteria?» Mi assalì il panico. «Rimani nella corte.» «Te. Lo. Scordi.» «Facciamolo insieme. Sarò sempre al tuo fianco per tutto il tempo.» L’avevo nominata solo per farle un dispetto, ma adesso volevo che partecipasse… assieme a me. «Quello è il tuo mondo. Non il mio.» Poteva diventarlo se ci avesse provato. «Nessuno si occuperà del ballo per un altro mese. Senti questa… se riesco a trovare il modo di sbalordirti per allora, tu resti nella corte, e se non ci riesco, ti aiuterò a far cancellare il tuo nome.» Lei ci pensò silenziosamente su. «Mi stai chiedendo di sfidarti a stupirmi?» Perfino io colsi l’ironia della cosa. «Immagino di sì.» «Ti devo ricordare che hai dei pessimi precedenti con me in materia di scommesse?» Mi misi più dritto. «Non sono uno che perde.» Scott bussò alla porta, si indicò gli occhi e poi indicò me. E se ne andò di nuovo. Maledizione. «Ti ha visto tornare a casa ubriaca, ieri notte?» L’ultima volta che avevo parlato con Scott, eravamo in buoni rapporti. Qualcosa era cambiato. «No, ma hai lasciato questo.» Beth si scansò i capelli dalla spalla e mostrò un livido rosso e blu sul collo. Ogni minima parte di me desiderò di disintegrarsi e sparire sotto il portico. Le avevo fatto un succhiotto! Era dalle medie che non facevo una cosa del genere. «Mi odia» gemetti. Beth rise. «Più o meno.»

Beth

Pressai con più forza le mani sul suo petto, estraniandomi da ciò che mi circondava. Mi facevano male i polsi, ma dovevo fare in modo che il cuore riprendesse a battere. Dovevo. Ventisette, ventotto, ventinove, trenta. «Soffia!» urlai. Lacy gli reclinò indietro il capo e soffiò nella bocca. Il petto si alzò e si abbassò. Lacy fece per scansarsi. «No, Lacy, controlla le funzioni vitali.» Lei appoggiò l’orecchio a naso e bocca. Rimasi in attesa. Premette le dita sull’arteria nel collo. Aspettai ancora. Lacy scosse la testa. Niente. «È il tuo turno» le dissi. Avevo paura che, se avessi continuato, non sarei riuscita a fare sufficiente pressione sul cuore. Lacy scattò verso il petto e io mi spostai vicino alla testa. Contò ad alta voce a ogni pressione. Si sentì un bip prolungato dalla squadra accanto. «È morto» decretò il signor Knox. «Sì!» esclamò Chris. «Questa è nostra!» Di tutta la classe di scienze motorie e sanitarie, eravamo rimaste in gara solo io e Lacy contro Ryan e Chris. Ryan comprimeva il petto del manichino a mani intrecciate. «Soffia!» mi ordinò Lacy. Soffiai aria nella bocca, controllai il battito e mi fermai. Sentii qualcosa sotto le dita, nel collo. Era debole, ma c’era. Lacy mi fece cenno di comprimere, ma scossi la testa. Il nostro manichino era vivo! I ragazzi ricominciarono con le pressioni e un rumoraccio esplose dal loro manichino. Il signor Knox lo spense. «Avete dimenticato di controllare le funzioni vitali, ragazzi.» Chris imprecò e Ryan si lasciò cadere sul pavimento. Fottetevi, ragazzi. E abituatevi a perdere. Il signor Knox guardò verso di me. «Congratulazioni, Lacy e Beth. Siete le uniche due che hanno tenuto in vita il paziente. Sei stata brava a ricordarti delle funzioni vitali, Beth.» Sei stata brava. Il signor Knox si allontanò come se quello non fosse il momento più strepitoso della mia vita. Avevo fatto qualcosa. Avevo salvato una vita. Be’, tecnicamente no, avevo salvato un manichino. Ma avevo fatto qualcosa di buono. Quella inspiegabile, travolgente sensazione di… come spiegarla… non l’avevo mai provata prima… quella sensazione di… gioia? Comunque… mi invase. Ogni parte di me. Io, Beth Risk, avevo fatto qualcosa di buono. Lacy indicò Chris e poi Logan, in piedi accanto al manichino morto. «Abbiamo vinto.» Senza alzarsi, prese a muovere le spalle in una piccola danza della vittoria. «Abbiamo vinto. Abbiamo vinto. Abbiamo vinto.» «La tua ragazza non sa vincere.» Logan si avvicinò. «Però è parecchio eccitante» disse Chris. «Adesso che hai sperimentato la smania di vincere, possiamo sfidarti più spesso, tesoro?»

Lacy rise. «Non l’ho raccolta io la sfida, è stata Beth.» Logan e Chris mi fecero un cenno con la testa in segno di lode. Scrollai le spalle in risposta. Ci eravamo confrontati per tutta la settimana. Lacy e Ryan mi parlavano. A volte rispondevo. Lunedì avevo ceduto alle loro persecuzioni e avevo cominciato a sedere con loro a pranzo. Quando Ryan si sentiva audace, mi prendeva la mano. Quando mi sentivo anche più audace di lui, gliela stringevo in risposta. Appena menzionarono la scommessa, presi un pennarello nero dalla borsa. Prima che iniziassimo a fare il massaggio cardiaco, Ryan aveva detto che Lacy e io non avremmo resistito; che eravamo troppo deboli per battere una squadra formata da lui e Chris. Scrissi sul palmo quelle tre bellissime parole e lo girai verso Ryan, perché vedesse: Non puoi farcela. Mentre si appoggiava di schiena al muro, Ryan mi rivolse il suo sorriso luminoso e scosse la testa. Fui invasa da una piacevole sensazione di calore. Adoravo quel sorriso. Forse un po’ troppo. «Non mi hai ancora sbalordita» gli dissi. Erano passati quattro giorni dal nostro accordo, e Ryan non aveva fatto niente per sorprendermi. Il suo sorriso si fece strafottente e, dovevo ammetterlo, mi piaceva anche quella variante. «Ho ancora tempo.» DALL’ALTRA PARTE DELL’ISOLA, Scott mi fissò mentre infilavo in bocca un’altra cucchiaiata di cereali. Parlai fra un crunch e l’altro. «E poi ho sentito un battito, Lacy pensava che dovessimo continuare con le compressioni, ma ho scosso la testa e le ho detto di no.» «E poi cos’è successo?» chiese Scott. Non stavo più nella pelle. «Abbiamo vinto. Insomma, abbiamo salvato il manichino e il signor Knox ha detto che me la sono cavata bene.» Avevo fatto qualcosa di buono. Ancora non riuscivo a crederci. «È fantastico! Non è vero, Allison?» Erano le otto di sera. Allison era seduta dall’altra parte dell’isola e non si disturbò ad alzare lo sguardo dall’ultimo giocattolo che le aveva regalato Scott, la settimana prima: un lettore e-book. «Fantastico» mormorò, in un tono che tutto tradiva tranne che entusiasmo. Ficcarmi un’altra cucchiaiata di cereali in bocca mi impedì di dire quello che pensavo. Avrei dovuto aspettare e raccontare a Scott quella storia a colazione, quando saremmo stati da soli, ma ero troppo emozionata. «È così che ci si sente a fare l’infermiera?» chiesi a Scott. «Importante e con la situazione in pugno?» E con qualcuno pronto a lodarmi? Avevo in testa mille possibilità. Forse potevo fare l’infermiera. Il sangue non mi dava fastidio. Nemmeno il vomito. Troppo agitata per stare ferma, tamburellai le dita sul piano… potevo farcela. «Devi andare particolarmente bene in biologia per fare l’infermiera» fece annoiata Allison. «E i voti dell’ultima pagella dicono che questo potrebbe rappresentare un problema.» Arrossii furiosamente come se mi avesse schiaffeggiata. Avrei voluto tirar fuori qualcosa di arguto da dirle, ma a volte la pura verità era sufficiente. «Certo che sei proprio stronza.» «Smettila, Elisabeth» mi riprese Scott. «E, Allison, i suoi voti stanno migliorando.» Be’, porca miseria, Scott aveva rimproverato la stronza. Uh! Allison alzò gli occhi dal lettore e-

book. Mi sarei volentieri crogiolata nel momento, ma erano settimane che avevo deciso che non ne valeva la pena. Mi voltai verso Scott. Il tempo dei sogni a occhi aperti era finito. Avevo dei problemi reali. «Ho bisogno della tintura nera per capelli.» «Perché?» chiese Scott. Era cieco? Spostai i capelli e abbassai la testa perché potesse vederne la ricrescita. Le mie radici. Il biondo spuntava dai capelli neri come dei fastidiosi raggi di sole. Riportai i capelli dietro la spalla. «Me la compri tu?» Se avessi preso qualcosa con il denaro che mi aveva dato Isaiah, Scott mi sarebbe stato addosso come le api sul miele. Non ero pronta a vuotare il sacco sul fatto che avessi dei soldi. E poi, aveva sempre voluto fare qualcosa per me… ora poteva. «No» disse. Mmm… avevo capito male? «No?» «No.» «Non ho intenzione di tornare bionda.» «È quello che sei. Perché devi cambiare qualcosa di così bello?» «Quindi solo le bionde sono belle?» Scott chiuse gli occhi. «Non ho detto questo.» «Allora comprami la tintura.» Li riaprì e mi osservò durante uno dei suoi tipici lunghi silenzi. «Ti comprerò qualcosa che stia bene con il tuo colore naturale.» «Non voglio tornare bionda.» «Dammi un motivo per cui non dovresti esserlo.» «Preferisco il nero.» «Non è sufficiente.» Guardai Allison di proposito. «Odio le bionde.» «Continua a non essere sufficiente.» Incrociai le braccia al petto e tornai a guardare lui. Ero capace anch’io di restare in silenzio a lungo. «Tutto qui, Elisabeth? Vuoi i capelli neri così, senza un motivo. Perché ti va?» «Già.» Non mi piaceva il suo tono o il modo in cui mi trafiggeva con lo sguardo. «Quando hai cominciato a tingerli?» mi chiese. «A tredici anni.» L’istinto mi suggerì di scappare. «Perché?» Mi si strinse la gola e distolsi lo sguardo. «Perché sì.» «Perché sì cosa, Elisabeth?» Perché uno dei compagni di mamma mi aveva scambiata per lei in piena notte. «Dimmelo.» Scott continuava a guardarmi fisso. «Dimmi perché ti sei tinta i capelli.» Isaiah lo sapeva. Gliel’avevo detto una volta che ero troppo fatta per tenere la bocca chiusa. Il ragazzo di mamma si era trascinato fuori dall’unica stanza da letto che avevamo, in piena notte. Si era seduto sul pavimento, vicino al divano su cui dormivo. Aveva preso la mia mano, l’aveva baciata e mi aveva chiamata con il nome di mia madre. Quando mi ero messa a urlare mi aveva preso a schiaffi più di una volta, finché non aveva capito che non ero lei. I ricordi erano riaffiorati e non riuscivo a ricacciarli indietro. Dovevano andarsene. Avevo bisogno

di qualcuno che mi tenesse con i piedi per terra. Che cancellasse i brutti pensieri. Non avevo ancora perdonato Isaiah per il suo tradimento. Erano settimane che non parlavamo, e non mi sentivo pronta a rifarlo. Se anche non fosse successo quel casino fra noi, non ero certa che avrei voluto Isaiah. Per qualche motivo, desideravo un’altra persona… e la cosa mi spaventava, e la paura rendeva solo più vividi i ricordi. Potevo quasi sentire la voce del bastardo nella testa. Il suo tocco. Mi coprii il viso con le dita. Vattene, vattene, vattene! Scattai in piedi così all’improvviso che lo sgabello dondolò e cadde a terra. «Vaffanculo, Scott. Me la compro da sola la tintura.»

…e George guardò la ragazza con occhi nuovi. No, non nuovi, forse con gli occhi che aveva in un’altra vita. Occhi che non appartenevano alla sua mente, ma al suo cuore. Il suo sorriso lo accarezzò come se gli avesse sfiorato il braccio con le dita. Non faceva altro che stupirlo… un’umana disposta a essere amica di uno zombie. In qualche modo la sua nemesi aveva dato un nuovo significato alla sua orribile nuova esistenza. Ma quello che sbalordì George fu che lei gli aveva concesso una seconda occasione. Mi appoggiai alla spalliera della sedia, soddisfatto, e intrecciai le mani sullo stomaco. A quanto pareva, la vita di George si era complicata più del previsto. Prima si era trasformato in uno zombie, poi aveva scoperto che gli altri zombie lo consideravano il loro leader, e infine si era reso conto di amare quel nuovo potere. E poi era apparsa una ragazza. Le ragazze complicavano sempre le cose. Feci un sorrisetto pensando a Beth. Sì, lo facevano, ma in modo piacevole. Il cellulare vibrò e controllai il display. Era un numero sconosciuto, perciò lasciai che continuasse a squillare finché non partì la segreteria telefonica. Pochi secondi dopo arrivò la notifica di un messaggio. Presi il cellulare e sorrisi. Amici, giusto? Beth Io: Sì «Allora fammi entrare.» La voce sensuale di Beth proveniva dall’altra parte della finestra. Controllai l’ora… le undici. Mamma e papà erano a letto. Per essere sicuro, chiusi a chiave la porta della stanza prima di far scorrere il vetro, e smontai la zanzariera. «Che ci fai qui?» Beth fece scivolare dentro prima una gamba e poi l’altra con tanta naturalezza che immaginai non fosse la prima volta che lo faceva. «Mi annoiavo.» «Potevi telefonare.» Rimontare la zanzariera non sarebbe stato facile come smontarla. «L’ho fatto.» Beth si guardò in giro nella stanza. Prese una palla da baseball dal cassettone, la lanciò in aria e la riprese per un pelo. «Non hai risposto.» «Hai chiamato trenta secondi fa.» Lei rimise la palla sul cassettone. «Però l’ho fatto.» Mi resi davvero conto di cosa stava accadendo quando si tese a picchiettare la lampada di lava, che aveva smesso di funzionare l’anno prima. La canotta si sollevò, lasciando spuntare la pelle morbida e il tatuaggio. Inspirai e mi concentrai su qualsiasi cosa potesse distrarmi dal desiderio di toccarla. «Tuo zio sa che sei qui?» «No.» Beth si avvicinò al computer. «A che stai lavorando?» «Un compito di scrittura creativa.» Si pizzicò le labbra e reclinò indietro la testa. «Maledizione. Ne abbiamo uno? Quando va

consegnato? Al diavolo, Scott mi farà a pezzi. E dire che credevo di essere quasi in pari.» Merda. Fino a quel momento, non avevo dovuto raccontarlo a nessuno. «No, non è un compito per la scuola. È un… lavoro extra… già. Qualcosa che mi ha chiesto di fare la signora Rowe.» Beth rilassò le spalle, come se avesse appena ricevuto la grazia prima della pena di morte. «Posso leggerlo?» A parte la professoressa, nessuno mi aveva mai chiesto di leggere quel che scrivevo, ed esitai a rispondere… abbastanza perché Beth inarcasse le sopracciglia. Se qualcuno doveva leggere quella roba, meglio che fosse lei. In qualche modo ero certo che avrebbe capito. «Certo.» «Stampalo.» Beth si lasciò cadere sul mio letto e si raggomitolò sui cuscini. Gli occhi blu non smisero di studiarmi, tentandomi con uno sguardo indolente. Mi eccitava da morire e volevo solo raggiungerla sul letto, ma le avrei dimostrato che sapevo trattenermi anche se, nel frattempo, mi avrebbe ucciso. «Hai intenzione di restare a lungo?» «Hai da fare?» No. «Fra un po’ vorrei andare a dormire. Domani c’è scuola.» «Ho condiviso un letto molto più piccolo di questo negli ultimi due anni. Fidati, sono la regina nell’arte del non toccarsi, se è quello che ti preoccupa. Dai, stampa.» «Non toccare e dividere il letto con chi?» Beth ridacchiò e contemporaneamente scosse la testa. «Geloso? Pensavo che avessi qualcosa da stampare per me.» Fallo e basta, Ryan. Come tutti i predatori, Beth percepiva la paura. Senza aggiungere altro, stampai le pagine e lei me le strappò di mano. La guardai. Lei ricambiò lo sguardo. «Non ho intenzione di leggerlo con te che mi fissi. È strano.» «Sei in camera mia, Beth. Hai camminato per ottocento metri pur di venire qui. Di mercoledì. Nel bel mezzo della notte. Senza invito.» Se non era strano questo… «Vuoi che me ne vada?» «No.» Niente affatto. In qualche modo, non c’era niente di più giusto. Quel sorrisetto perfido svanì dal suo viso. «Sono la prima ragazza che si infila nel tuo letto?» Sì. Respirai a fondo e tornai al computer. Ero uscito con delle ragazze. Con alcune ci ero anche stato insieme, sempre abbastanza rispettoso da procedere lentamente, una base alla volta. Alcune tappe non le avevo ancora raggiunte. Una ragazza nel mio letto era una di quelle. Se lei era decisa a restare lì, io ero deciso a non sollevare proteste né a mostrarmi agitato. A quanto pareva, il mio zombie aveva trovato una ragazza che gli piaceva e che al tempo stesso voleva strozzare. «BEL LAVORO, RYAN.» La voce distante di Beth mi strappò alla storia e smisi di digitare sulla tastiera. «Grazie» risposi. Beth era distesa sulla pancia, appoggiata ai gomiti. La scollatura era esposta in bella vista. Incollai lo sguardo a terra. «No, sul serio. È bello. Potrebbe tranquillamente stare sullo scaffale di una libreria. Lo capisco da morire, questo ragazzo.» Già, anch’io. «Sono arrivato in finale al concorso nazionale di scrittura.» Le parole vennero fuori in modo naturale, come se fosse un argomento di cui avrei parlato al mondo intero. Beth sfogliò le pagine. «Capisco il perché. Chiunque abbia eletto il vincitore, doveva essere fatto

pesantemente per non aver scelto te.» Guardai in giro per la stanza, in attesa del fulmine. Mi aveva appena fatto un complimento? «Il vincitore non è stato ancora annunciato. Fra un paio di settimane c’è un altro turno del concorso.» «Oh» fece lei. «Allora sono sicura che vincerai.» Sentii un vuoto allo stomaco mentre spegnevo il computer. Sì, stavo scrivendo il racconto breve, ma ancora non avevo presentato l’iscrizione al concorso. Come potevo? C’era una partita da giocare quel giorno, e papà… I pensieri si smorzarono. Mi stavo tirando fuori da una competizione… una gara che potevo vincere. Chissà se la smania di vincere il concorso era la stessa di quella per le partite di baseball e le scommesse. Probabilmente non l’avrei mai scoperto. Quando mi voltai, Beth si era distesa di schiena con la testa sul cuscino. Aveva tolto le scarpe e teneva le mani incrociate sullo stomaco. Il piercing all’ombelico brillò alla luce. Aveva sistemato ordinatamente la mia storia sul comodino. Uscivamo insieme. Amici che si frequentavano e che alla fine si sarebbero baciati. Quattro giorni potevano essere considerati come alla fine… sì, non ero così stupido da crederci. «Vado a letto» le dissi, dandole modo di andarsene. «Di solito dormi vestito?» mi chiese. No, di solito toglievo la maglietta. «È più sicuro così.» «Ok.» Ok. Spensi la luce e mi arrampicai sul materasso. Prendendo spunto da Beth, restai sopra le coperte. Il calore che emanava il suo corpo raggiunse il mio. Aveva ragione. Sapeva restare in un letto senza sfiorare nessuno. Inspirai, lasciandomi avvolgere dal suo profumo dolce. L’anno prima, la professoressa di biologia aveva dissipato il mito per cui i maschi pensavano al sesso ogni sette secondi. Ecco, su quello dovevo dissentire… Le mie dita morivano dalla voglia di toccare la pelle morbida di Beth. Volevo sussurrarle parole dolci, labbra contro labbra. «Allora… ho questo amico» mormorò lei al buio. «Isaiah. L’hai incontrato.» «Già.» I muscoli si tesero e le immagini del suo corpo che si muoveva sul mio svanirono. Capivo che niente le impediva di vedersi anche con altri ragazzi, ma non mi faceva impazzire l’idea che mi raccontasse di loro mentre era nel mio letto. «Mi ha tradito e non so cosa fare. A Louisville era l’unico amico che avevo e, quando sono venuta qui, mi ha comprato il cellulare. Parlavamo ogni sera o ci mandavamo messaggi o tutte e due le cose, e mi chiama ancora tutti i giorni e manda milioni di sms. Mi rifiuto di rispondergli e penso che la nostra amicizia sia finita… ma stasera ho parlato con Scott e il discorso non è andato come avevo previsto, e non lo so…» Mi formicolava la pelle. Non era solo la vicinanza di Beth. Non era solo il bisogno e l’attrazione che sentivo con forza dentro di me. Beth stava per confidarmi qualcosa. Stava per mettere piede oltre il suo muro. La esortai: «Cosa non sai?» «Era tutto più facile a Louisville» confessò dolcemente. Come non cogliere la tristezza nella sua voce? «Mi manca la semplicità.» «Dopo la partita, ti lascio libera.» Odiavo anche solo l’idea di farlo, ma ero deciso a conquistarla. «Dopo ce ne andiamo a cena, e magari al cinema. Che ne pensi?»

La sentii inghiottire. «Potrebbe piacermi.» Inspirai. Fu come se avessi preso la prima boccata d’aria fresca dopo giorni. «A volte» disse lei, poi si interruppe. Fu una pausa triste, e il fatto che stesse cercando le parole mi fece venire voglia di confortarla. «A volte vorrei solo…» Cosa voleva? Sapevo cosa volevo io: che si fidasse di me, che provasse la stessa cosa che provavo io. Ma quello che volevo veramente in quel momento era che stesse bene. Tesi il braccio nel letto verso di lei, facendo attenzione a non toccarla. «Sono qui se hai bisogno di me.» Un battito del cuore. Un altro. Beth rimase talmente immobile al buio che mi chiesi se non avessi sognato tutto. Il fruscio del suo corpo sul copriletto mi fece capire che si stava muovendo. Un centimetro verso di me. Un’esitazione. Poi un altro centimetro. Il sangue mi ribolliva per la trepidazione. Quello era un momento storico… le avevo chiesto di appoggiarsi a me, e Beth lo stava prendendo in considerazione sul serio. Dai, Beth, di me puoi fidarti. Alla fine, con un unico movimento, appoggiò la testa sul mio petto e si strinse a me. La desideravo da impazzire, e se avesse fatto scivolare la mano di qualche centimetro più in basso, avrebbe capito quanto. Volevo toccarla, ma non osavo farlo. Il suo respiro mi solleticò il petto quando sussurrò: «Mi piaci, Ryan». Chiusi gli occhi e festeggiai mentalmente quelle parole. Le piacevo. «Anche tu mi piaci.» Molto. La desideravo, ma non avrei permesso che a prendere le decisioni fossero le mie parti basse. Lentamente, volontariamente, la strinsi a me con un braccio e posai l’altra mano sullo stomaco proprio vicino alla sua. Quello era il mio miglior tentativo di contatto fra amici-che-si-frequentavano. Una parte di me aveva voglia di accarezzarle il rossore che le era salito alle guance in risposta al mio sguardo avido. Quella stessa parte già mi vedeva a posarle una mano sotto il mento, per reclinarle indietro la testa e baciarla. Quella parte stava cercando di fare un discorso “logico” al mio cervello. Sarebbe stato bello poterla baciare. Mi facevano impazzire le sue labbra piene e i suoi piccoli gemiti. Avrei potuto baciarla fino a farle dimenticare Isaiah. Fino a farle dimenticare che ero vergine. Serrai la presa sulla sua spalla. Mi stava uccidendo. Stavo per morire. «Sandy Koufax era mancino come te. È stato il più giovane lanciatore entrato a far parte del Wall of Fame del baseball.» «Questa probabilmente è la cosa più assurda che ti abbia mai sentito dire» mormorò. Vero, però mi distraeva dalla voglia di baciarla. «Non sono io quello che parla in codice.» «Su questo hai ragione.» Beth si rilassò e il suo corpo si abbandonò sul mio. Passarono alcuni secondi di silenzio, poi alcuni minuti, finché non mi chiesi se si fosse addormentata. Magari fossi riuscito a dormire anch’io! Così non avrei più fantasticato su come sarebbe stato toccarla o baciarla o accarezzarla un po’ di più. D’altro canto, volevo restare sveglio. Mi piaceva stare così… con lei fra le braccia. «Ryan?» sussurrò. «Sì?» le risposi in un soffio. «Posso restare? Ho puntato la tua sveglia alle quattro, così tornerò a casa prima che Scott se ne accorga.» Le accarezzai la schiena senza pensarci su, e lei si strinse a me. «Sì.» Beth strofinò il viso sul mio petto come un gatto che si accoccolava per dormire. Il suo braccio mi

strinse di più, e mi concessi di barare per un momento, quando raccolsi in mano le ciocche di capelli e le baciai la testa. Avrei potuto raccontarmi che era una cosa da amici-che-si-frequentavano, ma era troppo tardi ed ero troppo stanco per mentire.

Beth

Mezz’ora passata ad agitarsi sul divano sotto lo sguardo di Scott fu la penitenza che Ryan fu costretto a pagare in cambio del permesso di portarmi a una lunga partita al campo di baseball. Alla fine Scott mi lasciò andare, solo dopo averlo minacciato di morte se mi avesse riportata a casa con altri segni sul corpo. Forse a Ryan non l’avrei mai detto, ma quello era il miglior sabato che passavo da quando ero stata condannata all’inferno. Durante il viaggio per Louisville, mi aveva spiegato il baseball. La maggior parte delle cose le sapevo, ma Ryan aveva un modo tutto suo di renderle interessanti. Lo sport prendeva vita nella sua descrizione, non era solo una mazza, una palla e delle basi. Spiegato da lui, era un gioco di squadra basato sulla fiducia. Mentre me ne stavo seduta sugli spalti a guardare la partita, mi resi conto dell’armonia dei movimenti della sua squadra. Un reticolo di segnali e occhiate e muta comprensione. Quello che trovavo davvero incredibile era Ryan. L’intensità con cui si muoveva. La forza nelle spalle larghe e la potenza che irradiava il suo corpo ogni volta che lanciava la palla. Ryan era una forza a sé stante. Una forza che mi attirava. Quell’impulso era una fonte di calore che si spandeva in tutto il corpo. Mi toccava con fare disinvolto, la sua stretta era forte abbastanza da tenermi e non farmi crollare, eppure così dolce da darmi i brividi. Eravamo amici. Solo amici. Sospirai. Anche come amici, meritava qualcuno migliore di me. Si ostinava a dire che gli piacevo. A voler uscire con me. Perché? Che ci guadagnava a stare con una ragazza che tutti gli altri avevano gettato via? Chris colpì la palla a sinistra del campo e l’altra squadra la prese per il terzo out. Dalla panchina, Ryan mi fece l’occhiolino prima di tornare in campo. Sorrisi in risposta, a dispetto di tutto. Ti stai per infilare in un casino che porterà solo dolore, Beth. Come quando mi ero messa nei guai con Luke, a quindici anni. Luke diceva che ero bella. Diceva tutte le cose giuste al momento giusto. Però era anche vero che non mi aveva mai portato in un luogo pubblico come quello. Forse Scott aveva ragione. Potevo ricominciare da zero. Forse mi conveniva approfittarne e godermi il viaggio finché durava. Dopotutto, presto sarei andata via con mia madre. Ogni giorno che restava con Trent era un giorno in meno alla sua morte. Quella sera, dopo la partita, mamma e io avremmo elaborato un piano per andarcene, ma fino ad allora potevo godermi quel che avevo davanti. A Ryan piacevo, o almeno ne era convinto. Che fretta avevo di passare al prossimo tizio che mi avrebbe trattata come Luke, o come Trent trattava mamma? Potevo essere quella che avrebbe mostrato a Ryan un paio di cose. La ragazza che non rideva quando lui arrossiva. Quella che, in futuro, sposato con una brava ragazza e con tre bambini appesi alla gamba, avrebbe ricordato con un sorriso. Poi avrebbe guardato sua moglie, e mi sarebbe stato grato per essermene andata via prima, perché in quel modo non era finito con me. «Sei la ragazza di Ryan?» Un tipo alto si sedette accanto a me sugli spalti e si mise a osservare

Ryan che lanciava. Quel tizio mi stava vicino. Molto vicino. Non abbastanza da toccarmi, ma aveva oltrepassato quella linea di confine che segnava la distanza fra due estranei. Mi venne la pelle d’oca sulle braccia. «E tu sei?» Lui si voltò verso di me e mi sorrise in un modo che mi ricordò Ryan. In realtà gli assomigliava parecchio, sembrava solo un po’ più adulto. «Mark. Suo fratello maggiore.» Ecco. Era lui il fratello per cui Ryan si disperava nel fienile? La curiosità, però, lasciò il posto alla tensione. Non avevo mai incontrato i familiari di un ragazzo, e non ne sapevo niente di etichetta. «Piacere di conoscerti.» Avrebbe detto così una ragazza perbene, no? «Sicura? Ho visto esche appese all’amo più felici di te.» Curvai le labbra in un sorrisetto. «Sono Beth, e siamo solo amici.» Amici che si frequentavano, ma non c’era bisogno di sbattere in piazza le mie insicurezze. «Uh» mormorò piano. «Ryan non porta le amiche alle partite. Dice che le persone lo distraggono.» Mi concentrai sul gioco, senza sapere cosa rispondere. Mark abbassò la voce: «Ti sto mettendo a disagio?» Tanto valeva essere onesta. Non sarei riuscita a passare per rispettabile ancora per molto. «I ragazzi che invadono il mio spazio personale in genere mi mettono a disagio, ma non ce l’ho con te. Anche Ryan fa la stessa cosa. Deve essere di famiglia.» Mark rise, facendo tanto chiasso da attirare l’attenzione della gente… anche di Ryan, dal monte di lancio. Ryan guardò suo fratello e poi me. Si scurì in volto nel vedere Mark. Non mi piacque leggergli la tristezza negli occhi, così gli feci un cenno un po’ incerto con la mano e lui rispose con il suo dolcissimo sorriso. Sentii il calore sulla nuca e sulle guance. «Già» disse Mark. «Siete decisamente solo amici.» «Nessuno ha chiesto il tuo parere» mormorai. Rise di nuovo, ma non così fragorosamente. «Mamma ti odierà di sicuro.» Avrei dovuto percepirlo come un insulto, e invece no. Se mai l’avessi incontrata, probabilmente l’avrebbe fatto. «Non saprei.» «Va bene così. A me piaci.» «Non mi conosci nemmeno.» Mark fece un cenno verso il tabellone. «Abbiamo ancora qualche inning per provvedere. Allora, dimmi, come hai incontrato mio fratello?»

Mentre mi sfilavo le scarpe, guardai verso gli spalti. Mark era lì a parlare con Beth. A ridere con lei, in realtà. La gelosia mi stava mangiando vivo, e ce l’avevo con entrambi. Avevo chiamato Mark, per mesi lo avevo tempestato di messaggi, e non ne avevo ricavato niente. Beth sorrideva una volta, e lui chiacchierava come fosse a un talk show. E soprattutto, Mark le parlava da venti minuti e Beth già rideva. Io ci avevo impiegato settimane a farla ridere! Sbattei la scarpa contro la panca per scrollare via lo sporco. Mark era mio fratello, quindi non mi avrebbe fregato la ragazza. Senza contare che gli piacevano gli uomini. Parecchi ragazzi mi guardarono quando colpii di nuovo la panca con la scarpa. Logan inarcò un sopracciglio. Scossi la testa per fermarlo prima che potesse chiedermi spiegazioni. Appoggiai i gomiti alle ginocchia e cercai di farmene una ragione. Beth non era esattamente la mia ragazza. Eravamo solo amici che si frequentavano perché avevo fatto un gran casino con lei fin dall’inizio. «Ryan?» Il coach mi fece cenno di raggiungerlo. Infilai le Nike ai piedi e mi misi la borsa in spalla. Molto probabilmente aveva parecchio da ridire. Avevo portato a casa la partita, ma nell’ultimo inning avevo concesso due punti all’altra squadra. Mi ero distratto a seguire Mark e Beth che facevano amicizia. «Sissignore?» Il coach fece un cenno col capo verso un uomo sulla trentina e la donna accanto a lui. Avevano il tipico abbigliamento casual della domenica… jeans e belle camicie. «Vorrei presentarti Pete Carson e sua moglie Vickie.» Strinsi le mani a entrambi… prima il signor Carson, poi sua moglie. «Piacere di conoscervi.» «Pete è un talent scout dell’Università di Louisville.» Guardai il coach cercando di nascondere lo stupore. Sapeva bene come la pensavamo papà e io sul fatto che avrei tentato la strada del professionismo dopo il diploma. Il signor Carson si schiarì la voce. «Ryan, sto dando un’occhiata in giro per la prima selezione, e il tuo nome è sulla bocca di tutti. Mi chiedevo se avessi preso in considerazione la nostra università.» «No, signore. Vorrei provare le selezioni professionistiche subito dopo il diploma.» «Sarebbe un peccato» fece la moglie prima di poterselo impedire. La guardammo in tre, e lei rise nervosamente. «Mi dispiace, ma è la verità. Forse dovrei presentarmi adeguatamente… sono la dottoressa Carson, preside della Facoltà di inglese all’Università di Spalding.» «Uh-uh.» Una risposta sintatticamente eccezionale. Perché avevo la sensazione di essere stato messo all’angolo? «La signora Rowe, la tua professoressa di letteratura, è una mia buona amica. Mi ha fatto leggere alcuni dei tuoi componimenti. Hai molto talento. Sia sul campo che fuori. L’Università di Spalding offre un meraviglioso corso di studi in scrittura creativa, e molti dei nostri studenti continuano con un

master in belle arti…» Il signor Carson posò una mano sul braccio di sua moglie. «Stai cercando di reclutarlo? Pensavo di aver vinto io a testa o croce.» «Non stavi parlando abbastanza in fretta.» Lei gli diede un buffetto sulla mano. «La Spalding ha anche una squadra di baseball.» Finsi di ridere perché lo stavano facendo tutti, ma ero sempre più a disagio. Stare lì ad ascoltarli sembrava una forma di tradimento nei confronti di mio padre. Il signor Carson lasciò andare sua moglie. «La Spalding è in Terza Divisione. L’Università di Louisville è in Prima. Molti dei nostri giocatori sono diventati professionisti. Hai il talento, che non può essere insegnato, ma i lanci si possono perfezionare e hai qualche problema con la posizione. I miei coach possono lavorare con te e portare i tuoi lanci a un altro livello. Ti prepareremo per il professionismo, e in più ci guadagnerai una laurea.» «Mi sta offrendo una borsa di studio?» «La Spalding lo farà» disse la signora Carson. Sorrise spudoratamente quando il marito fece una smorfia. Il signor Carson rivolse uno sguardo cauto al coach. «Ho bisogno di sapere se ti interessa. C’è spazio per un lanciatore nella mia squadra, e vorrei offrire una borsa di studio a qualcuno a novembre, durante le pre-iscrizioni.» Novembre. Quindi avevo poco più di un mese per capire se volevo andare all’università. Zero pressioni. I Carson si persero a descrivere la vita universitaria mentre fingevo di ascoltare. Che avrebbe detto papà se l’avesse scoperto? Mi lasciarono entrambi il biglietto da visita, con gran disappunto del signor Carson, e salutarono lasciandomi solo con il coach. Aspettai che fossero abbastanza lontani da non sentire, prima di fargli la domanda che avevo sulla punta della lingua. «Ha parlato con la signora Rowe?» «Ne abbiamo discusso il mese scorso. Ritengo che sia nel tuo interesse vagliare tutte le opportunità.» «Secondo lei non ce la farò a diventare un professionista?» Quello era l’uomo che mi aveva incoraggiato quasi quanto mio padre. «No» rispose lentamente. «Puoi farcela, ma so anche che tuo padre non ti sta presentando tutte le opzioni che hai a disposizione. Tuo padre è una brava persona, ma sei come un figlio per me e non ti aiuterei se non te lo facessi capire almeno io.» Il mio mondo andava alla rovescia. Papà e il coach la vedevano allo stesso modo da sempre. Ora perché quel cambiamento? «Non parteciperò al concorso di scrittura.» «Ryan» disse il coach, con un sospiro esasperato. «Ne parliamo più tardi. Hai compagnia.» Guardò oltre la mia spalla, e mi assalì l’angoscia. Mark mi aspettava in fondo agli spalti, mentre Beth era rimasta al suo posto in alto. Diedi una controllata in giro, per assicurarmi che non ci fosse nessun concittadino ad assistere al nostro incontro. «Ehi» disse Mark. «Hai fatto una partita da brividi.» Inspirai a fondo, cercando di focalizzare. Mark era andato via. Papà lo aveva guardato dritto negli occhi e gli aveva chiesto di scegliere. Mio fratello non aveva scelto me. Gli avevo chiesto di restare e combattere, e non l’aveva fatto. Gli avevo chiesto di venire a casa, e non l’aveva fatto. E adesso

pensava di poter spuntare lì, come se niente fosse… come se fosse tutto a posto? Be’, niente era a posto. «Che ci fai qui?» Mark giocava come difensore nella squadra di rugby dell’Università del Kentucky. Al primo anno aveva messo su una dozzina di chili di muscoli. Era bello grosso. «Voglio parlare con te, Ry.» «Il tuo silenzio dall’estate a oggi ha già detto tutto.» Lo superai e feci cenno a Beth di scendere dagli spalti. «Volevo mettermi in contatto con te, ma ogni volta che ci ho provato, non ci sono riuscito. Continuavo a pensare a mamma e papà, e avevo bisogno di spazio.» Spazio. Avrebbe fatto prima a darmi un calcio nelle palle. Allargai le braccia. «Hai ottenuto quel che volevi, no?» «Non deve andare per forza così» disse Mark ad alta voce, abbastanza perché i pochi spettatori rimasti lo sentissero. «Sì.» Continuai a camminare. «Invece sì.» Beth scese a passi lenti e regolari, con dei piccoli tonfi dei piedi sulle panche di ferro. «Che stai facendo?» «Dobbiamo andare. Hai bisogno di un’ora, ricordi? E poi andiamo a cena.» «Abbiamo tempo. Vai a parlare con tuo fratello.» «Va bene così, Beth.» Mark rispose al posto mio in tono di scuse. «È stato bello conoscerti. Non lasciarti soffocare da Groveton.» Lei gli rivolse uno dei suoi rari sorrisi genuini, e avrei voluto colpirlo… forte. «Buona fortuna per la partita della settimana prossima.» Mark nascose le mani nelle tasche dei jeans, mentre si allontanava. «Sai dove trovarmi quando sarai pronto, Ry.» Beth lo guardò finché non sparì dalla visuale. «Che diavolo ti prende?» «Non capiresti.» Marciai verso il parcheggio e gettai le mie cose nella jeep. Beth sbatté lo sportello del passeggero e, in risposta alla sua rabbia, chiusi anch’io il mio con furia. «Dimmi dove ti devo portare.» «Al centro commerciale all’aperto, a ottocento metri dal posto in cui ti alleni.» Voltai di scatto la testa. Quello era praticamente un ghetto! «Non ti lascio lì.» «Non mi serve il tuo permesso. Abbiamo fatto un patto. Decidi tu se rispettarlo.» Il suo sguardo gelido mi trapassò. Diedi uno strattone alla visiera del cappello e sgommai verso la strada principale. Era arrabbiata. Be’, lo ero anch’io. Restammo in silenzio mentre guidavo verso la parte opposta della città, un viaggio di mezz’ora. C’era abbastanza elettricità nell’aria da mandare avanti l’auto anche senza benzina. Una parola da uno dei due, e avremmo fatto esplodere qualcosa. Beth ovviamente amava giocare col fuoco. «Tuo fratello è uno di quei tizi che sono adorabili con gli estranei, e in privato sono degli autentici stronzi? Ti faceva pipì nei cereali ogni mattina prima di scuola?» «No…» ringhiai a denti stretti. «Era un fratello eccezionale.» «E allora che ti è preso? Ha detto che non vi parlate da tre mesi, e che era lì per vederti. Che c’è di così maledettamente importante per cui non hai potuto sprecare tre secondi della tua giornata e

salutarlo?» Accesi la radio. Lei la spense. Rifilai un pugno al volante. «Pensavo che fossimo in ritardo per la tua ora di libertà a Louisville.» «Aspettare un quarto d’ora perché potessi parlare con tuo fratello non mi avrebbe creato problemi. Te lo chiederò di nuovo. Che ti è preso?» «È gay.» Beth sbatté gli occhi. «Me l’hai già detto questo. Siamo alla parte in cui ti comporti da stronzo?» Non ero uno stronzo. «Se n’è andato, ok? Se n’è andato, e ha detto chiaramente che non tornerà.» Lei si girò verso di me. «Dimmi che è stata una libera scelta di Mark.» Beth non mi diceva un bel niente sulla sua famiglia, eppure si aspettava la perfezione dalla mia. «Mio padre l’ha sbattuto fuori, e Mark non ha nemmeno provato a vedere cosa sarebbe successo a rimanere. Sei contenta, adesso?» «No. Quindi tuo padre è un bastardo omofobo. Qual è la tua scusa?» La rabbia mi esplose dentro. «Che ti aspettavi che facessi? Mettermi contro mio padre? Mi ha detto che né io né mamma avevamo più il permesso di parlargli. È mio padre, Beth. Che avresti fatto tu?» Non persi tempo a dirle che avevo cercato di contattarlo, o che Mark non mi aveva risposto… fino a quel momento. Quando era troppo tardi. «Tirar fuori le palle, ecco che avrei fatto. Dio, Ryan, sei uno stronzo. Tuo fratello è gay, e tu lo butti fuori dalla tua vita perché te la fai addosso all’idea di tener testa a tuo padre.» Accostai all’altezza dei negozi e parcheggiai in fondo. Quel posto era uno schifo. Fuori dalla lavanderia a gettoni, un uomo dall’aria violenta stava urlando contro una ragazza con i capelli di un biondo scolorito, che teneva in braccio un bambino in fasce. Alcuni ragazzi della mia età fumavano e aspettavano che le ragazze uscissero dai negozi per andar loro addosso con gli skateboard. Qualcuno avrebbe dovuto insegnargli un po’ di rispetto. Beth saltò giù dalla jeep. Il vento le fece svolazzare i capelli alle spalle mentre si avviava verso i negozi. Perché quella ragazza continuava a sfuggirmi? Balzai fuori e le corsi dietro, la presi per mano e la feci voltare verso di me. Credevo di aver fatto imbestialire Beth nominandola per la corte del ballo. A giudicare dal fuoco che bruciava nei suoi occhi, la rabbia che provava in quel momento era tutto un altro livello. Doveva starmi a sentire e capire mio padre… capire la mia famiglia. «Mark ci ha abbandonato.» «Stronzate. Tu lo hai abbandonato.» Mi sbatté un dito sul petto. «Tu e io siamo uno sbaglio. Sei il tipo che abbandona. Mio padre mi ha abbandonata, san Scott mi ha abbandonata, e non permetterò che capiti ancora.» Eppure fu lei ad andarsene. Si rifugiò nel centro commerciale e sparì nel negozio di alimentari. Sulla strada per Louisville mi aveva detto di portarla lì e passare a riprenderla più tardi. Non avrei voluto lasciarla andare via in quel modo, ma le sue parole mi avevano scosso. Aveva ragione lei? Avevo abbandonato Mark?

Beth

Tagliai per il supermercato, me la svignai di nuovo fuori e poi dritta verso L’Ultima Fermata, evitando il gruppo di ragazzi sugli skateboard. Fui cauta, attenta ai soldi di Echo che avevo nella tasca posteriore dei jeans. In quella zona c’erano più scippatori che diplomati. Denny sbatté la mano sul bancone quando misi piede nel bar. «Fuori di qui, ragazzina.» Le palle da biliardo facevano rumore urtandosi fra loro mentre un tizio in jeans e giacca di pelle giocava per conto suo. Altri due uomini più vecchi e con le tute da lavoro erano chini sulle birre al bancone. Il cuore perse ogni briciolo di speranza accumulata a Groveton quando individuai la massa disordinata di capelli biondi, al tavolo nell’angolo. Con fare altezzoso, avanzai verso il bancone. «Qualsiasi cifra ti stia dando Isaiah, ti pagherò il doppio per tenere la bocca chiusa.» Lui ridacchiò con aria cupa. «È la stessa offerta che mi ha fatto lui per te. Vai a giocare con il tuo ragazzo e resta fuori dal mio bar.» «Isaiah non è il mio ragazzo.» Con un sorriso saccente, Denny prese un bicchierino umido da un lavatoio e lo asciugò con uno strofinaccio. «E lui lo sa?» Quando non risposi, Denny fece un cenno in direzione di mamma. «È tutto il giorno che piange. Trent è stato arrestato ieri notte per guida in stato di ebbrezza, e i poliziotti le hanno sequestrato l’auto. Portala fuori e passa un po’ di tempo con lei.» Evviva e maledizione. Senza Isaiah avevo bisogno di un’auto, e quel rottame schifoso che aveva mamma era la nostra unica via di fuga da Louisville. L’insolito lato positivo della cosa era che non avrei dovuto preoccuparmi che Trent ci facesse a pezzi quel giorno. «La prossima volta che torni nel mio bar, chiamerò Isaiah per trascinarti fuori» mi avvisò Denny. «Anche se stesse piangendo.» La testa di mamma era nascosta dalle braccia incrociate, accanto a una bottiglia mezza vuota di tequila. Era più magra. Tutte quelle emozioni mi fecero sentire la testa vuota. Quella povera creatura patetica era mia madre, e avevo sbagliato tutto con lei. «Andiamo, mamma.» Non si mosse. Le scansai i capelli dal viso. Gliene caddero parecchi, a terra e sulla mia mano. Santo cielo, ma mangiava? Il lato sinistro del volto era a chiazze gialle e marroni. Sul polso destro c’era una fasciatura nera. La scrollai dolcemente. «Mamma, sono Elisabeth.» Lei sbatté le palpebre e aprì gli occhi, vuoti e incavati. «Piccolina?» «Sono io. Andiamo a casa.» Mamma si sporse verso di me come se avesse visto un fantasma. Le dita mi sfiorarono la gamba, prima che il braccio le ricadesse di lato. «Sto sognando?» «Quand’è stata l’ultima volta che hai mangiato?» Mi osservò con la testa ancora sulle braccia. «Una volta il cibo lo compravi e lo preparavi tu, no? Prosciutto e formaggio sul pane bianco, con la mostarda che è in frigo. Lo facevi tu.» Mi sentii come una pianta appassita senza acqua. Chi pensava che si prendesse cura di lei? Chiusi

gli occhi e cercai il mio metodo di approccio. Stare da Scott mi aveva indebolita. Dovevo essere più presente a me stessa, sia per me che per mamma. «Andiamo.» Le passai un braccio attorno alle spalle e la tirai. «Forza. Ti devi mettere in piedi. Non riesco a trascinarti fino a casa.» «Odio quando urli, Elisabeth.» «Non ho urlato.» Ma stavo facendo la stronza. Come la maggior parte dei bambini piccoli, mamma obbediva solo a un ordine impartito duramente. E sempre come una bambina piccola, tendeva a obbedire alla persona sbagliata. «Sì, l’hai fatto» mormorò. «Sei sempre arrabbiata.» Anche se la stavo sorreggendo, sbandava da un lato all’altro. La porta sul retro era chiusa. Al diavolo. Questo significava che dovevamo uscire dall’ingresso principale. A stento riusciva a procedere a passettini, e feci un rapido calcolo di quanto ci avrei impiegato a riportarla a casa a quel ritmo. C’erano così tante cose da fare prima di tornare da Ryan… la spesa all’alimentari, capire come riprenderci l’auto, e fissare una data precisa per la partenza. Mamma barcollò quando uscimmo alla luce. Cercò di ripararsi gli occhi, ma così facendo perse il fragile equilibrio che aveva, e mi ritrovai a sorreggerla con entrambe le mani. Aveva ragione. Ero sempre arrabbiata, perché in quel momento stava per esplodermi dentro un vulcano. «Che altro stai prendendo?» «Niente» disse lei troppo in fretta. Sì, come no. «La bottiglia di tequila non era vuota. Che c’è, non la reggi più?» Lei non rispose e io lasciai perdere, tenendo a mente che alcune cose era meglio non saperle. La trascinai in avanti, e ogni tanto alzava i piedi per procedere lungo il marciapiede. Parecchi ragazzi con cui andavo a scuola una volta mi superarono sugli skateboard. Un paio fischiarono e chiesero se ero tornata per restare. Un altro… prese in mano lo skateboard e pescò una banconota da dieci dollari dalla tasca. «Sei rimasta di nuovo senza soldi, Sky? Che ne dici di farmi un bel servizietto, adesso?» Arrossii per la vergogna, ma feci in modo di procedere più dritta mentre trascinavo mamma a casa sua. «Fottiti.» «Mi sei mancata, Beth, ma tua madre è più divertente quando non ci sei tu a farle da babysitter.» Mise giù lo skateboard e scivolò via. Sì, stare da Scott mi aveva rammollita, e così quell’esperienza era un milione di volte più dura da sopportare. Se solo Scott mi avesse lasciata in pace. «Ce ne andremo in Florida.» Superammo lentamente il banco dei pegni. «Spiagge con la sabbia bianca. Aria calda. Il rumore dell’acqua sulla battigia.» Mia madre non era una sgualdrina. Non lo era. Oddio ti prego, ti prego, fa’ che non lo sia. «Tornerai sobria e troveremo un lavoro…» Già? «Qualcosa.» Scott aveva la mia tutela legale, e per questo avremmo dovuto fare attenzione. Sarei stata etichettata come fuggitiva. «Andremo verso la costa. Scegli una data, e partiamo.» «Devo prima pagare la cauzione di Trent» sussurrò mamma. «E poi riscattare l’auto.» «Che si fotta Trent! Lascialo marcire in galera.» «Non posso.» Mamma si aggrappò ai miei capelli per stare dritta, e per poco non urlai dal dolore. Mi morsi le labbra, invece. Strillando avrei solo attirato altra attenzione. Raggiungemmo la fine del marciapiede. Mamma cadde in avanti, scivolando sul gradino, e finì a terra. «Andiamo, mamma!» Avrei solo voluto sedermi a terra e piangere, ma non potevo. Non con la gente che guardava. Non con mia madre lì. «Alzati!»

«Ci penso io.» Al suono di quella voce profonda e dolce, il cuore si fermò e il respiro si bloccò nei polmoni. Isaiah prese in braccio mamma senza sforzo. Senza aspettarmi, si diresse verso le case popolari in cui viveva. Isaiah. Sbattei le palpebre. Il mio migliore amico. Il cuore batté due volte, e fece male in entrambi i casi. Mamma era semicosciente fra le braccia di Isaiah. Quando raggiungemmo la porta, le sfilai dal collo la stringa con le chiavi che alle elementari portavo come una collana. Incrociai per un istante lo sguardo di Isaiah e il dolore nei suoi occhi mi fece sentire minuscola. Indossava la divisa del garage in cui lavorava. La stoffa blu era macchiata di olio e grasso in più punti. Isaiah mi aveva chiamato e mi aveva spedito un messaggio ogni giorno per tre settimane, e io non gli avevo mai risposto. Soffocai il senso di colpa. Era stato lui a tradirmi, e in quel momento non c’era molto che potessi fare per sopperire alle risposte mancate. Un’orribile puzza di rancido mi investì non appena aprii la porta. Avevo così tanta paura che mi girava la testa. Non volevo sapere. Non volevo e basta. Saremmo andate in Florida. Stavamo per scappare. Isaiah entrò dietro di me e imprecò. Per la puzza, il casino o la spazzatura, non avrei saputo dirlo. Non era cambiato niente dall’ultima volta che ero passata, tranne lo sportello spalancato del frigo. «Hai dimenticato di pagare la domestica?» chiese Isaiah. Feci un mezzo sorriso al suo tentativo di sdrammatizzare la situazione. Sapeva quanto odiavo che qualcuno vedesse come viveva mamma. «Accetta solo contanti, e mamma insiste per usare la carta di credito, così le fanno lo sconto sui biglietti aerei.» Oltrepassai la spazzatura e i pezzi rotti dei mobili e indicai a Isaiah la camera da letto di mamma. La depose sul letto con dolcezza. Non era la prima volta che mi aiutava con lei. Quando avevamo quattordici anni, mi aveva dato una mano a recuperarla al bar. Era abituato alle crepe nel muro, alla logora moquette verde e alla foto di me e lei attaccata con lo scotch allo specchio rotto. «Dammi un minuto» gli dissi. «Poi vado a fare la spesa all’alimentari.» Lui annuì in modo burbero. «Aspetto in soggiorno.» Sfilai le scarpe a mamma e mi sedetti sul letto accanto a lei. «Svegliati, mamma. Dimmi che ti è successo alla mano.» Come se non lo sapessi già. Lei socchiuse a stento gli occhi e si raggomitolò in posizione fetale. «Trent e io abbiamo litigato. Non voleva che finisse così.» E quando mai lo voleva. «Prima ce ne andiamo via da lui, meglio è.» «Lui mi ama.» «No, non è vero.» «Sì, invece. È solo che voi due non vi conoscete ancora bene.» «Lo conosco abbastanza.» Sapevo che aveva un anello che faceva un male cane quando mi prendeva a pugni in faccia. «Tu vieni via con me, giusto? Altrimenti non posso prendermi cura di te.» Volevo solo che dicesse di sì, e che lo dicesse subito. Quel silenzio mi fece sentire come se qualcuno mi stesse sfilando l’intestino dall’ombelico. Alla fine, si decise a parlare: «Tu non capisci.

Sei una vagabonda». E lei era fatta. «Partirai insieme a me?» «Sì, piccolina» mormorò. «Verrò con te.» «Quanto ci serve per riscattare l’auto?» «Mi servono cinquecento dollari per far uscire di prigione Trent.» Trent ci poteva marcire, in prigione. «La macchina. Quanto serve per riprendercela? Non posso venire quando mi pare e piace a Louisville, e non mi posso occupare di te se non lasciamo la città.» Lei fece spallucce. «Duecento dollari.» Mamma cominciò a canticchiare una vecchia canzone che cantava sempre nonno prima di addormentarsi, completamente ubriaco. Mi massaggiai la fronte. Avevamo bisogno di quella dannata macchina e mi serviva un maledetto piano. Saremmo dovute andar via settimane prima, ma Isaiah mi aveva messo i bastoni fra le ruote. Le mie finestre di opportunità continuavano a chiudersi, e non ero certa di quanto ancora mamma potesse sopravvivere da sola. Presi i soldi di Echo e ne misi metà sul comodino. Lei smise di canticchiare e guardò il denaro. «Ascoltami, mamma. Devi tornare sobria e andare a riscattare l’auto al deposito. Voglio anche che paghi la bolletta del telefono. Ce ne andremo presto. Hai capito?» Mamma teneva gli occhi fissi sui soldi. «Te li ha dati Scott?» «Mamma!» urlai, e lei sobbalzò. «Ripeti cosa devi fare.» Lei prese un pupazzetto da sotto il cuscino. «Quando sento la tua mancanza, dormo con questo.» Avevo dormito con quel peluche ogni notte fino a tredici anni. Era l’unica cosa che mi aveva dato mio padre. Il fatto che lo avesse conservato mi spezzò il cuore. Non era il momento di pensarci. Dovevo fare in modo che mamma ricordasse quello che doveva fare. Ne andava della sua vita. «Ripeti quello che ho detto.» «Prendere l’auto. Pagare la bolletta del telefono.» Mi alzai in piedi e mamma mi afferrò la mano. «Non lasciarmi di nuovo da sola. Non voglio stare da sola.» La sua supplica trovò terreno fertile nel mio senso di colpa. Avevamo tutti le nostre paure: cose acquattate negli angoli bui della mente, che ci terrorizzavano all’inverosimile. Quella era la sua. La mia paura? Lasciare lei. «Devo andare a comprarti del cibo. Ti faccio un paio di panini e li lascio in frigo.» «Resta» disse lei. «Resta finché non mi addormento.» Quante notti da bambina l’avevo implorata di restare con me? Mi sdraiai sul letto accanto a lei, accarezzandole i capelli, e continuai la canzone da dove si era interrotta. Era la sua strofa preferita. Quella che parlava di uccelli, libertà e cambiamento. DIVISI ANCHE L’ULTIMO panino a metà e misi il piatto pieno in frigo, insieme a quel che restava del prosciutto e del formaggio che aveva comprato Isaiah mentre facevo addormentare mamma cantando. Isaiah si teneva impegnato mettendo nella dispensa le scatole di cereali e cracker. Aveva comprato cibo che mamma poteva preparare facilmente anche da sola. «Non mi hai punito a sufficienza?» mi chiese. Le catene che mi trattenevano da sempre sembravano anche più pesanti del solito. «Hai intenzione di caricarmi in spalla e costringermi ad andare via un’altra volta?»

«No» rispose lui. «Lo sanno tutti che Trent è in galera. La cosa peggiore che può succederti qui…» Guardò verso la porta chiusa della mia vecchia stanza da letto. «Forse dovrei caricarti di nuovo in spalla. Questo posto non ti fa bene, Beth.» «Lo so.» Ed era proprio per quello che volevo andarmene… con mia madre. Una piccola parte di me era curiosa di capire cosa sapeva Isaiah che io non sapevo. Potevo aprire la porta della mia vecchia camera e scoprirlo, ma scacciai il pensiero. Non volevo scoprirlo. Proprio per niente. «Dovresti tornare al lavoro» dissi. Si era tolto la divisa dell’officina e indossava i jeans e la sua maglietta nera preferita, segno evidente che sarebbe rimasto. Non volevo che perdesse il lavoro che amava per colpa mia. Il garage in cui lavorava era dall’altra parte del centro commerciale, il che spiegava come mai mi avesse raggiunto così in fretta. «Ho smontato un’ora fa. Sono rimasto in giro a trafficare con una Mustang ultimo modello che ha portato un tizio. È un incanto. Piacerebbe perfino a te.» Mi era mancato tutto quello. Isaiah che mi raccontava della sua giornata e il suo tono emozionato quando parlava di auto. Mi squadrò dalla testa ai piedi con gli occhi grigi. Mi era mancato. La sua voce. I tatuaggi che gli ricoprivano le braccia. La sua presenza costante, ferma. L’ultima cosa era quella che mi mancava di più. Isaiah era quell’unica relazione che non avevo mai dovuto mettere in dubbio. Quella che non correvo il rischio di veder cambiare dalla sera alla mattina. Feci due passi e gli gettai le braccia al collo. Un braccio alla volta, lui mi strinse a sé. Amavo sentire il battito del suo cuore. Così regolare. Così forte. Per pochi brevi istanti, le catene si fecero più leggere. «Mi sei mancato» gli dissi. «Anche tu mi sei mancata.» Isaiah appoggiò la testa alla mia. Alzò una mano e la posò sulla mia nuca. Mi sfiorò la guancia con i polpastrelli, e la schiena mi si irrigidì. Ne avevamo avuti di contatti fisici in quei quattro anni. Tutte le volte che ci toccavamo, eravamo sballati. Dal mio arresto, Isaiah mi aveva toccato un po’ troppe volte da sobrio. Una notte dell’anno prima, completamente fatti, ci eravamo spinti troppo oltre. Un po’ come con Ryan. Ma a differenza di Ryan, Isaiah e io avevamo finto che non fosse mai successo. Se non fosse stato per l’insistenza di Ryan, probabilmente avrei detto di avere un’amnesia anche sulla notte nel fienile. E poi mi tornò alla mente… che Isaiah aveva detto di amarmi. «Dopo il diploma, Beth, ti giuro che ti porterò via da qui.» «Ok» risposi, sapendo che sarei andata via molto prima. Mi sciolsi dall’abbraccio, domandandomi se avessi interpretato male le sue parole. Forse non aveva detto di amarmi. O forse sì, e stavamo di nuovo facendo finta di niente. «Denny ti ha chiamato un’altra volta?» «Già, e continuerà a chiamarmi. Fai a tutti noi un favore e deciditi a chiamarmi tu. Se devi vedere tua madre, permettimi di venire con te. Ucciderò Trent se prova a sfiorarti di nuovo,ma preferirei evitare di finire in prigione.» «Va bene.» Peccato che non lo avrei chiamato. La prossima volta che sarei tornata a Louisville, sarebbe stato per prendere mamma e andare via per sempre. «Rico dà una festa stasera» continuò Isaiah. «Ci sarà anche Noah. Ti prometto che ti riportiamo a casa prima che tuo zio si accorga della tua assenza.» Un pesante senso di vuoto si impossessò della mia anima. Avevo schiaffeggiato Noah. «Ce l’ha con me?»

Isaiah scosse la testa. «Ce l’ha con se stesso, come me. Avremmo dovuto affrontare le cose in maniera diversa con te, ma siamo arrivati subito dopo Trent. Eravamo spaventati a morte che potesse farti di nuovo del male.» Presi il cellulare e controllai l’ora. Avevo cinque minuti per tornare da Ryan. Mi passai una mano fra i capelli, valutando le opzioni. Volevo vedere Noah e passare un po’ di tempo con Isaiah. Avrei voluto spingere Ryan davanti a un autobus per come si era comportato con il fratello. Il mio cuore fece una capriola… quello che davvero volevo era Ryan, che mi sorrideva in quel suo modo adorabile e mi diceva di aver commesso un terribile errore. Che diavolo avevo? Mi morsi il labbro e guardai Isaiah. «Devo prima parlare con Ryan.»

Beth uscì da quel fatiscente complesso di appartamenti con Isaiah alle calcagna. Continuavo a ripetermi mentalmente sempre lo stesso mantra: Non la perderò. Non mi arrenderò. Avrei potuto avvicinarla prima, ma avevo deciso di rispettarla e attenermi al piano originale: andare a fare la doccia all’impianto sportivo, e poi tornare a prenderla un’ora dopo. Non avevo tenuto fede a una parte della sua richiesta… la stavo aspettando nell’ultimo posto in cui l’avevo vista. Un’ora prima, ero rimasto a guardare mentre Beth seguiva Isaiah in quel palazzo, con una donna adulta svenuta fra le braccia. Dare a Beth il suo spazio – sapere che era con lui e non con me – era stata una delle cose più dannatamente difficili che avessi mai fatto. Ma non l’avrei persa. A dispetto di quello che le raccontavo, lei era la mia ragazza. Beth si fermò quando mi vide appoggiato allo sportello della jeep. Impallidì e spalancò gli occhi. «Che ci fai tu qui?» «C’è una cena che ci aspetta.» Lei sbatté gli occhi e Isaiah si tese alle sue spalle. Forse lui era in cerca di risse, ma io no. «Possiamo parlare un secondo, Beth?» Guardai Isaiah. «Da soli.» «Me ne vado solo se me lo dice lei.» Isaiah aveva l’aria calma, quasi amichevole, ma era tutta una forzatura. «Isaiah» mormorò Beth. «Ho bisogno di parlargli.» Restando dietro di lei, le appoggiò una mano sulla spalla, le baciò la testa e mi guardò dritto negli occhi. La bile mi salì fino in gola. L’unica cosa che mi impedì di prenderlo a pugni fu l’espressione di Beth. I suoi bellissimi occhi erano così spalancati da sembrare troppo grandi sul suo viso. Brava ragazza. Ero contento di constatare che quel bacio l’aveva colta alla sprovvista. Isaiah si infilò in una vecchia Mustang e mi rivolse un’occhiataccia mentre dava vita al motore, che si accese immediatamente con un ruggito furioso. Fece marcia indietro e uscì dal parcheggio. Beth si coprì gli occhi con le mani. Avevo un milione di domande per la testa, ma in quel momento mi interessava solo salvare la nostra storia. «Mi dispiace.» Lei abbassò lentamente le mani. «Di cosa?» Del fatto che quel buco infernale e malmesso fosse il suo passato. Che non si fidasse abbastanza di me per lasciarsi aiutare con i suoi problemi. Di essere stato così stupido da crederla una mocciosa viziata che approfittava di suo zio. Di essere stato uno stronzo, come mi aveva definito settimane prima. «Mark era il mio migliore amico» le confidai. «Quando se n’è andato, si è portato via una parte di me. Quando papà l’ha cacciato, non sono riuscito a capire perché non potesse restare e combattere… se non per se stesso, almeno per me.» Non l’avevo detto a nessuno prima. Nemmeno a Chris e Logan. Beth era la prima persona in

assoluto a farmi parlare di qualcosa di così importante… così personale. Meritavo qualsiasi risposta collerica mi avrebbe dato. Sospirando pesantemente, lei si lasciò cadere seduta sul cordolo del parcheggio fatiscente. «Lo capisco.» Sembrava di nuovo piccola e smarrita, e mi spezzò il cuore. Le sedetti accanto, e il mondo riprese a funzionare nel senso giusto quando appoggiò la testa alla mia spalla. Le passai un braccio attorno alle spalle e chiusi gli occhi per un momento, quando si strinse a me. Ecco qual era il posto di Beth… fra le mie braccia. «Ti sei comportato comunque da stronzo con Mark» mi disse. «Già.» Il rimorso mi stava divorando lo stomaco. «Ma che cosa faccio? È lui o mio padre. Loro hanno tracciato le linee di combattimento. A me tocca scegliere un lato o l’altro, ma ho bisogno di entrambi.» Silenzio. Un venticello mite soffiò nel parcheggio. «È mia madre» disse Beth, con la stessa tristezza nella voce con cui Scott mi aveva parlato di lei da piccola. «Se te lo stessi chiedendo.» «Già.» Però non ero pronto a farle pressioni. Le accarezzai il braccio con la punta delle dita, e la sentii stringersi di più a me. Quanto avrei voluto baciarla in quel preciso istante. Non il genere di bacio che avrebbe risvegliato il corpo. Un bacio per farle capire quanto ci tenessi a lei… uno che coinvolgesse anche l’anima. Beth alzò la testa e lasciai cadere il braccio. Aveva bisogno di spazio, e dovevo imparare a dargliene. «I nostri tentativi di uscire fanno pena» disse. Ridacchiai. Effettivamente… Sperando di trovare il momento giusto, avrei voluto aspettare dopo cena per darle quello che avevo portato, ma una delle cose che stavo imparando con Beth era che non esisteva un momento giusto. Infilai la mano in tasca, presi il nastro di raso e glielo feci dondolare davanti. «Questo è un regalo per te. Il mio modo per sbalordirti.» Beth sbatté gli occhi e inclinò lentamente la testa a sinistra per guardare il nastro. Come facevano i ragazzi? Come facevano a rimanere calmi quando davano un regalo alla ragazza che amavano? Volevo sbalordirla perché restasse nella corte del ballo, ma ancora di più… volevo che quel regalo le dimostrasse che la conoscevo, che vedevo oltre i capelli neri, il piercing al naso e i jeans a vita bassa. La vedevo com’era realmente… vedevo Beth. «Mi hai comprato un nastro» sussurrò. «Come facevi a saperlo?» Avevo la gola secca. «Ho visto una foto di quando eri piccola nell’ufficio di Scott, e ne hai parlato… nel fienile.» «Nastri» disse in uno strano tono, quasi ipnotico. «Mi piacciono ancora i nastri.» Con un movimento lento e preciso, mi tese il polso. «Me lo metti?» «Sono un maschio. Non so come mettere un nastro fra i capelli di una ragazza.» Beth esplose in un sorriso a metà fra il perfido e il divertito. «Legamelo al polso. Non so se l’hai notato, ma non sono più il tipo di ragazza da nastro fra i capelli.» Mentre le arrotolavo il lungo nastro attorno al polso e facevo del mio meglio per fare un fiocco accettabile, raccolsi il coraggio per chiederle: «Ti ho stupito?» La pausa fu estenuante. «Sì» mormorò, quasi senza fiato. «Ce l’hai fatta.» Beth mi fece un regalo unico: occhi blu così dolci che mi fecero venire in mente l’oceano, e un

sorriso tanto sereno che pensai al paradiso. «Andiamo a cena» dissi. L’espressione di Beth divenne fin troppo innocente. Si morse il labbro inferiore, e ne seguii il movimento con lo sguardo. Morivo dalla voglia di assaporare di nuovo quelle labbra. Nella mia mente si alzò la bandiera rossa, ma non me ne importava. Avrei fatto qualsiasi cosa perché continuasse a guardarmi così per sempre. «In realtà» disse lei. «Avrei un’altra idea.» A DUE ISOLATI DI DISTANZA, raggiungemmo un posto che poteva tranquillamente definirsi come territorio di una banda. Avevo sentito delle voci sul quartiere a sud della città, ma non ci avevo creduto. Pensavo che fossero leggende metropolitane inventate dalle ragazze durante i pigiama-party. Ero andato in giro con gli amici per le strade principali di quella zona almeno un centinaio di volte. Avevo preso da mangiare ai fast-food e cenato nei ristoranti insieme ai miei genitori. Non avrei mai creduto che, oltre i colori brillanti e l’architettura curata del quartiere centrale, ci fossero delle case piccole e incastrate fra loro e i cavalcavia dell’autostrada ricoperti di murales. Sulle scale d’ingresso Isaiah stava ridendo con due ragazzi sudamericani, poi fece un cenno verso la mia jeep, parcheggiata dietro la sua Mustang. Smisero di ridere. Pienamente d’accordo. Non c’era un briciolo di comicità in quello scenario. «Questo posto non è sicuro.» «Sono i miei amici» disse Beth. «Scott mi ha portato via prima di poter dir loro addio. Puoi restare in macchina. Dammi solo venti minuti, massimo mezz’ora. E poi usciamo. Te lo giuro.» Col cavolo che l’avrei lasciata andare lì dentro da sola. Mi ero reso subito conto che non ci si poteva fidare dei vicini e dei ragazzi sul portico. «Non posso proteggerti qui.» «Non te l’ho chiesto. Hai detto che avresti aspettato…» La interruppi: «…quando hai detto che volevi fermarti a salutare un paio di amici. Quel ragazzo indossa il simbolo di una banda». Lei diede un colpetto con la nuca allo schienale. «Ryan. Molto probabilmente non li rivedrò mai più. Puoi, per favore, lasciarmi dire addio?» Quelle parole, non li rivedrò mai più e addio, furono l’unico motivo per cui accettai. «Allora vengo con te.» «Va bene.» Saltò giù e la seguii. Poteva anche continuare a illudersi se lo voleva, ma non era più al sicuro di quanto lo fossi io, e mi sarei battuto fino alla fine perché nessuno le facesse del male. Raggiungemmo le scale all’ingresso e notai che Isaiah era sparito. Era troppo sperare che se ne fosse andato? L’interno della casa era più piccolo di quanto mi aspettassi, e mi aspettavo uno spazio molto stretto. La cucina e il soggiorno erano un’unica stanza, unita e distinta dall’arredo. C’erano ragazzi seduti dappertutto… sui mobili, a terra. Altri se ne stavano appoggiati alle pareti. La camera era piena di fumo. Fumo di sigarette, e anche di altra roba. Attirai l’attenzione praticamente di tutti, ma ognuno continuò la propria conversazione. I ragazzi mi squadrarono. Gli sguardi delle ragazze andarono al mio petto. Alcune guardarono direttamente più in basso. Beth mi prese la mano, poi mi accarezzò la guancia con le dita delicate, spingendomi a chinare la testa verso la sua.

«Resta vicino a me» sussurrò. «Non parlare e non fissare. In cortile andrà meglio.» Per giorni avevo sognato che Beth mi stesse di nuovo vicino in quel modo, ma al momento riuscivo a concentrarmi solo sulle varie occhiate fisse su ogni nostro movimento. Beth si voltò, stringendomi più forte la mano, e mi condusse oltre il soggiorno, fuori dalla porta della cucina. Parecchie luci di Natale erano appese agli alberi disseminati nel cortile sul retro. Nell’angolo più lontano cresceva un po’ di erba. Il resto era un miscuglio di terra ed erbacce. In mezzo al cerchio in cui erano disposte alcune logore sedie da giardino, Isaiah stava parlando con Noah, una ragazza dai capelli rossi rannicchiata accanto a Noah e uno dei sudamericani delle scale. Noah si allontanò dagli altri quando vide Beth. Lei mi lasciò e si gettò fra le sue braccia aperte. Si sussurrarono a vicenda qualcosa. Non mi piaceva il modo in cui la stringeva, né tantomeno la durata di quell’abbraccio. Non mi sembrava per niente amore fraterno. Guardai la sua ragazza. Come diavolo faceva a essere così felice di vedere il suo uomo che abbracciava un’altra donna? Quando la lasciò andare, Noah mi tese la mano. «Come butta?» Replicai stringendogliela con forza. «Tutto bene. Tu?» Non appena serrai la presa, Noah sorrise e fece altrettanto. «Rilassati, fratello. Beth dice che sei a posto, quindi sei a posto anche per noi.» Beth abbracciò il ragazzo sudamericano e rise quando le rispose allegramente in spagnolo. «Lui è Rico» disse Noah. «Tranquillo. Hai le spalle coperte.» «È per Beth che sono preoccupato. Non dovrebbe stare qui.» Noah abbandonò l’atteggiamento sereno. «No, infatti.» Beth si guardò alle spalle e mi rivolse quel sorriso gioioso… quello che le avevo visto fare pochissime volte. «Ha un nastro al polso?» chiese Noah, palesemente stupito. Fiero di me, risposi: «Gliel’ho regalato io». «Magnifico…» borbottò lui, lanciando un’occhiata a Isaiah. «Non restate troppo.» Noah tornò verso il gruppo e si trascinò dietro la sua ragazza su un’amaca legata a due pali fissati nel terreno. L’amaca dondolò dolcemente quando si sdraiarono. Appoggiato a un gomito, Noah la guardò. «Echo, lui è Ryan. Ryan, lei è la mia ragazza.» Messaggio ricevuto. Se avessi dato fastidio alla sua ragazza, lui avrebbe dato fastidio a me. «Piacere di conoscerti.» Echo si tirò a sedere, ma Noah le passò un braccio attorno ai fianchi e la trascinò di nuovo giù. «Beth ha portato un ragazzo che conosce le buone maniere.» Echo lo prese in giro. «Vedi, non è così difficile.» Lui le scansò i capelli dalla spalla, poi le percorse il braccio con un dito. «Anch’io conosco le buone maniere, piccoletta.» «No.» Gli diede uno schiaffetto sulla mano e rise. «Per niente.» Mi venne la nausea quando mi accorsi delle cicatrici sulle braccia di Echo. Mi passai una mano sulla faccia. Che diavolo le era successo? Noah continuò a stuzzicarla e lei continuò a ridere, eppure quando si rivolse a me lo fece in tono minaccioso. «Continua a guardare, Ryan, e ti spezzo le ossa.» «Noah» lo ammonì Echo. «No.» Beth tornò da me. «Che ti avevo detto a proposito di fissare la gente?»

«Ti chiedo scusa» dissi direttamente a Echo. Lei sorrise. «Vedi? Le buone maniere.» «Andiamo» disse Beth. «Prendiamoci una birra, prima di dare a tutti un motivo per prenderti a calci.»

Beth

Avevo nostalgia di una bella risata. La maggior parte del tempo riuscivo a trovare qualcosa di divertente per accennare un sorriso. A volte arrivavo a ridacchiare per qualcosa di buffo. Ma mi mancavano le risate. Quelle vere. Ridere fino a che non facevano male lo stomaco e il petto, e i muscoli della faccia non ne potevano più di reggere il sorriso. Per ottenere l’effetto giusto, Rico si era messo in piedi in mezzo al cerchio delle sedie da giardino, e stava ricostruendo al rallentatore come avevamo fatto l’estate prima Isaiah e io a impedirgli di essere arrestato in quanto minorenne ubriaco, distraendo un paio di poliziotti con un orribile numero di mimica. «Ero nascosto in un cespuglio e se i poliziotti avessero fatto un passo indietro, mi avrebbero calpestato. Beth era in piedi proprio lì» riuscì a dire Rico fra le risate. «Con l’avambraccio rigido fino alla spalla e il braccio che dondolava avanti e indietro come un pendolo. Lo sbirro le ha chiesto se avesse bisogno di un medico. Pensava che avesse le convulsioni.» Scoppiammo tutti a ridere, me compresa. Rico cercò di contenersi per sputar fuori il resto. «E lei ha interrotto il silenzio stampa e ha detto: “Sono un mimo, idiota. Perché pensi che stia facendo questi movimenti da ritardata?”» Risero tutti più forte e, mentre riprendevamo fiato, Rico gettò un’occhiata a Ryan. «Incluso el niño blanco se esta riendo.» Non ero ferrata in spagnolo, ma ne sapevo abbastanza per cogliere le parole ragazzo bianco e ridendo. Ebbi un fremito al cuore quando vidi Ryan, che stava ancora ridacchiando. Era sempre carino, ma quando rideva, mi toglieva il fiato. Rico si portò la birra alle labbra, poi la gettò nel giardino. «Io ho chiuso.» Isaiah ribaltò il frigo portatile. «Abbiamo chiuso tutti, amico.» «Isaiah, dammi una mano a fregare qualche schifezza di Antonio, poi ci facciamo un po’ di mota.» Mota. Erba. Ne sentii il desiderio sottopelle. Volevo un tiro. Sarebbe stato più corretto dire che desideravo pazzamente un tiro… l’odore tutto intorno, il fumo che mi bruciava i polmoni, la sensazione di libertà, di volare via. Oddio, quanta voglia avevo di volare via. Isaiah si alzò e Rico mi diede un calcetto al piede passando. «Sei dei nostri, giusto, Beth?» Per quanto mi uccidesse, scossi la testa. «Coprifuoco.» Gettai un’occhiata a Ryan. Sapeva che cosa significava mota? Il sorriso mi scivolò via dalle labbra ripensando alle storie che avevamo raccontato. Oh, maledizione. Mi venne da vomitare. L’alcol. Le droghe. Le feste. Aveva sentito tutto. Mi si rivoltò lo stomaco. Sapeva chi ero. «Beth» disse Isaiah. Aspettò che lo guardassi. «È roba leggera. Sarai lucida per il coprifuoco.» «Isaiah» lo ammonì Noah. Isaiah non mi avrebbe mai dato un consiglio sbagliato. Se diceva che in un’ora sarei tornata in me,

così sarebbe stato. Sapeva quanto volessi sbarazzarmi di ogni vincolo. Sentii un forte rumore provenire dalla casa. Io conoscevo quella gente, Ryan no. Non potevo lasciarlo indifeso. «No, sto bene così.» «Come vuoi.» Rico si avviò dentro. Isaiah invece si fermò a guardarmi, però non riuscii a capire il bagliore nel suo sguardo. All’improvviso, seguì Rico. Sull’amaca, Noah ed Echo avevano cominciato a baciarsi. Si sarebbero persi nel loro mondo per il resto della notte, e Isaiah molto probabilmente si sarebbe sballato di lì a dieci minuti. La serata era stata divertente, ma mi aveva anche coinvolta in una specie di tiro alla fune invisibile. Ryan si era seduto accanto a me. Isaiah dall’altro lato. Era stato strano trovarsi fra il mio migliore amico e il ragazzo che mi piaceva davvero. Perché Isaiah non riusciva a capire che eravamo solo amici? Amici e basta. Dovevo parlargli prima di andare via. Dovevo sistemare quel casino una volta per tutte. Avevo davvero bisogno di sentirgli dire che non credeva a quello che aveva detto, e che sarebbe rimasto comunque mio amico. Ryan si alzò, stiracchiò i muscoli e si avvicinò all’albero dall’altra parte del cortile. Mi guardai alle spalle, verso la casa. Avevo fatto attenzione a non sbattere la presenza di Ryan in faccia a Isaiah, ma dovevo assicurarmi che anche Ryan stesse bene. Sì, Isaiah sarebbe rimasto con la testa fra le nuvole per un po’. Rico era lento a sballarsi. Raggiunsi Ryan. «Non devi spostarti per fare un piacere a Echo e Noah.» C’erano centinaia di luci di Natale appese all’albero. La sua pelle dorata era meravigliosa sotto quel riverbero. «Non mi sono spostato per loro.» Inarcai un sopracciglio. «E allora perché l’hai fatto?» Ryan inclinò la testa e lasciò scorrere lo sguardo lungo il mio corpo, come se stesse assaporando quel che vedeva. «Sei bellissima quando ridi.» Sentii le guance in fiamme e abbassai lo sguardo. Ryan si sporse ad accarezzarmi. Le dita si soffermarono lungo la linea del collo, e quella carezza a fior di pelle mi incendiò il sangue. «Dovresti ridere di più» sussurrò. Inghiottii. «La vita non mi ha dato molto per cui ridere.» «Potrei cambiare io le cose.» Ryan invase il mio spazio personale, tanto che i nostri corpi si sfioravano in ogni punto. Inspirai il profumo delizioso del terreno dopo la pioggia. «Hai un buon profumo» mormorai. La sua mano risalì lungo la spina dorsale, fin nei capelli, dandomi i brividi. «Anche tu. Profumi sempre di rose.» Ridacchiai al pensiero di avere un profumo dolce, e mi morsi il labbro per interrompere quella reazione da ragazzina. «Non me l’aveva mai detto nessuno, prima.» Ryan piegò le labbra in quel sorriso meraviglioso con tanto di fossette, e i brividi arrivarono fino alle dita dei piedi. «Ci sono così tante cose che voglio dirti, Beth, e voglio essere il primo a farlo.» Gli occhi erano velati da un desiderio ardente. Avevo già visto quello sguardo su altri ragazzi, ma con Ryan era diverso. Era un’occhiata più profonda – più significativa – come se mi stesse scrutando dentro. «Ho voglia di baciarti» mormorò. «E tu?» Il cuore prese a battermi forte. Oh, Ryan sapeva decisamente baciare. Avevo passato le notti sveglia

a rievocare le sue labbra sulle mie. I suoi baci erano passionali come lui, possessivi ed esigenti. Ryan mi aveva detto delle cose davvero belle nel fienile, e mi aveva accarezzato nel modo che avevo sempre sognato. Affondai le dita nei suoi capelli folti. «Sì.» Abbassò la testa e chiusi gli occhi. Nell’attesa, si creò un’energia che sfrigolò nell’aria d’autunno. Stavo per baciare Ryan… da lucida. «Vaffanculo, Beth.» Sentii Isaiah sputar fuori le parole dietro di me. Mi voltai e feci appena in tempo a vederlo mentre sfrecciava nel vicolo dal cancello sul retro. Noah si lanciò giù dall’amaca e gli corse dietro. Toccava a me inseguire Isaiah, non a Noah. Feci qualche passo, ma le risate dalla casa mi fermarono. Non potevo lasciare Ryan. «Noah!» «Torna a casa, Beth» disse lui, mentre si avviava verso il vicolo. «A Groveton, e non tornare indietro.» Era il patto che avevamo stretto. Quando ci eravamo abbracciati e scusati a vicenda, Noah mi aveva permesso di farmi restare quella sera se, una volta finita, fossi andata a casa per non tornare più. Non era stato difficile prometterglielo. Di lì a poche settimane, sarei andata via per sempre. «Non posso andarmene con lui in quelle condizioni.» Perché, dopo quella notte, forse non lo avrei più rivisto. «Vattene e basta» fece Noah. «No!» Lo bloccai e mi parai davanti a lui. «È arrabbiato con me. So quanto lo sconvolga vedermi uscire con altri ragazzi, ma Ryan non è uno qualunque. Devo spiegarglielo.» Dovevo spiegare a Isaiah che non era innamorato di me. «Ma non posso inseguirlo e lasciare qui Ryan. Lo sai che succede se uno degli amici di Rico lo vede senza me o te nei paraggi.» Noah si massaggiò gli occhi. Sì, lo sapeva eccome. Ryan non faceva parte della nostra cerchia, ed era un’ottima occasione per una bella rissa. Noah mi fece cenno di andar dietro a Isaiah. «Un quarto d’ora, Beth. Dico davvero. Devi tornare a Groveton e continuare lì la tua vita.» Mi voltai e sussultai nel vedere Ryan in piedi lì vicino, con le mani nascoste nelle tasche. Quegli stessi occhi castani che un attimo prima erano pieni di promesse, ora erano velati dal dispiacere. «Ryan» balbettai. «È il mio migliore amico ed è sconvolto, e…» «Va’ da lui.» Incrociò le braccia al petto. «Ma non prendermi in giro se è lui ciò che vuoi.» «Cosa?» Scossi la testa. Ryan aveva capito male. «Isaiah e io… non funziona in quel senso tra noi.» Non avrei perso tempo lì a litigare con Ryan per uno stupido attacco di gelosia, mentre il mio migliore amico stava soffrendo. Superai Noah e corsi nel vicolo. Dopo pochi passi al buio, mi sentii afferrare da un paio di braccia forti. Inspirai a fondo per poter urlare, ma una voce profonda e familiare mi mise a tacere. «Sei cambiata.» Come per provare quel che diceva, Isaiah mi afferrò il polso e me lo sbatté davanti agli occhi, indicando il nastro di Ryan. «Anche tu. L’Isaiah che conoscevo sarebbe scappato via con me e mamma quando gliel’ho chiesto. Hai lasciato mia madre con Trent, e lui le ha spezzato il polso! È come se non ti conoscessi neppure più. Una volta ti prendevi cura di me!» Il cuore mi rimbombò nelle orecchie quando arretrai. Il lampione collegato a un vecchio palo della luce si spense e si riaccese. A ogni guizzo di luce, il volto di Isaiah fu attraversato da un misto di rabbia e tristezza. «Una volta lasciavi che mi occupassi di te. Adesso hai quella sottospecie di invasato ai tuoi ordini.» La rabbia mi accecò. «Lascia Ryan fuori da questa storia. Sei tu che hai il ciclo peggio di una

ragazza. Prima vuoi scappare via con me. Poi non vuoi aver niente a che fare con me. Poi vuoi scappare dopo il diploma. Poi continui a dirmi che devo tornare a Groveton. Poi mi vieni a dire che mi ami, quando sappiamo entrambi che non è così.» Il cuore mi schizzò fuori dal petto quando sbatté i pugni contro la rete metallica alle sue spalle, facendola vibrare. «Maledizione, Beth!» Isaiah serrò i pugni attorno alla recinzione e si piegò in avanti come sul punto di vomitare. In quattro anni non l’avevo mai visto così travolto dalle emozioni. Mi tremavano le mani per l’adrenalina. «Non capisco.» Isaiah imprecò a bassa voce. «Sono innamorato di te.» I muscoli mi si paralizzarono. L’aveva detto… di nuovo. «Non è vero.» Isaiah si voltò di scatto e mi incorniciò il viso fra le mani. Chinò il capo e avvicinò il viso al mio. «È da quando avevo quindici anni che sono innamorato di te. Non sono stato abbastanza uomo da dirtelo, e poi è arrivato Luke. Eri così a pezzi quando ti ha usata che ho giurato di proteggerti fino a quando non fossi stata in grado di ascoltare quello che dovevo dirti. Sono innamorato di te.» I polmoni mi si serrarono in una morsa. Oddio, non riuscivo a respirare. Qualcuno doveva aiutarmi a respirare. «Tu sei il mio migliore amico.» «E tu sei la mia. Ma voglio di più, e ti sto supplicando di darmi di più.» La gola mi si gonfiò lentamente e la voce si fece rauca. «Ma sei il mio migliore amico.» Le sue dita si mossero dolcemente sulla mia guancia. «Vuoi andartene, verrò con te. Ti porto via adesso. Saltiamo in macchina, troviamo tua madre e non ci guardiamo più indietro. Facciamo a modo tuo, non mio. Qualsiasi cosa tu voglia. Qualsiasi cosa desideri. Basta che pronunci quelle parole. Dille, ti prego.» Lo amavo. Quelle parole. Gli appoggiai la mano sul petto. Il cuore batteva allo stesso ritmo regolare da cui avevo imparato a dipendere. Isaiah era la mia roccia. La corda che mi teneva salda quando ero sul punto di crollare. Era l’ancora che mi impediva di volare via quando mi spingevo troppo oltre. Il suo cuore era il ritmo costante della mia vita e non volevo perderlo. «Ti amo.» Isaiah abbassò il mento sul petto, e cercai di raccogliere il fiato mentre si schiariva la gola. «Devi sentirlo sul serio.» Cercai fisicamente di scrollare le lacrime dagli occhi, ma con lui che mi teneva il viso, era impossibile. Per settimane non ci eravamo rivolti la parola, ma nel profondo del mio animo sapevo che sarebbe stata una separazione solo temporanea. Adesso era tutto troppo reale, e quello poteva davvero essere un addio. Non potevo perderlo. Non potevo. «È quello che sento. Ti amo.» Come amico. Il mio migliore amico. Prima di Groveton, non avevo mai capito l’amore e ora… ancora non lo capivo. Ma sapevo che non era un senso di vuoto, né permettere a un ragazzo di usarmi, sapevo che esistevano diversi tipi di amore e quello che sentivo per Isaiah… non era la stessa emozione che provavo per Ryan. Isaiah appoggiò la fronte alla mia. «Quanto lui. Dimmi che mi ami quanto ami lui.» Ryan. Ero innamorata di lui? Il pensiero mi mandò nel panico. Mi bastò sentirlo nominare, che il cuore fece una capriola. Amavo il modo in cui Ryan mi faceva sentire. Amavo le sue parole. Le sue mani sul mio corpo. Il modo in cui riusciva a farmi arrossire con uno sguardo. Eppure avrei dovuto lasciarlo presto per proteggere mia madre. Se avessi detto le parole giuste,

Isaiah sarebbe venuto con me. «Isaiah, io…» Una volta mi ero chiesta se mi stessi innamorando di Isaiah. Echo lo aveva abbracciato e lui aveva ricambiato allegramente. Il dolore e la gelosia che mi erano esplosi dentro avevano sorpreso perfino me. Ma non mi stavo innamorando di lui. Avevo paura di Echo. Dei cambiamenti che stava portando nelle nostre vite. Cambiamenti che si sarebbero verificati anche se lei non fosse mai esistita. Lo guardai negli occhi grigi. Isaiah si sbagliava… non mi amava. Non nel modo in cui credeva. La verità era proprio lì, nei suoi occhi. Non mi guardava come Noah guardava Echo, o come Chris guardava Lacy. Non mi guardava come faceva Ryan… «Ti amo…» Amavo la sicurezza di Isaiah e la sua calma. Amavo la sua voce e la sua risata. La sua presenza ferma e costante. Ma se quel giorno ci fosse stata la fine del mondo, non sarebbe stata lui la persona che avrei voluto accanto. Lo amavo. Lo amavo così tanto da riconoscere che meritava una ragazza che si sciogliesse sotto le sue carezze. Meritava una ragazza a cui si fermasse il cuore ogni volta che la guardava. Meritava una ragazza che fosse innamorata di lui. «…come amico. Proprio come tu ami me.» Isaiah scosse la testa, come se con quel gesto potesse provare che le mie parole erano meno vere. «Ti sbagli.» Premette le labbra sulla mia fronte. Mi tremò il labbro, e strinsi nel pugno la stoffa della sua maglietta. Lo stavo perdendo. Stavo perdendo il mio migliore amico. «No» dissi. «E un giorno lo capirai.» «Se dovessi cambiare idea…» C’era tanta tristezza nella sua voce, e una parte di me si sentì morire al pensiero che stesse soffrendo tanto. Mi baciò la fronte ancora una volta, soffermandosi un attimo in più, premendo meno forte. Isaiah si allontanò da me e sparì nel buio della notte. «Non lo farò» sussurrai, chiudendo gli occhi e sperando che un giorno sarebbe stato lui a cambiare idea.

Beth mi aveva chiesto tempo. Quanto le serviva? Un giorno? Una settimana? Delle ore? Era comunque troppo, quando la ragazza di cui mi stavo innamorando aveva le lacrime agli occhi. Sempre troppo, quando mi domandavo se ci teneva a me. Non l’avrei vista fino a martedì. L’indomani sarebbe stata giornata di colloqui genitori-insegnanti. Era domenica, e i miei genitori avevano dato un barbecue per il sindaco, il Consiglio Comunale e un paio di amici di famiglia. Ero vestito bene e recitavo la parte del ragazzo perfetto. Perfetto. Lacy mi aveva definito così quando mi aveva spiegato perché non si sarebbe mai ambientata a Groveton. Perfetto. Quello che mi aveva ringhiato contro Beth quando si era rifiutata di fare il salto della fiducia. Perfetto. La parola che aveva appena usato Gwen per dire quanto voleva che scendessimo in campo insieme per il ballo d’autunno. Perfetto. Guardando in giro nel cortile sul retro, non vedevo altro che una perfezione stucchevole. L’erba falciata perfettamente a cinque centimetri, le aiuole tagliate perfettamente a forma di palle da baseball. I vasi di crisantemi allineati lungo i lati del cortile, disposti perfettamente a trenta centimetri l’uno dall’altro. La gente perfetta che cresceva in quella città e seguiva alla perfezione le orme dei genitori. Dall’altra parte del tavolo, mia madre inclinò il capo in direzione di Gwen. Colsi il suggerimento silenzioso e dirottai l’attenzione sulla mia “compagna della serata”. Gwen mi rivolse un sorriso che fu l’ennesima cosa perfetta in quel cortile. «Non sarebbe stupendo, Ryan?» No, scendere in campo con lei al braccio al ballo d’autunno non sarebbe stato affatto stupendo. Volevo condividere quel momento con Beth. «Non sono sicuro che spetti a noi scegliere con chi entrare.» Gwen ignorò il mio commento. «Puoi versarmi ancora un po’ d’acqua?» Presi la brocca davanti a me e feci come aveva chiesto. Quello era un impegno che avevo con i miei genitori. Era compito mio riempire il bicchiere di Gwen quando era vuoto, sparecchiare per lei a fine cena, e tenerle compagnia. Provai un déjà-vu, e mi girò la testa quando capii. Era proprio così che Gwen e io avevamo iniziato a uscire insieme. La madre di Gwen prese un sorso di vino. Sembrava più tesa dell’autunno precedente. «Dobbiamo prendere una decisione riguardo ad Allison Risk e il comitato per l’organizzazione degli eventi in parrocchia.» Mamma si toccò nervosamente la collana di perle. Odiava prendere decisioni scomode. «Allison è

una ragazza dolce.» «Sei favorevole a farla entrare nel comitato, Miriam?» chiese la madre di Gwen. In modo del tutto insolito, mamma si versò del vino nel bicchiere di acqua vuoto. «Non lo so. I Risk erano persone terribili. Ricordate i genitori di Scott? Il padre era uno squallido ubriacone, e lei non era molto meglio.» «Ma Scott non è come i suoi genitori» dissi, e tutti al tavolo mi guardarono. Mamma mi scoccò un’occhiata minacciosa, ma papà le mise una mano sul braccio per non farla intervenire. Mamma scansò il braccio. Continuai: «È diventato il miglior giocatore di baseball che gli Yankees abbiano visto negli ultimi vent’anni. Perché sua moglie dovrebbe essere punita per gli errori dei suoceri?» Papà strinse gli occhi all’ultima frase. Il suo modo per segnalare che mi ero spinto un po’ troppo oltre. «Devo essere onesta» disse la madre di Gwen. «Sono affezionata ad Allison, ma è la nipote che mi preoccupa.» «Come mai?» domandò mamma, mentre i muscoli mi si contraevano. «Hai saputo qualcosa su di lei?» «Ho sentito dire che fuma, che ha mancato di rispetto a una professoressa, e che dice molte parolacce. Cose che non possiamo assolutamente tollerare, ma che includendo Allison nel comitato si rifletterebbero sulla nostra chiesa. È triste, dal momento che Allison è un tesoro e sua nipote è…» La madre di Gwen agitò le dita in aria. «…una selvaggia. È evidente che, diversamente da quanto credevamo, non è andata a stare da Scott dopo l’incidente con suo padre.» Tutt’a un tratto ero in allerta. La gente a quel tavolo sapeva cos’era successo a Beth. Mi sentivo come spaccato in due. Una parte di me voleva difendere Beth, ma l’altra voleva sapere cosa le era successo da bambina. Se avessi parlato, avrei perso l’occasione di scoprire la verità. «Liza» intervenne il padre di Gwen. «Non ammetto che spettegoli su quella ragazzina.» Rossa in viso, la signora Gardner fece un sorriso forzato. «Non sto spettegolando e non è più una ragazzina. Il comitato per l’organizzazione degli eventi parrocchiali è l’aspetto secondario di un problema più serio. Sono preoccupata dell’influenza che può esercitare quella ragazza. Ho paura che saranno tutti così presi da suo zio da non rendersi conto della minaccia che hanno davanti. Vuoi che tua figlia inizi a dire parolacce, a fumare e rispondere agli insegnanti?» «Dubito fortemente che questo possa accadere» replicò il signor Gardner. «Perché no?» ribatté lei. «Le classi dell’ultimo anno l’hanno già votata per la corte del ballo d’autunno, e Ryan esce con lei.» Raggelai. Non era così che volevo che lo scoprissero i miei genitori. «Cosa?» La domanda rapida e seccata di mamma zittì tutti. Il mio sguardo scattò verso Gwen. Pallida e con gli occhi sbarrati, se ne stava immobile sulla sedia e fissava quel che rimaneva del suo cordon bleu di pollo. Sua madre fece ben poco per nascondere la soddisfazione dietro il bicchiere di vino. «Mi dispiace, Miriam, credevo che Ryan te l’avesse detto.» Posò una mano su quella di Gwen. «Mi scuso anche con te, tesoro. Non sapevo che quello che mi avevi raccontato fosse un segreto.» Mamma appoggiò il tovagliolo sul tavolo. «Chi vuole il dessert?» Mi alzai, desideroso di allontanarmi da quell’inferno. «Vado a prenderlo io.» Mamma sprofondò nella sedia, annuendo.

Non mi sarei aspettato che Gwen balzasse in piedi e si offrisse volontaria: «Ti aiuto io». Senza riuscire a guardarla, andai in cucina. Il rumore dei tacchi di Gwen mi fece capire che era dietro di me. «Ryan» disse, non appena ebbe chiuso la porta a orecchie indiscrete. «Ryan, mi dispiace. Non avevo idea che mia madre ti avrebbe umiliato in questo modo. Ma non è colpa mia. Come potevo sapere che avevi deciso di tenere segreta questa cosa con Beth?» «Non l’ho fatto» scattai. Gwen mi sembrava un’estranea in quella cucina. Forse perché non ero abituato alle pareti grigie, o ai ripiani in granito o alle credenze di mogano. O forse perché non avevo mai veramente capito chi fosse, tanto per cominciare. Lei incrociò le braccia al petto, facendo ondeggiare il prendisole rosso. «Era facile crederlo. Insomma, Ryan, andiamo, i tuoi genitori la odieranno… e a ragione.» «Tu non conosci Beth.» Non mi sfuggì l’ironia di quella conversazione. Lacy aveva detto a me le stesse cose. Gwen perse l’aura di perfezione che la circondava e fece una cosa molto atipica… si afflosciò sul ripiano. «So molto più di quanto credi. Scommetto che ne so più di te.» Si interruppe e prese a giocherellare nervosamente con le dita. Che diavolo aveva? Gwen non era mai nervosa. E fu in quel momento che notai il dito nudo. Non c’era più l’anello di Mike. «Ti amo. A dire il vero, ti ho sempre amato.» Gwen fissava il pavimento di piastrelle grigie. «E per qualche stupido motivo, tu tieni a lei. Credo che avessi ragione tu, quella sera in panchina… non ti ho detto chiaramente cosa volevo. Forse il motivo per cui ora non stiamo insieme è perché non mi sono impegnata abbastanza.» Corrugai la fronte. Se avesse detto quelle cose sei mesi prima… scossi la testa. Non avrebbe fatto differenza. I miei sentimenti per Beth erano cento volte più forti di quello che avevo provato per Gwen. «Non avrebbe funzionato fra noi.» Lei si rimise dritta e alzò il mento. «Vedi tutto in maniera confusa. Me. Beth. Ogni cosa. Sai che tu e Beth non vi appartenete, ed è il motivo per cui non hai detto niente ai tuoi genitori. Ma non preoccuparti, Ryan. Ho capito cosa ho sbagliato, e non commetterò gli stessi errori una seconda volta.» Con un movimento leggiadro, Gwen prese la torta dal ripiano e la portò fuori dalla cucina. Inspirai e lasciai andare la testa all’indietro. Non sapevo che diavolo fosse appena successo, ma ogni cellula del mio corpo urlava che era grave e che ci sarebbero state delle pessime conseguenze. NONNA AVEVA LASCIATO A MAMMA il suo orologio a pendolo. Era appeso alla parete dietro di lei. A ogni oscillazione, l’orologio ticchettava. Erano le nove di sera. L’ultimo ospite era andato via un’ora prima. Avrei dovuto chiedermi perché i miei genitori mi avessero convocato lì, soprattutto considerando che erano volontariamente nella stessa stanza. Invece, mi domandavo a cosa stesse pensando Beth. Mamma si sedette di fronte a me dall’altra parte del tavolo della cucina, mentre papà era appoggiato alla porta che dava sulla sala da pranzo. Tanto per cambiare, l’aria era gelida. «La signora Rowe è ancora convinta che parteciperai al concorso di scrittura» esordì papà. Lo guardai. «Ci sto pensando.»

«Non c’è niente a cui pensare. Giocate contro la Eastwick, e quella partita deciderà le posizioni in classifica per il campionato primaverile.» La Eastwick era l’unica squadra che ci aveva battuto durante una partita della stagione regolare, la primavera precedente. «Quel lunedì giochiamo contro la Northside e non li ha battuti nessuno quest’anno. Il coach vorrà che lanci a quella partita.» «Può darsi» disse papà. «Ma potrai comunque giocare un paio di inning lunedì. Avranno bisogno di te per chiudere la partita.» Mamma si tolse la collana di perle. «Ho parlato con la signora Rowe la settimana scorsa. Ha detto che Ryan possiede un talento raro.» «Infatti» rispose papà. «Nel baseball.» «No» ringhiò mamma. «Nella scrittura.» Papà si massaggiò gli occhi. «Spiega a tua madre che non ti interessa scrivere.» «Ryan, dì a tuo padre quello che la signora Rowe ha raccontato a me. Digli quanto ti piace il suo corso.» Avvertii i muscoli delle spalle tendersi per la rabbia. Detestavo i loro litigi continui. Detestavo il fatto di aver dato loro un motivo per litigare ancora di più. Detestavo che dovessero discutere per me. Ma quello che detestavo più di tutto era la sensazione che a prendere le mie decisioni fossero tutti tranne me. «Amo il baseball.» Papà tirò un sospiro di sollievo. «E mi piace scrivere. Voglio partecipare a quel concorso.» Papà imprecò sottovoce e si diresse verso il frigo. Girai la sedia verso di lui. «Non mi hai mai permesso di abbandonare una gara prima, e non mi va di arrendermi. Salterò una sola partita. Un’amichevole, per giunta. Sarebbe diverso se fosse stato il campionato primaverile.» Papà stappò una lattina di birra e ne bevve un sorso. «Che succede se vinci il concorso di scrittura? Mollerai la carriera di lanciatore in una delle migliori squadre dello Stato per un pezzo di carta che ti fa le congratulazioni?» «Voglio sapere se valgo qualcosa.» «Oddio, Ryan. Perché? Che differenza farebbe?» «Mi è stata offerta una borsa di studio all’università… per giocare a baseball.» Papà rimase a fissarmi mentre la lavastoviglie iniziava il risciacquo. «Hai parlato con i talent scout delle università alle mie spalle?» Sì. No. «Uno di loro ha detto delle cose che avevano senso. Ha detto che il loro coach può aiutarmi con i problemi di posizionamento e insegnarmi a rendere imprevedibili i miei lanci. Mi finanzieranno per andare all’università e seguirò lezioni gratuite con il coach. Posso allenarmi con loro per quattro anni e poi tentare con il professionismo.» Quando papà aprì di scatto le braccia, la birra gocciolò fuori dalla lattina. «Che succede se ti infortuni? O se invece di migliorare, perdi la grinta? Sei un lanciatore. Non c’è momento migliore di questo per inseguire il tuo sogno.» «E se…» Lui marciò attraverso la cucina e sbatté la birra sul tavolo davanti a me. «Ti devo ricordare quanti soldi abbiamo investito su di te? Credi che le esercitazioni private con il coach nel corso degli anni

siano state economiche? Credi che l’equipaggiamento, la jeep che ti abbiamo comprato fossero gratis?» Lo stomaco fece male come se avessi ricevuto un pugno. «No, non lo credo. Mi sono offerto di trovarmi un lavoro.» «Non voglio che ti trovi un lavoro, Ryan. Voglio che tu faccia qualcosa del tuo talento. Voglio vederti rendere famoso il nome di famiglia. Voglio essere certo che gli anni che tua madre e io abbiamo sacrificato in denaro, emozioni e tempo non saranno vani.» Mamma intrecciò le mani sul tavolo. «Ha del talento, Andrew. Ti fa rabbia che non voglia quello che vuoi tu. Ti fa rabbia che stia facendo una scelta diversa.» «È il baseball che vuole!» Le nocche di papà si fecero bianche attorno alla spalliera della sedia. «Tu non hai la minima idea di quello che vogliono i membri di questa famiglia.» La voce gli tremò quando rispose: «Che cosa vuoi, Miriam? Cos’è che ti farà finalmente felice? Hai sempre voluto che mi candidassi a sindaco, e ho accettato di farlo. Volevi che ampliassi gli affari e lo sto facendo. Ho fatto tutto il possibile per renderti felice. Dimmi solo quello che vuoi». «Rivoglio la mia famiglia!» urlò mamma. Nei mesi passati, mia madre era stata sarcastica e scortese con mio padre. Ma mai, in diciassette anni, l’avevo sentita gridare. Lo shock scomparve dal viso di papà. «Non puoi avere tutto! Vuoi che i tuoi amici scoprano che tuo figlio è gay? Vuoi che in parrocchia si sappia che tuo figlio è gay?» «Ma potremmo parlare con Mark. Forse se accettasse di tenerlo segreto…» «No!» ruggì papà. Mi appoggiai alla sedia, disgustato da entrambi. Da me stesso. Da quando Mark se n’era andato via, mi ero concentrato solo su quello senza mai ascoltare davvero le parole dei miei genitori. Il che mi fece capire che, probabilmente, non avevo mai dato veramente ascolto nemmeno a mio fratello. Non c’era da stupirsi che se ne fosse andato. Come si poteva vivere circondati da tanto odio? Sentii la nausea invadermi e la testa prese a girarmi. Mark si era convinto che la pensassi come i nostri genitori? Papà sbatté la sedia contro il tavolo, poi si allontanò a passi pesanti. «Mark ha fatto la sua scelta. Volevi parlare con Ryan stasera… parlagli. Vado nel mio ufficio.» Mamma scattò in piedi. «Dovrebbe sentirselo dire da te.» Lui si fermò sulla soglia della porta, e guardò indietro verso di me. «Accetterò la candidatura a sindaco del mio partito in primavera. Tua madre e io non vogliamo che frequenti Beth Risk. Comportati da amico a scuola, ma non possiamo rischiare scandali se è il tipo che attira guai. Mi sono spiegato?» La mia mente fece fatica a elaborare. Papà si candidava a sindaco. Mamma rivoleva Mark a casa. Avevo tradito mio fratello. I miei genitori volevano che rompessi con Beth. «Dicevi che non avresti mai voluto fare il sindaco.» Ma lo voleva mamma. Suo padre era stato sindaco. Anche suo nonno. Era una tradizione che aveva sempre desiderato di veder continuare. Né mamma né papà mi guardarono o si scambiarono occhiate, e nessuno sembrò voler approfondire l’argomento. «Per quanto riguarda Beth…» azzardai. Papà tagliò corto: «Quella ragazza non fa per te». «Dovresti tornare con Gwen» fece mamma. «Suo padre appoggerà tuo padre.»

La sedia ebbe uno scossone quando mi alzai all’improvviso, facendo sobbalzare mamma. Li guardai entrambi, in attesa che almeno uno dei due desse un senso a quello che avevano appena detto. Quando rimasero in silenzio, finalmente capii perché Mark se n’era andato.

Beth

Non avevo una giacca. Mai avuta. Avevo sempre detto a Isaiah e Noah di avere una temperatura corporea alta, anche se in realtà era bassa. In Kentucky, l’autunno faceva schifo. Caldo di giorno, freddo di notte. Quella mattina la rugiada leggera che ricopriva i terreni attorno alla casa di Ryan era penetrata nelle mie scarpe logore, fino ai calzini. Poche cose erano più spiacevoli dei piedi freddi e umidi. Mi fermai di botto. Perdere il mio migliore amico era stato peggio. Lasciai che il dolore mi invadesse, e ripresi a camminare. Un giorno Isaiah avrebbe capito che eravamo solo amici. Un giorno mi avrebbe trovato… anche se mi fossi trasferita vicino alla costa. Un’amicizia come la nostra era troppo forte per finire così. Quel lunedì era riservato ai colloqui genitori-insegnanti, e non riuscivo a pensare a un modo migliore di passare una giornata libera da impegni scolastici se non con Ryan. Veramente, non c’era modo migliore di passare qualsiasi giorno. Mi restava poco tempo da trascorrere insieme a lui, e volevo assaporarne ogni istante. Tump. Sentii per la prima volta quel rumore uscendo dai boschi. Si ripeteva a distanza di pochi secondi. Tump. Invece di andare dritta a casa di Ryan, decisi di seguire quel suono e ne fui felice quando vidi quella bellissima pelle abbronzata e rilucente. Con solo un paio di pantaloni sportivi di nylon addosso, Ryan caricò il tiro e lanciò la palla verso un bersaglio disegnato su un pannello di legno. Tump. La palla centrò il bersaglio proprio in mezzo. «E poi ci si chiede perché i fanatici dello sport passano per stupidi» dissi. Ryan si voltò di scatto con gli occhi spalancati, e continuai: «Ci sono dieci gradi qui fuori, e tu sei senza maglietta». Un venticello freddo soffiò nella radura, facendomi venire la pelle d’oca sulle braccia. Ok, forse non era stata la miglior battuta di approccio, considerando che strofinarmi le braccia sarebbe stato segno di ipocrisia e ironia insieme. Ryan raccolse la maglia da terra e mi raggiunse. Sotto i primi raggi di sole mattutino, i suoi addominali scolpiti risaltavano ancora di più. Il mio cuore ebbe un fremito come un uccellino che si scrollava l’acqua dalle ali. Santo cielo, era bellissimo. Sexy. Una visione. Troppo perfetto per una come me. «Mi sto godendo un po’ di fresco» fece Ryan. Ero così presa dai muscoli del suo petto, che faticai a ricordare cosa gli avevo appena detto. Lui mi rivolse un sorrisetto pieno di sé e, con mia grande mortificazione, arrossii. Perché diavolo arrossivo tanto? Ryan mi accarezzò le guance in fiamme, e il cuore fece un’altra capriola. «Adoro quando lo fai» mormorò. Datti un una calmata, Beth. Non è per questo che sei qui. Negli ultimi due mesi, Ryan era rimasto

un po’ troppo invischiato nei miei casini, e per qualche strano motivo insisteva a considerarmi una principessa. Lui era un principe. Io non ero una principessa, ma potevo dargli una mano con il lieto fine prima di uscire per sempre dalla sua vita. Lui ritirò la mano, ma rimase intollerabilmente vicino… sempre senza maglietta. «Il baseball non ti stanca mai?» chiesi. «No.» Alla fine Ryan si rivestì. «Mi sveglio ogni mattina alle sei, corro per tre chilometri e poi lancio. Non c’è giorno che sembri noioso.» Era una routine che gli si adattava. Alla perfezione. Poi però lo immaginai davanti al suo computer, le dita che scivolavano rapide sulla tastiera, lo sguardo proiettato su un mondo che andava oltre quello in cui viveva. «Scrivi tutte le sere?» Mi passò le dita fra i capelli e, così facendo, le radici vennero allo scoperto. Quel movimento, che normalmente mi dava i brividi lungo la schiena, scatenò un senso di terrore. Strinse gli occhi notando le radici, e sapevo cosa stava guardando: un abbondante paio di centimetri di capelli dorati. Distolse lo sguardo e fu abbastanza bravo a fingere di non aver visto quella anomalia. «Per il racconto da consegnare? Sì, scrivo tutte le sere.» Fece spallucce e guardò a terra. «E forse potrei continuare quando la storia sarà finita. Non so, scriverne un’altra.» Bene. Sarebbe stata l’immagine che avrei portato via con me: Ryan che lanciava di mattina, e perso nelle sue parole così ben scritte di sera. Diedi un calcetto a terra. «Hai progetti per oggi?» «Sì, se includono te.» Cercai di mascherare il sorriso, ma non ci riuscii. «Datti una sistemata e passa a prendermi fra un’ora.» Facendomi venire i brividi, le dita di Ryan sfiorarono il nastro ancora legato al mio polso. «Sissignora.»

«Sei un pappamolla.» Il mio piccolo terremoto dai capelli neri sfogliava rapido l’annuario degli studenti dell’Università del Kentucky. «Riesci a spostare a forza di braccia una macchina nel bel mezzo di una radura, ma non hai il coraggio di andare a trovare il tuo stesso fratello!» «È diverso» mi difesi. Avevo spostato l’auto per una scommessa. Fuori dai dormitori degli atleti, mi misi davanti a Beth mentre cercava il numero della stanza di mio fratello. Indossava una maglietta di cotone che aderiva al corpo minuto e terminava un paio di centimetri al di sopra dei jeans a vita bassa. Con quella pelle vellutata a tentarmi in tutti i posti giusti e allo stesso tempo sconvenienti, avrei scommesso la jeep che quell’abbigliamento non aveva ricevuto il sigillo di approvazione di Scott. Non che la cosa mi dispiacesse, anzi, la adoravo! Il problema era che ogni singolo ragazzo che era entrato e uscito dai dormitori doveva aver pensato la stessa cosa. Beth era la mia ragazza e preferivo essere il solo a guardarla. La mia ragazza. Non era ufficiale – non ancora – ma Beth aveva detto quattro parole decisive salendo sulla jeep quella mattina: «Ho lasciato andare Isaiah». Il che implicava che stava con me e non con lui. Più tardi le avrei chiesto di rendere il nostro un rapporto esclusivo. Beth sbatté il dito sul libro. «Bingo!» Si annotò sulla mano il numero della stanza. «Raddoppio la scommessa e ti sfido a parlare con tuo fratello.» «Ma non sai niente di scommesse?» le chiesi, prima di lanciare un’occhiataccia a un tizio che stava fissando la curva dei fianchi di Beth. «Non puoi rilanciare, se prima non getto la spugna con la sfida iniziale.» Lei inarcò un sopracciglio. «Stiamo davvero parlando di semantica?» Le appoggiai una mano sul fianco, spingendola contro il muro. «Che parolone, Beth. Forse dovresti spiegarmi cosa significa.» Un sorrisetto malizioso le sfiorò le labbra, e nei suoi occhi comparve puro desiderio, ma invece di struggersi per me come facevo io per lei, Beth mi spinse via e si infilò sotto il mio braccio per sfuggirmi. Un ragazzo uscì dall’edificio e lei afferrò la porta prima che potesse richiudersi dietro di lui. «Significa che sei un idiota se pensi di riuscire a raggirarmi con le tue belle parole.» Mi fece cenno di varcare l’ingresso e le obbedii. «Non sarebbero state belle parole. Baci, piuttosto. Hai idea di quanto tempo è che non ci baciamo?» «Se parli con tuo fratello, ci baceremo. Molto.» «Che ne dici se saltiamo questa parte e passiamo direttamente ai baci?» Lei mi ignorò e si mise a studiare la grossa piantina della disposizione del dormitorio sulla parete. «Ti sfido ufficialmente a parlare con tuo fratello.» Incrociai le braccia al petto e raddrizzai la schiena. Beth aveva lanciato ufficialmente il guanto di sfida. «D’accordo. Che ci guadagno se vinco?» I capelli corvini le scivolarono lungo la schiena come una cascata mentre inclinava la testa verso di

me. Un lampo di sensualità le comparve nello sguardo. «Tu cosa vuoi?» Te. Ma non mi concessi di dirlo a voce alta. «Voglio passare il resto della giornata con te. Niente cellulare. Niente amici. Nient’altro che te e me.» «Affare fatto.» BETH USÒ LE SUE DOTI di manipolatrice per superare il custode all’ingresso del piano di Mark. Lo avrei considerato un cretino, ma anch’io mi ero lasciato incantare da lei, e avevo guidato fino a Lexington. Con mio profondo orrore, Beth bussò alla porta di mio fratello senza nemmeno chiedermi se fossi pronto. Qualsiasi speranza che potesse essere a lezione sparì quando la maniglia tremolò e sulla soglia comparve la sagoma ampia e incombente di Mark. Beth gli rivolse un sorriso malizioso. «Come butta, Mark? Com’è andata la partita contro la Florida?» Lui sorrise incerto, guardando prima me e poi Beth. «Ho placcato due volte il quarterback. Non li guardi i notiziari sportivi?» Lei fece spallucce. «No. Sto facendo finta che il rugby mi interessi solo per rompere il ghiaccio. Mi trovate all’ingresso.» Beth si allontanò con la stessa nonchalance con cui eravamo arrivati. Continuai a guardare fin quando si chiuse anche la porta in fondo al corridoio. Dopo avermi trascinato lì, non avrei mai creduto che mi avrebbe lasciato ad affrontare questa cosa da solo. Mark fece un passo indietro rispetto alla porta e cercò di mostrarsi allegro. «Vuoi entrare?» «Sì.» Imitai il suo tono. Mark e io non avevamo mai finto prima di quest’estate. La camera di Mark era la stessa dell’anno prima. Doveva avere lo stesso compagno di stanza, a giudicare dai poster di Star Wars appesi alla parete. «Dov’è Greg?» «A lezione. Ti va qualcosa da bere?» Aprì un piccolo frigorifero. «Gatorade, acqua?» Avevo la bocca più arida di un deserto, ma non volevo tirarla per le lunghe. «Mi dispiace.» Mark chiuse il frigorifero e si sedette sul letto in fondo. Il suo sorriso forzato svanì, e io infilai le mani in tasca. Mettere un cerotto sulla ferita aveva solo peggiorato le cose per entrambi. Volevo che il nostro rapporto tornasse di nuovo forte. Mark era stato il primo con cui mi ero confidato quando avevo lanciato una no-hitter, quando avevo giocato nella prima squadra famosa, e quando avevo baciato una ragazza. Adesso non sapevo nemmeno come continuare il discorso. «Come stanno mamma e papà?» chiese lui. Come stavano mamma e papà. A quello potevo rispondere. Mi sedetti su un divano a due posti vicino ai letti. «Tutto ok. Papà è indaffarato. Sta espandendo l’azienda edile e vuole candidarsi a sindaco.» «Wow.» «Già.» Wow. «E mamma?» «È tutta presa dai suoi circoli sociali ed eventi vari come al solito. Pranzi. Cene. Tè.» Mi fermai, indeciso se fosse il caso di dire quello che stavo per dire. «Le manchi.» Lui si piegò in avanti e tenne le mani unite fra le ginocchia piegate. «Papà mi nomina mai?» Era difficile guardare in faccia Mark, con quel barlume di speranza sul viso. Se avessi semplicemente risposto di sì, avrei creato false aspettative, oppure avrei potuto dirgli la verità. Non volevo dargli nessuna di quelle risposte. «Hai mai desiderato di fare qualcosa che non fosse il rugby?»

Mark si grattò la mascella con le nocche, prima di prendere un libro dal letto e lanciarmelo. Lo presi al volo. «Percorsi didattici per Educazione Fisica alle superiori?» «Sono uno specializzando in pedagogia.» «Da quando?» «Da…» Mark tamburellò una volta le dita incrociate. «Sempre.» Fingendomi interessato alle pagine, mi misi a sfogliare il libro. «Credevo che fossi iscritto a un corso propedeutico a medicina.» «Era quello in cui papà voleva che prendessi la specializzazione. Per lui l’università era solo un altro passo verso il campionato nazionale di rugby. Il corso era in caso mi facessi male. Mamma voleva che uno di noi facesse il medico. Quello era il sistema che aveva trovato papà per renderla felice.» La scrivania di Mark era organizzata proprio come l’anno prima: laptop, dock per l’iPod. Dopo la sua prima partita di rugby all’università, mamma aveva chiesto a qualcuno di farci una foto sul campo. La fotografia era attaccata al muro con lo scotch accanto all’orario degli allenamenti. Alcune cose non erano cambiate. Altre sì. «Tu odi il rugby?» «No. Lo amo e voglio giocare. A dirla tutta, voglio insegnare il rugby al liceo. Papà lo sapeva. Non era d’accordo, ma lo sapeva. Credevo che stando al gioco, facendo finta che…» Si ammutolì. Ci ero andato io lì. Avevo tirato io in ballo il discorso. Potevo essere io a finire per lui la frase. «Ti avrebbero accettato per come sei.» Mark annuì. «Già.» Restammo seduti in silenzio. Lo stomaco si attorcigliò su se stesso come se fossi su una barca sul punto di capovolgersi. La mia vita era perfetta e ne amavo ogni istante. Le due paroline di Mark “sono gay” avevano stravolto tutto il mio mondo. Forse avevo capito perché era andato via. O forse no. In entrambi i casi provavo ancora rancore, e se dovevo affrontare quella questione, meglio farlo fino in fondo. «Mi hai abbandonato.» «Cosa volevi che facessi?» Aveva la voce intrisa di risentimento. «Non posso cambiare quello che sono.» Avevo bisogno di muovermi, di colpire qualcosa, di lanciare qualcosa… invece mi alzai in piedi. «Che non te ne andassi. Avevi detto che prima fingevi. Non potevi continuare? O avresti potuto restare e combattere e, non lo so, convincere mamma e papà a lasciarti restare.» Mark rimase a guardare con calma mentre facevo avanti e indietro nella piccola stanza. Si schiarì la voce. «Un giorno ti accorgerai di quanto i nostri genitori abbiano controllato e manipolato le nostre vite. Capirai che ci hanno fatto credere che i loro sogni fossero i nostri. Hanno pilotato ogni nostro respiro. Pensaci… hai idea di chi sei senza di loro?» Mamma mi aveva fatto sedere accanto a Gwen la sera prima, e mi aveva chiesto specificamente di occuparmi di ogni sua esigenza nell’arco della serata. Proprio come quando mi aveva chiesto di prendermi cura di Gwen a quindici anni. Dopo quella prima cena, mi aveva incoraggiato a chiederle di uscire e io l’avevo fatto. Ma il baseball era una mia scelta. Da sempre. Papà ne capiva. Per quello aveva gestito tutto ciò che aveva a che fare con la mia carriera nel baseball: i coach, il campionato. Che diavolo, affrontava perfino a muso duro gli arbitri. E faceva tutto per me.

Giusto? Le preoccupazioni di mamma e papà, le loro pressioni, lo facevano per amore nei miei riguardi. Però mi avevano detto chiaro e tondo di smettere di uscire con Beth, senza tener conto dei miei sentimenti per lei, e non si aspettavano altro che obbedienza. «Mi farai un buco nel tappeto» fece Mark. No, Mark aveva torto. Doveva aver torto. «Sono un buon giocatore di baseball.» Lo ero. Il migliore. «È vero. Papà in questo si è mosso bene. Non ci ha spinto a fare uno sport in cui non avessimo talento. Si è preso il suo tempo e ha trovato quello in cui ciascuno di noi riusciva a eccellere. La domanda è… per chi giochi, Ry? Per te o per papà?» Mi immobilizzai fra la porta e i letti. «E questo che significa?» «Papà vuole la perfezione. Anzi, scusa, papà vuole la perfezione esteriore, perché tutti possano vederla. Anche mamma. Non gliene frega niente se dentro stiamo male, basta che il resto del mondo continui a invidiarci.» Tutti a Groveton erano convinti che il matrimonio di mamma e papà fosse perfetto. La reginetta del ballo aveva sposato il miglior quarterback. A porte chiuse, mamma e papà si odiavano. Credevo che si fossero rassegnati. Ora… «Ho imparato molte cose giocando a rugby all’università» disse Mark. «Quello che fai al liceo non significa un accidente. Puoi essere il miglior giocatore del tuo liceo. Il migliore del paese o dello Stato, ma quando arrivi all’università, ti confronti con altri cinquanta ragazzi che vantano gli stessi titoli. Incontri ragazzi migliori di te, più forti di te, più veloci di te, e ti trovi contro squadre migliori. Il mondo cambia una volta fuori da Groveton.» Una volta fuori da Groveton. Dovevo prenderne di decisioni, prima che accadesse: il professionismo, l’università, il concorso di scrittura, la borsa di studio. «Perché mi stai dicendo questo?» «Avrei voluto che qualcuno l’avesse detto a me, ma ho dovuto scoprirlo da solo. Tu non sei solo, Ry.» «Sì, invece.» E mi bruciavano gli occhi. Li chiusi in fretta e inspirai. Lui se n’era andato. Il matrimonio di mamma e papà stava crollando, e tutto quello che avevo sempre saputo e amato si stava polverizzando. «Non ti ho mai abbandonato.» «Ma non sei venuto a casa. Non hai mai risposto ai miei messaggi.» La voce che mi usciva di bocca non sembrava nemmeno la mia. Era affaticata. Tesa. Sul punto di spezzarsi. «Mi dispiace, ma devi capire… finché non saranno mamma e papà a fare un gesto nei miei confronti, non posso tornare indietro. Lo ammetto, loro li ho lasciati. Ma adesso lo capisco. Avrei dovuto fare di meglio con te. Avrei dovuto chiamarti. Venire a trovarti. Ho fatto un casino, ma te lo giuro, non ti ho mai abbandonato.» Mi tolsi il cappello di testa e mi passai la mano fra i capelli. Non mi aveva mai abbandonato. Beth aveva ragione… lo avevo abbandonato io. Mi si strinse la gola. «Mi sei mancato.» Scossi la testa, cercando un modo per continuare. «Che tu sia gay non è mai stato un problema per me, ma non sopportavo il fatto… che te ne fossi andato.» «Già.» La sua voce si fece rauca. «Lo so. Va tutto bene, Ry. Io e te siamo a posto.»

Si alzò in piedi e quel gesto mi colse di sorpresa. Eravamo Stone, e gli uomini Stone non si toccavano, ma non appena mi appoggiò la mano sul braccio, un tentativo esitante, lo accolsi e gli permisi di stringermi a sé. Per un breve istante ci abbracciammo forte l’un l’altro. Socchiusi gli occhi per combattere le lacrime, e quando ci staccammo, ci spostammo verso i due lati opposti della stanza. «Allora.» Mark si schiarì la gola e batté le mani, unendole. «Raccontami di Beth.»

Beth

Avevo fatto una cosa buona. Io, Beth Risk, avevo compiuto una buona azione. Roba da entrare nei fottuti boyscout, avrei vinto una medaglia al torneo “Fai Riappacificare Il Tuo Quasi Ragazzo Fissato con lo Sport con Suo Fratello Gay Fissato con lo Sport”. Se non facevano cose del genere, avrebbero dovuto. Fra vent’anni Ryan si sarebbe guardato indietro e non avrebbe ricordato niente della ragazza che lo aveva lasciato nel cuore della notte. No, avrebbe ricordato quella che gli aveva restituito suo fratello. Alzai lo sguardo verso le nuvole grigie che si spostavano in cielo. Ryan e io eravamo sdraiati sulle sponde di un laghetto al confine con la proprietà di suo padre. Proprio come tutto ciò che riguardava Ryan, quel posto era perfetto. Quella giornata era perfetta. Appoggiandosi a un gomito, mi passò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e un brivido mi accarezzò la pelle del collo. Mi sarei divertita quel giorno. Avrei riso. Avrei sorriso. Avrei lasciato cadere le catene che mi tenevano ancorata giù. Ryan era un ragazzo splendido e, per qualche strano motivo, era davvero preso da me. O meglio, dall’immagine che aveva creato di me. «Sei bellissima» mormorò. «Anche tu.» Lo era sul serio. Allungai la mano e gli sfilai il berretto che portava al contrario. Era sexy con quell’affare addosso. Senza, era favoloso. La zazzera di capelli biondo miele si lasciò arruffare dal vento. Quando lasciai andare il cappello, Ryan mi strinse la mano nella sua, ben più forte. Forte era un eufemismo. La velocità che quella mano riusciva a imprimere a una palla superava di gran lunga quella raggiunta da parecchie auto. Il contatto con la sua pelle accese zone molto intime del mio corpo. «Allora…» fece Ryan, guardando altrove nel tentativo di sembrare indifferente. Sapevo che cosa lo tormentava. Sulla via del ritorno da Lexington, mi aveva fatto leggere il resto del suo racconto sullo zombie. Essere ancora in attesa del mio parere lo stava facendo impazzire, di sicuro. «Secondo me, George e Olivia finiranno insieme.» Cinque minuti. Non era riuscito ad aspettare più di cinque minuti senza chiedere, una volta fuori dalla jeep. Cercai di non ridere, ma fallii miseramente. Lui se ne accorse e corrugò la fronte. «Che c’è?» Scrollai le spalle. «Sei carino quando sei nervoso.» «Non sono nervoso.» «Mi piace quando fai così.» Mi piaceva tutto di Ryan. «La storia è fantastica. Davvero. Mi prende sempre quando la leggo, ma non sono d’accordo con te. George e Olivia non si metteranno insieme.» «Perché no?» «Vivono in due mondi del tutto diversi, e sono due creature diverse. Voglio dire… lui è uno zombie,

lei no.» «Ma lui l’ama» replicò ostinatamente. «E lei lo ricambia.» «George rinuncerà a diventare il leader dei suoi amici zombie per lei?» gli chiesi. «Andiamo, da come lo hai descritto, vuole quel titolo così tanto che si è perfino messo contro il suo migliore amico. E credi veramente che Olivia abbandonerà la sua famiglia per lui?» «La sua famiglia fa schifo.» Ryan fece un sorrisetto vittorioso. Mi bruciò lo stomaco come se qualcuno lo avesse pugnalato. «Sì, ma è comunque la sua famiglia. Non credo che mi piacerebbe se la abbandonasse. Che persona sarebbe?» «Una che vuole vivere la sua vita.» Su in cielo, delle starnazzanti oche canadesi disposte a forma di V volavano verso sud per l’inverno. Presto avrei fatto lo stesso, ma sarei stata libera come sembravano loro? «Secondo me sarebbe un’egoista. Come può abbandonare suo padre? Lui ha bisogno di lei.» «La usa» disse Ryan. Scrollai di nuovo le spalle, non amavo i discorsi bloccati a un punto morto. Ryan allentò la presa sulla mia mano e cominciò a percorrere con i polpastrelli il nastro legato al polso. Era nervoso, e qualcosa dentro di me mi fece intuire che non aveva niente a che fare con la storia. «Che c’è?» L’ansia crebbe quando continuò a tracciare il bordo del nastro. «Voglio che la nostra sia una storia stabile» disse. «Non mi piace l’idea che tu possa uscire con altri ragazzi.» Il panico mi strinse il petto in una morsa, e improvvisamente ebbi un attacco di claustrofobia. Me ne sarei andata presto, non appena mamma fosse riuscita a riscattare l’auto. Le mani mi divennero sudaticce e mi affrettai ad allontanarmi da Ryan. Avevo bisogno di aria. Molta, molta aria. Barcollai fino alla sponda del laghetto e mi fermai prima di piombare giù in acqua. Un pesce gatto nuotava quasi in superficie. Non riuscivo a sbarazzarmi delle mie catene, non importava quanto ci provassi. Quel giorno non avrei dovuto sentirmi come sul punto di annegare. «Che c’è che non va?» chiese Ryan alle mie spalle. «Niente.» «Beth.» S’interruppe, poi riprese: «Io ci tengo veramente a te, e speravo che provassi la stessa cosa per me». Una goccia di pioggia cadde nel laghetto, increspandone la superficie piatta. Non poteva provare dei sentimenti per me. Non poteva e basta. Una cosa era piacergli… un’altra era provare qualcosa. Non faceva parte del piano. No, non doveva andare in quel modo. Mi massaggiai gli occhi. Vaffanculo, Beth, come pensavi che sarebbe andata a finire? Lo sapevi che ti stavi innamorando di lui, ma non era previsto che lui si innamorasse di te. Le sue parole rendevano tutto reale. Troppo reale. Mi voltai di scatto e sputai fuori l’accusa che era diventata il mio mantra: «I ragazzi come te non si innamorano delle ragazze come me». «Cosa? Non posso innamorarmi di una ragazza bella e intelligente?» Non capiva. «Io sono una sgualdrina.» Ryan fece una smorfia come se lo avessi schiaffeggiato. Alzai il mento, fingendo che non mi importasse quel che pensava di me. Le favole non si realizzavano, non per me. Era arrivato il momento di dire al principe che aveva salvato la fanciulla sbagliata. «Due anni fa, il ragazzo che tutte noi sognavamo ha passato un’intera estate a farmi sentire speciale. A una settimana dall’inizio della scuola, mi ha detto di amarmi, e io gli ho dato la mia

verginità. Quando è cominciata la scuola, è andato a dire ai suoi amici che ero una puttana.» Mi scansai quando Ryan tese la mano. Alcuni dolori non erano fatti per essere condivisi. Ero stata io l’idiota che aveva creduto a Luke. Quella che aveva pensato di essere abbastanza speciale da meritare amore. «Si è approfittato di te.» La sua voce stillava rabbia. «Questo non fa di te una sgualdrina, semmai è lui lo stronzo.» Continuava a non capire. «Bevo. Fumo erba. Prima di venire a Groveton, ero sempre strafatta. Non sono il tipo di ragazza con cui vuoi avere una relazione stabile. Non mi vedi per quello che sono.» «So che hai rifiutato l’opportunità di farti uno spinello, sabato. So che, secondo delle voci a scuola, hai respinto i tizi che non fanno altro che fumare quello schifo. So che righi più dritto di molti altri studenti. Questa è una piccola città, Beth, non puoi respirare senza che qualcuno non lo sappia. Non so chi fingevi di essere a Louisville, ma ora vedo la ragazza che sei realmente.» Il modo in cui mi guardava… come se tutto il resto non contasse. I suoi occhi mi trafiggevano come se riuscissero a vedere la mia anima, e il pensiero mi terrorizzò. Non poteva innamorarsi di me. Non poteva. «Pensi di essere l’unico che ho baciato solo perché mi andava di sentire qualcosa?» «Con me è stato diverso» rispose fiducioso. Inghiottii, scostai lo sguardo e mentii: «Non è vero». Ryan fece un passo avanti e io ne feci uno indietro. Non stava reagendo come avrebbe dovuto. Avrebbe dovuto provare disgusto e andarsene via, non avvicinarsi. Il suo viso era illuminato dalla speranza. «Tu sei l’unica persona che conosco in grado di non battere ciglio quando parla con qualcuno. A meno che tu non stia mentendo. Guardami negli occhi e dimmi la verità. Quella notte nel fienile ti sei innamorata di me.» I miei occhi scattarono verso i suoi, e imprecai mentalmente quando sorrise. «Ecco perché sei scappata» continuò. Come poteva essere così felice mentre io soffrivo tanto? Non capiva che non avrebbe funzionato fra noi? «Hai sentito qualcosa per me e non volevi. Volevi solo fare sesso senza impegno, e ti si è ritorto contro.» Nei suoi occhi vidi il ricordo di quella notte, e mi sentii soffocare. Stava per capirlo. Inarcò le sopracciglia. «Sei scappata quando ho sussurrato il tuo nome. È stato allora che hai provato qualcosa per me, non è così?» Scossi furiosamente la testa e mormorai: «No». Il suo volto si addolcì per il sollievo, e un accenno di speranza gli strappò un sorriso. «Ti stai innamorando di me tanto quanto io mi sto innamorando di te. Ecco perché ti ostini a respingermi.» «Lasciami in pace!» Dovevo fuggire, e mi voltai. Se avessi corso abbastanza in fretta, sarei riuscita a lasciarmi indietro gli orribili ricordi del passato, e le belle parole di Ryan non sarebbero arrivate fino alla mia anima. Feci un passo nel vuoto. Il cuore mi balzò in gola mentre cadevo in avanti. Il laghetto. Strillai, spaventata a morte dall’acqua. Un paio di braccia forti si ancorarono ai miei fianchi e mi trascinarono a terra. Mi rannicchiai contro il petto di Ryan e mi strinsi alle sue braccia, le unghie conficcate nella pelle come uncini. Se fossi caduta, sarei annegata. I fardelli che avevo addosso erano troppo pesanti per

lasciarmi galleggiare. L’unica opzione che avevo era affondare. Inspirai più volte e, dopo un sospiro più profondo, Ryan chinò la testa all’altezza del mio orecchio. «Tutto ok?» «Sto bene.» «Stai tremando. Non tremeresti se davvero stessi bene.» «Non so nuotare, ma sto bene, ora.» «Non sai nuotare» ripeté lui. «No.» Una goccia di pioggia mi cadde sulla testa, e scivolò lungo i capelli. «Dovremmo andare.» La giornata era rovinata. «Sta per piovere.» Ryan allentò la presa e, pochi secondi dopo, mi sollevò e mi prese in braccio, stringendomi al petto. Il suo viso era terribilmente vicino al mio. Sbattei più volte le palpebre. «Che stai facendo?» Invece di rispondere, saltò nel laghetto. La testa mi girò, in preda alle vertigini. L’acqua si sollevò e mi schiaffeggiò il viso, i capelli, i vestiti. Avevo le braccia serrate attorno al suo collo. Stavo per annegare. «Ryan!» «Ti tengo io» rispose calmo lui. «Sei al sicuro.» Si spinse dove l’acqua fredda era più profonda. La forza di gravità avrebbe voluto strapparmi dalle sue braccia e imprigionarmi sul fondale. Sarei morta soffocata e con gli occhi aperti. Serrai la presa su di lui. «Riportami indietro!» L’acqua mi invase le scarpe, i jeans e la maglietta. Si riversò sulla pancia e divenni sempre più pesante. Quella gelida umidità mi martoriava la pelle… quasi mimando una risata carica di odio. Nascosi la testa nel suo collo. Non volevo morire. No. Ryan si fermò e mi sussurrò all’orecchio: «Guardami». Non avevo la forza di alzare la testa. La spostai sulla sua spalla e aprii gli occhi. «Ti insegnerò a galleggiare.» Mi strinsi più forte. «Mi ammazzerai.» «Fidati di me.» «Non posso» sussurrai. Mi ero fidata di Scott, di mia madre e di mio padre. Mi ero fidata di Luke, di mia zia e di Isaiah. Tutte persone che mi avevano abbandonato. Tutte persone che erano svanite nell’oscurità. Mi si era spezzato il cuore così tante volte, e ogni volta l’avevo rimesso insieme da sola. Conoscevo i miei limiti, e se qualcuno mi avesse dato il colpo di grazia, non avrei più trovato la forza per raccogliere i cocci. I suoi occhi castani erano più intensi che mai mentre mi stringeva a sé. «Sì che puoi.» Trattenni il respiro. Ryan lo stava facendo… mi stava guardando nel modo in cui Chris guardava Lacy. Aveva lo stesso sguardo che Noah rivolgeva a Echo. Forse potevo. Il cuore mi tamburellava violentemente nel petto, e allungai la mano per stringere i capelli sulla nuca di Ryan. «Non lasciarmi andare.» «Non lo farò.» La sua voce era così rassicurante – così sicura – che quasi gli diedi fiducia. Forse potevo credergli. Non mi avrebbe lasciata andare. Mi avrebbe sostenuta. L’aveva giurato. «È arrivato il momento di mollare la presa» disse. Un respiro. Un altro. Non mi avrebbe lasciata andare. Allentai la stretta e subito Ryan abbassò le braccia. L’acqua mi sommerse e gli lambì il petto. La mia testa scattò verso l’alto e presi a scalciare e

agitarmi per restare a galla. Il panico aveva il controllo dei miei polmoni. Lui era più alto di me, dunque non avrei toccato il fondo. «Riportami indietro!» Ryan chinò la fronte sulla mia, e il suo respiro caldo mi accarezzò il viso. «Non ti lascerò mai andare.» Non mi avrebbe lasciata andare. Non l’avrebbe fatto. «Ok.» Ryan mi sfiorò la guancia con la punta del naso, e mi venne la pelle d’oca. Si fece indietro, e lottai per non aggrapparmi di nuovo a lui. Aveva detto che non mi avrebbe lasciata andare e non l’avrebbe fatto. No. I capelli in acqua divennero leggerissimi e mi sfiorarono le guance. Le braccia forti di Ryan ribadirono la promessa che mi aveva fatto. «Tieni la testa indietro» disse. Inspirai e feci come diceva. L’acqua mi entrò nelle orecchie e i muscoli sussultarono per lo spavento. Ryan mantenne la presa solida. «Allarga le braccia di lato e inarca la schiena. Lascia galleggiare le gambe.» Mentre eseguivo lentamente le istruzioni, Ryan si fece indietro. Scattai verso di lui. «Ryan!» Lui scosse la testa. «Non ti sto lasciando andare. Ti sto dando più spazio. Tieni la testa reclinata indietro.» Testa indietro. Braccia e gambe spalancate. Il cuore mi rimbombava nelle orecchie. La voce di Ryan arrivava ovattata, ma riuscivo a leggere il labiale. «Rilassati. Respira.» Rilassarsi. Testa indietro. Braccia e gambe spalancate. Respirare. Guardai le nuvole sopra di me e gli alberi chini sul laghetto. Rilassarsi. Testa indietro. Braccia e gambe spalancate. Respirare. Due uccelli svolazzavano in circolo nel cielo, in una danza giocosa. Spalancavano le ali e lasciavano che il venticello li portasse in alto, poi giù e in circolo. Oddio, quanto avrei voluto sentirmi libera. Avrei voluto essere un uccello che si lasciava trasportare dalla brezza. Chiusi gli occhi e finsi di esserlo. I muscoli si rilassarono. L’acqua creava uno sciabordio melodioso. Lontana e vicina. Lontana e vicina. Ero un uccello che volava nel vento. Negli angoli remoti della mente sapevo di conoscere già quella sensazione. Erano anni che la provavo. Era come andare alla deriva, ondeggiare, galleggiare. Stavo galleggiando. La voce dolce di Ryan arrivò camuffata dall’acqua: «Ce l’hai fatta». Aprii gli occhi e vidi il suo sorriso meraviglioso. Quel sorriso era rivolto a me, e solo a me. Feci per sorridere in risposta, solo per rendermi conto che lo stavo già facendo. Stavo sorridendo. Lo stomaco fece una capriola e le catene tornarono. Oddio, no. Mi ero innamorata di lui. L’avevo fatto. Gli avevo concesso un potere su di me.

Beth che galleggiava era una visione spettacolare. I capelli neri fluttuavano in superficie, e sulle labbra aveva quel sorriso rilassato che tanto amavo. Gli occhi non si trinceravano più dietro un’espressione distaccata. Erano calmi e profondi come l’oceano. Per la prima volta in assoluto, Beth mi stava permettendo di vedere la sua anima, e qualunque dubbio potessi aver avuto prima, ormai non era che un ricordo. Ero innamorato di Beth Risk. Lei sbatté gli occhi e il sorriso svanì. Parecchie gocce di pioggia caddero nel laghetto, e i brontolii del temporale in arrivo si fecero sentire fra gli alberi. Beth affondò, e la strinsi a me prima che potesse finire con la testa sott’acqua. «Lasciami andare!» Mentre la riportavo a riva, non si avvinghiava a me con la stessa forza di prima. La pioggerellina era diventata costante, e ci mise poco a bagnarmi i capelli. La rimisi in piedi e il cuore mi sprofondò. Si era di nuovo rintanata dietro le sue mura. Girò sui tacchi e scattò verso gli alberi del bosco di Scott. In acqua, Beth si era fidata di me. Avevo percepito quanto ci tenesse a me. La promessa che le avevo fatto era per sempre… non l’avrei lasciata andare. La rincorsi e la afferrai per la vita prima che raggiungesse il bosco. «Maledizione, Beth! Smettila di scappare da me!» Il sangue mi pulsava intensamente per tutto il corpo. Quella fuga era iniziata nel momento stesso in cui l’avevo incontrata. Non importava che facessi del mio meglio per trattenerla, trovava sempre il modo per scivolare via dalla stretta. Ma non più. Non quel giorno. L’acqua le colava dalle guance e i capelli erano appiccicati alla testa. Tremava violentemente nell’aria tiepida del temporale d’autunno. Le strofinai le mani lungo le braccia. «Lasciami in pace» strillò di nuovo, sopra lo scrosciare della pioggia. «No.» Le posai la mano sulla guancia. Gli occhi fino a poco prima così sereni, erano stravolti dal panico. Volevo che si fidasse di me, che provasse ciò che provavo io. «Sono innamorato di te.» «No! Ti prego. No!» Le tremava il labbro inferiore, e cercò di schiaffeggiare via la mano con cui la trattenevo per i fianchi. «Dimmi perché mi stai respingendo. Di che hai paura?» Sentii le unghie di Beth affondare nella pelle del braccio. «Non ho paura di niente.» «Io ti amo» le dissi di nuovo, e l’intensità del panico di Beth aumentò. Cercò di spingere via le mie mani. Quelle parole la spaventavano. Aveva paura dell’amore. «Ti amo, Beth.» Lei alzò il viso, gli occhi infuocati di rabbia. «Smettila di ripeterlo!» «Perché?» Senza volerlo, le diedi un leggero scrollone. Volevo che me lo dicesse a sua volta. «Sono innamorato di te. Dimmi perché non posso dirtelo.» «Perché te ne andrai!» gridò lei. Ansimava come se avesse fatto una corsa. Serrai la presa su di lei. La pioggia si abbatteva sul

laghetto e sugli alberi, creando uno strano alone di rumori ovattati rispetto al mondo intorno. «Non potrei.» Mai. Lasciarla sarebbe stato come strapparmi un braccio. Non mi ero mai innamorato prima. Credevo di esserlo stato, ma non era così. L’amore era un sentimento travolgente e completo. Non era perfetto, anzi, era un casino infernale. Ed era proprio quello di cui avevo bisogno. Fece un passo indietro, e nella pioggia scrosciante fu quasi impossibile mantenere la presa sulle sue braccia scivolose, ma feci del mio meglio per trattenerla. Il cuore faceva male. Beth lo stava facendo di nuovo. Se ne stava andando. Sentii la disperazione impadronirsi dei muscoli. Se se ne fosse andata, l’avrei persa per sempre e non potevo permetterlo. Non dopo averla appena trovata. «Non andartene via.» «Ho l’animo di una vagabonda.» Beth riuscì a sottrarsi dalla mia presa e barcollò all’indietro. «Non funzionerà tra noi.» Perché mi sfuggiva sempre fra le dita? «Sei tu che mi stai lasciando. Non il contrario.» Lei si strinse le braccia attorno allo stomaco e continuò a camminare all’indietro. «Mi dispiace.» La rabbia che provavo esplose e prese il controllo. Non era mia abitudine perdere, e non avrei perso lei. Beth si voltò e corse verso il bosco. Era veloce, ma io lo ero di più. La afferrai per i fianchi, la voltai verso di me, le tuffai le dita nei capelli e la baciai. Sapeva di pioggia fresca e profumava di rose. Non aveva importanza che non stesse rispondendo al bacio. Mossi le labbra sulle sue e la strinsi forte a me. Amavo Beth, e doveva capirlo. Doveva entrarle in testa. Cosa ancora più importante, doveva entrarle nel cuore. Le sue dita mi solleticarono appena il collo man mano che assaporavo le sue labbra calde. Rispose incerta, baciandomi il labbro superiore. Inclinò la testa, e socchiudemmo entrambi la bocca. Quando la sua lingua sfiorò la mia, mi sembrò che il mondo intorno fosse esploso. Le dita si intrecciarono ai miei capelli umidi e sentii il suo corpo premere contro il mio. Mi passò le mani sulla schiena, e le mie dita corsero avide lungo la curva morbida dei suoi fianchi, poi scesero più in basso, scivolando fin sulle cosce. Non l’avrei lasciata andare. No. La amavo. Beth ansimò e mi strinse di più a sé. Le percorsi la pelle del collo con una scia di baci, saggiandone il sapore delizioso. Mi fece scivolare le mani sul petto, le strinse a pugno e mi spinse via, facendo qualche passo indietro. «Non posso farlo!» E corse via nella pioggia. ERA DALLE DIECI CHE FISSAVO il computer. Dopo un’ora, lo stavo ancora guardando. Il cursore continuava a lampeggiare. Le parole non volevano uscire. Eppure la decisione doveva essere presa. Lo zombie George e l’umana Olivia si sarebbero innamorati e sarebbero rimasti insieme, o aveva ragione Beth? Stavo spingendo i miei personaggi a fare qualcosa di irreale a cui nessun lettore avrebbe mai creduto? Il cellulare vibrò di nuovo. Lo guardai trepidante. Forse era Beth. Sprofondai di più nella sedia. Era Gwen. Di nuovo. Gwen: Perché non rispondi? Perché non era lei che amavo. Non era abituata a essere respinta. Nemmeno io ero abituato a respingerla, e quella serie ininterrotta di messaggi e telefonate nell’arco della serata stava girando il coltello nella piaga. Ero innamorato di una ragazza che non provava lo stesso per me. Una parte di me avrebbe voluto rispondere a Gwen e riprendersi la vecchia vita. Prima non c’era

niente di così complicato. Nessun dolore troppo forte, nessuna confusione. Era tutto programmato. Perfetto. Solo all’apparenza, però. Perché non mi ero accorto che in realtà era tutto un gran casino? I miei genitori. Mark. Gwen e io. Lacy. Chris aveva i suoi casini? E Logan? Quante altre persone fingevano per mantenere le apparenze? Quanti fingevano di essere qualcosa che in realtà non erano? Ancora meglio, chi di noi avrebbe avuto il coraggio di essere se stesso senza tener conto di cosa pensavano gli altri? Spensi lo schermo del computer e la lampada, mi sfilai la maglietta e mi sdraiai sul letto, pur sapendo che il sonno non sarebbe arrivato. Il problema delle sensazioni troppo intense era il modo in cui il dolore mi stava letteralmente consumando. La testa pulsava a un ritmo lento e doloroso. La pioggia continuava a scrosciare sul tetto. Il temporale che sarebbe dovuto giungere domani era arrivato con un giorno di anticipo, e si era soffermato sulla città. Una parte di me non voleva che passasse. Quella era la nostra pioggia… mia e di Beth. «Posso entrare?» Scattai seduto al dolce suono della voce di Beth, dall’altra parte della finestra aperta. Armeggiai con la zanzariera, che andò a sbattere a terra. Le tesi la mano e la aiutai mentre insinuava prima una gamba e poi l’altra oltre il telaio, i jeans fradici. La luce fioca della sveglia creava uno strano alone blu attorno a Beth, che tremava incontrollabilmente vicino alla finestra. I capelli bagnati erano incollati alla testa e i vestiti le facevano da seconda pelle. Gocce di pioggia scivolavano anche dal viso, e batteva i denti. «D-D-D-DD-Dove-dovevo v-v-v-v-v-vede-vederti.» «Tieni, usa questo per asciugarti.» Le avvolsi una coperta attorno alle spalle, guardandola per convincermi che fosse davvero lì, e poi frugai in un cassetto. Ne tirai fuori una maglietta e un paio di pantaloni di cotone, e glieli porsi. Mi voltai in fretta. «Cambiati. Giuro che non ti guardo.» Sebbene lo volessi. Era lì e avrei fatto qualsiasi cosa per impedirle di scappare. Beth era come quel temporale. Costante e persistente nell’insieme, ma più mi avvicinavo e cercavo di afferrare le singole gocce di pioggia, più l’acqua mi scivolava via dalle dita. Sentii il fruscio della stoffa bagnata che si muoveva con difficoltà sulla sua pelle, e poi quello della maglietta di cotone che si era appena infilata. «Ok» disse piano. Trattenni il respiro e soffocai un gemito. Mi stava letteralmente uccidendo. La mia maglietta le arrivava a metà coscia. «Non li metti i pantaloni?» Beth scrollò le spalle. «Tanto mi cadrebbero.» Aveva ragione. Mi costrinsi a spostare lo sguardo sul suo viso. «Sono contento che tu sia qui. Ero preoccupato per te.» Per noi. Beth armeggiò con l’orlo della mia maglietta. «Non riesco a dirlo.» E mi fece a pezzi. «Ma lo vorrei.» Speranza. Ne esisteva un filo e teneva Beth e me vivi. «Perché vuoi amarmi o perché mi ami?» Lei si sistemò la maglietta e si passò le dita fra i capelli. «E se fosse così? Se provassi la stessa cosa?» Lasciai che le parole si imprimessero nella mia mente. Beth mi amava. Il cuore si calmò e inghiottii

nel tentativo di recuperare l’equilibrio. «Perché se fosse così…» temporeggiò, e mi chiesi se tremava per il freddo o per le emozioni. «…e tu…» Beth inspirò, poi alzò la testa per guardarmi negli occhi. «Non riesco a dirlo, ma voglio… voglio stare qui… con te.» Avevamo ancora un equilibrio precario… Beth e io. Se avessi fatto la cosa sbagliata, sarebbe scappata. La pioggia si abbatté con più forza sul tetto. Il nastro era ancora stretto al suo polso. Beth non credeva nelle cose astratte. Aveva bisogno di un promemoria tangibile della sincerità delle mie parole. Lasciai scorrere lo sguardo nella stanza e sul cassettone trovai proprio quello che mi serviva. Superai Beth, presi la boccetta semivuota e gettai fuori dalla finestra quel po’ di profumo che era rimasto. «Che stai facendo?» mi chiese, come se fossi impazzito. Magari avevo davvero perso la testa, chi poteva dirlo? Mantenni la boccetta fuori, sotto la pioggia, e rimasi a guardare mentre si riempiva lentamente di acqua. Quando ce ne fu abbastanza perché Beth potesse vederla chiaramente, chiusi la boccetta e gliela porsi. Lei inarcò un sopracciglio con fare scettico, ma la prese. «È la nostra pioggia, Beth.» Scosse a malapena la testa per la confusione, mentre mi passavo una mano sulla nuca e raccoglievo il coraggio. «Ti ho detto di amarti sotto questa pioggia, e quando dubiti delle mie parole, voglio che guardi questa boccetta.» Beth increspò la fronte e osservò il regalo che le avevo appena dato. «Io non…» iniziò. «Non ho niente da darti.» «Sei qui» le risposi. «È tutto ciò che voglio.» Le sue dita si strinsero attorno alla bottiglietta. «Non riesco comunque a dirlo.» «Non fa niente.» Beth si arrampicò sul letto e la seguii, sdraiandomi accanto a lei come la prima volta che era venuta in camera mia. Se aveva bisogno di spazio, gliene avrei dato. Invece quella volta Beth appoggiò subito la testa al mio petto. La pelle nuda protestò a contatto con i capelli freddi e bagnati. Mi sforzai di non sussultare né rabbrividire. Non volevo darle un motivo per scansarsi. Distese il braccio sul mio stomaco, stringendo in mano la boccetta con la pioggia. «Ho paura» mormorò. Aveva smesso di scappare? Stavo donando il cuore a una ragazza che lo avrebbe spezzato? Decisi di non pensarci, e invece avvolsi meglio Beth nell’abbraccio, stringendola di più a me. «Anch’io. Ma ce la caveremo. Te lo prometto.» «Potresti farmi male sul serio, se lo volessi.» «Ma non lo farò.» «Dillo di nuovo» sussurrò, e la profonda sincerità nella sua voce mi disse tutto quello che volevo sentire. Il cuore mi esplose, e una sensazione di calore – potente e impetuosa – mi invase il sangue. Mi amava. Ora lo sapevo. «Ti amo.» Le diedi un bacio sulla testa. Non mi ero mai sentito così completo in vita mia. «Posso restare?»

«Sì.» Fu lei a stringersi di più a me. Ci raggomitolammo e chiusi gli occhi, dando il benvenuto al sonno. Beth era lì ed era mia, e giurai mentalmente che non l’avrei lasciata andare via mai più.

Beth

Seduti sul pianale del pick-up di Logan, Ryan mi teneva stretta fra le sue gambe, con le mani sui fianchi. La sua felpa mi stava come un vestito corto e il calore che irradiava il suo corpo mi proteggeva dal freddo di quel venerdì sera d’autunno. Mi aveva avvolto in una piccola bolla di calore. La legna crepitava e schioccava nel falò, spargendo un odore intenso e rilassante. Mi rannicchiai contro di lui, e le vibrazioni cadenzate della sua voce profonda mi cullarono in una sensazione di serenità. Ryan aveva ricreato il calore di una coperta appena uscita dall’asciugatrice. Mi passò la mano fra i capelli e sussurrò: «Ti stai addormentando. Vuoi che ti riporti a casa?» «Sono sveglia.» Finsi di credere che mi avrebbe stretto a sé per sempre. Quel giorno, prima dell’ora di ginnastica, avevo telefonato a mia madre. Come sempre, le buone notizie andavano a braccetto con le cattive. Aveva recuperato la macchina dal deposito della polizia stradale, ma aveva anche pagato la cauzione di Trent e, per qualche motivo, era sorpresa che la prigione non avesse smussato il suo carattere burrascoso. Mi aveva chiesto di andare a prenderla una settimana dopo, lunedì… dopo il controllo della previdenza sociale. Mi restavano dieci giorni da passare con Ryan. Ryan mi diede un bacio sulla testa e tornò allo stesso argomento di cui lui e i suoi amici parlavano ogni giorno a pranzo… i play-off di baseball. Lacy era seduta accanto a me, nella mia stessa posizione, la schiena contro il petto di Chris. Prese un sorso di birra dalla lattina. «Sono felice che tu e Ryan stiate insieme. È bello che ci sia un’altra persona in giro che non ripete solo la parola baseball.» Lacy bevve di nuovo e scosse la testa. «Mi rimangio tutto… non un’altra persona. Sono contenta che sia tu. Sono contenta che tu sia tornata.» Era mezza ubriaca. Io no. Era strano partecipare a una festa senza essere al centro dell’attenzione. Le ultime due settimane erano state strane. Da quando Ryan aveva reso pubblico il fatto di essere impegnato, i suoi amici mi trattavano come una di loro, e non ero sicura di come prendere la cosa. Insomma… erano un gruppo di fissati con lo sport. Tutti i ragazzi in piedi o seduti sui furgoncini erano grossi, enormi invasati che non riuscivano a smettere di parlare di baseball. Nessuno di loro mi aveva fatto sentire insignificante o stramba. Non erano come Luke e i suoi amici, che bevevano ogni volta che potevano. Nessuno di quei ragazzi aveva toccato alcol quella sera. Ryan e i suoi amici avevano una partita la mattina dopo, e volevano essere al cento per cento. Lacy tese la mano e la agitò finché non la presi. «Sono felice di avere di nuovo una migliore amica.» «D’accordo.» Chris la prese in braccio. «Sta facendo la sentimentale, il che significa che è arrivato il momento di ballare.» Si avviò verso la folla che ballava accanto al falò, con Lacy che non riusciva a smettere di ridere. Ryan mi sfiorò l’orecchio con le labbra, regalandomi una scarica di brividi per tutto il corpo. «Andiamo a fare una passeggiata?» Ovunque. «Ok.»

Ryan balzò giù dal pianale del pick-up e quando mi avvicinai al paraurti, mi appoggiò le mani sui fianchi per aiutarmi a scendere. Non mi serviva aiuto, ero perfettamente in grado di scendere da sola, però fu una bella sensazione quella delle sue mani su di me. Il suo calore superò i vestiti e mi arrivò fino alla pelle. Mi sollevò e scivolai lentamente contro il suo corpo. Avevo voglia di baciarlo e, dal desiderio che bruciava nei suoi occhi, capii che lo voleva anche lui. Mi prese la mano nella sua e mi guidò lontano dal falò e dalle altre persone, verso i boschi, in un mondo tutto nostro. La luna emanava una luce argentea e il mormorio del laghetto rendeva quel momento quasi mistico. Il buio non era così spaventoso con Ryan. Con lui riuscivo a immaginare di essere una principessa, con una corona di fiori e nastri sulla testa, e lui un principe pronto a proteggermi dai pericoli della notte. Ryan mi lasciò la mano e si girò il cappello al contrario, segno evidente che stava per baciarmi. Il cuore mancò un battito. L’espressione sfrontata che aveva di continuo svanì, mentre infilava le mani in tasca e si dondolava sui piedi. «Non volevo partecipare al concorso di scrittura, adesso invece sì. Oggi ho parlato con il coach e gli ho detto che non giocherò la partita di sabato prossimo.» «Perché non volevi partecipare?» Ero confusa. Ryan aveva un dono. Perché sprecarlo? «Mio padre, lui non voleva…» Scosse la testa. «Non è importante. Mi hai aperto gli occhi su tante cose e volevo che sapessi che ti devo molto. Moltissimo.» Scrollò le spalle, e per la prima volta mi sembrò insicuro si sé. Strano per qualcuno che era sempre perfetto. «Te la caverai alla grande.» In alcuni casi, la vita sorrideva alle persone. A lui, sì. A me, no. Non sapevo bene come gli fossi stata utile, ma almeno avrebbe avuto un altro bel ricordo di me. Avevo dieci giorni per collezionare quanti più bei ricordi potevo per entrambi. Non volevo che mi odiasse per sempre, ma che ripensasse al tempo passato insieme e sorridesse. Ryan inspirò a fondo e, continuando a guardarmi con l’aria imbarazzata, mi rese irrequieta. «A partire da domani i miei genitori staranno fuori città per una settimana. Non torneranno prima di domenica.» Fantastico. «Quindi posso usare la porta principale?» «Sì, se vuoi. Non fraintendermi, voglio che tu venga… sì, a dormire da me… insomma.» Ryan imprecò sottovoce. «Voglio che tu venga a casa mia, se ti fa piacere.» Se fosse stato qualcun altro a impappinarsi in quel modo avrei riso, ma era Ryan, quindi soffocai la risatina. «Mi stai proponendo di fare sesso?» Lui sgranò gli occhi. «No. Non te lo chiederei mai. Voglio dire, sì. Un giorno. Se potessi, anche ora. Ma no. No. Aspetteremo. Al diavolo, Beth, sono riuscito a fottere tutto.» Sorrisi alla parola fottere e Ryan capì il perché. Aveva usato una parola che credevo uscisse solo dalla mia, di bocca. Le sue guance divennero rosse e, per riflesso, arrossii anch’io. Dio, sembravamo due verginelli. A dire il vero, era tutta la settimana che ci comportavamo come due vergini. Era sempre imbarazzante quando mi arrampicavo in camera sua e mi infilavo nel suo letto. Lui si prendeva tutto il tempo del mondo per baciarmi, a dispetto dei segnali che gli lanciavo. E quando ci baciavamo… fuoco e fiamme, più bollenti dell’inferno. E poi raggiungevamo un punto oltre il quale nessuno dei due sembrava voler andare. Ero abituata a ragazzi che facevano pressioni. Non avevo problemi a superare

quella linea, ma il pensiero mi spaventava. Un comportamento da ragazzina fragile che mi faceva venir voglia di prendermi a schiaffi da sola. Non sarebbe stata la prima volta che vedevo un ragazzo nudo. Ryan si risistemò il cappello e inclinai la testa, quando capii il perché dell’angoscia sul suo bel viso. «Sei vergine.» Imprecai mentalmente quando Ryan girò di nuovo il berretto e si abbassò bruscamente la visiera sulla faccia. Brava, Beth, mettilo in imbarazzo un altro po’. Perché non gli chiedi anche se ce l’ha piccolo? Appunto, come mandare tutto a farsi fottere. Non era così che volevo che Ryan mi ricordasse, però quello che mi aveva appena confessato mi avrebbe dato la possibilità di lasciargli qualcosa che non avrebbe dimenticato mai più: la sua prima volta. Azzerai la distanza che ci separava. Lo sentii rigido quando lo abbracciai, appoggiando la guancia al suo petto. «Non me ne importa. Anzi, questo ti rende ancora più perfetto.» Ryan sospirò rumorosamente, ma si rilassò nell’abbraccio. Le mani forti mi accarezzarono la schiena e si intrufolarono tra i capelli. «Non sono perfetto, Beth.» «Sì che lo sei.» «Ryan!» urlò Chris dal limite del bosco. «Porta il culo qui. Logan ha accettato una scommessa.» «E ti pareva» mormorò Ryan. Mantenne un braccio attorno alle mie spalle e mi condusse di nuovo verso la radura. Logan era in piedi accanto a Chris, con un sorriso folle sulle labbra. «Hai ancora le corde per il bungee jumping nella jeep?» «Sì» rispose Ryan, esitando. Il lampo di eccitazione che accese lo sguardo di Logan spaventò perfino me. «Fantastico. Andiamo.» Chris e Logan si avviarono verso le macchine parcheggiate. Diedi una spintarella a Ryan quando rimase immobile. «Vai.» Mi stava tracciando dei piccoli cerchi sul braccio. «Ci vorranno solo pochi minuti.» «Per me non è un problema se vuoi stare con i tuoi amici.» «Ma ti lascio da sola.» «Non so se l’hai notato, ma a volte preferisco stare da sola.» Ryan si girò di nuovo il berretto, si chinò, e il bacio mi scaldò parti del corpo che la sua felpa non copriva. Appena staccò le labbra dalle mie, si tolse il cappello e me lo mise in testa. Scoppiò a ridere quando la visiera scivolò in avanti, coprendomi la faccia. Non volevo che se lo riprendesse, così lo girai per indossarlo al contrario. «Hai la testa grossa.» «No» fece lui. «Sei tu che sei piccola.» Restai a guardarlo camminare con una punta d’orgoglio, mentre si dirigeva verso i suoi amici. Era nato per fare l’atleta, con le spalle larghe e le braccia forti. Il cuore fece una capriola. Per i dieci giorni a seguire sarebbe stato mio. «Non riesco a credere che tu abbia permesso a Ryan di metterti quel cappello in testa. Ci suda dentro.» Gwen sbucò dal buio e immediatamente riaffiorò la mia paura dei demoni acquattati nell’ombra, pronti a trascinarmi nell’oscurità della notte. «Non mi dà fastidio.» «Al tuo posto, anch’io vorrei nascondermi i capelli» disse lei, avvicinandosi stranamente molto.

Stavo perdendo colpi se quella lì pensava di potermi parlarmi in quel modo. Allison l’avrebbe adorata. Avevano lo stesso gusto orribile in fatto di abbigliamento. «Ricordo di averti spinto a terra e fatto piangere alle elementari, quando rompevi le palle a Lacy.» «Ricordo che portavi sempre lo stesso dannato vestito con i buchi e quei patetici nastri.» Mi guardò il polso, poi i jeans. «Vedo che non hai cambiato gusti.» «No» risposi. «Ma Ryan sì.» Gwen arrossì furiosamente, e sorrisi. Diamine, quanto mi piaceva comportarmi alla mia maniera. Ebbe il merito di riprendersi in fretta. «Guarda che sto solo cercando di esserti di aiuto. Gira voce a scuola che Ryan stia con te solo per una scommessa. Lui e i suoi amici prendono le sfide molto sul serio, e si prenderebbe gioco di te pur di vincere. Non fraintendermi, è un bravo ragazzo, ma è un maschio, capisci? Mi dispiacerebbe vederti crollare a scommessa vinta.» Sentii tutti i muscoli tendersi. Era la verità. Ryan mi aveva chiesto di uscire per la sfida, ma non ero più solo una scommessa. Proprio no. «Wow, Gwen. Grazie per l’interesse. A questo punto mi chiederai di farti una treccia, e passeremo il tempo a ridere insieme per aver raggiunto la prima base con un ragazzo?» Gwen attorcigliò una ciocca bionda attorno al dito. Avrei dovuto portarla a Scott come Reperto B sul perché odiavo le bionde. «Sto cercando di esserti amica, Beth.» «Se volevi essermi amica, non avresti cercato di infilare la lingua in bocca a Ryan martedì scorso, quando lo hai costretto spalle al muro dopo gli allenamenti di baseball.» Lei impallidì vistosamente, e ridacchiai con aria cupa per infierire sul suo imbarazzo. Non credeva che me l’avrebbe riferito. «Ti sembro ancora una scommessa?» «Perché non ti sei ancora cancellata dalla corte del ballo d’autunno? La prossima settimana faranno le foto per l’annuario, è questo il momento di farlo.» «Non mi cancellerò.» Sarei andata via presto, ma non mi sarei tirata indietro. Ryan mi aveva sbalordita con il suo dono e avevo perso la scommessa con lui. Per dieci giorni avrei onorato la parola data. Gwen mi guardò freddamente. «Pensavo che non volessi neppure essere nominata.» Scrollai le spalle. «Ho cambiato idea.» «Non vincerai» disse lei. «Ad alcune persone non piaci.» Raddrizzai la schiena. «Ti sembra che me ne fotta qualcosa di cosa pensa la gente di me?» «Be’, dovrebbe» rispose lei. «Perché a Ryan importa. Se ci tenessi davvero a lui, te ne andresti.» Gwen non aspettò una replica. Si passò dietro la spalla quegli orribili capelli gialli e si allontanò tutta impettita come una regina. Un’orda di demoni inattesi mi riempì il cervello, tormentandomi attraverso le sue parole. Ero solo una scommessa. Ryan non mi amava. Non lo meritavo. Forse aveva ragione lei. Forse no. Non aveva alcuna importanza. Sarei rimasta per dieci giorni e, anche se così non fosse stato, avevo una boccetta di pioggia a dimostrare che aveva torto lei.

Chris e io superammo una donna con tre bambini che urlavano e un tizio anziano che controllava i carrelli della spesa. Era martedì sera e, visto che Chris aveva insistito, avevo preso l’auto per andare a fare spese con lui al centro commerciale di Louisville. «Vuoi dirmi perché siamo qui?» gli chiesi. C’era un ipermercato sulla superstrada per Groveton, anche se in versione molto più ridotta e risalente a trent’anni prima. «Quelli che lavorano al nostro centro commerciale ci conoscono. E cosa ancora più importante, conoscono i nostri genitori.» Chris svoltò a destra, lontano dagli scaffali con il cibo e verso la farmacia. «Quindi?» «Vuoi tenere nascosta Beth ai tuoi genitori, no?» Feci una smorfia a sentirlo parlare così, ma in fin dei conti era la verità. Volevo che Beth fosse la mia ragazza alla luce del sole, ma dovevo affrontare una battaglia alla volta. Prima mi sarei assicurato la partecipazione al concorso di scrittura, avrei deciso se darmi al professionismo o andare al college, e poi avrei confessato di stare con Beth. «Questo cos’ha a che fare con il centro commerciale?» Chris tagliò verso una corsia e mi indicò la merce esposta davanti a lui. «Questo.» Preservativi. Ovunque. Mi passai una mano sulla nuca e cercai di pensare a qualcosa da dire, ma non c’era frase che avrebbe potuto rendere meno imbarazzante quel momento. «Ti servono i preservativi» disse lui. Chris e io riempivamo tutta la piccola corsia dedicata alla farmacia. La signora di mezza età con i tre bambini ci rivolse un’occhiata e ci superò. «Beth e io la stiamo prendendo con calma.» «Calma non era la posizione in cui vi ho beccati ieri. Sono felice se sei felice, ma non farà piacere a nessuno se quella ragazza inizia a sfornare tanti piccoli Ryan e Beth.» Era un valido argomento. Il sesso poteva anche non essere in programma, ma meglio essere preparati. «Quali usi?» Lui si strinse nelle spalle. «La roba normale. Hai intenzione di partecipare? Al concorso di scrittura.» «Già.» La roba normale. Il campo si restringeva. Esaminai l’assortimento davanti a me. Colorati, stimolanti, lubrificati, e siccome quell’esperienza non era sufficientemente atroce, avevano anche le taglie. «Abbiamo bisogno di te contro la Eastwick» fece distaccato Chris. «Siamo una partita sotto la Northside e ci servono due vittorie per arrivare primi. Se non vinciamo contro la Eastwick sabato, non avrà senso vincere o perdere lunedì contro la Northside.» «Non posso comunque giocare tutto il tempo in entrambe le partite. C’è una regola sul numero di inning in cui posso lanciare, ti ricordi?» Come diavolo facevo a sapere la mia taglia? Non è che

andassi in giro a guardare gli altri ragazzi nudi. Non pensavo di avere una taglia piccola, ma anche se fosse stato, di sicuro non l’avrei presa. Era una questione di orgoglio. «Ma potresti garantirci la vittoria sabato contro la Eastwick, e poi giocare gli ultimi inning contro la Northside. Ci hai già tirato fuori dai casini giocando l’ultima parte della partita, e se dovessimo finire sotto lunedì, ci faresti recuperare tu. Prendi quelli che brillano al buio. Scommetto che Beth ama queste stronzate senza senso.» Mi si strinse lo stomaco. «Beth non ama le stronzate senza senso.» «Ho visto il suo tatuaggio. È il tipo di ragazza a cui piacciono le stronzate senza senso. Senti, lo capisco che non vuoi tirarti indietro durante una gara, anche se è di scrittura, ma non ti dirò bugie. Stai spaventando la squadra. Sei il leader, amico, e cosa pensi che significhi se il leader non gioca una partita? I ragazzi iniziano a chiedersi se stai perdendo lo smalto.» Mi voltai a guardare Chris. «Questo che significa?» Incrociò il mio sguardo e capii che era uno dei “ragazzi”. «Non ti ho mai visto rinunciare a una sfida in tutta la mia vita, e con Beth l’hai fatto. Ti sei semplicemente arreso.» «Non mi sono arreso. Mi sono innamorato di lei.» «Appunto. Avresti potuto assicurarti la scommessa portandola alla festa successiva, ma hai alzato bandiera bianca non appena vi siete baciati. Ti ha fregato, e voglio essere sicuro che ti meriti.» Non mi piaceva il tono di quella conversazione né la piega che aveva preso, e incrociai le braccia al petto. «Che stai cercando di dire?» I muscoli di Chris si tesero quando si avvicinò. «Sei cambiato da quando lei è venuta a stare a Groveton, e non sono sicuro che la cosa mi piaccia. C’eravamo noi e il baseball… era tutto ciò che contava per te, una volta. Poi è arrivata lei, e siamo diventati io, te, Beth, la scrittura e qualche volta il baseball. Non hai mai detto di voler andare al college, e ora vuoi lasciar perdere il professionismo. Chi diavolo sei tu?» Chi diavolo ero io? Chi diavolo era il ragazzo davanti a me! Mi spostai a portata di tiro e, per la prima volta nella vita, ero pronto a colpire il mio migliore amico. «Sono la stessa dannata persona che ha guidato la squadra anno dopo anno, e la stessa dannata persona che ti ha incoraggiato a uscire con la sua migliore amica. Non posso farci niente se non ti sei mai reso conto che sono più di un ragazzo con una palla e una mazza.» Ci guardammo negli occhi senza battere ciglio né muoverci. Finché Chris non indicò una scatola di preservativi borchiati. «Anche questi sono stronzate senza senso.» Mi tirai la visiera del cappello. Che cacchio? Una parte di me voleva prenderlo a pugni. L’altra voleva chiedergli cos’era cambiato fra noi. Decisi di andarci piano e lasciai cadere la cosa. «Fammi vedere quelli che prendi tu.» E se Beth fosse stata davvero il tipo da assurdità? Come quelli stimolanti? Quando servivano quelli lubrificati? Mi rifiutai di guardare quelli che promettevano di darle i brividi. «È allergica al lattice? Perché se è così, è un casino. Ho sentito dire di ragazze che si sono gonfiate come dei pesci palla e sono dovute correre al pronto soccorso.» Mi si bloccò il cuore. «Davvero?» «No, ti stavo prendendo per i fondelli, ma le chiederei comunque se è allergica al lattice prima di metterlo.»

Due ragazzine passarono lungo la corsia. Una sorseggiava una granita e si arricciava i capelli. Si guardarono e risero. Arrossii fino alla nuca. «Io non sono te, Ry» disse Chris, dopo che ebbero svoltato l’angolo. «Non andrò all’università e non ho le squadre professioniste in fila alla mia porta. Vincere il campionato nazionale quest’anno è il mio sogno, e ho bisogno di te per realizzarlo. Giurami che non permetterai a niente e a nessuno di mettersi in mezzo.» Da quando avevo sette anni, guardando alla mia destra avevo sempre trovato Chris a sostenermi fra la terza e la seconda base. Aveva salvato tante giocate rovinate dai miei lanci. Provai una fitta dentro quando me ne resi improvvisamente conto… qualsiasi percorso avessi intrapreso, Chris non sarebbe più stato il ragazzo alla mia destra. «Potete battere la Eastwick senza di me, e lo sai. È la Northside la squadra con i battitori buoni. In primavera andremo al campionato nazionale. L’unica partita che salterò è quella di sabato, e non lo avrei preso in considerazione se non fossi sicuro che voi ragazzi ve la caverete benissimo.» Chris mi osservò e lo esortai mentalmente a concordare. Era il mio migliore amico, e avevo bisogno che fosse tutto a posto fra noi. Mi tese la mano e sbuffai fuori l’aria. «Giuralo, amico.» La strinsi. «Lo giuro.» Le sue labbra si distesero in un sorrisetto tranquillo. «Scegli qualcosa e andiamocene da qui.» Ci riprovai ancora una volta. «Dimmi quali usi tu.» Chris appoggiò le mani ai fianchi. «Mai comprato preservativi finora. Lacy vuole aspettare il diploma.»

Beth

Era venerdì sera, e inspirai a fondo prima di bussare. Mancavano tre giorni alla partenza. Ryan si meritava di meglio, ma per quella sera potevo fingere di essere degna di lui. La porta si aprì e il mio cuore prese a battere forte, si fermò e saltò un battito quando Ryan mi rivolse quel sorriso meraviglioso con il giusto mix di dolcezza e fossette. «Ciao» mi salutò. Bastò la sua voce a farmi venire la pelle d’oca sulle braccia. «Ehi.» Stanotte voglio fare l’amore con te . Intimidita, scostai lo sguardo e mi venne voglia di prendermi a calci. Che fine aveva fatto la ragazza in grado di spaventare i giocatori di rugby con un’occhiata? «Sei in anticipo.» Ryan chiuse la porta e andai dritta verso la sua stanza. Per due volte aveva provato a portarmi in un’altra camera, ma qualsiasi altra parte di quella casa perfetta mi ricordava che non sarei mai stata all’altezza. «Scott e Allison sono andati a letto prima.» Mi appoggiai alla porta e cercai di placare la sensazione di piume svolazzanti nello stomaco. «Non è che Chris farà un salto?» «No. Sapeva che mi vedevo con te e che domani devo alzarmi presto per il concorso di scrittura.» Ryan mi appoggiò una mano sul fianco. Il pollice si insinuò sotto la maglietta e prese a tracciare dei cerchi sulla pelle. C’era un plico di fogli rilegato con due nastri rosa, proprio al centro del letto. «Quello cos’è?» Ryan si fece leggermente indietro, ma intrecciò le dita con le mie. «Una copia completa di George e Olivia. È tua. Anche i nastri.» «Forte.» Lo era sul serio. Ryan sarebbe riuscito in così tante cose dopo il diploma. «Dai un’occhiata al frontespizio.» Mi lasciò libera e subito sentii nostalgia delle sue carezze. Mi sedetti sul letto, sciolsi il fiocco e sbattei gli occhi… Dedicato alla ragazza che amo: Beth Risk. Sfiorai con le dita la pagina, come se – accarezzando le parole – tutto diventasse più reale. George era nato come un racconto breve per la scuola. Olivia era stata creata perché Ryan non riusciva a smettere di pensare alla storia. L’aveva dedicata a me perché… perché mi amava davvero. Una scintilla di dolore mi esplose nel petto. Potevo essere felice lì a Groveton. Scott non era così male. In realtà, mi piaceva svegliarmi la mattina e raccontargli della scuola. Apprezzavo che annuisse mentre parlavo, e, quando mi fermavo, che mi facesse delle domande per farmi capire che mi aveva ascoltato. Adoravo stare seduta accanto a Lacy a lezione, e sentire mentre si perdeva in una serie di inutili pettegolezzi. Mi piacevano le lezioni di scienze motorie e sanitarie, e a dispetto di quello che diceva Allison, mi stavo appassionando a biologia. Mi piaceva guardare Logan, Chris e Ryan che cercavano di superarsi a vicenda. Mi piaceva… mi piaceva… Passai di nuovo una mano sul foglio. Amavo Ryan. Ne ero innamorata. Amavo il suo sorriso. Il modo in cui si muoveva. Amavo le sue mani sul mio corpo e le sue labbra sulle mie. La sua risata. Il modo in cui mi faceva ridere. Amavo il fatto che sapesse appianare ogni difficoltà e mi facesse sentire

come una persona che meritava affetto. «È perfetto.»

Seduta in mezzo al letto, Beth accarezzò il frontespizio per la terza volta. Il regalo le era piaciuto. L’ansia che avevo provato per tutto il giorno si dissolse. Il materasso sprofondò quando le sedetti accanto. Le sfiorai le guance rosse con le dita. Era difficile credere che fosse la stessa ragazza incontrata al Taco Bell. Quella sera Beth si era mostrata dura e chiusa al mondo. La ragazza seduta sul mio letto era dolce e aperta. Erano evidenti anche le differenze fisiche. Le passai la mano fra le ciocche lisce e morbide, e lei si scansò. Le dava fastidio che lo notassi, ma a me no. I capelli alla radice erano dorati per un paio di centimetri. Il biondo metteva in risalto il resto della massa nera. Mi piaceva il nero. Amavo il biondo. Sarebbe stato un peccato veder sparire uno dei due. In qualche modo, le donavano entrambi. Le presi il manoscritto e lo posai sul comodino. Le tremavano le mani, e si stava mordendo il labbro inferiore. Era nervosa e non capivo il perché. «Stai bene?» Annuì ma non mi guardò negli occhi. «Vorrei essere perfetta per te.» «Tu sei perfetta per me.» Beth mi appoggiò la mano sulla parte interna della coscia, e le dita seguirono lentamente la cucitura dei jeans. Il fuoco divampò per tutto il corpo, e ovunque mi sfiorasse sentivo il calore delle fiamme. Beth riprese: «No, vorrei…» e si interruppe. Anche se una parte di me voleva solo continuare a sentire le sue carezze, mi imposi di fermarle la mano. Quando Beth faceva fatica a parlare, c’era sotto qualcosa di importante. Le emozioni la confondevano. Forse quella sera avrebbe finalmente trovato il coraggio di pronunciare le parole che desideravo tanto sentire. «Vorrei…» Sospirò. «Vorrei non aver mai fatto sesso con Luke. Vorrei riavere indietro tante cose, ma non posso. Vorrei essere degna di te.» Beth era seduta sul mio letto, così vicina, con le dita avvinghiate a me… eppure qualcosa nella sua voce mi faceva sentire come se stesse scivolando di nuovo via. «Io non sono perfetto» le dissi. «E tu sei esattamente la persona che voglio… te stessa.» «Voglio vederti felice» mormorò, e nonostante la vicinanza fisica, quando la guardai negli occhi, andai a sbattere contro un muro. Beth fece scivolare una gamba sulle mie e si mise a cavalcioni. Era troppo vicina, e il fuoco che sentivo dentro minacciò di diventare un vero e proprio inferno. Mi tuffò le dita fra i capelli, facendo scorrere una scarica di brividi lungo il collo e giù per la schiena. Mi sfiorò l’orecchio con le labbra, mordicchiandolo leggermente e solleticandolo con il calore del respiro. «Lascia che ti renda felice.» Nel casino che sentivo in testa, una vocina mi suggerì che se ne stava andando. Ma non era possibile. Lei era lì, davanti a me, e mi stava facendo impazzire premendo il corpo contro il mio. Le strinsi fra le mani i fianchi che si muovevano, per sentirla ancora più vicina. Lei prese l’orlo della mia maglietta e me la lasciai sfilare via. Le sue unghie scivolarono lungo gli addominali e qualsiasi

pensiero coerente cessò di esistere quando scesero più in basso. Ci lasciammo cadere indietro sul letto, e Beth continuò a muoversi insieme a me. Mi sfuggì un gemito quando mi sfiorò il petto con i capelli, mentre le sue labbra mi baciavano il collo. La sentii sorridere contro la pelle. Vagai con le mani sotto la sua maglietta. Aveva la pelle infuocata, e io avevo un bisogno disperato di sentirla contro la mia. Le sfilai la maglietta e le deposi un bacio proprio in mezzo ai seni. Beth ansimò e decisi di non lasciarle il controllo. Volevo quello che stava succedendo. Volevo essere io a renderla felice. Volevo farla sentire bene. Le passai un braccio attorno ai fianchi e invertii le posizioni, con lei di schiena sul letto. Adoravo sentirla sotto di me. Lei intrecciò una gamba alla mia e le dita si intrufolarono tra i capelli, spingendomi a chinare di nuovo la testa. Feci scorrere la mano lungo la curva dei fianchi, volevo accarezzarla lì dove sapevo che per riflesso si sarebbe mossa in sincronia con me. Le dita scivolarono lungo lo stomaco ed esitarono incontrando il piercing all’ombelico. Mi tornò alla mente la nostra prima notte insieme, nel fienile. Le avevo fatto una domanda a cui non aveva mai risposto. Nonostante le sue mani mi trattenessero, mi feci indietro. «Che significa il tuo tatuaggio?»

Beth

Cosa significava il mio tatuaggio? Cinque secondi prima avevo il corpo in fiamme, e cinque parole erano riuscite a congelarlo come il vento polare. Ryan mi scansò i capelli dietro la spalla e inclinò il capo, in attesa di una risposta. Continuai a guardarlo negli occhi mentre il demone dentro di me lottava contro il desiderio di raccontare a Ryan qualcosa che non avevo mai detto a nessuno prima. «Significa libertà.» Ryan si sistemò in modo da avere il corpo premuto contro il mio. Quando si mosse, sentii i suoi addominali contrarsi. Dio, lui era così incredibile, io ero stesa sul suo letto senza maglietta, e lui voleva fare conversazione. Riusciva a essere così… così… frustrante. «Perché hai scelto quel tatuaggio?» Scostai lo sguardo e sbuffai un po’ d’aria fra le labbra socchiuse. Alcuni segreti erano miei e solo miei. Perché Ryan non poteva collaborare? Perché non mi permetteva di regalargli una notte speciale? Mi sporsi per baciarlo. Lui rispose al bacio, ma solo per un breve momento. Ricaddi sul letto. «Sei etero, vero?» Ryan ridacchiò. «Molto.» E per rendere il concetto, mi fece arrotolare le dita dei piedi facendo scorrere un dito nel solco fra i seni, fino allo stomaco e all’altezza dei jeans a vita bassa, con cui prese a giocherellare. «Al momento sto per morire.» Gli negai la soddisfazione di vedermi chiudere gli occhi per il piacere. Meritavo un’altra medaglia. «Allora perché stiamo parlando?» «Tu cosa sai di me?» mi chiese. Mi strinsi nelle spalle. «Un sacco di cose.» «Dimmene qualcuna.» Ooooook. «Ami il baseball e ti piace scrivere. E tuo fratello gay fa le scarpe alla maggior parte dei ragazzi in giro.» Ryan rise e io sorrisi. Mi piaceva la sua risata. Era musicale. Un guizzo di dolore gli incupì lo sguardo, e la mano smise di giocare con l’elastico dei miei slip. «Sai molto più di questo.» «È vero.» Intrecciai le dita alle sue, sperando di alleggerirlo dalla sofferenza. Sapevo che i suoi genitori si odiavano e che quel viaggio era un tentativo di salvataggio del loro matrimonio. Non avrebbero divorziato, ma stavano cercando di risanare il loro rapporto. Sapevo anche che vedere la sua famiglia a brandelli lo stava uccidendo. Cosa ancora più importante, a parte tutto il dolore che lo tormentava, sapevo di riuscire a farlo sorridere e sapevo che mi amava. «Io di te so molto poco, e voglio sapere tutto» mi disse. Non esiste. «Sai fin troppo.» Ne sapeva abbastanza. Rotolai via e presi la maglietta dal cuscino accanto a lui.

Ryan me la strappò di mano e la lanciò dall’altra parte della stanza. «Non mi scappi più, Beth.» Avvertii una rabbia incandescente scorrermi nelle vene. «Non sto scappando. Credevo che ci saremmo divertiti stanotte, ma è evidente che non ne hai voglia.» «Raccontami di tuo padre.» Lui rimase sdraiato pigramente sul letto, invece io mi appoggiai di schiena ai cuscini. Come poteva pensare che con quel comportamento arrogante avrebbe ottenuto delle risposte? «Non sono affari tuoi.» Non erano affari di nessuno. «Andiamo, dimmi qualcosa. Raccontami di tua madre.» La voce divenne sarcastica, e mi tirai le ginocchia al petto. «Si chiama Sky.» Ecco, gli avevo dato qualcosa. «Puoi fare di meglio.» Sotto il tono paziente si sentiva una punta di rabbia. «Dimmi perché Scott non ti permette di vederla. Raccontami qualcosa, qualsiasi cosa. Una volta mi hai detto di non aver paura di niente. Ora come ora vedo una bugiarda, perché sei terrorizzata.» Alzai di scatto la testa. «Vaffanculo.» Ryan non batté ciglio. «Dimmi perché sei tornata a Groveton. Come mai non sei rimasta a Louisville con tua madre?» «Sono stata arrestata, va bene?» Sentivo il cuore rimbombare in ogni parte del corpo. Sarebbe finita così? Sarebbe stato quello il colpo finale che lo avrebbe allontanato da me? Tre giorni. Mancavano ancora tre giorni alla partenza e non era così che doveva andare quella notte. Sorpreso dalla risposta, Ryan aggrottò le sopracciglia. Mi venne la nausea. Mi stava giudicando. Ne ero sicura. Mi afferrò per la caviglia prima che potessi scendere a terra. «Sai già cosa ne penso della fuga. Per che cosa sei stata arrestata?» Avevo la pelle imperlata di sudore. Potevo immaginare a cosa pensasse, e il giudizio che aveva in serbo. «Fa qualche differenza?» La presa si allentò e le dita risalirono lungo la gamba, accarezzandomi al di sopra dei jeans. «Non mi interessa chi eri a Louisville, perché sono innamorato della ragazza che sei adesso.» Innamorato. Quella parola sulle sue labbra mi faceva battere il cuore e girare la testa. «Allora perché vuoi saperlo?» «Perché voglio che ti fidi di me.» Bah. Fiducia. «Sono mezza nuda sul tuo letto. Potremmo fare un sacco di altre cose.» Ryan piegò il lato destro della bocca in un sorrisetto. «E se me lo dici, forse passeremo a quelle cose.» Mi nascosi dietro i capelli. Cosa potevo raccontargli? La versione ufficiale o la realtà? Lui mi aveva raccontato di suo fratello e dei suoi genitori. Potevo fidarmi di lui. «Mia madre ha spaccato il finestrino della macchina di quello stronzo del compagno, dopo che lui le ha messo le mani addosso. Le avrebbe fatto altro male, così ho preso una mazza e l’ho alzata per colpirlo, quando sono arrivati gli sbirri. Mamma è in libertà vigilata, per cui mi sono addossata il reato di danneggiamento di proprietà. Mia zia ha chiamato Scott per pagare la cauzione, così…» Agitai la mano in aria. «Eccomi qua.» Silenzio. Detestavo il silenzio. Il silenzio implicava pensieri, e dai pensieri scaturivano i giudizi. Ryan si fece più vicino e mi scansò i capelli dal viso. «Hai lasciato che la polizia ti arrestasse al

posto di tua madre?» Sentii la mancanza della maglietta, così tirai le ginocchia al petto. «Tu non l’avresti fatto?» «Beth.» Colsi l’esitazione nella sua voce. «Quello che hai fatto è ammirevole, ma non è normale. Non avresti dovuto prenderti la responsabilità del reato di tua madre. Non avresti dovuto prendere una mazza da baseball per difendere lei… né altri.» Si mise su dritto e capii che stava ricollegando quello che era accaduto quando mi aveva accompagnata a Louisville. «In realtà, non dovresti essere tu a prenderti cura di tua madre. Sapevi che sarebbe stata in quel bar, non è così? Sapevi cosa stavi per affrontare. Tutto questo è assurdo. Dovrebbe essere tua madre a occuparsi di te, non il contrario.» Mi si chiuse la gola. Non avrebbe mai capito. «È quello che faccio. Lei ha bisogno di me.» Ryan si passò una mano sulla faccia e scese dal letto. Emanava una pericolosa energia mentre andava avanti e indietro per la stanza. «Per quale motivo stavi litigando con Isaiah, quella sera, fuori dal capannone dove mi alleno?» «Per niente.» Avevo risposto troppo in fretta, e dall’occhiataccia di Ryan intuii che sapeva che gli nascondevo la verità. Continuò a camminare in cerchio nella camera. «L’ho sentito mentre diceva che appartieni a Groveton, e a quel punto sei andata fuori dai gangheri. Volevi scappare quella sera, non è così? È per questo che ce l’avevi con lui. Te l’ha impedito.» Mi colse il panico e balzai giù dal letto. Dove aveva lanciato la mia maglietta? Dovevo andarmene prima che capisse. Vidi la macchia nera nell’angolo e feci due passi, ma un paio di braccia forti mi afferrarono per i fianchi. «Ti ho già detto che non mi scappi.» Ryan inchiodò gli occhi castani nei miei. «Da quando ho cominciato a provare qualcosa per te, ho sempre avuto la sensazione che mi stessi sfuggendo. A volte quando mi baci, sembra quasi che tu mi stia dicendo addio. Continuo a ripetermi che è tutto nella mia testa. Che hai paura di amarmi e quindi ti ritrai. Non è solo questo, giusto? Scott non ti permette di avvicinarti a tua madre, quindi stai progettando di scappare con lei.» Dieci minuti prima, volevo solo il suo corpo stretto al mio. Ora quella vicinanza era eccessiva. Avevo bisogno di spazio e non riuscivo a muovermi. Lui pressò con forza le dita sulla pelle. «Quando?» Guardai a terra, con la gola secca. Quella notte non doveva andare così. Ryan alzò la voce e urlò: «Quando?!» Non volevo mentirgli. «Presto.» Staccò le mani dai miei fianchi e mi strinse a sé. A quel corpo che pochi secondi prima era rigido per la rabbia. Mi si spezzò il cuore avvertendo la disperazione della sua sconfitta. Appoggiò la fronte alla mia e mi strinse i capelli fra le dita. «Resta, Beth.» Chiusi gli occhi e gli gettai le braccia al collo. Quanto mi sarebbero mancati la forza di Ryan, il suo calore, il suo amore. «Ti amo, Ryan» sussurrai, quasi sperando che non mi sentisse. Perché doveva essere tutto così maledettamente doloroso? Lui si irrigidì e il cuore gli si fermò. Forse mi aveva sentita. Mi appoggiò le mani sulle spalle e mi allontanò con dolcezza. Lo sguardo saettò sul mio viso. «Io non perdo. Mi senti? Non perdo, e questo include anche te. Non resterò più all’oscuro delle cose. Non voglio più sentirmi come se mi stessi scivolando via. Non mi dirai addio. Ti amo, e tu ami me. Resterai con me.»

Ryan lo diceva come se fosse una decisione facile. Come se avessi potuto abbandonare le mie responsabilità. Come se le catene che mi strangolavano da anni potessero essere sfilate facilmente. «Non posso.» La rabbia e la confusione sparirono dal viso, sostituite dalla calma e dal controllo che gli avevo visto in faccia solo sul monte di lancio. «Non ti lascerò andare.» Sbattei gli occhi. Come se fosse in grado di fermarmi. «Non mi lascerai andare.» «No, non ti lascerò andare. Sei mia, e io non perdo.» Si mise le mani sui fianchi e rividi la stessa espressione impudente di quella sera al Taco Bell, come se dirmi di lasciare mia madre a morire fosse la stessa cosa che chiedermi il numero di telefono. «Questo non è una partita da vincere o perdere. Ci sono delle cose nella mia vita che sono state messe in moto prima che nascessi. Non ho facoltà di scelta.» «Stronzate. Tutti possono fare una scelta, e io ho fatto la mia. Non ti permetterò in nessun caso di andartene.» Era così sicuro che una parte di me gli diede retta. «No?» «No. Tre mesi fa non avevi radici qui, ma ora le hai.» «Radici.» «Radici» ripeté lui. «Fai parte della corte del ballo e stai iniziando a prendere bei voti a scuola. I miei amici ti adorano. Le cose con Scott vanno meglio. Hai una migliore amica in Lacy.» La mia mente accelerò e altrettanto fece il respiro. Avevo una vita lì a Groveton, una vita che mi piaceva e che potevo continuare. Ryan mi attirò a sé, abbassò la testa, e le sue dita mi lasciarono una scia di brividi lungo la guancia. «Hai me.» L’emozione pura nella sua voce mi fece fremere. Potevo cercare di erigere un muro, ma l’intensità di quello sguardo avrebbe superato qualsiasi cosa. I secondi sembrarono rallentare. Le sue labbra erano pericolosamente vicine alle mie, eppure si teneva a distanza. Mantenendo la mano calda sul mio viso, mi sfiorò la mascella con il naso e cercai di inspirare per calmare il battito. Ryan mi guidò di nuovo sul letto, tirandomi leggermente per i passanti dei jeans. Mi prese la mano e mi fece sdraiare accanto a sé. I pantaloni gli erano scesi un po’, mostrando la pelle del bacino, e io inghiottii a vuoto. Ero innamorata di lui. Quella notte gli avrei lasciato un ricordo di me. Prima avevo la sicurezza e il controllo. Il cuore saltò un battito. Avevo perso sia l’una che l’altro. La mano tremò quando gli accarezzai il petto nudo. «Voglio che ti fidi di me.» Ryan mi fece scorrere la mano lungo il braccio e rabbrividii. I segnali che mi stava mandando erano inequivocabili. C’erano momenti nella vita delle persone che non potevano essere dimenticati. Ecco cosa significava tutto quello per me e Ryan. Non lo avrei sedotto. Non mi avrebbe sedotta lui. Stavamo scegliendo di stare insieme. Presi un grosso respiro e buttai fuori le parole prima di perdere il coraggio per dirle: «Mi fido di te». E ti prego, ti supplico, non usare questa cosa contro di me. «Ti amo» sussurrò lui. «Hai paura?» gli chiesi. Perché io sì. Ero terrorizzata. Prima ero agitata, ma non spaventata. Non si trattava più di lasciargli un ricordo, si trattava di dargli il mio cuore.

«Non voglio farti del male. Dimmi se succede, e ci fermiamo.» Ryan mi passò il pollice sul labbro inferiore. Il calore che creò dissipò la paura. Incapace di parlare, annuii. Con movimenti terribilmente lenti, Ryan chinò la testa e si strinse a me. Le sue labbra si posarono dolcemente sulle mie, e nel riprendere fiato, gli sussurrai di nuovo quelle parole: «Ti amo».

Non ero mai stato tanto vicino a una persona in vita mia. Pelle contro pelle. Braccia e gambe intrecciate strettamente. Sdraiata sul letto, Beth se ne stava raggomitolata sul mio petto e faceva scorrere piano le dita lungo il mio braccio. Le diedi un bacio sulla testa, crogiolandomi nel profumo di rose, e lottai contro l’impulso di chiudere gli occhi. Ogni singolo muscolo si era addormentato e la mente vagava pigra, ma volevo godermi quel momento ancora un po’. «Sei sicura che non ti ho fatto male?» Mi aveva già risposto, ma ero ancora preoccupato. Beth mi lanciò un’occhiata attraverso le lunghe ciglia nere. «È tutto ok.» L’ansia aumentò. Eravamo passati da “sto bene” a “tutto ok”. «Ti ho fatto male. Dimmi la verità.» «Un pochino, ma è tutto ok. Non è che tu ci abbia…» e non concluse la frase. Avvampai dal collo in su. Non ci avevo messo così tanto. «Migliorerò. Ci vorrà un po’ di allenamento e poi staremo bene entrambi.» Beth ridacchiò e la sua allegria mi calmò un po’. «Allenamento? Riesci mai a non essere in fissa con lo sport?» «Dovremmo preparare un programma. Magari fare anche un po’ di stretching, prima.» Beth rise di cuore, e quel suono dolce mi accarezzò il cuore. Era difficile che si lasciasse travolgere dalla felicità, e proprio in quel momento sospirò pesantemente. Si lasciò andare di più e la strinsi meglio a me. Si sbagliava di grosso se pensava di potermi lasciare. «Stavo pensando…» riprese ad accarezzarmi il braccio con i polpastrelli, ma ora le dita erano più rigide e timorose. «Forse potrei parlare a Scott di mia madre. Magari può darmi una mano ad aiutarla.» Le baciai di nuovo la testa, chiusi gli occhi che bruciavano e mi schiarii la gola. Sarebbe rimasta con me. La mia Beth. «È un’idea fantastica.» «Devi dormire» mormorò assonnata contro il mio petto. «Domani hai il concorso.» «Ti amo» le sussurrai all’orecchio. Lei si accoccolò di più, e capii che ero proprio uno stronzo. Avrei detto di Beth ai miei genitori al loro ritorno, e alla festa sarei sceso in campo con lei al braccio. Al diavolo quello che pensavano mamma e papà. Al diavolo tutta la città. Al diavolo la perfezione. Quella ragazza era mia.

Beth

A svegliarmi furono gli uccelli che cinguettavano allegramente, e i raggi di sole che evidenziavano la danza delle particelle di polvere sospese nell’aria. Un cardinale rosso si appoggiò sul cespuglio fuori dalla finestra della mia stanza, a casa di Scott. L’uccellino sbatté le ali e volò verso il cielo… verso la libertà. Chissà se l’uccello nel fienile era più riuscito a scappare. Nell’aria si sentiva il profumo di pancetta e cipolle. Scott aveva promesso di preparare le crocchette di patate, quella mattina. Balzai giù dal letto e il riflesso allo specchio mi sorprese. Stavo sorridendo. Ma non era solo quello… ero diversa. La notte prima mi aveva cambiata. Mi brillavano gli occhi come a Scott quando c’era Allison in giro. A dire il vero, era tutto il viso a essere luminoso e avevo una fame da lupo. Non avevo voglia solo di cibo. Volevo chiedere a Scott di aiutare mamma. La speranza che sentivo dentro mi rendeva euforica. Non sarebbe stato male abituarsi a sperare. Raccolsi i capelli in una crocchia e andai in cucina. Scott mi lanciò un’occhiata mentre era ai fornelli. «Buon giorno, Elisabeth.» «Buon giorno, Scott.» Per poco non mi misi a ridacchiare del mio stesso tono gioioso. Io che ridacchiavo… una cosa alquanto assurda. Lui mi guardò di nuovo mentre prendevo posto all’isola, prima che gli spuntasse un sorrisetto irritante da so-tutto-io che andava da un orecchio all’altro. «Da qualsiasi lato del letto tu sia caduta stamattina, è quello da cui dovresti rotolare giù ogni giorno.» «Molto spiritoso.» Dall’altra parte dell’isola, Allison mi rivolse un’occhiata indagatrice, ma senza neanche la metà del solito disprezzo. Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi si concentrò sul giornale che aveva davanti. Il cellulare di Scott squillò. Lui lo prese dalla tasca posteriore e lo tenne contro la spalla, per rispondere mentre continuava a girare le crocchette di patate sul fornello. «Pronto.» Si scurì in volto e spinse la padella su un fornello spento prima di chiudere il gas. Si voltò e gli occhi blu carichi di preoccupazione cercarono i miei. La speranza scivolò via al volo. «Arriviamo subito» disse.

Man mano che l’auditorium si riempiva, si alzò un leggero mormorio. Quella giornata era stata sia entusiasmante che complicata. Avevo incontrato professori universitari che avevano dato delle recensioni incredibili a George e Olivia. Avevo ascoltato delle lezioni sulla scrittura, imparato nuove tecniche, e passato tutto il giorno a sudare in attesa del momento che stava per arrivare. Avrei preferito passare una giornata al freddo e sotto la pioggia sul monte di lancio, piuttosto che tutto quello… starmene lì seduto, con indosso il vestito buono, ad attendere il verdetto sul mio racconto. Mi chinai in avanti sulla sedia pieghevole dell’auditorium, intrecciando le dita. Non riuscivo a tener fermi i piedi. L’unica cosa che mi manteneva quasi sano di mente era il ricordo della notte prima. Appena fuori di lì, avrei comprato una dozzina di rose e sarei andato direttamente da Beth. Volevo dimostrarle che non avevo niente a che fare con il bastardo che aveva rotto con lei il giorno dopo che gli si era concessa. Ero quello che le sarebbe rimasto accanto per sempre. La signora Rowe staccò il segnaposto dalla sedia vicino alla mia e si sedette. «Sei nervoso?» La guardai in risposta e mi strofinai le mani. Era inquietante quanto desiderassi vincere. E lo era anche di più pensare a cosa sarebbe successo se ce l’avessi fatta. In caso di sconfitta, sapevo cosa fare: il baseball professionistico. In caso di vittoria… c’erano anche altre possibilità. Possibilità che fossi bravo non solo con una palla in mano, ma anche a scrivere. E ci sarebbero state delle scelte da fare. «È un peccato che i tuoi genitori non siano qui ad assistere» disse lei. «Immagino che sia una tortura per entrambi.» «Già.» Probabilmente si stavano torturando a vicenda. Non avevo molta fiducia nel fatto che una settimana di vacanza potesse risolvere i loro problemi. Il divorzio non era un’opzione da prendere in considerazione, soprattutto con papà che pensava di candidarsi a sindaco. Forse avrei dovuto mostrare gratitudine, ma non sapevo quanto altro silenzio glaciale sarei stato in grado di sopportare. «Sono certa che sono fieri di te» continuò lei. «Certo.» Anche se non avevano idea che fossi lì. Nel mormorio generale del pubblico, una donna in completo nero chiese alla platea di fare silenzio. Mentre ci ringraziava per la partecipazione, la signora Rowe si sporse verso di me. «Indipendentemente dal risultato, Ryan, è stato un onore immenso arrivare fino in finale.» Annuii, ma quello che lei non capiva era che a me non piaceva perdere. «…dunque, a questo punto, siamo pronti per annunciare i vincitori.» Inspirai a fondo per placare la tensione. Cinquanta di noi erano arrivati all’ultima fase. Eravamo tutti finalisti, un podio di soli tre posti, e – onestamente – a me interessava solo il primo. «Il terzo classificato è Lauren Lawrence.» La folla applaudì e mi appoggiai all’indietro sulla sedia, più irrequieto di prima. La ragazza camminò a una lentezza incredibile, e le persone sul palco ci misero perfino di più a premiarla.

La presentatrice si schiarì la gola prima di riprendere: «Il secondo classificato è…» Una parte di me implorava di sentire il mio nome, l’altra no. Il primo posto era migliore. Era quello che volevo, ma per la prima volta in vita mia, sarei stato soddisfatto del secondo. «…Tonya Miles.» Tutti batterono di nuovo le mani. Almeno quella ragazza fu più veloce. Mi chinai di nuovo in avanti, pensando a che sapore potesse avere la sconfitta. Mi sarei accontentato del secondo posto. Forse del terzo. E alla fine capii che non volevo la strada più facile… volevo poter scegliere. Volevo la possibilità di andare all’università. O no. Non ne ero sicuro. Ma sapevo di desiderare quella vittoria. «…e il nostro primo classificato è…» Si interruppe per una pausa a effetto. Abbassai la testa, lo stomaco serrato in una morsa. E se non fossi stato abbastanza bravo? «Ryan Stone.» L’adrenalina mi esplose nelle vene e alzai la testa per guardare il palco. La folla applaudiva e la signora Rowe mi fece cenno di andare verso il palco, dicendo cose che non capivo. Barcollai in avanti, e mi chiesi se avessi capito bene. Stava succedendo davvero? Avevo vinto? Sul palco, la signora mi strinse la mano e mi porse una targa e un certificato. Sembravano pesanti da tenere in mano… pesanti e meravigliosi. Ce l’avevo fatta. Avevo vinto un concorso di scrittura. La signora Rowe era in piedi. Così pure alcuni docenti universitari che avevano letto la mia storia. E per quanto apprezzassi i loro applausi, mi si formò un nodo alla gola. I miei genitori non c’erano, e se anche avessero saputo del concorso, non sarebbero venuti. Annuii alla folla, poi mi diressi verso le scale. L’applauso sfumò ovunque tranne che in fondo alla sala, dove era ancora forte. Un urlo profondo e roboante attirò la mia attenzione, e quella parte di me che sentiva di sprofondare all’improvviso tornò a volare alto. Mi fermai sul palco e Mark sorrise. Portò le mani a coppa alla bocca e urlò: «Sei grande, Ry!» Come avevo fatto a essere così cieco? Non mi aveva mai abbandonato. Mio fratello… non mi aveva mai lasciato.

Beth

Nella mia mente c’erano dei ricordi così vividi, che se mi fossi concentrata abbastanza, avrei potuto praticamente riviverli. Il cielo era blu come l’oceano e c’erano due colombe sul tetto della roulotte di nonno, quando Scott mi aveva insegnato a lanciare la palla. La mano callosa del padre di Lacy era fredda il giorno che mi aveva fatto sedere sul sedile posteriore della volante della polizia. Mamma mi aveva comprato un cupcake la prima sera passata da sole a Louisville. Quei momenti erano diventati indelebili perché, nell’istante in cui li avevo vissuti, avevo capito che li avrei ricordati per sempre. Quando Scott mi aveva insegnato a giocare a baseball, il tempo aveva smesso di esistere. Avevo stretto la palla in mano più a lungo del dovuto per poterne ricordare la trama del tessuto. Avevo esitato quando il padre di Lacy mi aveva detto di salire in macchina, per imprimere nella mente l’immagine della nostra roulotte. Avevo impiegato mezz’ora a mordicchiare la decorazione del cupcake prima di dare un vero morso, sapendo che mamma aveva dato tutti i soldi al nuovo padrone di casa. Entrando nel pronto soccorso, ebbi la stessa sensazione di vivere il momento al rallentatore. Scott mi superò per parlare con un’infermiera all’accettazione. Il cuore mi rimbombava nelle orecchie. Un inserviente, passando, mi guardò la testa. Non mi ero pettinata. Non avevo fatto niente. L’infermiera alzò gli occhi dal computer e fece un cenno verso le porte chiuse del pronto soccorso. C’era scritto a caratteri cubitali di restare fuori, ma se mia madre era lì dentro, nessuno avrebbe potuto fermarmi. La mano bruciò quando la sbattei sulla porta a vento, e a malapena registrai che dietro di me urlarono il mio nome. Da entrambe le parti del corridoio c’erano delle aree delimitate da tendine. Si sentivano i rumori dei macchinari e la gente parlava piano. La sagoma gigantesca che infestava i miei incubi stava camminando nel corridoio, e svoltò l’angolo. Lo inseguii. Trent. Era la rabbia che mi scorreva nelle vene a spingermi. Oltre i letti. Oltre l’infermiera che mi chiese se avessi bisogno di aiuto. Oltre qualsiasi pensiero sano o razionale. Alla fine di un lungo corridoio deserto, entrò in una stanza. Le altre camere intorno erano vuote. Non c’erano infermiere o medici di guardia. Trent si sedette accanto al letto di mia madre. Non vide né me, né il pugno che scattò e lo colpì alla mascella. «Vaffanculo!» Le nocche pulsarono e il dolore mi esplose fino al polso, ma non bastò a fermarmi. Era tutto sfocato. Continuai a colpire alla cieca. Trent mi rifilò un ceffone, mi tirò i capelli e strillai quando mi arrivò una ginocchiata allo stomaco. Mi spinse via come una bambola di pezza e, sbattendo contro la parete, restai senza fiato. Cercai di restare lucida e attaccarlo di nuovo. Se gli avessi lasciato il tempo, mi avrebbe colpito ancora e sarei finita a terra. Pessima idea stare sul pavimento davanti a Trent. I calci erano i suoi colpi migliori. Sentii uno schiocco seguito dall’immagine di Trent che cadeva a terra. «Tutto ok, Elisabeth?» Scott mi dava la schiena. Aveva le braccia leggermente larghe ai lati del corpo, in attesa della ritorsione. «Elisabeth!»

«Sì.» Scrollai la testa per riprendermi. «Sto bene.» Trent perdeva sangue dal naso. Buon per Scott! Glielo aveva rotto. Trent mi lanciò un’occhiataccia, tanto che Scott avanzò verso di lui. «Tocca di nuovo mia nipote, e ti uccido.» Lo stronzo ignorò Scott e continuò a fissarmi con fare sfacciato. «So che stai cercando di prenderti quello che appartiene a me. Mettile di nuovo in testa quelle idee, e i medici non saranno in grado di salvarla la prossima volta.» «Fottutissimo bastardo!» Scattai verso di lui e Scott mi trattenne per i fianchi, praticamente sollevandomi da terra per impedirmi di colpire Trent. «Avrei dovuto pestarti con quella mazza quando ne ho avuto la possibilità.» Se solo lo avessi fatto. «Vorrei che fossi morto!» «Fuori da qui prima che chiami la sicurezza!» urlò Scott. Lo sguardo di Trent divenne calmo e, passando, fece un mezzo sorriso. Scott mi strinse di più quando cercai di dargli di nuovo addosso. Trent non mi avrebbe perdonata per aver provato a fuggire con mamma. Avrebbe cercato di vendicarsi e, non potendo farlo su di me, avrebbe usato mia madre. Scott mi lasciò andare e si mise davanti alla porta. «Che diavolo sta succedendo?» Le mie mani scattarono a indicare il corridoio. «Quel tizio la picchia. E gonfia me di botte. È un fottuto spacciatore che usa mia madre, e se non fosse per te, le tue stupide regole e i tuoi stupidi ricatti, lei non sarebbe qui perché ci sarei stata io a proteggerla.» Sulla soglia della porta comparve un’infermiera, e diedi le spalle a entrambi. «C’è qualche problema qui?» chiese a bassa voce, in fretta, e con il tono di chi aveva capito che in quella stanza non ce n’era uno sano di mente. «Va tutto bene» rispose Scott. Disse dell’altro, ma la sua voce e quella dell’infermiera divennero un suono smorzato quando vidi la patetica creatura sdraiata sul letto. Qualche ora prima, il mondo mi era sembrato perfetto. Ryan mi aveva stretto fra le braccia, e mi ero convinta che sarebbe andato tutto bene. Ecco cosa succedeva a credere nella speranza. Il karma tornava a distruggerla. Mi sedetti sul letto e sfiorai le dita fredde di mamma. Doveva essere così la morte. «È morta?» Le chiacchiere dietro di me si interruppero. «Aveva smesso di respirare» disse l’infermiera. «Ma i paramedici le hanno dato del Naloxone, che ha contrastato gli effetti dell’eroina.» Eroina. Il cuore si fermò e i polmoni si strinsero dolorosamente. Eroina. Seguii con le dita il tubicino della flebo, ma evitai di proposito i segni sparsi sulle braccia. «Da quanto tempo ne fa uso?» La macchina per il controllo della pressione emise un fruscio sgonfiandosi. L’infermiera si schiarì la gola. «Non lo sappiamo.» «Quando potrà tornare a casa?» «Per adesso riposa. Al risveglio verrà visitata da un medico e, se non ci saranno complicazioni, la lasceranno andare.» Sussurrò qualcosa a Scott, che rispose con lo stesso tono basso. «Elisabeth» disse. «Vado a compilare alcuni documenti.» Cioè andava a pagare le spese mediche. Per adesso. Come avevo fatto a non accorgermi di quei segni sulle braccia prima? «Ok.» Tutto divenne immobile nella stanza, a eccezione del battito cardiaco regolare di mamma nel

monitor. Da quando zia Shirley aveva chiamato Scott, non avevo fatto altro che sentirmi come sulle montagne russe. Se avessi potuto, mi sarei lasciata cadere nell’oblio e sarei scomparsa. Ero così stanca, volevo solo scendere da quella dannata corsa. «Chi di voi ha preso a pugni Trent?» chiese Shirley alle mie spalle. «Tutti e due. Ti sei occupata molto bene di tua sorella.» Intrecciai le dita con quelle di mamma. Lo sapeva che ero lì? Probabilmente no. Mamma non si accorgeva della mia presenza nemmeno quando era quasi lucida. «Dove sei stata?» «Pausa sigaretta.» Shirley fece il classico colpo di tosse del fumatore e mamma sussultò nel sonno. «Chi credi che abbia trovato tua madre e l’abbia trascinata nel vicolo prima di chiamare la polizia? Se gli sbirri fossero entrati nel suo appartamento, saremmo in guai mille volte più seri, adesso.» Quando mamma si mosse, sperai che si svegliasse e mi dicesse che le dispiaceva. «Grazie per aver chiamato Scott.» «Lui ha i soldi. Assicurati che paghi le spese mediche.» Shirley si avvicinò a passi leggeri e mi appoggiò una mano sulla spalla. Mantenni lo sguardo fisso su mamma, spaventata all’idea che scomparisse se avessi guardato altrove. «Due giorni fa tua madre mi ha raccontato una simpatica storiella. Di quelle che potrebbero cominciare con “c’era una volta”» disse Shirley. «Ha detto che presto saresti tornata a prenderla e l’avresti portata via. Peccato che l’abbia detto anche al resto del bar, e qualcuno ha riferito tutto a Trent. Il che lo ha vagamente innervosito.» Vagamente innervosito? Il lato destro del viso di mamma era pieno di lividi recenti. Conoscendola, aveva preso l’eroina per dimenticare di essere stata picchiata, per sentire meno dolore. «Lo sai che non credo alle favole.» Non avrei mai dovuto lasciare mia madre. Sarei dovuta tornare settimane prima. Quello che le era successo era colpa mia. «È un peccato» fece lei. «Perché avrei pagato per assistere a questa.» Alzai la testa di scatto e la guardai. «In contanti» disse Shirley. «Non resisterà ancora per molto in queste condizioni. La decisione è tua. Lei è una tua responsabilità.» Shirley uscì dalla stanza. Cercai di inspirare, ma sembrava impossibile con il peso che mi ancorava giù. La responsabilità di mia madre era sulle mie spalle da quando avevo otto anni. Mi ero occupata di lei. L’avevo trascinata. Nutrita. Mi ero assicurata che andasse a lavorare o l’avevo aiutata a cercare un lavoro. Eppure adesso quello che desideravo più di ogni altra cosa era che fosse mia madre a prendersi cura di me. Avevo chiuso con i comportamenti da adulta. Per un paio di minuti, volevo sentirmi una ragazza. Volevo mia madre. Volevo mia madre e basta. Sentii una leggera carezza sulla mano. «Non essere triste, Elisabeth» mormorò mamma. Tirai su con il naso. «Non sono triste.» «Ho fatto un sogno in cui c’eri tu. Tu e papà. Mi manca.» Mi strinse appena le dita attorno al polso. «E mi manchi tu. Eri una bambina bellissima.» «Perché?» Il groviglio di rabbia, tristezza e felicità che avevo in testa soffocò l’urlo che lottava per uscire dalle labbra. Era viva, ma per poco non era morta. «Perché devi sempre rendere tutto così fottutamente difficile?» «Vieni qui. Ti preferisco quando sei triste. Odio quando sei arrabbiata.» Mi tirò per il polso, ignorando la domanda. «Voglio abbracciare la mia piccolina.»

Mi sentii una bambina di cinque anni quando mi arrampicai sul letto e appoggiai la testa nello spazio fra la sua spalla e il petto. Lei mi sfiorò debolmente i capelli. «Sei nata di martedì.» Chiusi gli occhi e aspettai che il dolore passasse, ma non andò via. Continuò a pugnalarmi ancora e ancora. Ero così stanca. Così maledettamente stanca. Non volevo pensare a Trent, all’eroina, alla fuga o alla responsabilità che avevo pensato di poter abbandonare. «Faceva un caldo terribile. Eri bellissima, ma anche tanto piccola. Il dottore non mi ha permesso di tenerti in braccio per tre settimane perché eri prematura. All’epoca il tuo papà ti amava. È venuto due volte in ospedale prima che nonna ci portasse a casa. Scott era così emozionato all’idea di tenere in braccio una bambina per la prima volta.» Le dita ossute si rilassarono sulla mia testa. Avrei voluto sentirmi dire che mi amava, perché io la amavo. Poteva anche essere una drogata e un’alcolista, e probabilmente era anche una sgualdrina, ma era mia mamma. Mia mamma. «Mi piaceva portarti al centro commerciale. La gente mi fermava per dirmi quanto eri bella. Lasciavo che ti prendessero in braccio e cercavano di indovinare il tuo nome. Eri così carina, e non piangevi mai. Eri la mia bambola personale.» Le cinsi i fianchi con un braccio e feci una smorfia nel sentire le costole così pronunciate. Mamma sospirò e continuò: «Ti ho dato il nome di mia madre, sperando che in quel modo le avrei fatto cambiare idea e avrebbe voluto bene a entrambe. Mia madre mi ha abbandonato, Elisabeth, ma io non ho abbandonato te. Mai». No, mamma non mi aveva mai abbandonato, ed era il motivo per cui ero in debito con lei. Ero cresciuta sapendo che aveva fatto quel sacrificio per me. Trattenni il respiro per evitare di tremare e singhiozzare. Mamma aveva bisogno di me e non potevo più permettermi di essere debole. Quello che le era capitato era colpa mia. L’avevo abbandonata. «Verrai comunque a prendermi lunedì, vero, Elisabeth?»

Scott se ne stava appoggiato alla parete in fondo al pronto soccorso, in jeans e polo spiegazzata. Inarcò un sopracciglio nel vedermi, ma poi lo abbassò come se fosse troppo stanco per reagire. «Come hai saputo che era qui?» «Me l’ha detto sua moglie.» Subito dopo il concorso ero andato dritto a casa di Scott per condividere la novità e portare le rose a Beth. Il mondo mi era crollato addosso quando Allison aveva pronunciato quelle poche parole: la madre di Beth era andata in overdose. Guardai nella stanza e distolsi immediatamente lo sguardo. L’immagine di Beth raggomitolata sul letto accanto a sua madre era troppo intima per chiunque… anche per me. «Da quanto tempo è lì?» «Un po’.» Scott si massaggiò gli occhi con i pugni, proprio come faceva Beth quando non riusciva a sopportare altro. C’era tanto di Beth in Scott. «Com’è andato il concorso di scrittura?» E proprio come Beth, avrebbe evitato di affrontare un problema grosso quanto un cavolo di elefante. «Ho vinto.» Il sorriso che mi fece sarebbe stato spontaneo, se non fosse stato così stanco. «Congratulazioni. Che ha fatto la tua squadra contro la Eastwick?» «Hanno vinto anche loro.» Proprio come immaginavo. Erano un’ottima squadra ed ero orgoglioso di farne parte. «Bene.» La differenza fra me e i Risk? Mai avuto problemi a parlare di elefanti. «Come sta la madre di Beth?» «È viva.» Feci una pausa. «E Beth?» Scott scosse la testa. Cadde il silenzio, ma entrambi guardammo di scatto verso la stanza quando sentimmo un singhiozzo soffocato. Mi si spezzò il cuore per Beth, e a giudicare dal dolore sul viso di Scott, stava succedendo lo stesso anche a lui. Ancora silenzio. Dalla stanza si sentì un singulto, e le mani mi prudevano dal desiderio di abbracciare Beth, di rimettere a posto il suo mondo in qualche maniera. Non avrei permesso che usasse quella come scusa per fuggire via. Le avrei parlato e le avrei fatto capire che era il momento giusto per coinvolgere Scott. «Elisabeth dice che stai cercando di decidere fra l’università e il professionismo» fece lui. Annuii. La scelta era diventata più difficile ora che avevo vinto il concorso. «Posso darti un consiglio non richiesto?» Alzai la testa. «Mi sarebbe molto utile.» «Decidi cosa significa per te il baseball, perché se giochi per fare soldi, ne resterai deluso. Solo una piccola percentuale dei giocatori selezionati riesce a giocare una partita nella Major League, e guadagneresti di più lavorando al McDonald’s che giocando nella Minor.» Mentre un’infermiera passava fra noi, reclinai la testa indietro, contro il muro. «Lei si è dato al

professionismo.» «A diciotto anni, il baseball era la mia unica scelta. Da quello che dice Elisabeth, tu ne hai molte. Se vuoi il baseball più di qualsiasi altra cosa al mondo, allora ogni sacrificio ne varrà la pena. Se il professionismo è un mezzo per realizzare uno scopo, le probabilità non sono a tuo favore.» Poi nello sguardo di Scott comparve quella strana luce che conoscevo fin troppo bene. «Se il baseball è quello per cui vivi, respiri e moriresti, non riuscirai a fare a meno di correre su quel campo. Io non ho mai provato niente di paragonabile.» «Grazie» gli dissi. I suoi commenti erano ben accetti, ma non di grande aiuto. Non mi sentivo più vicino a prendere una decisione. Con la coda dell’occhio guardai nella stanza. Incrociai gli occhi di Beth. «Resta un po’ con lei» disse Scott. «Ma Elisabeth torna a casa con me.»

Beth

Scott mi esortò a proseguire con la mano sulla schiena, mentre guardavo Shirley che si allontanava in auto con mia madre. Sembrava tardi. Il sole era tramontato. In cielo brillavano le stelle. Ryan era venuto e, per quanto riluttante, se ne era andato via. Mi amava. Ne ero sicura. Mi domandai se in qualche modo il suo amore fosse l’unica cosa che mi impediva di impazzire. «Andiamo a casa» disse Scott. Casa. La mia stanza, con i miei vestiti e la mia scatola di cereali nella dispensa. Casa. Poteva diventare casa mia se Scott avesse aiutato mamma. I fanali di coda dell’auto di Shirley sparirono quando svoltò a sinistra, sulla strada principale. Buttai fuori tutta l’aria che avevo trattenuto e mi voltai verso Scott. «Dobbiamo parlare.» Lui annuì e mi passò un braccio attorno alle spalle. Tre mesi prima, lo avrei steso per avermi toccato. Ora quell’abbraccio fu ben accetto. Con le ginocchia indebolite dalla stanchezza, mi appoggiai a mio zio. «Parleremo domani.» Scott continuò a guidarmi verso l’auto. «Sei ridotta a uno straccio.» Eravamo quasi arrivati alla macchina quando fui colta da un déjà-vu. Come se stessi vivendo qualcosa che avevo già visto prima… un ricordo al rallentatore. La testa scattò a destra e capii che non era un ricordo, ma la realtà. Mi bloccai di colpo e Scott si fermò a sua volta. «Che succede?» «Isaiah» dissi, non a Scott ma a me stessa. Il mio migliore amico era lì. Appoggiato al cofano della sua Mustang nera, Isaiah stava osservando me e Scott a distanza. Abbassò la testa quando si rese conto che lo avevo visto. Feci un passo verso di lui, e Scott mi trattenne per un braccio. «No, Elisabeth.» Voltai di scatto la testa. «Solo un istante. Uno solo. Per favore.» La presa si allentò quando dissi per favore. Quando finalmente mi lasciò andare, barcollai. Ero distrutta… fisicamente, emotivamente, ma cercai la forza. Dovevo parlare con Isaiah. Lui rimase dov’era, senza nemmeno venirmi incontro, e parlò prima che lo raggiungessi: «Shirley mi ha detto di tua madre. Stai bene?» La domanda mi fece fermare ad almeno un’auto di distanza. Il suo sguardo irradiava dolore, e i muscoli dell’addome si contrassero. Se mi fossi avvicinata di più gli avrei fatto altro male, e capirlo fu come ricevere un ceffone in pieno viso. «Sì» risposi, poi ci ripensai. «No. Fa uso di eroina.» Isaiah distolse lo sguardo e una palla di piombo mi finì nello stomaco. «Tu lo sapevi» lo accusai. Mi guardò di nuovo negli occhi. «Porta solo guai, Beth. Non la cambierai mai.» Sarebbe cambiata. Scott mi avrebbe aiutato. Ne ero sicura. «Tu come stai?» «Sopravvivo.» Isaiah guardò il cielo stellato, poi si allontanò dall’auto. «Ti auguro una bella vita.» «Isaiah…» mormorai, senza sapere cosa fare per rimettere le cose a posto fra noi. «Questo non è un

addio.» «Sì» rispose lui, sbloccando lo sportello dell’auto. «Lo è.» «Se lo credessi davvero, non saresti qui adesso.» Quando realizzai quello che avevo detto, mi sentii carica di una nuova energia. «Siamo amici. Per la vita.» Lui si passò una mano sul viso prima di salire in auto, chiudere lo sportello e far partire il motore con un rombo furioso. Quella breve scintilla di energia mi abbandonò, iniziando dalla testa fino alle dita dei piedi. Faceva male sapere di aver fatto soffrire Isaiah, ma un giorno si sarebbe innamorato davvero e avrebbe capito che eravamo solo amici da sempre. APRII GLI OCCHI E IMPRECAI. Era la seconda patetica volta che mi addormentavo e Scott doveva portarmi dentro in braccio. Proprio come la prima notte in quella casa, avevo una coperta avvolta addosso e le scarpe erano disposte ordinatamente accanto al letto. Era buio e non mi presi la briga di guardare l’orologio. Lanciai via la trapunta, scesi dal letto e mi avviai verso il vestibolo. In cucina, Scott era seduto all’isola e fissava il ripiano. Mi lasciai cadere sul comodo divano in pelle. Tre mesi che vivevo lì dentro, e non mi ci ero mai seduta. «Bel divano.» «Era ora che lo provassi» disse Scott. Indossava una maglietta degli Yankees e un paio di jeans. A forza di comportarsi da uomo maturo, mi faceva dimenticare che non aveva nemmeno trent’anni. Scese dallo sgabello e mi raggiunse in soggiorno. «Ti va di raccontarmi di Trent?» «No.» «Riformulerò la richiesta. Raccontami di Trent.» Scott aveva il merito di aver colpito il bastardo. Mi stropicciai gli occhi assonnati e cercai la spiegazione più semplice e più rapida. «Quello stronzo è figlio del demonio, e qualcuno dovrebbe trapassargli il cuore con un paletto, farlo a pezzi e bruciarne i resti.» «O rifilargli un colpo in testa con una mazza da baseball?» «O quello.» Sorrisi appena e Scott replicò con lo stesso accenno di sorriso. Avevo detto a Ryan che sarei rimasta. Passai le dita sul nastro legato al polso. «Perché ci hai abbandonato? Non hai lasciato solo me, ma anche mamma.» «Sei pronta a parlare con calma o vuoi che ci urliamo addosso e basta?» «Parla.» Forse. «Quando sono andato via da Groveton, volevo tener fede a quello che avevo detto. Avevo intenzione di tornare a prenderti. So che ero giovane, ma ti amavo come una figlia.» E io lo amavo come un padre. Attirai al petto le ginocchia e le circondai con le braccia. «Allora perché non sei tornato?» «Perché…» iniziò, e si fermò più volte, come se avesse un nodo alla gola. «Perché se l’avessi fatto, non sarei riuscito a combinare niente. Non potevo portarti in giro con me, e – se avessi scelto te – avrei dovuto chiudere con il baseball. Se fossi rimasto a Groveton, sarei diventato come mio padre. Mio fratello mi aveva giurato che non sarebbe mai stato come lui, e il giorno in cui si è diplomato, si è trasformato nello stesso bastardo che era nostro padre. Non volevo i parcheggi delle roulotte, non volevo le ragazze in fissa con la droga e non volevo passare il resto della vita a far del male alle persone che dicevo di amare. Se fossi rimasto, sarei diventato come mio padre e un giorno avrei fatto del male a te.» Scossi la testa. Scott non mi avrebbe mai torto un capello. Non ne era capace.

«Quel dannato terrore era così grande che quando ho iniziato a correre, non sono riuscito a fermarmi. Avevo paura di ritrovarmi di nuovo a faccia a faccia con te. Avevo paura che, vedendoti, sarei rimasto e mi sarei trasformato in mio padre.» Scott imprecò e congiunse le mani come se stesse pregando. Mi morsi le labbra quando la voce gli si spezzò. «Quando sei venuta qui, all’inizio… ogni volta che ti guardavo, vedevo il mio vecchio. C’era la sua rabbia nei tuoi occhi. Il rancore di tuo padre. Per quanto tu possa odiarmi per averti abbandonata, non me ne pento. Se fossi rimasto, non mi sarei mai liberato e tutta la rabbia e il rancore che vedevo in te sarebbero stati dentro di me.» Conoscevo la rabbia e il rancore di cui parlava. Erano le catene che mi tenevano ancorata e minacciavano di farmi soffocare ogni giorno… almeno finché non avevo incontrato Ryan. Ma a quelle catene era bastata una telefonata di Shirley per tornare, e mi stringevano con più forza la gola. «Evviva. Tu ti sei salvato e io sono rimasta fottuta.» Scott si sporse in avanti. «Lo so che è questo che sembra, ma mi sono salvato anche per te. Ho fatto un casino. Dopo essere entrato negli Yankees, sarei dovuto tornare a prenderti e portarti con me a New York. Non l’ho fatto e mi dispiace, ma adesso sono qui e questa…» Distese le braccia e indicò la casa. «Questa è la tua opportunità. Il tuo baseball. Tutto ciò che devi fare è fidarti di me e accettarla. Qualsiasi cosa tu voglia sarà tua, ma devi lasciarti il passato alle spalle.» Scott parlava di speranza, e la speranza era una leggenda. Si comportava come se fosse semplice abbandonare mamma. Come se potessi relegare senza sforzo i demoni nei miei incubi e, con un colpo di bacchetta, tutto sarebbe andato a finire bene in qualche maniera. «E mamma?» Non mi rispose subito. Invece si mise a fissare una cicatrice chiara che aveva sulla mano destra, dove mi aveva raccontato che nonno lo aveva ferito con un coltello da bambino. «Non è una mia responsabilità, e non è nemmeno tua.» «No. È qui che ti sbagli. Mamma è una mia responsabilità. È colpa mia se è infelice.» «Non è così.» «Come ti pare. Pensavo che forse potresti darle dei soldi. Potremmo mandarla in uno di quei centri di riabilitazione, così una volta disintossicata, potremmo farla spostare in un posto migliore. Una volta lavorava, potremmo trovarle un altro impiego. È tanto tempo che è depressa, e so che sta con Trent perché lui ha i soldi. Sono sicura che le cose miglioreranno, se la aiuti.» «Non posso.» La testa scattò come se mi avesse dato uno schiaffo in faccia. «Che vuol dire che non puoi?» L’avevo fatto. Ero andata a chiedergli aiuto. Gli avevo dato fiducia, e adesso me la stava rigettando in faccia? «Ho fatto a me stesso e ad Allison una serie di promesse quando siamo tornati a Groveton, e soprattutto quando ti ho riportato nella mia vita. Tua madre è un confine che non posso oltrepassare.» No, no, no, no. NO! Non era così che doveva andare la nostra chiacchierata. «Ma devi farlo.» All’improvviso la stanza sembrò più piccola e balzai in piedi. Dovevo uscire. Ovunque mi voltassi, c’era una finestra o l’ingresso a un’altra stanza. Non c’era una maledetta porta che desse sull’esterno in quel fottutissimo stanzone? «Elisabeth» fece Scott molto lentamente. «Perché non torni a sederti?» «Devi aiutarla!» Perché io non potevo, e quella constatazione mi stava facendo dare di matto.

«Mandala in riabilitazione. Fai in modo che si disintossichi. Dopo sarà una persona migliore. Tu non capisci: lei non ha mai avuto una possibilità. Non abbiamo mai avuto niente. Nessuno ci ha mai aiutate.» «Le mandavo dei soldi» disse dolcemente Scott. Sentii un rombo in testa e mi bloccai. Ero in cucina e non avevo idea di come ci fossi arrivata. «Che cos’hai detto?» Scott raggiunse l’isola. «Mandavo dei soldi a tua madre ogni mese. Le ho aperto un conto in banca e ogni mese lei lo prosciugava. Non sono stato abbastanza uomo da chiamarti, ma almeno ho pagato per i miei errori. Un paio di mesi fa Allison ha scoperto il conto e credeva che avessi una relazione. L’ho portata qui a Groveton, per provarle che non mentivo su te e tua madre, e quando sono arrivato qui, non mi è piaciuto quello che ho trovato. Così siamo rimasti, ma ho promesso ad Allison che avrei smesso di mantenere tua madre. Era ovvio che non stava usando i soldi per aiutare nessuna di voi due.» «Stai mentendo.» Sbattei la mano sul ripiano. «È una bugia!» Doveva esserlo. «Posso mostrarti gli estratti conto, se vuoi.» Non riuscivo a respirare. Non… non ci riuscivo. Per niente. «Elisabeth» fece Scott. «Siediti.» Cercai di inspirare, ma i polmoni si rifiutarono di collaborare. Mi aggrappai al lato del ripiano e mi piegai, cercando un po’ di ossigeno. Scott si sbagliava. Doveva sbagliarsi. Mamma non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere. Mai. Perché non riuscivo a esalare un fottuto respiro? «Elisabeth!» Scott spinse via uno sgabello e mi afferrò prima che potessi cadere a terra. Si sedette accanto a me mentre chinavo la testa fra le mani. «Respira» mi ordinò. Quando inspirai sembrò che stessi ansimando, e fu come se la testa si stesse spaccando a metà. «Va tutto bene» disse Scott. Ma non era così. Non c’era niente che andasse bene.

Beth non si era vista la notte prima. Non fu una sorpresa. I miei genitori erano tornati in città, per di più Beth aveva passato l’intero sabato fino a tarda sera in ospedale, e aveva bisogno di un giorno per riposare. Avevo sperato comunque che venisse. Sabato l’avevo vista solo per pochi secondi e in presenza di Scott. Mi era sembrata così a pezzi. Avevo bisogno di dirle che la amavo, e sentirmelo dire in risposta. Ci saremmo visti prima dell’inizio delle lezioni, e avrei passato la giornata a cercare di farla sorridere. Lacy, Chris e Logan si sarebbero sicuramente uniti a noi. In quattro saremmo riusciti a distrarla. Aprii il frigo, presi un Gatorade, recuperai le chiavi dal ripiano e scartai per evitare di scontrarmi con mia madre. «Scusa. Ci vediamo più tardi alla partita.» Partita a cui avrei presentato ufficialmente Beth ai miei genitori come la mia ragazza. In pubblico non si sarebbero mai sognati di fare una scenata. «È presto. Siediti.» Mamma mi superò. Si era messa in tiro per la giornata. Pantaloni eleganti. Twin set. Collana di perle. A pranzo sarebbe andata a cercare una nuova preda al circolo. Papà entrò in cucina passando per la sala da pranzo e a stento le rivolse un’occhiata. La vacanza avrebbe dovuto salvare il loro matrimonio. La notte prima avevano dormito in camere separate. Feci tintinnare le chiavi in mano. «Ho un po’ di cose da fare prima di scuola. Possiamo parlare dopo?» Mamma prese posto al tavolo e mi fece cenno di fare altrettanto. Mi limitai ad appoggiarmi con il fianco allo stipite della porta. «Va bene.» Lei aprì la mano destra e il blister dei miei preservativi finì sul tavolo, aprendosi a fisarmonica. «Ti dispiace darci una spiegazione?» Le chiavi affondarono nella pelle della mano mentre cercavo di tenere a freno la rabbia. «Hai frugato nella mia stanza?» «Siamo i tuoi genitori. Ne abbiamo il diritto.» Guardai papà, che mi fissava con aria paziente dall’altra parte della stanza. Al panico si mescolarono la nausea e l’adrenalina, ma – al diavolo! – non l’avrei mostrato. Quanto a fondo erano andati? Avevano trovato la targa della vittoria al concorso di scrittura? Avevano acceso il computer? Letto le mie storie? Era lo stesso modo in cui avevano trattato Mark quando era tornato a casa dall’università per le vacanze. Poco prima che annunciasse di essere gay. «Li ho contati» disse mamma. «Ne manca uno.» Non avevo mai odiato mia madre prima, ma al momento la detestavo eccome. «Che cosa vuoi?» «Chi è lei?» «Non ho intenzione di dirtelo.» Non se mamma voleva trattare Beth come una ragazza con cui avevo usato un preservativo. Avrebbe preso qualcosa di bellissimo e lo avrebbe trasformato in una

cosa sporca. «Almeno è una lei?» chiese papà. Serrai la presa sul Gatorade. «Ma che problema avete?» Papà si allontanò dalla porta con i muscoli in tensione. Mamma balzò giù dalla sedia e si frappose tra me e lui. «Abbiamo sentito delle voci, ieri sera a cena. Ero sicura che fossero false, perché non saresti mai andato contro i nostri desideri. Ne avrei parlato con te ieri, ma non c’eri. Ho fatto quel che dovevo per trovare le risposte.» «Dovevi aspettarmi, mamma. Non metterti a frugare nelle mie cose.» «Esci con Beth Risk?» chiese fermamente lei. «O ci stai facendo un po’ di pratica?» domandò papà. Mamma si voltò di scatto. «Andrew!» «Con alcune ragazze ci si esce. Con altre ci si fa sesso. È una cosa che i ragazzi fanno.» «So come ti comportavi al liceo» ringhiò mamma. «Ma mio figlio non andrà a letto con una ragazza mentre esce con un’altra. Gwen si merita di meglio. Io meritavo di meglio!» «Smettetela!» Ero stanco dei loro litigi. «È stata una sola notte, Miriam!» urlò papà. «Venticinque anni fa!» Lanciai il Gatorade che avevo in mano dall’altra parte della stanza. La vetrinetta si infranse, e mamma si coprì la testa con le mani. «Ma non vi ascoltate mai? Vi siete presi il disturbo di ascoltare Mark? E date mai retta a me? Non sto uscendo con Gwen, e tenete Beth fuori da questa storia!» «Ryan!» sbraitò papà, ma mamma alzò la mano per zittirlo. «Ryan» disse lentamente. La mano salì alla collana di perle. «Beth Risk non è chi pensi che sia. Gwen si è preoccupata vedendo che continuavi a frequentarla a scuola nonostante ti avessimo proibito di uscirci, così si è sfogata con i suoi genitori… di nuovo.» Imprecai a mezza voce. Gwen non aveva nemmeno idea del disastro che aveva combinato. Mamma continuò: «Non avercela con lei. Ci tiene a te e ha fatto la cosa giusta. Vedi, suo padre conosce la verità su Beth. Tanti anni fa non si è trasferita a New York con Scott. Suo padre è finito in prigione e sua madre l’ha portata con sé a Louisville. La madre di Gwen conosce un funzionario che lavora nella segreteria della vecchia scuola di Beth a Louisville. Mi dispiace, Ryan, ma a volte i figli sono destinati a diventare proprio come i genitori. Beth fa uso di droghe. È stata arrestata, e la sua reputazione con i ragazzi al vecchio liceo…» Non aspettai di sentire altro. «Gwen sa tutto questo?» Perché prima non ne sapeva niente. Altrimenti me l’avrebbe detto, per farmi rompere con Beth. «Sì. Era presente, ieri, quando ce l’hanno detto i suoi genitori.» Le diedi le spalle, le chiavi serrate nel pugno. «Ryan!» Mamma mi richiamò dalla cucina. «Torna indietro!» Troppo tardi. Corsi fuori in garage, feci partire la jeep e uscii dal vialetto. Se Gwen sapeva, l’avrebbe raccontato a tutta la scuola.

Beth

Scott accostò vicino all’ingresso principale della scuola e parcheggiò l’auto. Eravamo in anticipo. Nessuno dei due aveva parlato più di tanto a colazione. Non avevo mangiato, e nemmeno lui. «Sei sicura di voler andare, oggi?» mi chiese per la decima volta. «Non è un problema se resti a casa. Allison e io ti abbiamo sentito fare su e giù per la stanza, so che non hai dormito abbastanza nelle ultime notti. È preoccupata per te e lo sono anch’io.» Ero così maledettamente stanca che non riuscii neppure ad alzare gli occhi al cielo alla menzogna su Allison in pena per me. Mamma e io saremmo dovute andare via quel giorno. Avrei saltato la scuola, e sarei arrivata a Louisville in taxi. Poi ce ne saremmo andate. Dentro mi sentivo straziata, sconfitta e ferita. Un po’ come se Trent avesse avuto libero accesso ai miei organi. La peggiore fra le sensazioni era quella di annegare, come se i polmoni fossero stretti in una morsa. Sfiorai il nastro sul polso. «No, voglio andare a scuola.» Dovevo vedere Ryan. Mi aveva detto che avevo delle radici lì. Avevo bisogno di sentirmelo dire di nuovo. Di ridere con Lacy. Di sorridere quando Logan e Chris si punzecchiavano a vicenda. Volevo riuscire a fare un buon compito di biologia. Volevo accertarmi che lasciar andare mia madre non fosse il peggior errore della mia vita. Lo zaino era sul pavimento dell’auto, e stavo stringendo al petto il libro. Ero brava in biologia. Sul serio. Piacevo alla professoressa. Invece di urlarmi addosso quando mi scappava qualche parolaccia nelle risposte, rideva e mi strizzava l’occhiolino. A fine lezione mi raccomandava di moderare il “fottuto linguaggio”. Mi ero guadagnata una B in pagella e la settimana precedente la professoressa mi aveva detto che ero vicina alla A. Io, Beth Risk, avrei preso una A! «Non avrei mai voluto dirti dei soldi.» Scossi la testa e Scott si ammutolì. Preferivo non pensarci. Faceva ancora troppo male. Cercai di spazzar via i pensieri su mamma e i soldi, e su come la stavo abbandonando nelle mani di Trent. Cercai invece di concentrarmi su Lacy. Mi aveva definito la sua migliore amica e mi aveva chiesto di restare a dormire da lei nel week-end. Da quando avevo lasciato Groveton a otto anni, non ero mai rimasta a dormire a casa di un’amica. Aveva detto che avremmo mangiato le meringhe glassate e guardato dei film. Avevo una migliore amica, una ragazza. «Non hai un bell’aspetto, marmocchia.» Avevo preso a pugni Trent sabato, quindi le avrebbe fatto del male. Quando cercai di respirare, per poco non soffocai. Come potevo farlo? Non potevo abbandonarla. «Mamma mi aveva giurato che non avrebbe mai preso l’eroina.» «Mi dispiace» disse semplicemente lui. Un po’ come si fa con un bambino quando scopre che Babbo Natale e il Coniglietto di Pasqua non esistono. Gli dispiaceva che l’illusione fosse finita, ma era contento che avessi messo piede nella realtà. Mamma non reagiva quando Trent la picchiava. Sarei dovuta andare a Louisville. «Papà si faceva di eroina. E la spacciava, anche.»

Scott spense l’auto. «Non lo sapevo.» Mi stavo lasciando mamma alle spalle, ma ero in debito con lei. Non mi aveva mai abbandonata. «Non era un dramma quando era fatto. Passava gran parte del tempo a dormire. Gli aghi mi facevano paura. Mamma diventava paranoica se ci giocavo troppo vicino.» «Che è successo?» Perché non gliel’aveva detto mamma? O Shirley? Perché dovevo farlo io? «Papà non mi voleva.» «Tuo padre era giovane. Non sapeva quello che voleva, ma non aveva niente a che vedere con te.» Vero. Papà aveva diciassette anni alla mia nascita. Mamma ne aveva quindici. Papà sapeva di volere lei. L’aveva ottenuta, ed ero nata io. Ma Scott non capiva il punto della questione. «Me l’ha detto lui, perché ho… uhm, fatto un errore.» Ero un errore. Scott mi guardò con gli occhi blu, ben più dolci di quelli di papà, e ben più vitali di quelli di mamma. Non volevo che nei miei occhi ci fossero rabbia e rancore. «Quando ero in terza elementare, si presentò un tipo alla roulotte e all’inizio andava tutto bene, ma poi cominciò a litigare con papà. Il tizio si sfilò una pistola dai jeans.» Rabbrividii e guardai dritto davanti a me. Vedevo lo zaino, lo stereo e il pavimento dell’auto, ma il mio corpo reagiva come se fossi tornata nella roulotte. «Mirò a papà, e quando papà rise, la puntò verso di me. Era così vicina.» Vicinissima. Abbastanza perché potessi sentire il metallo freddo sulla fronte. Ricordavo le urla di mamma e la pipì che scivolava a terra lungo le mie gambe. «Elisabeth» mi esortò dolcemente Scott. «Continuarono a litigare e lui caricò il grilletto.» Quel rumore spaventoso… clic, tic. Mi passai le mani sulle braccia. Avevo la pelle d’oca. Ero certa di morire, e avevo pregato Dio che non facesse male. Mamma aveva preso a urlare a squarciagola. «Papà gli tirò una sacca con dei soldi. Lui disarmò la pistola e la abbassò.» Ero corsa via. Oltre mamma, che era crollata a terra in lacrime. Oltre papà, che aveva cacciato il tizio a suon di parolacce. Oltre il bagno e fin nella camera di mamma e papà. «Mi nascosi sotto il letto e chiamai la polizia.» Scott scosse la testa mentre guardava fuori dal parabrezza, in direzione dell’ingresso della scuola. «Quanta eroina c’era in casa?» «Non lo so» sussurrai. «Mamma mi trovò al telefono e capì cosa avevo fatto. Papà stava ancora cercando di scaricare l’eroina nel bagno quando il padre di Lacy gli mise le manette.» Ammanettarono anche mamma, che piangeva così tanto da tremare tutta. Rimasero entrambi in ginocchio in soggiorno mentre perquisivano la roulotte. «Elisabeth…» Era una preghiera, ma non immaginavo cosa potesse volere da me. «Elisabeth è morta, Scott. Per favore, smettila di chiamarmi così.» Ricordavo l’occhiata feroce di papà mentre il padre di Lacy mi portava via. Per lui ero morta in quel momento. «A mamma toccò la libertà vigilata. Papà rimase dentro per sei mesi. Quando uscì, venne fino a Louisville per vedermi. Si inginocchiò, mi guardò dritto negli occhi e mi disse che ero la cosa peggiore che gli fosse mai capitata.» Si era alzato. Aveva guardato mamma e le aveva chiesto se voleva andare via con lui. Mamma aveva scelto di restare con me. «E se ne andò.» E mamma non lo aveva seguito, perché aveva scelto me. Anche se amava mio padre, era rimasta. Ero in debito con lei.

Scott fece ripartire l’auto. «Ti porto a casa.» «No!» Dovevo prendere A in biologia. Dovevo vedere Ryan, andare alla sua partita, e sapere che avevo preso la decisione giusta. Avevo una vita lì a Groveton e avevo bisogno di scendere a patti con il fatto di lasciar andare mamma. «Ho un compito oggi, poi dopo scuola c’è la partita di Ryan. Lasciamelo fare.» «Se è quello che vuoi, va bene. Ma ne parliamo appena torni a casa.» Casa. Non avevo idea di cosa significasse veramente. LA CAMPANELLA SUONÒ QUANDO entrai nell’edificio e mi insinuai nell’atrio tra la folla di studenti. Avevo la sensazione che perfino la pelle fosse fuori posto. Come se fosse troppo stretta e fossi sul punto di fare la muta come i serpenti. Per anni avevo fatto in modo di saltare le lezioni, e oggi avevo lottato per venire a scuola. Che avevo di strano? Una ragazza mi urtò con la spalla e rise non appena vide con chi si era scontrata. «È lei» sussurrò ad alta voce la sua amica. Mi si drizzarono i capelli sulla nuca. Ero io? Che significava? Continuai a camminare in corridoio e alcuni ragazzi smisero di parlare e mi guardarono mentre li oltrepassavo. Strinsi il libro di biologia come se fosse uno scudo. Non avevo attirato tanta attenzione nemmeno il primo giorno di scuola. Al diavolo! Volevo trovare Ryan e andare a lezione. Aveva vinto il concorso di scrittura e quel pomeriggio avrebbe giocato l’ultima partita della stagione. Non mi ero ancora congratulata con lui. Girai l’angolo e mi bloccai vedendo una piccola folla di persone vicino al mio armadietto. Una matricola fece un cenno con la testa verso di me. «È qui.» Il mormorio e le risate cessarono e la gente si fece indietro. La paura scacciò via tutta la speranza che mi era rimasta. Scritta sull’armadietto c’era la parola che più temevo: PUTTANA. Puttana. Ero andata a letto con Ryan venerdì notte. Puttana. Ma era venuto all’ospedale sabato. Domenica mi aveva riempito di messaggi e telefonate, solo che la troppa stanchezza mi aveva impedito di rispondere. Ryan ci teneva a me. Puttana. Girai sui tacchi e cercai di scappare nel corridoio… lontano dal mio armadietto, dai mormorii e dalle risate. Svoltai l’angolo e mi scontrai con un’amica di Gwen. «Be’, guarda chi c’è… Beth Risk. È vero che sei stata arrestata a Louisville?» L’unica persona a cui l’avevo raccontato era Ryan. «Va’ all’inferno.» Le sue amiche risero e lei sorrise. «Gwen ha cercato di avvertirti. Ryan e i suoi amici prendono le scommesse molto seriamente. Cosa ti ha fatto credere di essere diversa?» Ryan mi aveva dato la boccetta con la pioggia. Aveva detto di amarmi. Non avrebbe raccontato in giro della nostra notte insieme, o del mio arresto a Louisville. «Non sono una scommessa.» «Davvero? Allora come mai i genitori di Ryan non sapevano di voi due? Anzi, sua madre ha detto alla mia che gli aveva proibito di uscire con te settimane fa.» Rimasi senza parole, come se fossi stata colpita al cuore da un rompighiaccio. Feci un passo indietro, ma la ritirata non fu abbastanza. Lei rivolse uno sguardo alle amiche, e poi tornò a guardare

me con gli occhi stretti. «Non solo sei stata una scommessa, ma anche lo sporco segretuccio di Ryan.»

Parcheggiai la jeep dietro il pick-up di Chris e balzai fuori. Dovevo trovare sia Beth che Gwen. Avrei ceduto a Gwen il ballo d’autunno. Le avrei promesso di far cancellare il mio nome e quello di Beth, se avesse mantenuto i segreti di Beth. Chris e Logan erano appoggiati al paraurti e sorrisero appena mi videro. Quella giornata rischiava di diventare un incubo per Beth, e avevo bisogno del loro aiuto. «Avete visto Beth?» Entrambi scossero la testa. «Tu hai visto Lacy?» chiese Chris. «Dovevamo incontrarci qui.» Cercai con lo sguardo nel parcheggio e vidi Lacy che si precipitava fuori dalla porta di servizio. «Eccola.» Chris si mise dritto quando la vide correre verso di noi. «C’è qualcosa che non va.» Lei lo superò, scattò in avanti e mi rifilò un ceffone in pieno viso. Fece male, ma la parte peggiore furono le lacrime che le scorrevano sulle guance. «Come hai potuto?» singhiozzò. Lacy non mi aveva mai colpito prima. Non aveva mai alzato le mani su nessuno. Chris si frappose tra me e lei mentre Logan urlava di andarsene a chi si era fermato per assistere. «Lace, che diavolo…?» disse Chris. Lo spinse con forza, e gli spintoni divennero pericolosamente simili a dei pugni. «Che diavolo?» urlò. «Che diavolo ti è preso? Credevo che fossi suo amico!» Logan le si avvicinò da dietro e le trattenne le mani lungo i fianchi. «Calmati, Lace. Spiegaci cos’è successo.» Lei mi guardò attraverso un fiume di lacrime. «Mi avevi giurato che non le avresti fatto del male. Che non era più una scommessa.» Beth. Parlava di Beth. «Non lo era. Voglio dire, lo era, ma sai che ho rinunciato.» Lacy si divincolò dalla presa di Logan, che rimase comunque vicino in caso volesse attaccare di nuovo. «Dicono tutti che Chris e Logan ti hanno sfidato ad andarci a letto. Che hai vinto quando l’hai portata nel bosco durante l’ultima festa al campo. Che ci sei stato insieme, e che lei ti ha raccontato del suo passato. Tutti sanno quello che le è successo a Louisville. Tutti.» Gwen. Sferrai un pugno alla fiancata del pick-up di Chris. «Hai visto Beth?» Lacy scosse la testa. «Dimmi che non l’hai fatto, ti prego.» Chris le sfiorò la guancia, esitante. «No, piccola. La scommessa è finita la sera stessa in cui Ryan si è innamorato di lei.» Lei si asciugò le lacrime dal viso. «Qualcuno le ha scritto puttana sull’armadietto.» Logan si passò entrambe le mani in faccia e Chris imprecò. L’incubo era già cominciato. CERCAI BETH NEI CORRIDOI ma senza risultati. La prima campanella suonò e dalla parte opposta del corridoio, Lacy scosse la testa. Maledizione. Nemmeno loro erano riusciti a trovarla.

Logan mi toccò la spalla. «È appena entrata in aula.» Finalmente. Attraversai il corridoio di corsa ed entrai in classe un attimo prima che suonasse l’ultima campanella. Lacy, Chris e Logan mi seguirono a ruota. Chris mi diede una pacca sulle spalle e andammo verso i nostri posti. Qualcuno mise a tacere le chiacchiere e le risate, e mi guardarono tutti. Cercai Beth con lo sguardo. Si era ripresa il posto nell’angolo, invece di sedersi vicino a me come faceva da settimane. Proprio come il primo giorno di scuola, aveva il viso nascosto dai capelli e scarabocchiava sul quaderno. Non aveva più il mio nastro al polso. Una signora che non conoscevo si schiarì la gola. Doveva essere una supplente. «Ti dispiace prendere posto?» Beth mi guardò, poi abbassò subito gli occhi. Mi sembrò di aver ingoiato dei coltelli. Aveva sentito le voci e ci aveva creduto. Perfezione. Era quello che tutti si aspettavano da me. Prendere posto. Fare i compiti. Andare agli allenamenti. Giocare a baseball. Soffocare tutto dentro e far marcire lo stomaco, fintanto che all’apparenza fosse stato tutto perfetto. «Beth.» Lei tenne la testa china e la supplente si insinuò nel mio campo visivo. «O ti siedi o questo pomeriggio lo passi in punizione.» «Ryan» mi richiamò Chris. «La partita.» La partita contro la Northside. Avevo giurato a Chris che non ne avrei saltata un’altra, e la punizione mi avrebbe impedito di mantenere la promessa. Andai a sedermi a malincuore e mi voltai a guardare Beth, sperando che mi guardasse. «La fermiamo dopo la lezione» mi sussurrò Chris dall’altra fila. LA CAMPANELLA SUONÒ E SI SCATENÒ una corsa a chi riusciva ad andarsene più in fretta. Beth uscì per prima e, grazie alla taglia minuta, poté scartare e inserirsi nella massa di corpi che affollavano il corridoio. La mia lezione successiva era nella direzione opposta a quella che aveva preso lei, ma non aveva importanza. Correva verso il corridoio di storia e la afferrai per un braccio prima che potesse mettersi al sicuro nell’aula. Mi chinai per fissarla dritto negli occhi. «Lo sai che ti amo.» Lo sguardo che mi restituì era uguale a quello che aveva due giorni prima, in ospedale… completamente annientato. «Mi hai scopato per vincere una scommessa?» Lottai contro l’impulso di scrollarla. «Non ti ho scopato, ho fatto l’amore con te. Non farlo, Beth. Non distorcere quanto di bello c’è stato fra noi.» Gli occhi le divennero lucidi e il cuore mi si sbriciolò in milioni di pezzi. Beth non era tipo da lacrime, e la stavo facendo piangere. Pensavo che fare l’amore le avrebbe provato quanto la amavo. Quanto poteva fidarsi di me, e mi uccideva sapere che quel singolo atto ci stava distruggendo. «Ti ho dato la mia parola che la scommessa era chiusa. Quando ti ho mentito finora?» «Sulle scale di casa di Scott mi hai promesso che non sarei stata un segreto.» Ero lì in piedi a infrangere tutte le regole delle manifestazioni di affetto in pubblico, tenendola così vicina a me. Come faceva a credere che le avessi mentito? «L’ho detto a tutti a scuola. Ti ho portato alle partite. Alle feste.»

«Dimmi che l’hai detto ai tuoi genitori. Dimmi che quando hanno affrontato il discorso, hai detto loro che eravamo una coppia.» La presa si allentò, e lei divincolò il braccio. Come faceva a saperlo? Oltre la spalla di Beth vidi Gwen appostata in fondo al corridoio. Incrociò il mio sguardo e abbassò immediatamente gli occhi. Maledizione. Beth si massaggiò gli occhi con le mani. «Mi sono di nuovo innamorata dell’invasato di turno. E la cosa peggiore è che ti ho detto io come prenderti gioco di me. “Convincimi che mi ami e verrò a letto con te.” Sono una fottuta cretina!» La seconda campanella suonò e, troppo scioccato per fare altro, rimasi a guardarla mentre si voltava. No. Non poteva pensarlo sul serio. «Io ti amo per davvero.» Beth si fermò sulla soglia della porta, e pregai che mi credesse. «No, non è vero. Non vuoi sentirti in colpa per aver vinto la scommessa.» Entrò in classe e suonò anche la terza campanella. La professoressa della seconda lezione di Beth mi guardò con aria inquisitoria. «Vai in classe.» Poi mi chiuse la porta in faccia. Inebetito, mi voltai verso l’aula in cui dovevo andare. Avevo fatto l’amore con Beth e l’avevo persa. Inghiottii, sentendo gli occhi pungere. Era troppo presto. Ancora non si fidava abbastanza di me. Ci eravamo spinti troppo oltre, troppo in fretta. Mi passai una mano sulla testa, cercando di capire come avessi fatto a perdere il controllo di ogni cosa. «Ryan!» fece Gwen dietro di me. «Ryan, ti prego, aspetta!» La rabbia mi esplose dentro quando mi voltai, troneggiando su di lei. «Sei contenta adesso, Gwen? Congratulazioni, ti sei assicurata il ballo d’autunno. Spero che ne valga la pena.» Lei spalancò gli occhi e fece un passo indietro. «Non l’ho fatto per il ballo.» «Allora perché? Perché avresti dovuto farmi tanto male?» Sbatté le palpebre. «Farti del male? Non ho detto niente contro di te.» «Se fai del male a lei, ne fai a me. Io la amo.» Gwen impallidì. «Sei convinto di amarla. L’ho detto… solo a poche persone. Quel tanto che la voce arrivasse anche a te, perché sapevo che a me non avresti dato ascolto. Non sapevo che le avrebbero dato della puttana. Non sapevo dell’armadietto. Te lo giuro, Ryan. Mi sento uno schifo. Sul serio. Non credevo che sarebbe andata a finire così.» Quando feci per allontanarmi, lei cercò di trattenermi. «Per favore, devi credermi. Ryan…» Mi scansai, e le sue mani rimasero sospese in aria per qualche istante prima di ricadere lungo i fianchi. «È la persona sbagliata per te. Credevo che, se lo avessi sentito da altre persone, forse avresti capito chi è veramente e poi…» Un fiotto di bile mi salì fino in gola. «Cosa? Cosa pensavi che avrei fatto?» Gli occhi le si riempirono di lacrime e scrollò le spalle. «Che saresti tornato da me.» Feci schioccare il collo per alleviare la tensione, ma non servì a niente. «Non c’era più niente fra noi già prima che Beth arrivasse in questa scuola. Se non l’hai ancora capito, allora proviamo così: amo lei, Gwen. Io amo lei.» Le diedi le spalle e mi diressi verso la lezione successiva. Quella scuola non era tanto grande, quindi Beth non sarebbe riuscita a nascondersi da me a lungo.

Beth

Fino alla settimana scorsa, quella sostanza la conoscevo. Ne ero certa. Avevo studiato ogni sera e Scott mi aveva interrogato quasi tutte le mattine. Eppure non ricordavo niente. Le parole si mescolavano mentre le leggevo, il che significava che il mio compito era rimasto in bianco. La campanella suonò. «Consegnatemi i compiti, per favore» disse la signora Hayes. La mano che impugnava la matita era sudaticcia. Avevo scritto il mio nome. Punto. Chinai la testa. Avevo fallito, ancora una volta. Era quello che ero destinata a fare. «Beth» disse la signora Hayes. Si avvicinò al mio posto dopo che tutti ebbero consegnato e furono usciti. «Stai bene?» «No.» Ero una sgualdrina e una stupida. Presi lo zaino e lasciai il compito in bianco sul banco. «Non sto bene.» Corsi fuori dall’aula. Groveton era un errore. Io ero un errore. Ryan mi aveva mentito, mi aveva usata. Ero una scommessa. Niente di più di una stupida sgualdrina che continuava a fare un errore dopo l’altro. Proprio come mamma. La gente rideva al mio passaggio. Mi giudicavano, e le loro valutazioni erano esatte. Quel posto non faceva per me, non lo era mai stato. Non potevo andare a pranzo e non riuscivo neppure a pensare alla palestra. Non volevo ascoltare le menzogne di Ryan solo perché potesse sentirsi meglio, le risate di Gwen perché ero il rifiuto che voleva che fossi, o le suppliche di Lacy di darle retta. Ryan svoltò l’angolo e mi precipitai nel corridoio in cui avevo incontrato Isaiah il primo giorno di scuola. Avevo perso il mio migliore amico perché mi ero innamorata di un idiota invasato che non mi amava. Infilai le dita fra i capelli e li tirai fino a sentire dolore. Stupida, stupida, stupida. Perché non riuscivo a combinare niente di buono nella vita? Se fossi andata via con mia madre una settimana prima, non sarebbe successo niente. Trattenni il respiro. Potevo ancora andarmene. La settimana prima avevo messo in borsa i soldi che mi restavano e un cambio di vestiti. Lo zaino era solo un peso. I libri potevo mollarli nell’armadietto. Le altre cose che conservavo come promemoria si potevano lasciare, ma non lì. Sapevo esattamente dove disfarmene, sulla strada per uscire dalla città.

Con un colpo secco, la palla raggiunse il mio guantone. Alla fine del sesto inning, la partita era in parità. Mossi le dita della mano con cui lanciavo per impedire che si irrigidissero. Ottobre era alla fine, ed era il giorno più freddo dell’anno. Le partite giocate al freddo mi provocavano strane reazioni. Il vento mi bruciava le guance e le dita, eppure c’era una patina di sudore per il calore creato dal collo alto della maglia della divisa. «Coraggio, Ryan!» urlò papà dagli spalti. Fingendosi la perfetta moglie e madre, mamma era seduta accanto a lui con una coperta di pile sulle gambe. Guardai di nuovo fra gli spalti. Beth non c’era e non sarebbe venuta. Dalla casa base partì un fischio acuto. Il nuovo battitore si stava prendendo tutto il tempo per il terzo lancio, probabilmente in attesa che congelassi. Logan fece un passo a sinistra del box di battuta, e mi fece cenno di lanciare. Voleva che continuassi a muovermi per mantenere caldi i muscoli. Ero distratto e avevo fatto i lanci più schifosi della mia vita. Tirai indietro il braccio, lanciai e imprecai quando la palla mancò il guantone di Logan di mezzo metro. Lui si sollevò sulla testa la maschera da ricevitore e si avvicinò al monte di lancio. «La troveremo» disse Chris, arrivando alla mia destra. «Lacy la sta già cercando, e dopo la partita tu, io e Logan faremo tutto quel che serve perché ti ascolti.» Beth aveva saltato la lezione. Sarei dovuto andare a cercarla subito, ma il coach mi avrebbe impedito di giocare. «Non riesco a concentrarmi.» «Sì che ci riesci» disse Chris. «Hai il ghiaccio nelle vene quando lanci. Torna su quel monte e te la caverai benissimo.» Come facevo a spiegargli che quando lanciavo non avevo affatto il ghiaccio nelle vene? E che, anzi, dentro di me sentivo una pressione rovente continua, che minacciava di farmi sbagliare anche quando ero concentrato? «I tuoi lanci» iniziò Logan quando raggiunse il monte «sono imprecisi. Riacquista il controllo, e andrai più in fretta da lei.» Aveva ragione lui. Avrei fatto così. Chris imprecò sottovoce e seguii il suo sguardo preoccupato verso la recinzione dietro la linea della prima base. Dall’altra parte c’era Lacy, con lo zaino di Beth in spalla. Logan si parò di fronte a me. «Un lancio. Un lancio e basta.» «C’è ancora un inning» protestò Chris. Logan gli rifilò un’occhiataccia. «Un solo lancio.» Tornarono ai loro posti e il battitore piantò i piedi nel terreno. Quello era per Beth. Logan fece due gesti della pace in sequenza. Annuii, gettai un’occhiata oltre la spalla sinistra e colsi l’ombra di un movimento. Incrociai il braccio destro sul sinistro, lanciai la palla verso la prima base e sentii pronunciare all’arbitro quella dolcissima parola: «Out!»

La folla proruppe in un applauso mentre schizzavo fuori dal campo, verso la panchina e poi oltre la recinzione. Lacy aveva gli occhi spalancati per il panico quando mi porse lo zaino di Beth. «Non so cosa significa.» Lo aprii di scatto mentre lei continuava a parlare: «Ho guidato fino a casa sua, ma non c’era nessuno. Poi sono andata in giro per la città, e ancora niente. Così sono tornata a casa mia, sperando che fosse passata o avesse telefonato, e ho trovato questo». La pressione che avevo accumulato esplose, e gettai a terra lo zaino. Strinsi forte in mano la boccetta con la pioggia e i nastri attaccati. Inspirai a fondo prima di aprire il biglietto inserito nei nastri: Credevo di farcela, ma non ci riesco. Maledizione. Sua madre. Beth era andata da sua madre, e aveva avuto tutto il tempo per arrivare a Louisville ormai. Corsi verso la panchina e presi il borsone. «Ryan?» Il coach mi richiamò dall’altra parte della panchina. «Mi dispiace, ho un’emergenza. Faccia entrare Will al mio posto.» Infilai la boccetta nel borsone e lo caricai in spalla. Chris mi trattenne fermamente per un braccio. «Dove stai andando? C’è ancora un inning e la partita è in parità. Will non può gestire questi battitori come ci riesci tu.» «Beth sta scappando. Se non la fermo, la perderò.» Chris serrò la presa. «Mi avevi promesso che non avresti più mollato una partita.» Il ghiaccio nelle vene che Chris aveva tanto invocato, alla fine arrivò. «Lasciami andare prima che sia io a togliere questa mano dal braccio.» «Scegli lei invece di noi?» Logan si piazzò fra me e Chris. «Lascialo andare, Chris. Lui non ti tormenterebbe se dovessi scegliere Lacy invece di una partita.» «È diverso» urlò Chris. «Io amo Lacy.» «Guardalo.» Logan fece un gesto verso di me. «È innamorato di Beth. Tu e Lacy non avete l’esclusiva sul sentimento.» Chris mi guardò e vidi che era in lotta con se stesso. Si strappò il cappello di testa e mi voltò le spalle. Lo stavo deludendo, ma avevo deluso prima Beth. Logan annuì e gli feci un rapido cenno con la testa per ringraziarlo. La folla rumoreggiò quando mi allontanai dalla panchina. Tenni bassa la testa e ignorai gli sguardi della gente e il grido di circostanza. Il ragazzo perfetto stava facendo qualcosa di estremamente imperfetto, e non me ne fregava un accidente di cosa ne pensassero gli altri. Sentii i passi pesanti risuonare sulle gradinate di ferro degli spalti. Con un po’ di fortuna, sarei riuscito a tagliare la corda e ad arrivare alla jeep prima che papà raggiungesse il parcheggio. In linea con il resto della giornata, non ebbi fortuna. «Ryan!» Non potevo perdere tempo. Aprii lo sportello della jeep e lanciai dietro il borsone. Papà bloccò lo sportello. «Che stai facendo? Hai un altro inning da giocare e siete in parità.» «Beth è nei guai e vado da lei.» «No. Tu finirai questa partita.» Il viso di papà divenne rosso mentre appoggiava le mani ai fianchi. Andando avanti così, di lì a venticinque anni sarei diventato identico a lui. Per tutta la vita non avevo desiderato altro che essere come lui. Buffo, come cambiassero le cose.

«Se non la raggiungo, se ne andrà.» «Lasciala andare. Deve andarsene. Da quando è entrata nella tua vita, hai smesso di concentrarti su tutto ciò che importa realmente. Stai deludendo la tua squadra, Ryan. Stai distruggendo in un colpo solo la tua carriera nel baseball. Tutto ciò per cui ho lavorato tanto!» Uno strano misto di ghiaccio e fuoco mi invase il sangue, mentre affrontavo a muso duro mio padre. «Non è quello per cui hai lavorato tu! Questa è la mia vita. Non la tua. Se voglio giocare a baseball, giocherò. Se voglio andare all’università, ci andrò. Se voglio parlare con mio fratello, ci parlerò. Se voglio inseguire Beth, lo farò. Non prenderai più le decisioni al posto mio.» Quando urlò, gli uscì la saliva di bocca: «Vuoi distruggere la tua vita per uno scarto, una drogata?» Mi pervase una scarica di energia quando lo colpii al viso con un pugno. L’adrenalina mi fece fremere mentre papà barcollava indietro. «Non chiamarla mai più in questo modo.» Saltai nella jeep, accesi il motore e schiacciai l’acceleratore. Non era da me perdere, e non avrei perso Beth.

Beth

Strofinai le mani e ci soffiai in mezzo per quella che doveva essere più o meno la trentesima volta. Stavo tenendo d’occhio l’appartamento di mamma dal mio nascondiglio, nel vicolo sul retro del bar. Trent ci era entrato subito dopo il mio arrivo, ed era lì da tre ore. Non mi restava che aspettare. Mi avrebbe uccisa se mi avesse rivisto. La porta dell’appartamento si aprì e lo stronzo barcollò fuori. Sempre la solita dannata sfiga. Aveva preso delle metamfetamine, quindi di lì a poco avrebbe avuto voglia di prendere a pugni anche i bambini. Avrei preferito un drogato fatto di eroina a uno che aveva tirato metamfetamine, senza ombra di dubbio. Trent si appoggiò allo sportello dell’auto e armeggiò con le chiavi, le fece cadere e si abbassò per riprenderle. Esatto, quello era il suo posto, sotto una ruota. Sperai che si schiantasse contro un muro e morisse. L’auto non partì immediatamente: il motore emise un lamento e lui provò ad accenderlo due volte. Andiamo. Alla terza, prese vita. La macchina tremolò mentre faceva marcia indietro e si immetteva sulla strada principale. Corsi attraverso il parcheggio e bussai con forza alla porta di mamma, cercando di girare la maniglia. Non funzionò, ma sentii mamma sbloccare le serrature dall’altra parte. Aprì la porta e vacillò nel vedermi. «Elisabeth.» Entrai di prepotenza. «Hai fatto le valigie?» «No» disse lei. «Non sono sicura che dovremmo farlo.» Che schifo, quanto era sciatto quel tipo! I suoi vestiti erano sparsi dappertutto, e così le bustine in cui teneva le metamfetamine. Presi una sacchetto vuoto della spazzatura e mi diressi in bagno. «Che cosa ti serve?» Lei mi seguì, strofinandosi il braccio scoperto. Era una cosa che faceva anche papà. Significava che aveva voglia di una dose. L’astinenza con lei sarebbe stata un diavolo di problema. «Trent si è preso cura di me da quando sono tornata dall’ospedale. Dice che gli dispiace per come mi tratta, e vuole ricominciare daccapo.» «Trent dice solo stronzate.» Ficcai nella busta lo spazzolino, la spazzola, poi mi bloccai notando una bustina marrone dietro i tamponi di mamma. «Questa cos’è?» «Non lo so.» Si strofinò di nuovo il braccio. «Shirley l’ha messa lì quando mi ha riportato a casa.» Presi la busta. «Credevo che avessi detto che è stato Trent a occuparsi di te da quando sei tornata.» «Intendevo dire che è passato stamattina.» Nella busta marrone c’erano cinquanta dollari e il farmaco che avevano prescritto a mamma per disintossicarsi dall’eroina. Grazie, Shirley. Cercai di non pensare a cosa potesse aver venduto per procurarsi i soldi. Erano lì e ne avevo bisogno, e per il momento era sufficiente. Infilai tutto nel sacchetto e puntai alla stanza da letto. C’era poco da scegliere fra i vestiti, e misi dentro quelli meno

sporchi e logori. «Elisabeth» piagnucolò mamma. «Forse dovremmo rimandare… di un paio di giorni.» «Non rimanderemo un bel niente, ce ne andiamo. Dove sono le chiavi della macchina?» «Io… non lo… non lo so.» Quindi lo sapeva. Roteando il sacchetto pieno di roba, buttai giù dal comodino le sue bottiglie di liquore. Il vetro si infranse contro il muro. «È questo che farà Trent alla tua testa uno di questi giorni. Adesso ce ne andiamo da qui!» Carica di frustrazione, marciai fuori dalla stanza e lanciai una breve occhiata all’altra camera da letto. Per una volta la porta era aperta e rimasi inchiodata lì davanti. «Questo è un fottuto scherzo.» Appoggiai la fronte allo stipite della porta, la testa girava tanto per la delusione che non riusciva a stare dritta da sola. Su un vecchio tavolino da caffè che avevo trovato un paio di anni prima vicino a un cassonetto dell’immondizia, c’erano parecchie bustine di polvere bianca. A terra c’erano sacchetti più piccoli e palloncini. Riuscii a stento a sussurrare le parole: «Spacci eroina». Mamma mi spinse via e chiuse la porta. «No, lo fa Trent. Una volta gliela facevo tenere qui di notte di tanto in tanto, ma dopo che gli hai sfondato il finestrino, la polizia ha iniziato a ficcare il naso e così ha portato tutto qui. Era il minimo che potessi fare per lui.» Aprii e chiusi le dita. «Tu hai sfondato i finestrini dell’auto di Trent. Io mi sono addossata la colpa per non farti finire in prigione.» «Fai finta di non aver visto niente, Elisabeth. Altrimenti Trent si arrabbierà. Pensa che tu abbia fatto una soffiata alla polizia.» «Che cazzo ti è preso?» le urlai in faccia. «Ti ricordi com’è andata a finire l’ultima volta che abbiamo avuto a che fare con l’eroina?» Formai una pistola con le dita e me la puntai alla fronte. «Stava per uccidermi, mamma. Avevo otto anni! Mi ha premuto la pistola contro la testa e aveva il dito sul grilletto!» Mamma scosse la testa troppo in fretta, e non smise. «No, non l’avrebbe fatto. Tuo padre disse che stava solo cercando di spaventare noi. Disse che eri sempre al sicuro. Lo giurò.» Come faceva a raccontarsi frottole così facilmente? Come riusciva a dare le spalle alla verità ogni volta? Poi mamma si strofinò il braccio. Barcollai indietro e urtai contro il muro. Dio, non ero diversa da lei. Erano settimane, se non di più, che si vedevano i segni della dipendenza dall’eroina, e li avevo ignorati tutti. Ma non avrei più ignorato la verità. Andai in soggiorno e cominciai a lanciare via le varie schifezze dal ripiano in cucina per trovare le chiavi. L’avrei trascinata fuori per i capelli, se fosse stato necessario. La maniglia della porta d’ingresso si girò, e il mio cuore sussultò prima di sprofondare. Ci avevo impiegato troppo e Trent mi avrebbe uccisa.

Beth sbatté rapidamente gli occhi quando entrai. Era in piedi in una piccola cucina, con un sacco della spazzatura in mano. Non avevo mai provato tanto sollievo nel vedere una persona in vita mia. Né avevo mai desiderato così tanto scrollare qualcuno. «Vai da qualche parte?» Cercai di restare calmo. Beth non reagiva bene alle minacce, o alla rabbia, o a chi voleva impedirle di fare qualcosa. Mi diede le spalle e buttò a terra carta e immondizia. «Fuori.» «Per me va bene. Andiamo. Siamo venuti a Louisville due volte per cenare, e ancora non abbiamo avuto il nostro appuntamento.» Beth uscì dalla cucina e si mise a frugare su un tavolino pieghevole. Le mani le tremavano e il suo viso pallido spiccava come non mai sotto i capelli neri. «Non sto scherzando, Ryan. Mamma e io partiamo oggi. È sempre stato il piano fin dall’inizio, ricordi?» «Lo era.» Perlustrai con lo sguardo stanzetta, cercando di individuare la minaccia che spaventava Beth. L’adrenalina mi scorreva nelle vene, ero pronto a qualsiasi attacco imprevisto. «Ma sabato hai cambiato idea.» Una donna entrò nel soggiorno. Troppo magra. Lunghi e radi capelli biondi. Era la prima volta che vedevo da vicino la madre di Beth. «Tu chi sei?» mi chiese. Mi imposi di guardarla negli occhi privi di espressione. Avevano lo stesso colore di quelli di Beth, ma non la loro luminosità. «Sono il ragazzo di Beth, Ryan.» Lei fece un debole sorriso. «Hai un ragazzo, Elisabeth?» Beth gettò a terra una bottiglia di plastica da due litri vuota. «Ex ragazzo. È venuto a letto con me e poi ha raccontato a mammina e papino di odiarmi. Dove sono quelle maledette chiavi, mamma?» Persi la calma. «Non ti ho fatto niente del genere. Se mi dessi la possibilità, ti spiegherei dei miei genitori.» «Mamma!» gridò Beth, e la madre sussultò. «Le chiavi. Adesso!» «Ok» disse lei, ciabattando verso il corridoio. Beth si voltò, infuriata. «Vattene, Ryan.» «Non senza di te.» Serrò i pugni e sbatté il piede a terra per marcare le parole. «Mia. Madre. È. Un’alcolista. E un’eroinomane. Il passatempo preferito del suo compagno è gonfiarmi di botte, e se non ci sono io in giro, non si fa problemi a sfogare la sua aggressività su di lei. È una questione di minuti, devo portarla via prima che lui torni e ci ammazzi tutti.» Un gelo inquietante mi pervase. Nessuno poteva far del male alla mia ragazza. «Ti picchia?» «Sì, Ryan. Mi riempie di pugni e calci e ceffoni. Sono il suo personale videogioco violento. Se non porto via da qui mia madre, la ucciderà. E se non lo farà lui, lo farà l’eroina.» Tutto quello che diceva Beth era probabilmente vero, ma non mi interessava di sua madre, la mia

unica preoccupazione era lei. «Cosa pensi che succederà se ti lascio uscire da quella porta con tua madre? Credi davvero che salire in macchina e trasferirsi in un’altra città cambierà le cose?»

Beth

«Sì» risposi automaticamente, ma una voce nella testa urlò il contrario. «Deve essere così.» Totalmente fuori luogo nella sua divisa da baseball, Ryan riempiva quasi tutto il soggiorno con la sua corporatura. «Sai cosa penso?» mi disse. «Io penso che tu mi abbia mentito.» L’aveva fatto e cercai disperatamente di ancorarmi a quello. «Ho fatto un casino. Non sono perfetto. Ho mentito ai miei genitori su di noi, ma ho ammesso che usciamo insieme. Sanno che sono innamorato di te.» Erano le parole giuste, ma… «È troppo tardi.» «Stronzate!» La rabbia divampò nei suoi occhi. «Per mesi ho creduto che tu fossi la persona più coraggiosa che conoscessi. Non ti sei mai scusata per essere te stessa, eppure a guardarti adesso, ho capito che sei una vigliacca. Sei così terrorizzata all’idea di provare qualcosa, che preferisci gettar via tutto quanto di buono c’è a Groveton pur di sentirti al sicuro.» Voltai di scatto la testa e strinsi gli occhi. «Al sicuro? Mi ritrovo in un fottuto covo di drogati, a cercare di salvare mia madre da un compagno che non vede l’ora di uccidere me e poi torturare lei. Non c’è niente di sicuro in tutto questo.» «Questa è la tua idea di sicuro. Preferisci lottare in questa esistenza piuttosto che vivere a Groveton.» Lasciò vagare lo sguardo nello squallido appartamento. «A Groveton tu provi emozioni. In questa vita non devi sentire niente, e questo fa di te una vigliacca.» Lasciai cadere il sacchetto e mi portai una mano tremante alla fronte. Si sbagliava. Completamente. Non era per quello che stavo fuggendo. Dovevo salvare mia madre, perché se non me ne fossi occupata io, chi l’avrebbe fatto? Ryan azzerò la distanza fra noi. Il cuore fece una capriola quando mi appoggiò una mano sul fianco. «Vorrei poter dire che sono io che ti ho spinto a fuggire, ma non è così. Non ho quel potere. Stai scappando da quando ti ho incontrata, e probabilmente lo facevi anche prima. Assomigli tanto a quell’uccello, nel fienile. Hai così tanta paura di restare intrappolata dentro per sempre, che non vedi la via d’uscita. Continui a sbattere contro il muro, ancora e ancora. La porta è aperta, Beth. Smetti di correre in cerchio ed esci.» Con l’altra mano mi scansò i capelli dal viso, e il mio labbro inferiore prese a tremare. «Se la lascio da sola, morirà.» Lo stomaco si contorse su se stesso e gli occhi bruciarono. Mi incorniciò il viso fra le mani e mi sporsi verso di lui per godere meglio del suo tocco. Ryan ci riusciva sempre… mi faceva sentire al sicuro. «Se resti, ti ucciderà» continuò. «Forse non fisicamente, ma morirai dentro. Se non mi vuoi, ti lascerò il tuo spazio, ma c’è così tanto che hai costruito a Groveton oltre a me. Se proprio devi, rinuncia a noi, ma non rinunciare a te stessa.» L’istinto mi diceva di fuggire, invece mi aggrappai alle sue braccia. La paura mi dilaniava e non mi piaceva che mi facesse sentire completamente nuda. «Ho paura.» Ryan appoggiò la fronte alla mia. «Anch’io, ma ne avrò molta di meno quando ce ne andremo da

qui.» La porta di ingresso si aprì. Ne entrarono dei raggi di sole accecanti e una raffica di aria fredda che annunciava l’arrivo del diavolo. La figura minacciosa di Trent marciò a grandi passi in soggiorno. Persi il controllo del mio corpo, le mani scivolarono lungo i fianchi e il cuore balzò in gola. Ryan si piazzò proprio davanti a me. Trent sbatté la porta e ridacchiò quando mi vide. Lo sguardo andò al sacchetto ai miei piedi. «Dovevi restartene alla larga.» Dietro di me, sentii i passi strascicati e leggeri di mamma. «Elisabeth stava giusto andando via.» Ryan mi appoggiò una mano sulla schiena, spingendomi verso la porta. La mente mi urlava di correre. I piedi erano incollati a terra. Non aveva importanza che mi sbrigassi o meno, Trent non mi avrebbe permesso di uscire di nuovo da quella porta. «Lascia andare Ryan.» Lo dissi come una preghiera, e Trent sorrise. Era la prima volta che gli chiedevo qualcosa, e il bastardo ne godeva. Trent aprì un pacchetto di sigarette, se ne mise una in bocca e la accese. Ne tirò una lunga boccata e soffiò fuori il fumo senza smettere di guardarmi. Rabbrividii vedendo la cenere ardente. L’ultima volta si era divertito a sentirmi gridare mentre mi spegneva le sigarette sul braccio. «Va’ pure, ragazzo. Esci. Non ho niente contro di te.» «Non senza Beth.» La voce di Ryan tremò di rabbia. A dispetto di tutto amavo Ryan, e se non fosse stato per me, non sarebbe venuto in quella casa. Cercai di cacciarlo via a suon di spinte contro il petto. «Vai!» Ryan squadrò Trent e Trent fece lo stesso con lui. «Esci da quella porta, Beth» disse Ryan risoluto. «Non ti toccherà.» Trent rise. Ryan era robusto, forte e giovane. Trent era più grosso, più vecchio e uno spietato bastardo. L’anno prima, Isaiah e Noah lo avevano affrontato ed erano sopravvissuti perché mio zio lo aveva minacciato con una pistola. Ma ora mio zio non c’era, e io non ero abbastanza fortunata da possedere una pistola. Ryan fece un passo verso di me e la porta, senza smettere di fissare Trent. «Andiamo.» Il cuore mi rimbombava nelle orecchie. Forse potevamo farcela. «Mamma?» «Non osare muoverti, Sky» ringhiò Trent. Le tesi la mano. «Vieni con noi.» Ryan urlò il mio nome e gettò di scatto le braccia davanti a me. Fu come se avessi ricevuto una coltellata alla testa. Il pavimento si avvicinò bruscamente al mio viso. Dietro le palpebre chiuse vidi danzare un mix di luci e buio. I rumori si fusero in un brusio acuto mentre un liquido caldo mi scivolava giù dal sopracciglio fino al naso. Mi leccai le labbra e feci una smorfia al sapore aspro del sangue. Le palpebre tremarono prima di sollevarsi, e lottai per tenere gli occhi aperti. La stanza si spostava e girava. Cercando di mettere a fuoco, vidi quel che restava della lampada da tavolo di mamma sul pavimento accanto a me. Il brusio svanì e voltai la testa verso i grugniti e i rumori di lotta. Ryan sbatté Trent contro la porta d’ingresso placcandolo alla vita. Trent rispose in fretta sferrandogli un pugno allo stomaco. Mi graffiai la mano con la ceramica strisciando verso di loro. «Fermatevi.» La mia voce era debole e rauca. Ryan barcollò ma riuscì a parare un colpo, poi guadagnò qualche secondo con un cazzotto alla

mascella di Trent. Cercai di far leva sulle gambe per alzarmi, ma crollai. Raggomitolata in posizione fetale dall’altra parte della stanza, mamma si dondolava avanti e indietro sul pavimento. Inghiottii e cercai di parlare, seppur con la gola infiammata. «Aiuta Ryan, mamma.» «Non posso.» «Ci ucciderà!» Mamma abbassò la testa sulle ginocchia e continuò a dondolarsi. «Mamma!» gridai. «Ti prego!» Mia madre canticchiò ad alta voce e il mio cuore si lacerò. Non sarebbe cambiata mai. Non importava cosa facessi, o quanto ci provassi. Mamma sarebbe rimasta sempre quella povera, patetica vita sprecata. Non sarei diventata come lei. Non potevo. Mi aggrappai a una sedia ribaltata e mi sforzai di alzarmi in piedi. Trent placcò Ryan e caddero entrambi a terra. «Lascialo stare!» Trent si mise sulle ginocchia e colpì Ryan con un pugno in faccia, facendolo cadere di nuovo. Andai in panico. Avrebbe ucciso Ryan davanti ai miei occhi. Il fottuto bastardo stava per portarmi via tutto ciò che amavo. Mi lanciai addosso a lui, tirando schiaffi e pugni, graffiando. Mi torse il polso e il braccio in un’angolazione fisicamente impossibile. Il dolore mi accecò e urlai a squarciagola. Mi lasciò andare e crollai in ginocchio, in preda alla sofferenza. Trent mi strinse le dita alla gola, soffocando le mie urla. Cercai di inspirare prima di svenire. Niente. I pensieri si susseguirono nella mente a ritmo folle. Avevo bisogno di aria. Stava per uccidermi. Le mani salirono a cercare di staccargli via le dita dalla gola, ma non ci riuscii. Era più forte e più potente di me, e avrebbe vinto. Trent sobbalzò e le dita allentarono la presa. Ryan lo trattenne con una mossa di wrestling mentre cadevo a terra, riempiendo d’aria i polmoni che bruciavano. Mi sfiorai il collo nei punti in cui le dita avevano lasciato il segno sulla pelle. «Piccolina!» Le mani di mamma si unirono alle mie sulla gola. «Stai bene?» Annuii, intontita. Mamma mi prese per il braccio e tirò, cercando di farmi alzare da terra. «Andiamo.» Ryan imprecò e non riuscii a rimettermi in piedi. «Aiutalo, mamma.» Ryan circondò il collo di Trent con l’altro braccio e urlò: «Vai, Beth!» Trent si dimenò con energia, e il viso di Ryan si deformò per lo sforzo mentre lottava per mantenere la presa. Mamma scosse la testa. «Andiamo. Adesso. Mi farà del male.» Trent gli diede una gomitata allo stomaco, si voltò e lo colpì al viso. Ryan cadde. «No!» Continuai a strillare e supplicare a ripetizione. La faccia di Ryan era una maschera di sangue. Trent si alzò e gli tirò un calcio allo stomaco. Urlai di dolore quando feci leva sul braccio sinistro. «Aiutalo, mamma!» «Dobbiamo andare adesso, Elissssabeth.» Mamma strascicò con calma il mio nome. «Voglio andarmene. Verrò con te.» Mi voltai a guardare la strana immagine di mia madre. Gli occhi stanchi con le pupille strette mi osservavano come se fossi un’ombra, invece di sua figlia. Mi strinse di nuovo la mano. Per la prima

volta, non si stava strofinando il braccio. Tenendomi il braccio sinistro attaccato al corpo, mi aggrappai al tavolo e riuscii a mettermi in piedi. «Ti sei fatta?» Mentre mi alzavo, mamma cadde a terra. Per la vergogna? Per lo sfinimento? Per la dose eccessiva? Chi poteva saperlo? Rifiutandosi di veder morire Ryan e guardare me negli occhi, si coprì la testa con le braccia e riprese a dondolarsi. Il sangue continuava a riversarsi sull’occhio, e la vista vacillò mentre sbandavo di lato. Urtai per caso con le dita il cordless di mamma, sul bordo del tavolo. L’eroina. Mi aveva distrutto la vita nove anni prima, e una telefonata mi era costata mio padre. L’eroina. Se avessi chiamato, mia madre sarebbe finita in carcere. L’eroina. Lasciai scorrere le dita sui numeri, e come nove anni prima sentii il telefono squillare una, due, tre volte. Il mondo divenne nero, poi ricomparve in un tunnel sfocato. Le ginocchia si piegarono e mi sforzai di restare cosciente ancora per qualche secondo. «Polizia, qual è l’emergenza?»

Alzai al massimo la suoneria del cellulare e lo misi sul petto prima di appoggiare la testa al cuscino. Quel giorno Beth sarebbe stata dimessa dall’ospedale, e perciò avevo rifiutato gli analgesici. Volevo rimanere lucido per poter sentire la sua voce dall’altra parte della linea e sapere che era solo a poco più di un chilometro di distanza, e non a Louisville, a più di mezz’ora di viaggio. Poi, per la prima volta in più di una settimana, avrei potuto dormire profondamente. Il mio corpo era tutto un dolore lento e martellante. Tutti i punti di pressione pulsavano al ritmo del battito cardiaco. Costole rotte, lividi e tagli dappertutto. Ogni singola ferita era valsa la pena, però, perché avevo salvato Beth. Nella stanza risuonò la voce di mio padre: «Puoi dirmi perché?» Aprii gli occhi e voltai la testa per vederlo appoggiato allo stipite della porta, gli occhi fissi a terra. Erano le prime parole che mi diceva da quando lo avevo colpito. Mi era rimasto accanto. Presente, ma senza aprire bocca. Non era un problema per me, dal momento che nemmeno io gli avevo parlato… fino a quel momento. «Perché cosa?» «Perché hai rischiato tutto per quella ragazza?» «Perché la amo. E si chiama Beth.» Nessuna risposta. A volte mi chiedevo se mio padre sapesse cos’era l’amore. «Ha chiamato Scott» disse duramente. «Voleva ricordarti che ci sono delle regole, ora. Ce l’ha con tutti e due e non la farà uscire di casa tanto presto.» Ripresi a guardare il soffitto. Le regole potevo gestirle, mi bastava avere Beth. Scott era un misto di gratitudine e rabbia. Con il senno di poi, forse avrei dovuto chiamarlo quando avevo trovato il “messaggio” di Beth, ma lei non gli avrebbe dato retta. Aveva bisogno di me. «Non credo che dovresti continuare a frequentarla» disse papà. «Non ricordo di averti chiesto il permesso.» Calò il silenzio, e con la coda dell’occhio mi accorsi che papà se n’era andato. Chissà se saremmo mai stati in grado di risanare quella frattura che si era creata. Il cellulare vibrò e lo stomaco precipitò quando vidi il nome di Beth sullo schermo. Aveva promesso che avrebbe chiamato. Amici, giusto? Feci una mezza risatina. Era il primo messaggio che mi aveva mandato. Sempre. Qualcuno suonò alla porta e mi stropicciai gli occhi. Ero troppo stanco per una visita, ma continuavano a venire ospiti: i miei amici, la squadra di baseball, i coach, i professori, i genitori dei miei amici. Il tono di voce leggermente più alto di mamma e papà implicava che non erano d’accordo su qualcosa, e non mi interessava capire il problema. Mi aspettavo che continuassero a litigare, ma quello che non avrei immaginato di sentire fu la voce di mamma fuori dalla porta della mia stanza. «Perché l’ho detto io.»

Lanciò un’occhiataccia verso il corridoio prima di rivolgersi a me: «Ryan, hai un’ospite». Prima che potessi chiedere chi, Beth entrò nella stanza con il braccio sinistro legato al collo. Rimasi senza fiato. Era lì. Dimenticai tutte le ferite, cercai di alzarmi… e feci una smorfia di dolore. Mi sentii avvolgere dal profumo di rose, e alzai gli occhi solo per trovare Beth al mio fianco. «Stai uno schifo. Sei riuscito a dormire almeno un po’?» Sollevai l’angolo della bocca in un mezzo sorriso. «Anch’io sono felice di rivederti.» «Non sto scherzando.» Beth preoccupata non era un bello spettacolo, e non mi fece piacere leggere il dolore sul suo viso. Afferrai la mano che stava usando per tenermi sdraiato, me la portai alle labbra e ne baciai il palmo. Dio, quanto mi era mancata! Sulla soglia della porta, accanto a mia madre, Scott si schiarì la gola. «Pochi minuti, Beth, poi andiamo a casa.» Lei annuì e cercai di cogliere la reazione di mia madre alla presenza di una ragazza nella mia camera. Ci stava osservando, un po’ come qualcuno che guardava un quadro di cui non capiva del tutto il significato. Non c’era malizia nel suo sguardo, solo curiosità. «Lascio aperta la porta.» «Grazie» le dissi di cuore. Mamma ci stava provando adesso… non solo con me, ma anche con Mark, e dovevo ringraziare Chris per quello. Aveva chiamato Mark quando mi avevano portato al pronto soccorso. Mamma e Mark avevano parlato per la prima volta mentre facevo le radiografie. Nessuno dei due aveva accennato a quello che si erano detti, ma avevano ripreso a parlarsi. Era un inizio. Scott si affacciò nella stanza quando mamma si allontanò, e guardò Beth. «Comportati bene.» Lei alzò gli occhi al cielo. «Certo, perché appena te ne andrai, ci rotoleremo addosso come animali in calore. Ma fammi il piacere!» Fece un cenno al braccio. «Lividi e ossa rotte sono così eccitanti.» Prima di seguire mamma in soggiorno, Scott scosse la testa, e Beth fece lo stesso gesto. Avevano idea di essere l’uno il clone dell’altra? Beth si lasciò cadere sul letto e voltò il viso verso di me. Non mi piaceva l’aspetto che aveva. Oltre ai tagli e ai lividi sul volto e alla testa, era troppo pallida e le occhiaie erano piuttosto evidenti. Volevo capire se era solo un sogno, e mi sporsi a strofinare una ciocca di capelli fra le dita. Erano morbidi e reali. Li lasciai andare e la guardai negli occhi. «Come stai?» Non mi fece piacere quando aggrottò la fronte, il viso appesantito dal dolore. Chiuse gli occhi per un momento. «Mi dispiace così tanto. È colpa mia se ti ha fatto del male.» «No, non voglio sentire niente del genere.» Le presi la mano e le feci cenno di sdraiarsi con me sul letto. Lei esitò. «Ma tua madre…» «Che vuoi che dica? Sono malconcio. Tu sei malconcia. Ci siamo stancati e ci siamo distesi. Voglio tenerti fra le braccia, quindi, per una volta nella vita, puoi non farmi la guerra?» «Wow. Qualcuno è scontroso.» «Non sai quanto.» Ma i nodi allo stomaco si sciolsero quando mi sdraiai e Beth mi abbracciò, facendo attenzione. Era esitante, controllava prima dove appoggiarsi nel timore di farmi male, e feci piano quando le circondai le spalle, in modo da non urtarle il braccio. Quando ci fummo sistemati, sospirai e chiusi gli occhi. Erano sette giorni che sognavo quel momento. Magari stavo sognando anche in quel preciso istante, chi poteva dirlo? In quel caso, forse

Beth avrebbe potuto fare qualcosa che le riusciva difficile nella vita reale: darmi delle risposte. «Perché hai creduto a Gwen e non a me?»

Beth

Mi risistemai, raggomitolandomi a Ryan, pronta a vedere i segni del male che gli avevo fatto. Riuscivo a sentire il suo cuore ora, respirava regolarmente. Se non fossi stata così maledettamente stanca, forse avrei pianto. Credevo di averlo perso a casa di mia madre. Ryan mi passò la mano fra i capelli e mi inumidii le labbra con la punta della lingua, cercando di prendere tempo per trovare il coraggio. Si meritava una risposta. Perché lo amavo… senza aggiungere il fatto che aveva rischiato la vita per salvarmi. «Non mi fidavo di te.» Per un po’ sentii solo i battiti del suo cuore. «Perché?» mi domandò. Perché ero stupida. «Non lo so…» Non ero brava come lui con le parole. Per me era difficile. Almeno quando c’era di mezzo un sentimento. «Immagino che fosse più semplice credere che mi avevi usata, piuttosto che mi amassi. A essere sincera… non lo capisco. Perché uno come te vuole stare con una come me?» Ryan mi sollevò il mento perché lo guardassi negli occhi. «Perché ti amo. Beth… tu sei tutto quello che vorrei essere io. Sei piena di energia, e vivi senza chiedere scusa a nessuno. Non avrei mai fatto l’amore con te se avessi pensato che non ti fidavi di me… o che non mi amavi. E non l’avrei fatto nemmeno se non mi fossi fidato io, o se non fossi stato innamorato di te.» Mi appoggiai al gomito, e fu come se qualcuno mi avesse strappato il cuore dal petto quando vidi il dolore nei suoi occhi. «Io ti amo, e voglio fidarmi di te… è solo che… ci provo… e…» Ma che diavolo! Sbattei la mano sana sul letto. Perché non riuscivo a spiegarmi? Perché ero così incapace? «Ehi.» Il tono autoritario fece sì che lo guardassi negli occhi. Mi si fermò il cuore quando Ryan mi sfiorò la guancia con un dito. Al suo tocco, il sangue salì a imporporarmi il viso. Mi era mancato tutto questo. Mi era mancato lui. Forse non stavo facendo un casino totale. «Respira» mi ordinò. «Va tutto bene. Prenditi il tuo tempo, ma continua a parlare.» Continuare a parlare. Feci una linguaccia e Ryan lottò per non ridere. Se non lo avessero già ridotto a un rottame, gli avrei dato un pugno sul braccio. Sbuffai fuori l’aria e ci riprovai. «Non lo so… è solo che non… non ho fiducia… in me.» Sbattei le palpebre e altrettanto fece Ryan, e mi sentii piuttosto spaventata ed esposta ad aver toccato un nervo scoperto. Lui mi accarezzò il braccio, esortandomi a proseguire, solo che non sapevo come andare avanti. Stronzate, non volevo farlo. Ma questo andava oltre i miei desideri. Riguardava me e Ryan. «Non voglio più fare scelte sbagliate.» Lo guardai, sperando di aver detto qualcosa di sensato, perché non ne ero così sicura. «E ho la vaga sensazione che qualsiasi scelta sia quella sbagliata perché sono io a farla, e poi incontro te, che sei fantastico e meraviglioso e mi ami e ti amo, e ho così tanta paura di mandare tutto all’aria…» Chiusi gli occhi e il labbro prese a tremare. «E l’ho fatto. Ho fatto di nuovo casino.» Ryan mi posò la mano sulla guancia. Mi sporsi verso quel tocco e aprii gli occhi. «Sono felice che sia successo» mormorò.

«Credevo che ti avessero fatto una risonanza magnetica alla testa…» Il sorriso gli arrivò fino agli occhi. «L’hanno fatta. Rispondimi e basta… prima che arrivasse Trent, saresti venuta via con me?» Inghiottii e annuii prima di rispondere: «Sì». «Perché?» Strinsi gli occhi, cercando di capire la domanda. «No, Beth. Non pensarci. Dammi la prima risposta che ti viene in mente. Perché saresti venuta via con me?» I miei occhi cercarono i suoi e socchiusi le labbra. No, non era possibile, perché in quel caso sarebbe stata la prima volta per me. Sul viso di Ryan comparve la stessa speranza che avevo visto un milione di volte. Possibile che l’avesse sempre saputo? «Dillo, Beth.» «Ti amo.» Una volta facevo fatica a pronunciare quelle parole, ma ora sembrava più semplice. Espirai e l’aria tremolò uscendo dalle labbra. «Bel tentativo» disse lui. «L’altra cosa. Dilla.» «Ryan…» Avevo la gola secca e la fronte imperlata di sudore. «Ho paura.» «Lo so.» Mi passò una ciocca dietro l’orecchio. «Ma è tutto ok.» Mi fece scivolare lentamente le dita lungo il braccio, sull’ingessatura, fino ad appoggiarle sulle mie. Dentro di me si sbloccò un senso di calore, che partì dal cuore e si propagò per tutto il corpo, scorrendo nelle vene. Ebbi la sensazione che le catene che mi ancoravano a terra si stessero sciogliendo, lasciandomi libera di fuggire. Era un po’ come se stessi fluttuando. «Mi fido di te» sussurrai. «Stavo per venire via con te perché mi fido di te.» Ryan rimase in silenzio, ma il piccolo sorriso tranquillo che mi rivolse mi fece sorridere in risposta. Chissà se il mio sorriso assomigliava al suo. Mi fidavo di lui. Di Ryan. Faceva un po’ paura, ma non quanta credevo. Forse era la volta buona; l’inizio di cui Scott aveva parlato per mesi… la lavagna pulita. «Era così difficile?» mi chiese. «Sì.» Mi sfiorò di nuovo i capelli. Era come se gli servisse il contatto fisico per assicurarsi che non fossi un fantasma. «Devi imparare ad aver fiducia in te stessa.» Mi lasciai cadere indietro per appoggiare la testa al cuscino accanto a lui. Ryan si mosse lentamente. I nostri volti erano così vicini che i nasi quasi si toccavano. Il braccio iniziò a far male ed ebbi la sensazione che Scott sarebbe spuntato molto presto, considerando che aveva inserito sul cellulare l’orario esatto per gli antidolorifici. «Ti dispiace se guarisco, prima di affrontare gli altri disturbi emotivi che ho?» Ryan inclinò il capo e imprecai mentalmente. Dunque non era finita lì. «Mi prendi in giro, vero?» sbottai. «Scott mi ha detto che Isaiah è venuto in ospedale» iniziò lui. Annuii, e avrei preferito non affrontare la cosa né in quel momento… né mai. Noah era venuto a trovarmi diverse volte mentre ero ricoverata… una con Echo, e due da solo. Mi aveva raccontato che Isaiah aveva fatto su e giù nella sala d’attesa finché non aveva saputo che me la sarei cavata, poi se

n’era andato. Il mio migliore amico era andato via. «Penso che dovremmo parlarne.» Provai a stringere a pugno le dita della mano sinistra, ma la fitta di dolore me lo impedì. Sibilai per il bruciore, e Ryan si fece più vicino. «Stai bene?» «Sì» dissi a denti stretti. «È solo… ti ho già detto che non c’è niente fra me e lui in quel senso.» «Ti credo.» Inarcai appena il sopracciglio, bloccandomi quando i punti sulla fronte tirarono. Dannazione. Non riuscivo più a muovermi. «Allora perché parlarne?» Ryan inspirò a fondo e capii che quella conversazione lo agitava proprio come me. «Hai intenzione di rivederlo?» No. Sì. «Se lui lo vorrà. Ma è andato via dall’ospedale senza venire a parlare con me. Non so cosa significhi questo.» Al diavolo. «Sì, certo che lo rivedrò. Isaiah e io siamo amici e lo capirà, a costo di dargli una legnata in testa.» Ryan fece un verso a metà tra una risata e un sospiro. «E ti chiedi perché sono preoccupato?» «Questo che vuol dire?» «Devi ammettere che la vita che avevi prima a Louisville è diversa da quella che hai adesso. Ho paura che se ti resta un posto in cui fuggire, una persona da cui rifugiarti, quando le cose si faranno difficili, te ne andrai.» Ryan mi fece distendere le dita della mano sinistra, che avevo cominciato a stringere di nuovo. «Ci sarà sempre qualcuno che dubiterà di noi, Beth, e non ce la faccio ad andare avanti se continuerai sempre a scappare.» «Niente più fughe, te lo prometto.» Fu quasi doloroso calpestare l’orgoglio per dire il resto. «Avevi ragione… a Louisville… sul fatto che ho una vita a Groveton. Ho te… ma ho anche Scott, e Lacy, e la scuola. Mi piace chi sono qui.» «Anche a me» fece lui, come per confermare il proprio punto. «Ma Isaiah e io siamo amici da troppo tempo perché possa abbandonarlo. Sono qui. Cuore. Anima. Corpo. Groveton è la mia casa, ma non abbandonerò mai un amico, specialmente il mio migliore amico.» Guardai la trapunta che avevamo sotto. «Ho bisogno che tu sia d’accordo, perché non cambierò idea su di lui.» Dopo qualche attimo di silenzio, azzardai un’occhiata. Alla fine Ryan capitolò: «Va bene. È tuo amico. Se ti fidi di me, allora anch’io mi fiderò di te». Scalciai via le scarpe e gli accarezzai il piede con le dita. Era il meglio che potessi fare con un braccio ingessato. «Affare fatto. Ti amo e…» Ingoiai la paura e continuai: «Mi fido di te». «Bene.» I muscoli di Ryan si rilassarono visibilmente e le palpebre si socchiusero. «Bene» ripetei, concedendomi di rilassarmi assieme a lui. «Lo sai che voglio sentirtelo dire di nuovo.» Ryan si avvicinò, mi passò un braccio attorno ai fianchi con fare protettivo e chiuse gli occhi. «Mi fido di te.» «Bel tentativo.» Finsi di dargli una gomitata con il gesso e sentii il suo petto sobbalzare per una risata. «L’altra cosa. Dilla.» «Ti amo.» Mi rilassai nell’abbraccio, godendomi il suo calore e la sua forza, e chiusi gli occhi. «Di nuovo.» «Ti amo» sussurrò lui.

«Ancora.» Ma a quel punto la mente prese a vagare mentre sentivo le parole appena sussurrate. Avrei voluto sentirle ancora, ma poi appoggiai la testa al suo petto. Il cuore batteva regolare sotto il mio orecchio, e fu quella la mia risposta. Ryan e io ci perdemmo l’uno nell’altra, e nel sonno.

Un anno fa, la mia vita era tutta pianificata. A quanto sembrava, nessuno poteva prevedere il futuro. Infilai le braccia nella giacca del completo e la sistemai sulle spalle in modo che calzasse a pennello. I lividi e i tagli erano scomparsi, ma le costole facevano ancora male a fine giornata. Soprattutto se mi affaticavo troppo. «La cravatta è storta.» Mamma si appoggiò allo stipite della porta e mi rivolse un cenno verso il colletto. «Vieni qui.» Mi allontanai dall’armadio e mamma sciolse il nodo. «Stai molto bene» mi disse. «Tranne la cravatta.» Lei curvò le labbra in un sorriso e fece scorrere la cravatta per prendere le misure sul petto. «Tranne la cravatta. Come ti senti?» «Bene.» Aveva lo sguardo preoccupato, e si sforzò di mantenere il sorriso. «So che il dottore ti ha dato il permesso di ricominciare gli allenamenti, ma forse dovresti aspettare un altro paio di settimane. Solo per essere sicuri che tutto sia guarito nel modo giusto.» Intrecciò la cravatta con mano esperta e strinse il nodo al collo. Rimase a fissarlo per qualche istante prima di accarezzarmi la guancia… un gesto raro per entrambi. «Sono felice che tu stia bene.» Tirò via la mano. «Ho sentito di nuovo tuo fratello, stamattina. Voleva sapere come stai.» Mark sapeva come stavo. Parlavamo al telefono ogni giorno da quando ero uscito dall’ospedale. Doveva essere ancora imbarazzante parlare con mamma, per questo preferivano sfruttare me come argomento. Mi tenni occupato abbottonando i polsini. «Che gli hai detto?» «Che sei testardo come vostro padre e non mi dici se senti dolore.» «Sto bene, mamma.» Lei portò la mano alla collana di perle. «Se ti avessimo ascoltato quella mattina… se ti avessimo dato retta settimane prima… se avessi tenuto testa a tuo padre quando Mark ci ha parlato… tutto questo non sarebbe successo.» «È tutto ok.» Magari mi avessero dato retta la mattina della fuga di Beth. Magari mi avessero ascoltato settimane prima, quando avevo confessato di tenere a lei. E magari mamma avesse affrontato papà, trattenendo Mark in famiglia… ma non era andata così. E se anche fosse successo, non c’era modo di sapere se avrebbe messo fine all’incubo. Beth era scappata perché la vita a Groveton la spaventava. Sarebbe fuggita indipendentemente da quello che fosse successo tra noi, e poiché ne ero innamorato, l’avrei seguita comunque. Mamma sospirò e tornò in modalità mondana. «Mark viene a cena domenica. Pensavo di fare una cosa semplice. Solo io, tu, Mark… e speriamo anche tuo padre.» «Fantastico.» Anche se sapevamo entrambi che papà sarebbe andato in città mentre Mark era a casa.

Si rifiutava ancora di riconoscerne l’esistenza. Non era cambiato granché nel matrimonio dei miei genitori. Mamma aveva scelto me e mio fratello, e papà aveva abbandonato l’idea di candidarsi a sindaco. Ma era ancora a casa e andavano ancora dal consulente matrimoniale. Come avevo detto prima, chi poteva sapere cosa sarebbe successo in futuro? «Non dimenticare il mazzolino di fiori.» Mamma uscì dalla stanza. Presi le chiavi dell’auto, il bouquet di rose rosse da polso, e mi diressi in garage. Con la coda dell’occhio, vidi papà seduto alla scrivania. Non ci eravamo rivolti la parola da quel giorno in camera mia, e probabilmente non sarebbe stato quello il giorno in cui avremmo rotto il silenzio. Quando aprii lo sportello della jeep, sentii la sedia scricchiolare e poi i passi sul pavimento. Papà raggiunse il suo tavolo degli attrezzi e si mise a frugare tra le scatole di bulloni e dadi. «Tua madre mi ha detto che hai firmato per giocare con l’Università di Louisville.» Sentii i muscoli tendersi in vista di uno scontro. La mia firma doveva essere avvallata da un genitore, e io mi ero rivolto a mamma. «Sissignore.» «Ha detto che vuoi giocare con la loro squadra per un anno, e poi valutare se ti sentirai pronto o meno per il professionismo.» Senza cappello mi sentivo nudo, così mi massaggiai la nuca. Potevo scegliere la strada facile e rispondergli con un semplice sì, ma non ne potevo più di dire o fare ciò che gli dava tranquillità. «Alla fine del primo anno, deciderò se sono bravo abbastanza per tentare il professionismo. Studierò anche scrittura creativa. Amo scrivere e giocare a baseball, e voglio provare entrambe le cose.» Papà chiuse un cassetto pieno di chiodi e annuì. «Le hai preso un mazzolino di fiori? Le ragazze ne vanno matte.» Strinsi in mano la scatola trasparente. «Sì» dissi, e la alzai per mostrargliela. «Me l’hai insegnato tu.»

Beth

La stanza da letto di Scott e Allison era troppo appariscente per i miei gusti. Le tende erano di seta blu, e ovunque ci fosse spazio c’erano fiori o quadretti. Il letto era più che enorme. In caso di lite, quei due non avrebbero avuto bisogno di dormire separati: sarebbe bastato rotolarsi un paio di volte sul materasso, e si sarebbero ritrovati in due città diverse. Me ne stavo seduta sulla sedia piena di cuscini davanti alla toeletta di Allison, a guardare mentre mi tirava su i capelli con le forcine. Detestavo le acconciature, ma non potevo lamentarmi. Un’ora prima mi aveva tinto di nero sei ciocche con una colorazione non permanente. Ora i miei capelli avevano quasi quattro centimetri di biondo dorato alle radici, sulle spalle erano neri, e le sei meche nere creavano equilibrio. «Scott si incazzerà.» «Sì» disse lei. «Ma me ne occuperò io.» Sollevai le labbra in un sorrisetto, e quando Allison lo notò allo specchio, sorrise a sua volta. Da quanto ero tornata a casa dall’ospedale c’era una tregua precaria fra noi, e a volte avevo paura di dire la cosa sbagliata e farle saltare i nervi. «Perché sei gentile con me?» Allison sollevò di nuovo la piastra e mi guardò male quando mi mossi. Fece la piega a un paio di ciocche che si rifiutavano di obbedirle. «Perché Scott ti ama.» Mi amava anche prima, ma questo non le aveva impedito di odiare ogni singola cellula della mia persona. Non che fossi stata di aiuto. «Mi dispiace per averti accusata di averlo incastrato.» La piastra tirò i capelli alla radice e mi morsi le labbra. Lasciò andare le ciocche, che ricaddero sulla schiena in una leggera danza di boccoli. Ok, mi meritavo gli strattoni… e i boccoli. Forse ora eravamo pari. Allison posò la piastra sul mobile. «Mi dispiace… be’, mi dispiace. Non ti volevo qui.» Sbattei gli occhi. Brusca, ma onesta. «Scott mi ha raccontato del suo passato, ma era semplice far finta che fosse solo una storia finché non sei apparsa tu. Preferisco la vita chiara e semplice. Tu hai reso Scott complicato.» «Scott è sempre stato complicato.» Allison mi spruzzò la lacca sui capelli. «Adesso lo so.» Scott si schiarì la gola e sia Allison che io ci voltammo mentre entrava nella stanza. Mi alzai in piedi e Scott fece un sorrisetto vedendo il vestito senza bretelle con la gonna al ginocchio. Si accigliò quando si accorse dei capelli. «L’ho fatto io» disse Allison senza il minimo senso di colpa. Lui spalancò gli occhi. «Tu?» «Lo scorso week-end le hai detto che poteva indossare quelle orrende scarpe con il vestito, ti avevo detto che te ne saresti pentito.» Mi ciondolai nelle Converse originali. «Ho addosso dei collant.» Quella era stata la concessione più grande che potessi fare.

«Dovresti mettere un golfino» disse Scott. «Non metterà nessun golfino.» Allison gli diede uno schiaffetto. «Sembrerebbe una stracciona.» «Non mi interessa cosa sembrerebbe, ma quanta pelle è in bella mostra.» Allison si sporse e Scott la baciò. Guardai altrove. Lo facevano più spesso da quando ero tornata dall’ospedale. Non solo baciarsi, ma farlo con il cuore. Baciarsi perché si amavano sul serio. Lei uscì dalla stanza e Scott infilò le mani nelle tasche. Mi trattenni dal grattarmi la tempia ancora in via di guarigione. «Mi ha coperto il taglio con il trucco.» «L’ho notato.» Fece un cenno alla mano sinistra. «Come va?» Scrollai le spalle. «Bene.» Il gesso nero era temporaneo. Trent mi aveva fracassato parecchie ossa della mano, del polso e del braccio. Di lì a due settimane avrei subito un altro intervento. Le dita ancora intatte tamburellarono sulla gamba. Credevo che sarei riuscita a non chiederlo, ma non fu così. «Com’è andata l’udienza di mamma?» Il giorno prima c’erano state le udienze preliminari di mamma e Trent. Avevo detto a Scott di non voler sapere com’erano andate, ma la curiosità mi stava mangiando viva. «È normale voler sapere.» Mi guardò negli occhi mentre lottavo con le migliaia di emozioni che mi spingevano in direzioni opposte. Annuii e lui continuò: «Ha accettato il patteggiamento per la riduzione della pena e starà dentro sei anni. Trent si è dichiarato non colpevole, a dispetto di quanto gli aveva suggerito il suo avvocato. Il procuratore distrettuale pensa di poter ottenere la condanna a quindici anni». L’angoscia mi ridusse lo stomaco a una pallina, e mi lasciai cadere sulla sedia. «Quindi ci sarà un processo.» Scott chinò la testa. Tutti noi avevamo sperato che si potesse evitare. «Sì.» Ryan e io avremmo dovuto vedere di nuovo Trent durante le testimonianze. Presi un respiro profondo per calmarmi. «Hai parlato con mamma?» gli chiesi. Lui scosse la testa e non seppi bene come prenderla. In realtà, non sapevo proprio come affrontare l’argomento mamma. Sei anni. Mia madre sarebbe rimasta in prigione per sei anni, e ce l’avevo mandata io. «Hai fatto la cosa giusta, marmocchia.» «Lo so» dissi piano. Lo sapevo, ma non significava che fosse meno dura. Bussarono alla porta e la paura iniziò a svanire. Ryan era arrivato. Scott fece un sorriso gentile. «E il principe azzurro ti aspetta.» «Ehi, Scott?» Lui mi fece cenno di continuare. «Come sei riuscito a tenere per te la storia dell’eroina? Insomma, è un segreto piuttosto grosso. So che ti serviva qualcosa per ricattarmi, ma parliamo di eroina.» Scott si grattò dietro l’orecchio. «Stavo per assoldare dei detective privati per ritrovarti quando ha chiamato tua zia. Quando sono arrivato alla stazione di polizia, ho capito che non saresti tornata a casa se non con me. È bastata un’occhiata a tua madre, e mi sono reso conto che le cose erano messe male.» Sospirò. «La presenza dei poliziotti la rendeva così nervosa che doveva nascondere qualcosa. Avrei detto qualsiasi cosa pur di tenerti con me. Ma non ho mai usato la parola eroina con te o tua

madre, e non sono mai andato a casa sua. Ho capito che doveva avere un segreto e ho bluffato.» E mi sentii un po’ un’idiota. Un’idiota felice, ma comunque un’idiota. «Ben giocata.» Lui fece un sorrisetto. «Lo penso anch’io.» ALL’AVVISO CHE MANCAVANO due minuti, le mani iniziarono a sudare, inclusa quella nel gesso. L’estate di San Martino in Kentucky aveva uno strano modo di trasformare novembre in una specie di luglio. Mentre scendevamo in campo dietro il tabellone dei punti, Ryan mi teneva la mano e non sembrava dargli fastidio il fatto che fosse fredda e umidiccia. La gente urlava e strillava dagli spalti e il presentatore informò la folla che la nostra squadra era al primo down… qualsiasi diavoleria significasse. Le altre coppie nominate per la corte del ballo d’autunno erano vicine al lampione, io invece esitavo più indietro e Ryan era al mio fianco. «Gwen non ti darà fastidio» mi disse. «Lo so.» Aveva ragione lui, non l’avrebbe fatto. Da quando Ryan e io eravamo tornati a scuola, mi era sembrata un po’ meno presuntuosa, più silenziosa e defilata. Si era scusata con entrambi. Avevo accettato le sue scuse, ma non per questo dovevo farmela piacere o frequentarla. Tirata a lucido alla perfezione, Gwen se ne stava in disparte rispetto al gruppo. Un po’ mi dispiaceva per lei. Il senso di colpa era un’emozione orribile. Ne sapevo qualcosa. «Potremmo andare a parlare con Carly e Brent» mi stuzzicò Ryan. «È una tua grande fan.» Alzai gli occhi al cielo. «Oggi mi hanno fatto lavorare in coppia con lei in laboratorio.» «Vedi, siete già migliori amiche. Lacy s’incazzerà sapendo che qualcuno invade il suo territorio.» «È proprio quello che sta per succedere» dissi, sarcastica. «Carly è simpatica.» «È euforica.» «Stessa cosa.» «Chi è simpatico è simpatico. Chi è euforico è irritante.» «Dovremmo organizzare un’uscita a quattro con loro.» Per poco non mi schizzarono gli occhi fuori dalle orbite. «Mi prendi in giro? Sto per rendermi ridicola camminando in mezzo a un campo da rugby, e vuoi che prenda in considerazione l’idea di uscire insieme a Miss e Mister Euforia? Sei impazzito?» Ryan rise e mi fece l’occhiolino. «Volevo solo farti arrabbiare.» Arricciai il naso. «Sei fastidioso.» Lui mi lasciò la mano, passò le braccia attorno ai fianchi e mi strinse al suo corpo muscoloso. «Sei bellissima.» Curvai le labbra in un sorrisetto e gli passai il braccio destro attorno al collo. «Mi manca toccarti con tutte e due le mani.» «È strano vedere il nastro sull’altro polso» disse. Rabbrividii quando Ryan accarezzò la pelle delicata sopra il gesso e la parte bassa della schiena. Un fiotto di calore e gioia esplose dentro di me. «Non lo tolgo mai.» «Mi manca averti nel mio letto» mormorò lui, in modo che potessi sentirlo solo io. Sorrisi di più, e Ryan arrossì. «Non in quel senso. Volevo dire che mi manca dormire insieme a te.» Avevo capito cosa intendeva. «È un po’ troppo difficile squagliarsela con una mano rotta.»

Lui chinò la testa verso la mia e mi strinse di più. «Mi dispiace di non essere riuscito a proteggerti meglio.» «Ryan, no. Sarei morta se non fosse stato per te.» «Adesso è finita» mi sussurrò contro la bocca. Socchiusi le labbra in attesa del bacio. «Già.» «Signor Stone. Signorina Risk» fece il vicepreside. «Un po’ più di distanza e molta più attenzione. È arrivato il momento di scendere in campo.» Buttai fuori l’aria e serrai il braccio attorno a quello di Ryan perché mi scortasse sotto le luci abbaglianti. Volevo che mi baciasse. Ne avevo bisogno. I nostri nomi furono annunciati dall’amplificatore, e Ryan mi condusse verso la linea delle cinquanta yard. La gente urlava e strillava, gli applausi più forti venivano dal settore in cui avevamo lasciato Lacy, Chris e Logan. «Quando vincerai» disse Ryan. «Non dimenticare che hai promesso di tenere il diadema sulla tua bella testolina per tutta la notte.» Allargai gli occhi quando capii come ottenere proprio quello che volevo. Ci fermammo in mezzo al campo e mi voltai verso di lui. «Baciami. Non sulla guancia. Voglio il pacchetto completo.» Ryan guardò verso gli spalti, dove stavano in centinaia. «Scusa?» «Io, Beth Risk, raddoppio la scommessa e ti sfido a baciarmi in presenza di tutta questa gente.» Gli occhi di Ryan si illuminarono, e comparve quel sorriso strafottente che mi faceva fare le capriole al cuore. «Hai dimenticato come funzionano le scommesse? Devi lanciare una sfida prima di poterla raddoppiare.» Alzai gli occhi al cielo. «Va bene. Ti sfido a baciarmi.» «E se lo faccio?» «Se vinco quella maledetta corona, cosa che non accadrà, me la terrò in testa per un’intera settimana.» Lui mi incorniciò il viso con le mani. Mi sfiorò le labbra con le sue, e non desiderai altro che mi baciasse. Pensai con rammarico che non lo avrebbe fatto, ma poi mi mordicchiò il labbro inferiore. Dischiuse la bocca e le nostre labbra si incontrarono in un bacio famelico. Fra i vari versi di sorpresa, i nostri nomi vennero proclamati vincitori. Sentii le labbra di Ryan piegarsi in un sorriso prima di pronunciare due singole parole: «Posso farcela».

RINGRAZIAMENTI

A Dio – Isaiah, 61:1 A Dave – Perché ho ancora il primo cappello da baseball che ti ho visto in testa. Grazie a… Kevan Lyon – Tutti dovrebbero avere al proprio fianco una persona come te. I tuoi consigli e la tua guida sono stati incredibilmente preziosi per me. Grazie. Non dimenticherò mai che tutto questo è cominciato proprio con te. Margo Lipschultz – Grazie per esserti affezionata ai miei personaggi quanto me. Sei straordinariamente brillante, e se sono migliorata come scrittrice lo devo a te. Tutti i collaboratori alla Harlequin Teen che hanno messo mano a questa storia, in particolare Natashya Wilson. Avete reso memorabile questa fantastica esperienza! Matt Baldwin e Mike Baldwin della Future Pro – Grazie per avermi fatto accedere alle vostre strutture e per aver risposto alle mie domande sul baseball. Angela Annaloro-Murphy – Grazie per essere stata la prima ad amare Beth. Sono state la tua fiducia e la tua amicizia a farmi continuare a scrivere. Shannon Michael – Quante volte mi sono ritrovata sul tuo portico con la testa fra le mani, chiedendomi se stessi andando nella giusta direzione con la storia? Grazie per le risate e per l’amicizia. Kristen Simmons – Non ce l’avrei fatta senza di te. È meraviglioso pensare a quante risate e lacrime abbiamo condiviso da che ci conosciamo. Questo libro è per te. Colette Ballard, Kelly Creagh, Bethany Griffin, Kurt Hampe e Bill Wolfe – Voi ragazzi siete più che un gruppo di critici. Siete diventati una famiglia. Kelly e Bethany, grazie per avermi tenuto la mano durante quest’anno da esordiente. Kurt e Bill, grazie per aver sottolineato quando “un maschio non farebbe mai una cosa simile”. Colette, grazie per le ore infinite di risate, sostegno e riletture. La Louisville Romance Writers – Siete stati voi a indirizzarmi sulla via della pubblicazione. Grazie per aver continuato a illuminare il mio percorso.

Ancora una volta, i miei genitori, mia sorella, la mia famiglia di Mount Washington e i miei parenti acquisiti… vi amo. Il grazie più grande va agli autori fantastici che ho incontrato, ai librai, ai bibliotecari, agli insegnanti, a chi gestisce un blog che recensisce libri, e ai miei lettori. Grazie per aver impiegato del tempo a spargere la notizia e per i messaggi, i tweet e le email che mi avete mandato. Mi ricordate il motivo per cui scrivo. Ad A, N e P. Voi sapete a chi mi riferisco, e sapete che vi amo più della mia stessa vita.

PLAYLIST DI SCOMMESSA D’AMORE

Colonna sonora generale: Jason Aldean, Dirt Road Anthem P!nk, F**kin’ Perfect

La scommessa al Taco Bell: Kenny Chesney, Summertime P!nk, U + Ur Hand La madre di Beth al bar: Crystal Bowersox, Farmer’s Daughter Beth si sveglia a casa di Scott: Miranda Lambert, Heart Like Mine Ryan in città: Kenny Chesney, Back Where I Come From Isaiah propone a Beth di fuggire: Kenny Chesney, Somewhere With You Isaiah tradisce Beth portandola via da sua madre: Nine Inch Nails, Hurt Ryan porta Beth alla festa all’aperto: Jason Aldean, My Kinda Party Ryan balla con Beth: Nelly, Just a Dream Beth passa la notte con Ryan:

Jason Aldean e Kelly Clarkson, Don’t You Wanna Stay Beth canta a sua madre mentre si addormenta: Lynyrd Skynyrd, Free Bird Beth cerca di allontanare Ryan con la verità: P!nk, Don’t Let Me Get Me Ryan insegna a Beth a galleggiare: Rod Stewart, Broken Arrow Beth e Ryan sono felici per un breve momento: Katy Perry, Teenage Dream La resa dei conti finale tra Beth e sua madre: Eminem, 25 to Life Questa canzone descrive perfettamente il rapporto tra Beth e Ryan: Randy Houser, How Country Feels

Canzoni composte per Scommessa d’amore da Angela McGarry: Ribbons and Bows We Weren’t Meant to Be Per ascoltarle: www.reverbnation.com/AngelaMcGarryMusic

DOMANDE E RISPOSTE A KATIE MCGARRY

D: Cosa ti ha ispirato a scrivere Scommessa d’amore? R: Quando andavo al liceo, insieme alla mia migliore amica passavamo le serate in giro con la sua auto, con i finestrini abbassati e la musica a tutto volume. A un certo punto, ci ritrovavamo sempre in uno di quei fast-food aperti fino a tarda notte. Parecchie cose interessanti della mia vita sono successe mentre mangiavo cibo unto e bisunto. Quei ricordi mi hanno spinta a scrivere la scena iniziale di Scommessa d’amore, e da lì, Beth e Ryan sono diventati personaggi pienamente sviluppati che volevano vedere raccontata la loro storia. D: Il tuo primo libro, Oltre i limiti, si svolge in un contesto di città/periferia. Come mai hai deciso di ambientare la maggior parte di Scommessa d’amore in una zona di campagna? R: Sono cresciuta nei pressi di una grande città. Avevamo il codice di avviamento postale della città e tutte le comodità di un’area più popolata, e al tempo stesso bastava andare più a sud di pochi chilometri per imbattersi nei campi coltivati. Per questo motivo, sono cresciuta con amicizie miste. Conoscevo persone che possedevano auto con le sospensioni idrauliche abbassate, e ragazzi i cui fuoristrada avevano gomme alte quasi quanto me. Beth è sicuramente una ragazza di città, e mi piaceva l’idea di ribaltare il suo mondo trasferendola in una realtà diversa. Così è nato Ryan! D: Che tipo di ricerche hai fatto mentre scrivevi Scommessa d’amore? R: Da quando ho conosciuto mio marito, ho passato la maggior parte dei miei venerdì sera estivi a guardarlo giocare a baseball. È fantastico vedere il lavoro di squadra, che a volte funziona e a volte no, di un gruppo di ragazzi in campo. Ho capito subito che Ryan avrebbe giocato a baseball, e se da una parte ho imparato molte cose da mio marito, dall’altra volevo capire il baseball dal punto di vista di un ragazzo che insegue il sogno del professionismo e/o una borsa di studio per studenti atleti. Sono andata a visitare una struttura per gli allenamenti e ho parlato con gli allenatori. Ho anche scambiato due parole con i ragazzi nelle stesse condizioni di Ryan, e con i loro genitori. Sono stati tutti di grande aiuto, e grazie alle loro risposte ed esperienze ho plasmato le situazioni affrontate da Ryan.

D: Perché hai scelto di non far mettere insieme Beth e Isaiah? R: E se vi dicessi che quando ho scritto Oltre i limiti, in cui erano personaggi secondari, li vedevo insieme? Sono sicura che nessuno ne resterebbe sorpreso. Quando ho iniziato a esaminare da vicino Beth e Isaiah, ho capito che per trovare la loro pace dovevano essere messi alla prova da qualcun altro. Beth e Isaiah si assomigliano molto, e Isaiah permette a Beth qualsiasi cosa. Ne hanno passate tante insieme, e quando ho iniziato a ideare la trama, ho capito che se si fossero messi insieme, non sarebbero cresciuti individualmente. Amo Beth e Isaiah come se fossero persone reali, e ci tengo alla loro felicità. Sfortunatamente, non credo che sarebbero stati veramente felici come coppia. Ryan, d’altro canto, è perfetto per Beth. Lei non riesce a capire chi è veramente, e dato che Ryan non ha un passato in comune con lei, riesce a vederla con grande chiarezza. Si innamora follemente della splendida persona nascosta dentro di lei. Beth si aggrappa a un passato che non può cambiare, e Ryan la aiuta a capire come lasciar andare quel passato e pensare al futuro. Ora, una delle meravigliose reazioni a catena generate dalla storia di Beth e Ryan è stata la gioia di poter scrivere quella di Isaiah. Mentre scrivevo Scommessa d’amore, mi si è spezzato più volte il cuore per Isaiah e non so dirvi quanto sia emozionata all’idea di mostrare ai miei lettori la persona con cui finirà Isaiah, e come cambierà per sempre la sua vita. Prometto di non deludervi!

Indice

Scommessa d’amore Ringraziamenti Playlist di Scommessa d’amore Domande e risposte a Katie McGarry Della stessa autrice

Della stessa autrice:

Oltre i limiti Nessuno sa cosa sia successo a Echo Emerson, la ragazza più popolare della scuola, la notte in cui le sue braccia si sono ricoperte di cicatrici. Nemmeno lei ricorda niente, e tutto ciò che vuole è ritornare alla normalità, ignorando i pettegolezzi e le occhiate sospettose dei suoi ex-amici. Ma quando Noah Hutchins - il “bad boy” del quartiere - irrompe nella sua vita con la sua giacca di pelle, i suoi modi da duro e la sua inspiegabile comprensione, il mondo di Echo cambia. All’apparenza i due non hanno nulla in comune, e i segreti che custodiscono rendono complicato il loro rapporto. Eppure, a dispetto di tutto, non riescono a fare a meno l’uno dell’altra. Dove li porterà l’attrazione che li consuma e cos’è disposta a rischiare Echo per l’unico ragazzo che potrebbe insegnarle di nuovo ad amare?

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Basta un breve scambio di parole tra Lila e Lincoln per capire di essere due anime confuse in cerca di un amico con cui parlare. Per due anni, a causa della distanza che li separa, si sono scritti lunghe lettere, confidandosi sogni e

segreti. E quella che era nata come una semplice amicizia si è trasformata in un tenero sentimento… Ma quando Lila scopre che Lincoln le ha mentito, decide di interrompere ogni rapporto. Per riparare al suo errore, però, lui è disposto a tutto! Perché non c’è nulla di più prezioso della ragazza che gli ha ricordato come si fa a sognare.

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... è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o. persone della vita reale è puramente casuale. T. Page 3 of 269. Katie McGarry- Scommessa d'amore.pdf.

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