Pierre Reverdy

Quest'emozione chiamata poesia Cette émotion appelée poésie

I quaderni del Letterato Franz Laszlo Melas

Traduzione di Salvatore Leopaldi Testo originale tratto da: Pierre Reverdy, Cette émotion appelée poésie, ecrits sur la poésie (1932-1960), Paris, Flammarion,1974

Questa emozione chiamata poesia Non mi ricordo più, almeno abbastanza per citarlo, il nome di quel chirurgo che diceva di non aver mai trovato un’anima con la punta del suo bisturi. Lo stesso che affermava che il cervello secerne il pensiero così come il fegato la bile? Ad ogni modo, la prima delle due affermazioni enuncia una verità irrefutabile da cui derivano tutte le altre, che non le sono inferiori, cioè che l’anima sarebbe giustamente una di quelle cose che non si lasciano sorprendere dalla punta di un bisturi. Tutto qui. È un’altra di quelle cose che sono state a lungo considerate come attributi o manifestazioni dell’anima, e di cui nessun chirurgo può negare l’esistenza: il pensiero, ad esempio, l’intelligenza, la memoria. E ancora, la personalità la quale, che io sappia, non è facile da vedere al fine di stabilire in cosa consista veramente. Pertanto a meno di incidenti gravi, di indebolimenti patologici o di alienazione mentale, ogni uomo ha della propria personalità un senso talmente irreprimibile che è tenuto ad uno sforzo costante su se stesso per dare uno spazio ragionevole agli altri. Tutti sappiamo che ogni uomo, sin dall’infanzia, ha la tendenza a considerarsi come il centro dell’universo – a non vedere intorno a se che dei vaghi epifenomeni particolarmente fastidiosi e dai quali proverà per tutta la vita a tirar fuori qualunque cosa sia un vantaggio per la sua propria sussistenza. E guai a colui che gli capiti di perdere questa facoltà. In realtà l’uomo è obbligato, per tutta la vita, ad essere alternativamente cacciatore e preda, non potendo essere esclusivamente l’uno o l’altro, non ci vorrà molto perché venga eliminato dalla scena. Ma se un giorno gli prende il gusto di cercare senza scrupoli in cosa consista questa personalità che sente tanto prepotentemente in se, contemporaneamente come esigenza e supporto, egli si accorgerà presto che, in fin dei conti, non gli resta niente di concreto nell’anima né sulla punta delle dita, ovvero sotto la punta del bisturi. Naturalmente ciascuno di voi si è potuto rendere conto che non riconosce niente e nessuno così facilmente come il proprio viso in uno specchio, o il proprio corpo che lentamente invecchia. Tuttavia basta una malattia grave a renderci bruscamente irriconoscibili. In più, in queste apparenze tanto ben conosciute e riconosciute che contribuiscono in maniera ragguardevole al senso profondo che noi diamo alla nostra personalità, quale è il tratto, il marchio incomparabile che ci distinguerà in maniera irrefutabile da quelli che noi chiamiamo, volenti o nolenti, nostri simili? Noi non abbiamo tre occhi o due bocche né due nasi. Ci sono tuttavia dei mostri, questo è vero. Ma in generale quelli che non accettano queste particolarità mostruose, e l’anatomia fisica che li contraddistingue, invece di aumentare la percezione della loro individualità, tendono, al contrario, a voler essere, in tutto il resto, considerati ancor più simili agli altri. Ma dal punto di vista morale è diverso. Ciascuno, anche il più stupido, ha la tendenza ad essere unico, o a provarci, ad essere orgoglioso quando soffre

sentendosi isolato e perduto tra la folla, diversità che è altrettanto vero uniforma gli uomini. Senza parlare di quegli spiriti furbi allo stesso tempo timidi e falsi, che riescono tuttavia a raggiungere miracolosamente la fine della corsa, grazie alla cultura, intensiva e dalle responsabilità limitate, del paradosso. Ma, supponendo che qualcuno si metta all'opera, in buona fede, e che giunga abbastanza lontano nella ricerca del proprio io. Ebbene si conosce un poco. Almeno egli crede. Ed eccolo cercare di eliminare uno ad uno i tratti del suo carattere che egli possiede da sempre, prima considerati come solamente suoi e che è obbligato a rifiutare uno ad uno in quanto sono anche tratti del carattere di tanti altri. La ricerca è infinita. Poco importa il nome dell’argomento che chiamerà in causa per prevalere sugli altri non sarà che un infimo dettaglio, una sfumatura indefinibile. Egli troverà sempre negli altri quei famosi tratti che egli avrà conservati, anche se solo per un momento, come una caratteristica assolutamente propria del suo essere – anche se riguardano il campo dello spirito o dei sentimenti, dell’intelligenza, del carattere, della memoria; una ragione più forte di quella dell’istinto e sempre più simile a quella degli animali che a quella degli uomini – terribilmente somigliante e terribilmente lontana insieme, comune e singolare, unica ma non identica – tuttavia da molto tempo l’uomo, carnefice di se stesso, ha mostrato la tendenza, per sortilegio diabolico e vergogna da cadetto, a rendersi indifferentemente intercambiabile come due banconote da mille sopra il tavolo. Lo stesso gli uomini. Si escluda, tra gli uomini, poiché rappresenta un’altra categoria, il poeta. # Vi avverto che userò questa parola nel senso ampio degli antichi; non per dire il verseggiatore – che non è più nessuno per noi – ma per indicare tutti quegli artisti la cui ambizione e il cui obbiettivo è quello di creare un’opera estetica compiuta con i propri mezzi, un’emozione particolare che le cose della natura, a loro piacimento, non sono in grado di suscitare all’uomo. In effetti, se gli spettacoli della natura sono riusciti a provocarvi quell’emozione la, voi non andreste nei musei, né ai concerti, né a teatro, e voi non leggereste libri. Voi restereste dove e come siete, nella vita e nella natura. Che cosa cercate a teatro, o al museo, ad un concerto o dentro i libri, c’è un’emozione che voi non potrete trovare che la – non una delle tante emozioni che vi dispensa la vita, ma un’emozione che solo l’arte può darvi. A questo proposito vi faccio osservare che la bellezza naturale, vale a dire quella che ammiriamo in certi spettacoli naturali, è una creazione dell’uomo. La natura, non è né bella né brutta, né triste né felice – ma quello che noi ci mettiamo di riflesso. Siamo noi ad essere felici o tristi alla vista di questo o quello spettacolo; tutt’al più si potrebbe dire che un paesaggio è o non è desolato – questo è il significato della Bellezza coltivata in noi che si da o non si da a questo o quello spettacolo naturale che

noi abbiamo sotto gli occhi. Quando abbiamo detto, con un brillante paradosso, che la natura imita l’arte, cosa che è stata accettata senza esitazioni, era giusto il falso per raggiungere la verità. E la verità è che, se noi ammiriamo così tanto la natura, è perché noi ci ritroviamo quello che l’arte, dopo che è stata portata nel mondo dagli uomini, ci ha insegnato ad ammirare. Ci sono nel mondo – si scorda di frequente – milioni di uomini che non sono per nulla sensibili alle bellezze della natura e specialmente a quelle che hanno più vicino e che conoscono meglio della realtà – perché sono alle prese con lei e non hanno ricevuto dall’arte quelle lezioni che potrebbero risvegliare in loro il senso che gli permetterebbe di discernere o di riconoscere tali bellezze. Per loro la bellezza naturale non è ancora nata, né senza dubbio nascerà mai. Passiamo dunque al poeta che precisamente è colui nel quale la bellezza è nata ed esiste a tal punto da divenire il suo unico interesse. # Non c’è più nessuno al giorno d’oggi che creda che gli artisti apprendano la loro arte e il loro mestiere dalla natura. Anche ammettendo che sia, come si è detto, un dizionario, non è da un dizionario che si impara ad esprimersi. Il confronto tra l’artista e la sua natura non viene che dopo, nella sua maturità di uomo, quando la padronanza della sua arte gli dà respiro. Prima, ci si preoccupa di partire velocemente, di cominciare con il piede giusto – e ci sono diverse scuole, il contatto avido ed esclusivo con le opere del passato remoto o recente. È dai dipinti dei maestri che sono commossi i giovani pittori, dalle poesie dei vecchi che sono colpiti, feriti a morte, i futuri grandi poeti. Infine, dopo averli presi, cerchiamo di non farceli scappare. C’è questo ragazzo tra i quindici e i vent’anni che incontra sia amici che libri. Dagli uni comincerà il suo apprendistato di uomo – dagli altri imparerà l’esistenza al mondo di un mistero. Questa strana forza delle parole che gli raccontavano cose delle quali sarebbe stato talmente triste se gli fossero capitate nella sua vita, o in quella delle persone che ama, e che, lette nei libri, gli procuravano una gioia immensa. Parole che gli raccontavano di cose inverosimili, improbabili, cose che non capitano mai nella vita e che colpivano la sua anima con una forza più grande, più efficace di qualsiasi altra cosa avesse sperimentato nella vita – parole che gli rivelavano come in lui ci fosse un luogo senza legami apparenti con il comune valore che si da agli avvenimenti della vita e che questo luogo segreto deve essere quello in cui lui somiglia di più a quello che è veramente. Ma lui è poeta, quindi creatore. Non si può accontentare di leggere; deve scrivere. Insomma, lui non può accontentarsi, non può farsi bastare la gioia dell’arte. Ha bisogno di soffrire per l’arte, che lo faccia per meglio conoscere come richiedono, per essere ben conosciute, tutte le altre cose della vita. C’è bisogno, infine, che questa emozione, che sente, che sente in modo

particolare, al contatto con le prime poesie che ha letto, lui la faccia sentire a sua volta agli altri. È il suo compito, la sua missione, d’ora in avanti la sua più forte ragione di vita. E, naturalmente, le difficoltà non mancano. Questa magia che lo ha stregato con la lettura, questo entusiasmo, questa malattia che gli ha fatto perdere terreno, è ben lontana dal fargli prendere in considerazione la scrittura... Può disperare, si può chiedere il motivo e fare il bilancio. È che ora non è più sotto l’influenza magica delle parole, sono a sua disposizione, le usa. Sono li come un cumulo di pietre – e con le quali è alle prese. E le parole sono in tutto il mondo. Da dove vengono quelle che non pensava come parole quando le leggeva? Bene, poiché le parole, infine, non servono ad altro che ad esprimere le idee e i sentimenti e che, complessivamente, non si basano che su loro stesse. Allora, si preferisce vedere queste idee e questi sentimenti. – questo è anche peggio. Queste idee, questi sentimenti, visti tutti d’un tratto sono ancora più comuni. Eppure è proprio da queste parole e da questi sentimenti che sono di chiunque che è stato un giorno colpito come dalla più grande novità del mondo. Questo è, vedete, il famoso: Tutto è stato detto ed è troppo tardi di La Bruyère che venne pronunciato per la prima volta, con tanta modestia e semplicità, due cento cinquanta anni fa. Poiché niente sarà mai detto in maniera definitiva fintanto che l’uomo avrà bisogno di esprimersi per vivere. # E il poeta scrive. Scrive innanzitutto per svelarsi a se stesso, per capire di cosa sia capace, per tentare l’ambiziosa avventura di accedere forse un giorno nel campo magico, dove si trovano le opere che ama che sono riuscite a procurargli una nostalgia opprimente. Se è veramente destinato, non passerà molto affinché capisca che quello che importa è di arrivare a mettere in chiaro quanto c’è di meno conosciuto in se stesso, quanto di più segreto, di più nascosto, di più difficile da individuare, di unico. E, se egli non sbaglierà strada, il risultato sarà presto ben più semplice da ottenere. Poiché, se quello che importa è soprattutto quel poco che serve ad esprimere la propria personalità più intima, importa altrettanto, e non di meno, il modo particolare in cui viene espressa. In effetti, per strano che possa sembrare, se il modo in cui ci si esprime sarà molto semplice e comune porterà al più segreto, al più celato, al più intimo luogo di ciascuno e produrrà lo choc. Poiché lo choc poetico non è della stessa natura di quello delle idee con cui conosciamo e apprendiamo dall’esterno qualcosa che ignoriamo; ma è una rivelazione di qualcosa che noi portiamo ignari in noi stessi e per la quale ci mancano le parole giuste per rivelarla a noi stessi. Questa perfetta espressione donataci dal poeta noi la facciamo nostra, ce ne approfittiamo, quest’espressione, sarà, d’ora in avanti, quella del nostro proprio sentimento che abbiamo sposato.

# Facciamo un esempio appositamente scelto perché privo di sublime, di una vistosa banalità e ugualmente di una volgarità tra le più scabrose. Quando Rimbaud comincia la sua poesia Le cœur volé con quei due versi che non hanno niente di quello che d’abitudine chiamiamo sentimento o argomento poetico: Il mio triste cuore bava a poppa Il mio cuore pieno di caporali Forse sarebbe stato egli stesso sorpreso dall’essere usato come esempio, tuttavia credo di trovarvi il sostegno a quanto voglio dire – In questi versi non c’è nulla di straordinario, di squisito, di prezioso, semplicemente l’espressione di un malessere che chiunque può aver sperimentato per aver fumato troppo quando era giovane – o per essere stato in barca troppo a lungo – difficile da dire onestamente. Resta il fatto che, da che il mondo è mondo, ed è passato tanto di quel tempo – più di quel che crede La Bruyère – e tra i miliardi di uomini che si sono succeduti sulla terra – e sono molti, non ce n’è uno che ha espresso una cosa così volgare con tanta semplicità, forza e grazia, quanto il solo Rimbaud. Il nostro cuore, cosa abbiamo di più prezioso che questo organo. Immaginate ora che alcune persone riunite attorno alla stessa vasca hanno lasciato cadere, inavvertitamente, i loro preziosi cuori e che, rimasti vivi per magia, cerchino in fretta di ritrovare ognuno il proprio per potersene andare. Impossibile, stesso peso, stessa forma, stesso aspetto – cuori di carne – cuori umani alla fine – assolutamente intercambiabili come le due banconote da mille sopra il tavolo di cui parlavamo prima. Tuttavia, tra questi cuori ce n’è uno che comincia a parlare e dice: Il mio triste cuore bava a poppa… Scusate, direbbe Rimbaud, quello è il mio. Perché quello che resta del cuore di un poeta è quello che ha detto. # Questo per quanto riguarda la forma e il contenuto. Il contenuto, vale a dire la sostanza della quale un autore si serve per sostenere la forma con la quale sente il bisogno di comunicare gli aspetti più singolari della sua propria personalità agli altri. Ed è questa personalità così espressa che tocca così profondamente gli altri fino allo choc più provante. Che avviene dove si verifica la comunione più altamente e specificatamente umana. Quello che è propriamente umano, non sono le cose esteriori, bensì l’uomo; e affinché la comunione avvenga in modo inequivocabile, anche se questo accade raramente, c’è bisogno di entrare con il proprio modo di pensare, di sentire e renderlo in quella forma là. Se entra, allora sarà per sempre. Per sempre poiché quello che avrà trovato negli altri, è quel luogo preciso di cui aveva bisogno per essere soddisfatto. Inoltre, la cosa dimostra che non sono le cose stesse che si

basano sull’arte, ma il modo in cui sono modellate, il modo in cui le cose sono, non si devono che prendere in natura – senza motivo. Questo è quello che senza ulteriori precisazioni, tutti coloro che, talmente più numerosi di quanto non si creda, non credano che debba esserci nessuna arte. # Passiamo ad altro. Baudelaire ha detto, più o meno, con parole migliori di quelle che non abbia sott’occhi, che lui non concepiva la Bellezza nell’arte, senza l’idea della bruttezza, della morbosità, della sofferenza. Non è affatto quello che penso io. Semmai al contrario, io credo che il fine dell’arte, il suo ruolo non sia quello di spingere ancora di più l’uomo nella sua miseria, nella sua sofferenza e nella sua tristezza – bensì di liberarlo, di donargli la chiave di uscita superando la dimensione reale, pesantemente quotidiana, fino alla libera dimensione estetica in cui l’artista s’innalza per vivere e respirare. È vero, tuttavia, che l’opera d’arte al suo principio non presuppone sempre l’idea della felicità. Semmai è una sorta di ribellione contro l’operato della natura. La prova che l’artista non si accontenta della natura. Se accettata, basterà ad appagare il suo bisogno di contemplazione? Anche quando fa finta di imitarla invece la nega, la critica e soprattutto la corregge. Se egli pretende con le sue opere di raggiungere la Bellezza, ugualmente la bellezza naturale non lo soddisfa pienamente. A dire il vero, la trova imperfetta e l’interesse dell’uomo in qualsiasi momento, questo è quello che sembra, è di raggiungere la perfezione – una perfezione che, sempre più, si distacca da quella che lo spirito si lamenta di non riuscire mai a trovare nelle cose della natura, alla creazione delle quali non ha potuto partecipare, ma applicabile a quelle opere da lui stesso liberamente progettate. Insomma, l’arte ha la tendenza a diventare un’attività esclusivamente umana, vale a dire libera tanto quanto possibile dal fato o dal divino. Ovvero, il poeta è, per eccellenza, colui che la natura non sarà mai in grado di calmare. Un mostro – l’uccello delle grandi migrazioni a cui l’ampiezza delle ali impedisce di camminare. È, come vedete, con un costante desiderio d’altezza e di spazi infiniti, con questa sensazione di irresolutezza nel cuore e nell’anima, che accoglie con gioia l’essere così frequentemente obbligato a strisciare. Il dramma costante del poeta è che egli aspira più di ogni altra cosa alla imitazione della realtà – in assoluto – l’eccesso di sensibilità gli impedisce di adattarsi, di soddisfarlo – nel relativo – come ogni altra persona – e di attingere, nel goderne, il minore di quei vantaggi che può offrirgli. Certamente non è la voglia di vivere quella che gli manca. Semmai il contrario, quello che lo frena è di avere questa voglia [di vivere] in eccesso. In modo che quelle che sono, altresì, le circostanze sociali della sua vita, non può evitare che lo colpiscano e lo feriscano con delle limitazioni. E questi limiti, che gli rendono il mondo soffocante, li ritrova nelle sue opere

nelle quali le condizioni della sua natura e del suo carattere gli impediscono di trovare pieno appagamento. È quello che, come ripeto sempre, il poeta deve portare alla luce per esprimersi, per rivelarsi a se stesso e agli altri – infine raggiungere questi “altri” senza la presenza dei quali egli non avrebbe che il suo proprio silenzio. Egli non scrive per se stesso. Se scrivere è un mezzo di rivelazione in primo luogo, altrettanto è un mezzo di comunicazione. Ma, per il poeta, è necessario precisare il tipo di comunicazione – quello che intende svelare di se stesso e quale obiettivo si prefigge negli altri. Si distrae? Per niente. Si emoziona. Niente di meno che fare sgorgare la sorgente dalla pietra. # Questo amore insensato, eccessivo, da cui il poeta è alterato, dalla realtà che ogni giorno sfugge alla sua ricerca e lo sfinisce, vuole trovarlo negli esseri umani attraverso le sue opere che offre loro come un rifugio. Vale a dire che di questo filo dovrà essere intessuta la sua opera. O, avete sentito dire che si cercano gli essere che si amano veramente per esserne distratti? C’è che l’amore è una distrazione o un ulteriore modo di essere se stessi negli altri che, a loro volta, si troverebbero ulteriormente loro stessi in voi? Dunque, quello che si propone di fornire il poeta, è, naturalmente, quello che egli giudica più degno in lui di essere amato. E, certamente, non la sua figura volgare e comune per la quale non ha alcuna stima, ma quanto ha di più raro, straordinario nelle sue facoltà, questo intimo, questo singolare con cui parlare più alto o, meglio ancora, questo sconosciuto. Quello che non sa con certezza nemmeno lui stesso di avere – di cui sente confusamente essere fatto e che non può provare a se stesso di avere se non scrivendo. Ora, l’ho già detto, i suoi sentimenti sono vicini a quelli del resto del mondo – e vorrebbe tanto dare qualcosa di se che sente non essere di nessun altro! Questo è quello che intendo per inesprimibile e che tuttavia bisogna dire. Bene, niente di quello che infine viene detto era realmente inesprimibile. L’inesprimibile è dunque il modo in cui le cose verranno dette. E il modo di dire queste cose che le renderà appunto inedite. Inedite e semplici, inascoltate e così poco strane, immediatamente intime e inseparabili – che permetterà il legame tra anima e anima tramite lo choc poetico. Allora, il poeta donando quanto ha di più prezioso in se , il lettore lo riceverà, a suo turno, in quanto ha di più particolare, intimo e di più elevato. Quindi unico e unico, si uniranno nell’essenza delle loro differenze, se mi permettete questa forzatura. # Infine il poeta ha condotto questo “sconosciuto”, che lui cerca in se durante i turbamenti, nel “conosciuto”, dove potrà essere

giudicato, criticato dagli altri. Ma questo “conosciuto” non perde quella forza che gli viene dalla sua origine – “sconosciuta” e raggiunge un giorno il luogo dove si trova lo “sconosciuto” degli altri – perché ciascuno ha il proprio – e li ci trova il suo polo opposto, una scossa invece, una scintilla. Ora, questa scossa, questa scintilla quando è di un uomo viene chiamata emozione. Non quell’emozione, come abbiamo detto, più o meno profonda o a fior di pelle che ci procura un evento più o meno drammatico della realtà vissuta, ma un’emozione di un altro genere – gratuita in apparenza ma che non deve essere quello che sembra poiché dura sovente molto più a lungo di quelle che proviamo nel solo ambito della sensibilità e qualche volta tanto dopo che si è sentita. Emozioni di tipo estetico indefinitamente rinnovabili poiché si inseriscono nell’animo stesso di colui che le riceve dandogli un accrescimento di se stesso. Emozioni provocate da quanto è stato detto, certo, ma soprattutto dalla maniera in cui sono state dette, dal timbro. Perché questa maniera, questo timbro sono quanto di più rivelatore delle qualità, delle virtù, della profondità della sorgente che li ha pronunciati. Quindi, il lettore possiede, grazie a loro, quello che l’autore ha di più autenticamente personale, che non potrebbe essere dato diversamente che da come è scritto – e l’autore riconosce se stesso da questa sua propria natura, come non avrebbe mai potuto fare se non scrivendo. Il suo lavoro completo è finalmente accanto a lui come un suo doppio, o almeno come una parte, la più importante, la più rivelatrice di lui, e con la quale, in effetti, quando le cose meritano di restare, egli persiste ancora nel mondo, mentre quella parte di lui che credevamo più reale sarà già stata cancellata. # Ma il miracolo è che parlandovi delle sue miserie, il poeta vi libera delle vostre con la sola forza dell’espressione che vi dona e che, senza lui, non avreste trovato. Quando lo stesso Rimbaud disse ad esempio “per delicatezza ho perso la mia vita”, una di quelle chiavi di liberazione che ho detto vi si regala. Mio dio, quanta persone ci sono tra noi che consideriamo che in effetti per delicatezza – nel mezzo di tanti volgari egoisti – hanno perso quello che non è dato di recuperare… Ma nell’estrarre questo piccolo poema questi due brevi versi, queste poche parole, allora si consuma la loro amarezza, li alleggerisce. Quella amarezza che ora non è più solo la loro. La condividono. La condividono con qualcuno di quegli eletti che riescono a dirla – che sembrano essere stati particolarmente scelti dal destino per cambiare il peso detestabile del piombo in quello stimabile dell’oro. Grazie a loro, questo peso terribile da cui siete oppressi lascia il posto all’inebriante leggerezza del volo. # Ed ecco, infine, che quello che più mi importa di dirvi comincia

a stringersi in un nodo più stretto. Questa poesia, per lo meno così poco conforme alla definizione che vuole che l’anima inizi sulla punta di un bisturi, che cosa è? Oh! Non è che i più grandi poeti del passato abbiano scritto poco circa questa questione. Ma l’abbondanza stessa delle brillanti risposte che ci hanno fornito le rende piuttosto imbarazzanti. Ci forniscono tuttavia il ricco repertorio di una meravigliosa antologia. Vedete, i veri poeti non possono provare la poesia che poetizzano, se così si può dire. Per me, a cui certi prestigiosi mezzi non sono stati liberamente concessi, sono obbligato a comportarmi diversamente. Si dice spesso e si ripete che la poesia, come la bellezza, è in ogni cosa e che è sufficiente saperla trovare. Ebbene no, non credo che sia in ogni cosa. Tutt’al più convengo che la poesia non è, al contrario, in tutte le cose, preoccupata di starsene la dove ha più possibilità di restarvi – ma anche, una volta riconosciuta la necessità con la quale l’uomo s’è trovato a metterla al mondo per poter meglio sopportare la realtà che, tale e quale, non si mette sempre cortesemente alla nostra porta, la poesia non ha bisogno per raggiungere il suo scopo di questo o quel mezzo particolare. Non ha bisogno di parole più poetiche di altre. Perché la poesia non è più nelle parole di quanto non lo sia nel tramonto del sole o nel sorgere splendido dell’alba – non è più nella tristezza di quanto non lo sia nell’allegria. È nelle cose che diventano parole in grado di raggiungere l’animo umano, quando diventano il tramonto o l’alba, la tristezza o l’allegria. È in questo mutamento operato sulle cose dalla forza delle parole e le reazioni che generano le una sulle altre nei loro accordi – si ripercuotono nello spirito e sulla sensibilità. Non è il materiale di cui è fatta la freccia a farla scoccare – non importa il tipo di legno o l’arciere – ma la sua forma, la maniera in cui è stata tagliata ed equilibrata a farla andare a segno e piantare e, naturalmente anche, la forza e la mira dell’arciere. Ugualmente, non è nella corrente elettrica che è la luce, ma nella scintilla che nasce dallo choc elettrico dei due poli, contenuti nella lampadina. Senza dubbio la corrente poetica era da sempre nella natura, allo stato grezzo, quando apparve l’uomo. Ma la lampadina non c’era. Furono i poeti, questi temerari accumulatori di emozioni violente, che le hanno messe – per vivere, per scaricare questo intollerabile sovraccarico. E questo passaggio dell’emozione grezza, confusamente sensibile o morale, sul piano estetico dove, senza nulla perdere del suo valore umano, si eleva, perdendo il proprio peso terreno e di carne, si epura e si libera in modo che diventi, da sofferenza pesante del cuore, allegria lieve dello spirito, che è la poesia.

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