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Alessandro Lattuada Gilles Deleuze e il rovesciamento del platonismo Peer-reviewed Article. Received: September, 09, 2015; Accepted: February 03, 2016

Nel primo saggio in appendice alla Logica del senso, dal titolo Platone e il simulacro1, Deleuze si misura con il platonismo al fine di attuarne il sovvertimento. Qui viene messo in risalto il problema del simulacro in rapporto alla gerarchia platonica, notoriamente costituita dai Modelli (o Idee) e dalle copie-icone (o rappresentazioni). Tuttavia, Deleuze annuncia l’esistenza di un terzo elemento situato in un fondo indistinto in cui il filosofo greco relega le copie che non sono ‘ben fondate’, quelle cioè che non condividono la somiglianza con il Modello. Si tratta del simulacro. Esso è definito infatti un falso pretendente (contrariamente alle copie), una deviazione, una perversione che incarna una dissimilitudine. Il vero problema della filosofia platonica, secondo Deleuze, non è rappresentato dal rapporto delle copie-icone con il Modello, ma dal ruolo del simulacro. La preoccupazione più grande di Platone sarebbe in effetti quella di «assicurare il trionfo delle copie sui simulacri, di rimuovere i simulacri, di mantenerli incatenati proprio in fondo, impedire ad essi di risalire alla superficie e di ‘insinuarsi’ ovunque»2. La filosofia platonica tende dunque ad assicurare il buon pretendente al Modello attraverso due movimenti: far salire alla superficie le copie-icone ben fondate e relegare sul fondo i simulacri-fantasmi. La somiglianza (l’attributo che garantisce la fondatezza) della copia al modello è da intendersi non in rapporto ‘esteriore’ (una cosa rispetto a una cosa), ma ‘interiore’ o ‘spirituale’ (una cosa rispetto a un’idea). Dunque la copia si conforma al Modello in virtù di una somiglianza interna. I simulacri invece vi si rapportano attraverso una sovversione, una violenza che proviene dal basso; il movimento del simulacro è inverso rispetto a quello della copia. Quella del simulacro, afferma l’autore, è «una pretesa infondata che copre una dissomiglianza come pure uno squilibrio interno»3. Per la ricerca del giusto pretendente, Platone adotta un metodo di divisione che si basa sulla selezione dell’autentico pretendente alla rappresentazione del modello e sulla simultanea distinzione di questo dall’inautentico; si tratta di distinguere il «puro dall’impuro»4. Il metodo che Deleuze attribuisce a Platone deriva da una precisa interpretazione del concetto di differenza in Bergson. Per comprendere appieno la lettura deleuziana della filosofia platonica occorre dunque accennare all’incidenza del bergsonismo sul suo pensiero. La deleuziana ‘metafisica del caos’ si basa su un processo dialettico ben diverso da quello platonico o hegeliano. Non è questo il luogo per approfondire i punti di contrasto fra il pensiero di Deleuze e quello di Hegel; ci limiteremo pertanto a osservare che Deleuze esclude il negativo dal movimento dialettico. Il negativo è assorbito e superato dal concetto bergsoniano di differenza. Applicando il metodo della differenza (secondo cui solo il ‘semplice’, o il ‘puro’, è indivisibile e per ciò stesso si differenzia in sé, cioè differenziandosi cambia natura) alla filosofia platonica, Deleuze giunge a considerare il simulacro come l’oggetto della filosofia dell’avvenire. Nel contesto bergsoniano il simulacro è chiamato virtuale: esso è il soggetto del movimento differenziante, ossia ciò che si attualizza nel differenziarsi del semplice e che comprende i due termini opposti che si differenziano in natura. G. Deleuze, Logica del senso [1969], tr. it. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 223-234. Ivi, p. 226. 3 Ibid. 4 Ivi, p. 224 (corsivo nostro). 1

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In un saggio del 1957, Deleuze afferma che Bergson concepisce l’essere come alterazione5; in questa prospettiva ontologica occorre concepire la ‘cosa’ come qualcosa di non puro, un misto che deve essere scomposto. Da questa scomposizione derivano due tendenze: una tendenza pura che rappresenta la sostanza e una tendenza inautentica, cioè impura, che si oppone alla prima. Dalla metodica scomposizione dell’impuro e dalla differenziazione del puro derivano, secondo Deleuze, le serie che presiedono alla genesi del tutto. La cosa si dissocia in materia e durata: la durata è la tendenza pura, la sostanza della cosa; la materia è ciò che si ripete nelle serie senza cambiare natura. La durata, semplice ed indivisibile, non si può scomporre e si differenzia in sé in due direzioni: materia e spazio. Quest’ultimo si scompone nuovamente in materia e durata, la quale stavolta si differenzia in contrazione e distensione (principio della materia). Nella serie creatasi è possibile notare che la durata è ciò che, differenziandosi, cambia natura e la materia è ciò che si ripete senza cambiare natura. La durata dunque rappresenta la sostanza del movimento differenziante, quel movimento che realizza e attualizza il virtuale. Lo Slancio Vitale, il movimento che in Bergson dà origine alle specie, è inteso da Deleuze come il movimento della differenziazione, che dà luogo alle serie. In breve, la durata è la virtualità e lo Slancio Vitale il movimento che ne determina l’attualizzazione. Nella misura in cui l’essenza del virtuale risiede nella sua realizzazione, Slancio Vitale e durata sono la stessa cosa. Occorre in questo senso concepire lo Slancio Vitale come una direzione della durata, mentre la direzione ‘differente’ di quest’ultima è la memoria. Nella memoria si presentano passato e presente in un unico momento, ma non si tratta di un movimento di regressione. Il passato e il presente vanno piuttosto considerati come due gradi in certo modo coesistenti della durata-memoria. La durata in sé consta dunque di due gradi di cui la materia rappresenta quello più disteso e la memoria quello più contratto. Il tempo in Bergson è considerato dunque come possibile coesistenza di tutto con tutto, pura virtualità di cui la durata rappresenta la sostanza, una sostanza a sua volta virtuale, in continuo mutamento, che si differenzia in sé. Se ne deduce una concezione del tempo peculiare in cui il presente è considerato semplicemente come il grado più contratto del passato coesistente, ma anche «il punto in cui il passato si lancia verso l’avvenire» 6; il presente, mancando di sostanza ontologica, è perenne ‘novità’. Sembrerebbe dunque che la durata sia la sostanza del movimento, ma poiché si differenzia ad ogni istante in passato e futuro essa non può più essere considerata una sostanza, ma un virtuale. Questa concezione del tempo corrisponde a ciò che gli Stoici chiamavano Aiôn e che in Deleuze rappresenta il tempo dell’evento. Si tratta di considerazioni nodali in vista di ciò che Deleuze chiama rovesciamento del platonismo. L’autore intende attuare una rivoluzione ontologica: porre al vertice della scala gerarchica ciò che Platone colloca nel gradino più basso — i simulacri o gli eventi. Nella sua espressione linguistica l’evento corrisponde al senso; la Logica del senso fonda la filosofia dell’evento. Gli stoici sono i precursori di questo capovolgimento, in quanto ricollocano in superficie quegli elementi che Platone aveva relegato nel fondo: Infatti, in Platone, un oscuro conflitto avveniva nella profondità delle cose, nella profondità della terra, tra ciò che si sottometteva all’azione dell’Idea e ciò che si sottraeva a tale azione (le copie e i simulacri) […]; vi è qualcosa che sempre e ostinatamente schiva l’Idea? 7

Per Deleuze questo ‘qualcosa’ appartiene al mondo dei simulacri, cioè alla superficie. La rivalutazione della superficie implica una critica della metafisica verticalistica, ma anche alla psicologia del profondo. Se l’intento platonico è quello di delimitare una realtà intelligibile G. Deleuze, Bergson [1859-1941], in Id., L’isola deserta e altri scritti [2002], tr. it. di D. Borca, Einaudi, Torino, 2007, p. 24. 6 Ivi, p. 31. 7 G. Deleuze, Logica del senso, cit., pp. 14-15. 231 5

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e di incatenare i simulacri sul ‘Fondo’, Deleuze intende dotare il simulacro di valore ontologico. Contestualmente, Deleuze critica alcune linee della filosofia moderna, che a suo dire avrebbe perseguito un intento iconologico mantenendo intatto l’ordine platonico. In particolare, Leibniz e Hegel hanno escluso il simulacro dai loro sistemi, restando ancorati al campo della rappresentazione; l’uno attraverso la definizione degli incompossibili, l’altro nel monocentramento dei cerchi dialettici e nella convergenza delle serie8. Torneremo sulla questione più avanti. Se dunque quella di Platone è la filosofia del Pretendente e se il pensiero moderno si misura con le copie-icone, la filosofia di Deleuze lavora invece sull’ontologia del simulacro, il quale non rappresenta (come in Platone) una «copia degradata», ma un ente a sé stante capace di contenere «una potenza positiva che nega sia l’originale sia la copia, sia il modello sia la riproduzione»9. La potenza positiva di cui parla l’autore è quella della disgiunzione e del paradosso, cioè di quegli elementi attivi nel dispositivo linguistico che fa convergere le serie divergenti e che il romanzo di Lewis Carroll, Alice, ha portato alle sue estreme conseguenze. A questo punto si rende necessario approfondire la differenza fra i due modi di concepire il tempo: Kronos e Aiôn. Abbiamo detto che Deleuze predilige il tempo dell’Aiôn; ma che cosa significa? Abbiamo inoltre osservato che nell’Aiôn il passato e il futuro coesistono e formano, attraverso i movimenti di distensione e contrazione, un presente ‘virtuale’. In Kronos, viceversa, passato e futuro sono tempi relativi a un presente indefinitamente prolungato. Possiamo dire, con Deleuze, che mentre Kronos è infinito ma limitato dal concetto stesso di presente o dall’Istante, Aiôn è di per sé finito ma «infinitamente suddivisibile»10, in quanto continuamente frammentato dai movimenti di contrazione e distensione di un passato e di un futuro che coesistono. Da ciò derivano alcune importanti conseguenze. Kronos è limitato, ciclico, eternamente presente e dipendente dalla materia dei corpi che lo riempiono; Aiôn è infinito, neutro, indipendente dalla materia e illimitatamente prolungato su una linea retta che solca la superficie11. Kronos è il tempo del concatenamento delle cause corporee, Aiôn il tempo degli eventi-effetti incorporei. L’evento «indietreggia e avanza nei due sensi contemporaneamente»12, mai nel presente cronico, ma nella retta temporale dell’Aiôn, la cui frammentazione è frutto dei continui movimenti del passato e del futuro. L’evento è simultaneamente nel passato e nel futuro; esso è stato, sarà, ma non è mai: «Quando dico ‘Alice cresce’, voglio dire che diventa più grande di quanto non fosse. Ma voglio anche dire che diventa più piccola di quanto non sia ora. Senza dubbio, non è nello stesso tempo che Alice sia più grande e più piccola. Ma è nello stesso tempo che lo diventa» 13. La natura dell’evento è di essere un oggetto diveniente, un virtuale, un simulacro o un fantasma. Platone si serve del mito per presentare il Modello e allo stesso tempo ‘braccare’ il simulacro; nel Sofista si presenta un caso eclatante14. In questo dialogo, secondo Deleuze, è Platone stesso a indicare la direzione per il rovesciamento del platonismo. Il Sofista rappresenta «l’essere del simulacro», in quanto «s’immischia e s’insinua ovunque» schivando sempre il modello15. Platone si affaccia nell’abisso per braccare il falso pretendente, ma nello stesso tempo, insinua Deleuze, egli indovina la potenza del simulacro: si tratta di quel “divenire-folle” che gli permette di sfuggire all’incatenamento statico dell’idea.

Ivi, p. 229. Ivi, pp. 230-231. 10 Ivi, p. 60. 11 Ivi, p. 61. 12 Ivi, p. 62. 13 Ivi, p. 9. 14 Ivi, p. 225. 15 Ibid. 8 9

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© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 N. II, 4, 2016 – Gilles Deleuze and the Resistance of the Arts Vi è nel simulacro, insomma, un divenire-folle, un divenire illimitato come quello del Filebo in cui “il ‘più’ e il ‘meno’ avanzano sempre”, un divenire sempre altro, un divenire sovversivo delle profondità, abile a schivare l’uguale, il limite, il Medesimo e il Simile: sempre il più e il meno a un tempo, ma mai uguale. Imporre un limite a tale divenire, ordinarlo verso il medesimo, renderlo simile – e, per la parte che resterebbe ribelle, rimuoverla nel più profondo possibile, rinchiuderla in una caverna nel fondo dell’Oceano: tale è lo scopo del platonismo nella sua volontà di far trionfare le icone sui simulacri 16.

L’uguale rappresenta con ciò la dimensione ontologica — lo spazio — del modello; sotto questo rispetto, il simulacro sovverte l’ordine spaziale nella misura in cui è ‘sempre il più e il meno a un tempo’. Il limite rappresenta la dimensione temporale del mutevole, che pone un freno al ‘divenire-folle’ caratteristico del simulacro. Il Medesimo è l’idea o il modello e il Simile la rappresentazione o la copia ‘ben fondata’. Dalla prospettiva del platonismo, cioè del Medesimo, discende l’eredità della filosofia moderna, anzitutto il campo della rappresentazione o del Simile. La filosofia moderna, la cui ascendenza è aristotelica, è improntata al principio rappresentazionale e conosce una radicalizzazione con l’avvento del Cristianesimo, che determinerà la necessità non solo di «fondare la rappresentazione […], bensì di renderla infinita»17. Così Leibniz definisce il migliore dei mondi possibili come luogo delle serie convergenti e relega le serie divergenti nel dominio degli ‘incompossibili’; analogamente, i cerchi hegeliani ruotano intorno ad un solo centro, imponendo una coerenza alla realtà nella convergenza delle serie. Scrive Deleuze: Leibniz si serve di questa regola d’incompossibilità per escludere gli eventi gli uni dagli altri: fa un uso negativo o di esclusione della divergenza o della disgiunzione. Ora, questo è giustificato soltanto nella misura in cui gli eventi sono già colti sotto l’ipotesi di un Dio che calcola e sceglie, dal punto di vista della loro effettuazione, in mondi o in individui distinti. Ma non è lo stesso se consideriamo gli eventi puri e il gioco ideale di cui Leibniz non ha potuto afferrare il principio, impedito com’era dalle esigenze della teologia. Da quest’altro punto di vista infatti la divergenza delle serie e la disgiunzione dei membri (membra disjuncta) cessano di essere regole negative di esclusione, secondo cui gli eventi sono incompossibili, incompatibili18.

Mentre in Kronos il centro rappresenta il punto di convergenza delle serie, nell’Aiôn, cioè sul terreno del simulacro, il centro è sempre decentrato, dunque non è più un ‘centro’ ma un punto aleatorio. Questo azzera ogni possibilità di determinare un ordine prestabilito e semmai permette di affermare il negativo e di comprendere il divergente. La svolta, secondo Deleuze, è appannaggio di Nietzsche, vero erede dell’impostazione sovversiva stoica. Egli per primo destituisce l’individuo dal ruolo di soggetto e vi sostituisce un fondo indifferenziato, personificato metaforicamente in Dioniso, il dio greco dell’ebbrezza. La svolta nietzscheana è funzionale alla determinazione di un campo trascendentale alternativo a quello della metafisica verticalistica e della psicologia del profondo. Le due impostazioni precedenti, l’una tendente all’individuazione o personificazione e idonea all’analisi della ‘profondità’, l’altra solidale all’erezione di un Modello o di un dio ordinatore, avrebbero posto in secondo piano la superficie su cui si proietta — né persona né individuo — il ‘singolo’; la sua designazione linguistica risponde alla logica della ‘quarta persona singolare’: il si. Alla base di ogni ‘io’ risiedono le ‘singolarità’, vale a dire gli eventi trascendentali che si attualizzano sulla superficie e «presiedono alla genesi degli individui e delle persone» 19. Le singolarità deleuziane sono simili alle monadi leibniziane, ma fino a un certo punto, giacché esse costituiscono serie eterogenee e divergenti e allo stesso tempo convergenti, prive di un ordine stabilito da un’autorità superiore (Modello o Dio). Non si tratta del migliore dei Ivi, p. 227. Ivi, p. 228. 18 Ivi, p. 153. 19 Ivi, p. 96. 16 17

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mondi possibili, ma di infinite possibilità di mondi, le cui serie, formate dai punti singolari posti sulla retta temporale dell’Aiôn, convergono e divergono simultaneamente. Aiôn, serie divergenti, decentramento del punto aleatorio, affermazione dell’evento come effetto di concatenamento di cause corporee e strutturazione degli effetti in rapporti di quasi-cause – tutti questi elementi concorrono alla formazione non di un ‘mondo’, ma di un ‘caosmos’20. Qui l’io appare dissolto nella frammentazione e distribuzione delle singolarità pre-individuali e Dio è privato di ogni significazione possibile. Dalla Monadologia leibniziana, che prevedeva infiniti punti di vista, ma di una sola cosa, di una sola città, siamo giunti al prospettivismo nietzschano, in cui tutte le serie divergenti si concentrano su un punto aleatorio sempre decentrato e approdano a una Nomadologia21, cioè a una teoria del pensiero nomade, in cui non esistono più limiti, ‘città’ e Modelli. Linguisticamente parlando, ci troviamo di fronte alla fondazione dell’istanza del paradosso, che è l’espressione di tale punto aleatorio. Questa impostazione decreta la fine di ogni individuazione sostanziale e, con essa, di ogni principio immutabile: La divergenza delle serie affermate forma un ‘caosmos”’ e non più un mondo; il punto aleatorio che le percorre forma un contro-io e non più l’io; la disgiunzione, posta come sintesi, baratta il proprio principio teologico con un principio diabolico. Questo centro decentrato, traccia tra le serie e per tutte le disgiunzioni l’impietosa linea retta dell’Aiôn, cioè la distanza in cui si allineano le spoglie del’io, del mondo e di Dio […]. Così vi è sulla linea retta un eterno ritorno […] molto diverso dal ritorno circolare o monocentrato di Kronos: eterno ritorno che non è più quello degli individui, delle persone e dei mondi, bensì quello degli eventi puri che l’istante spostato sulla linea non cessa di dividere in già passati e ancora futuri. Non sussiste nient’altro che l’Evento, l’Evento soltanto, Eventum tantum per tutti i contrari che comunicano con sé per la propria distanza, che risuonano attraverso tutte le disgiunzioni 22.

Questa prospettiva rovescia la gerarchia platonica: ‘il simulacro sale in superficie’, in quanto esso, a differenza delle copie di un Modello che non ha più diritto di cittadinanza, «è costruito su una disparità, su una differenza»23 e la differenza è il carattere determinante del divenire. Del resto si potrebbe anche concepire un modello, a condizione, però, che sia un «modello dell’Altro»24, un’inversione diabolica del «buon modello del Medesimo»25. Si può allora ipotizzare un dio, purché non sia un dio ordinatore, ma un dio che ‘gioca a dadi’. Deleuze invita a un ragionamento sovversivo del senso comune non meno che del buon senso. Egli afferma la coesistenza simultanea di senso e non-senso. Il buon senso rappresenta per Deleuze un «aspetto della doxa», in quanto muove «dal passato al futuro» e sempre «rispetto al presente»26. Il senso comune «sussume facoltà diverse dell’anima o organi differenziati del corpo, e li riferisce a un’unità capace di dire io»27; in termini metafisici, il senso comune riduce il molteplice ad unità, affermando logicamente il principium individuationis. Questa è per Deleuze una pura semplificazione. La potenza del paradosso precede e capovolge buon senso e senso comune proiettandosi non sull’individuo e il presente, ma sul già passato e ancora futuro dell’identità perduta e mai ritrovata delle singolarità preindividuali. Siamo nel campo dell’imprevedibile, del ‘divenire-folle’, dell’antistasi, del simulacro-fantasma. Il luogo naturale dell’‘eventuarsi’ del paradosso è la superficie, vero tempio del senso e della nuova profondità, perché «il più profondo è la pelle». La linea-frontiera dell’Aiôn fa convergere le serie divergenti non rispetto a sé stesse, ma intorno al punto aleatorio sempre decentrato e sempre spostato. La sovversione deleuziana intacca alle fondamenta tutti i massimi sistemi scientifici e filosofici, i quali Ivi, p. 157. G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco [1988], a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004. 22 Id., Logica del senso, cit., p. 157. 23 Ivi, p. 227. 24 Ibid. 25 Ibid., nota 3. 26 Ivi, p. 73. 27 Ivi, p. 75. 20 21

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impongono un ordine prima del disordine, un Mondo che precede il ‘Fuori’, antepongono l’Uno al molteplice, la causa all’effetto, etc. Il più emblematico di questi sistemi è il platonismo, poiché impone un Modello da anteporre alle copie-icone e soprattutto ai simulacri. Si ragiona pertanto sulle possibilità solo dopo aver stabilito un postulato necessario e unitario che le sostenga, un principio statico che assicuri la salvezza. Contro tutto ciò si eleva il proposito deleuziano di pensare il caos. Piuttosto che osservare le regolarità per decidere un ordine e respingere quanto ne rimane fuori nelle eccezioni (giustificando così l’idea di un mondo), si provi a dare una priorità alle eccezioni e concepire l’idea di mondo come una pura astrazione semplificativa. Traspare qui l’immagine di un caos generatore di singolarità che non corrispondono ad alcun modello, regola, ordine o Idea e che determinano, come effetti, le regolarità. Non si tratta più di stabilire l’esistenza o dell’Uno o del Molteplice, ma di fondare la loro relazione reciproca. Questo è il compito della modernità. Come dice Deleuze, infatti, è «la potenza del simulacro a definire la modernità»28.

Ivi, p. 233. Cit. leggermente modificata da G. Deleuze, Logique du sens, Les editions de Minuit, Paris 1969, p. 306. 235 28

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14 Ivi, p. 225. 15 Ibid. Page 3 of 6. 22. A. Lattuada - Gilles Deleuze e il rovesciamento del platonismo.pdf. 22. A. Lattuada - Gilles Deleuze e il rovesciamento del ...

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