Titolo originale: VAMPIRE ACADEMY

© 2007 Richelle Mead Pubblicato per la prima volta nel 2007 negli Stati Uniti d'America da Razorbill, un marchio del gruppo Penguin Penguin Young Readers Group 345 Hudson Street, New York, New York 10014, USA © 2009 RCS Libri S.p.A., Milano I edizione Rizzoli Narrativa ottobre 2009 ISBN 978-88-17-03702-0

Ne percepii la paura prima ancora di sentirne le grida. Il suo incubo palpitò in me strappandomi al mio stesso sogno, che aveva a che fare con una spiaggia e un tipo sexy che mi spalmava l'olio abbronzante. Alcune immagini - sue, non mie - si riversarono nella mia mente: fuoco e sangue, il puzzo di fumo, il metallo ritorto di un'auto. Le immagini mi avvolsero, soffocandomi, finché una parte razionale del cervello mi ricordò che non si trattava di un sogno mio. Mi svegliai, lunghe ciocche di capelli neri appiccicate alla fronte. Lissa era nel suo letto, si agitava e strillava. Saltai fuori dal mio, e attraversai alla svelta le poche decine di centimetri che ci separavano. «Liss» dissi, scuotendola. «Liss, svegliati!» Le urla cessarono, rimpiazzate da sommessi piagnucolii. «Andre» gemette. «Oddio.» La aiutai a mettersi seduta. «Liss, è passato. Svegliati!» Dopo qualche istante batté le palpebre aprendo gli occhi, e nella luce fioca mi accorsi che un barlume di coscienza cominciava a farsi strada nella sua mente. Il respiro affannoso rallentò, e Lissa si chinò verso di me, poggiandomi la testa sulla spalla. La circondai con un braccio e le passai una mano sui capelli. «Va bene» le dissi con dolcezza. «Va tutto bene.» «Ho fatto di nuovo quel sogno.» «Lo so.» Rimanemmo sedute così per qualche minuto, senza dire nient'altro. Quando percepii che il suo turbamento era passato, mi allungai verso il comodino tra i nostri letti e accesi la lampada. Risplendeva di una luce tenue, ma non ci occorreva averne molta di più per riuscire a vedere. Attirato dal chiarore, il gatto del nostro coinquilino, Oscar, saltò sul davanzale della finestra aperta. Tenendosi alla larga da me - per una qualche ragione i dhampir non piacciono agli animali - saltò sul letto e sfregò la testa contro Lissa, facendo piano le fusa. Gli animali non avevano problemi con i Moroi, e tutti amavano Lissa in modo particolare. Sorridendo, lei gli grattò il mento, e la sentii calmarsi ancora di più. «Quando abbiamo fatto l'ultima nutrizione?» chiesi, studiando la sua espressione. La pelle, già chiara, era ancora più pallida del solito. Occhiaie scure le segnavano gli occhi, ed era ammantata da un'aura di fragilità. A scuola avevamo avuto una settimana intensa, e non riuscivo a ricordare quand'era stata l'ultima volta che le avevo dato del sangue. «Sono passati... più o meno due giorni, vero? Tre? Perché non hai detto niente?» Scrollò le spalle e non volle guardarmi negli occhi. «Eri molto occupata. Non volevo essere...» «Chi se ne frega» dissi, mettendomi in una posizione più comoda. Non c'era da stupirsi che sembrasse tanto debole. Oscar, che non mi voleva vicino, balzò via e tornò alla finestra, dove poteva rimanere a guardare tenendosi a distanza di sicurezza. «Avanti. Facciamolo.»

«Rose...» «Vieni qui. Ti farà sentire meglio.» Piegai la testa di lato e scostai i capelli, lasciando scoperto il collo. La vidi esitare, ma la vista del mio collo e di ciò che le offriva fu troppo invitante. Un'espressione affamata le attraversò il viso, e le sue labbra si schiusero un poco, snudando i canini che teneva sempre nascosti quando era in mezzo agli esseri umani. Quei canini contrastavano in modo singolare con i suoi tratti. Con quel viso carino e i capelli biondi aveva più l'aria di un angelo che quella di un vampiro. Mentre i denti si avvicinavano alla mia pelle, sentii il battito del cuore accelerare in una mescolanza di paura e attesa. Avevo sempre odiato la sensazione che mi dava l'attesa, ma non potevo farci niente, era una debolezza che non riuscivo a scrollarmi di dosso. I canini mi penetrarono a fondo, e gemetti per quella breve vampata di dolore. Che poi si dissolse, rimpiazzata da una magnifica, dorata estasi che sentii diffondersi per tutto il corpo. Era di gran lunga meglio di qualunque altra volta mi fossi trovata sbronza o strafatta. Meglio del sesso, o perlomeno di come me lo immaginavo, visto che non lo avevo mai fatto. Era un manto di puro, raffinato piacere che mi avvolgeva e prometteva che al mondo ogni cosa sarebbe andata bene. Si protrasse, ancora e ancora; le sostanze chimiche nella saliva di Lissa indussero una scarica di endorfine, e così persi coscienza del mondo, coscienza di chi ero. Poi, con mio grande rammarico, cessò. Tutto era durato meno di un minuto. Lissa si ritrasse, passandosi la mano sulle labbra mentre mi scrutava in volto. «Stai bene?» «Io... sì.» Mi lasciai ricadere all'indietro sul letto, in preda alle vertigini dovute alla perdita di sangue. «Mi basterà dormirci su. Sto bene.» I suoi occhi chiari, verdi come giada, mi guardavano apprensivi. Si alzò. «Vado a prenderti qualcosa da mangiare.» Le mie proteste giunsero goffamente alle labbra, ma lei se ne andò prima che riuscissi a pronunciare una frase. L'ebbrezza del morso era scemata sin da quando Lissa aveva interrotto il contatto, ma qualcosa si attardava ancora nelle mie vene, e mi sentivo un sorriso ebete sulle labbra. Voltando la testa, diedi un'occhiata a Oscar, ancora seduto alla finestra. «Non sai cosa ti perdi» gli dissi. Ma la sua attenzione era rivolta verso l'esterno. Acquattandosi, rizzò il pelo corvino. La coda cominciò a ondeggiare. Il mio sorriso svanì, e mi sforzai di mettermi seduta. Il mondo girava, e aspettai che si fermasse prima di provare a mettermi in piedi. Quando ci riuscii, le vertigini ricominciarono, e questa volta non vollero sapere di andarsene. Nonostante tutto mi sentivo abbastanza bene da barcollare fino alla finestra e dare un'occhiata insieme a Oscar. Lui mi guardò con circospezione, si fece un po' più in là, e poi tornò a occuparsi di ciò che aveva catturato la sua attenzione, di qualunque cosa si trattasse. Una brezza calda - stranamente calda per l'autunno di Portland - scherzò con i miei capelli mentre mi sporgevo. La strada era buia e abbastanza tranquilla. Erano le tre del mattino, più o meno l'unica ora del giorno in cui il campus di un college si acquieta almeno un poco. La casa in cui avevamo affittato una stanza negli ultimi otto mesi si trovava nel quartiere residenziale del college, in una via con abitazioni vecchie e male assortite. Dall'altra parte della strada, un lampione sfarfallò, pronto a fulminarsi. Proiettava ancora una luce sufficiente a permettermi di riconoscere il profilo delle automobili e degli edifici. Nel nostro giardinetto riuscii a scorgere le sagome di alberi e cespugli. E di un uomo che mi guardava. Indietreggiai di colpo per la sorpresa. C'era qualcuno accanto a un albero del giardino, a qualche

metro da me, che avrebbe potuto guardare con facilità attraverso la finestra. Era così vicino che con ogni probabilità avrei potuto tirargli addosso qualcosa e colpirlo. Era così vicino che di certo avrebbe potuto vedere ciò che Lissa e io avevamo appena fatto. Le ombre lo ammantavano a tal punto che persino la mia vista potenziata non riusciva a distinguerne le sembianze, a parte l'altezza. Era alto. Davvero alto. Rimase lì per un solo istante, a malapena visibile, poi fece un passo indietro, scomparendo nell'ombra proiettata dagli alberi in fondo al giardino. Ero piuttosto certa di aver scorto qualcuno avvicinarsi e unirsi a lui prima che le tenebre inghiottissero entrambi. Chiunque fossero quelle figure, Oscar non le gradiva. A parte me, di solito andava d'accordo con tutti, e si indispettiva solo nel caso in cui qualcuno rappresentasse una minaccia concreta. Il tizio là fuori non aveva in alcun modo minacciato Oscar, ma il gatto aveva intuito qualcosa, qualcosa che lo aveva messo in allarme. Qualcosa di simile a ciò che aveva sempre percepito in me. Una paura gelida mi attraversò, quasi sradicando, ma non del tutto, l'incantevole beatitudine del morso di Lissa. Mi allontanai dalla finestra e mi infilai un paio di jeans che trovai sul pavimento, barcollando durante l'operazione. Poi afferrai il mio giaccone e quello di Lissa e i nostri portafogli. Ficcai i piedi nel primo paio di scarpe che riuscii a individuare e infilai la porta. Al piano di sotto, trovai Lissa nella minuscola cucina, intenta a rovistare nel frigorifero. Jeremy, il nostro coinquilino, era seduto al tavolo, la mano che gli reggeva la fronte mentre fissava triste il manuale di analisi matematica. Lissa mi guardò sorpresa. «Non avresti dovuto alzarti.» «Dobbiamo andare. Adesso.» Spalancò gli occhi, e un istante dopo parve capire. «Stai... davvero? Ne sei sicura?» Annuii. Non sapevo spiegare come, ma ne ero certa. Lo sapevo e basta. Jeremy ci guardava incuriosito. «Che c'è che non va?» Mi venne un'idea. «Prendi le chiavi della sua macchina.» Lui fece correre più volte lo sguardo tra me e lei. «Che stai...» Senza esitare Lissa gli si parò davanti. La sua paura si riversava in me attraverso il nostro legame psichico, ma c'era anche dell'altro: l'assoluta fiducia che avrei pensato io a tutto, che saremmo state al sicuro. Come sempre, sperai di essere degna di tanta fiducia. Lissa fece un largo sorriso e guardò Jeremy diritto negli occhi. Per un attimo lui ricambiò lo sguardo, ancora confuso, poi mi accorsi che stava per cedere. Gli si velarono gli occhi e la guardò adorante. «Abbiamo bisogno di prendere in prestito la tua macchina» disse Lissa con voce gentile. «Dove sono le chiavi?» Lui sorrise, e io rabbrividii. Avevo una notevole capacità di resistere alla compulsione, ma riuscivo ancora a riconoscerne gli effetti quando era diretta contro un'altra persona. E poi per tutta la vita mi ero sentita ripetere che usarla era sbagliato. Tuffando la mano in tasca, Jeremy ci consegnò un mazzo di chiavi che penzolava da una grossa catena rossa. «Grazie» disse Lissa. «E dov'è parcheggiata?» «In fondo alla strada» rispose Jeremy con aria sognante. «All'angolo. Vicino a Brown.» A quattro isolati di distanza. «Grazie» ripeté Lissa, indietreggiando. «Quando ce ne andiamo, rimettiti subito a studiare. Dimentica di averci visto stanotte.»

Lui annuì con fare servizievole. Avevo l'impressione che si sarebbe buttato in un precipizio in quel preciso istante, se Lissa glielo avesse domandato. Tutti gli esseri umani erano ricettivi alla compulsione, ma Jeremy si stava rivelando più arrendevole della maggior parte di loro. Il che ci faceva comodo, in quel momento. «Avanti» le dissi. «Dobbiamo muoverci.» Uscimmo, dirette all'angolo di cui aveva parlato Jeremy. Avevo ancora le vertigini per il morso e continuai a inciampare, incapace di muovermi veloce quanto avrei voluto. Più volte Lissa dovette sostenermi per impedirmi di cadere. Per tutto il tempo, l'ansia affluì in me dalla sua mente. Feci del mio meglio per ignorarla; avevo già le mie paure di cui preoccuparmi. «Rose... Cosa faremo se ci prendono?» bisbigliò. «Non ci prenderanno» dissi con impeto. «Non glielo permetterò.» «Ma se dovessero trovarci...» «Ci hanno trovato altre volte. E non ci hanno prese. Andremo in macchina fino alla stazione e poi partiremo per Los Angeles. Perderanno le nostre tracce.» Lo feci sembrare semplice. Mi comportavo sempre così, anche se sfuggire a persone con cui eravamo cresciute non era per niente semplice. Fuggivamo da due anni ormai, nascondendoci ovunque fosse possibile e cercando di finire la scuola superiore, nient'altro. Il nostro ultimo anno era appena iniziato, e il quartiere residenziale del college ci era parsa una sistemazione sicura. Eravamo a un passo dalla libertà. Non aggiunse altro, e percepii la sua fiducia tornare a crescerle dentro. Era sempre stato così fra di noi. Io ero quella che prendeva l'iniziativa, che si preoccupava di far succedere le cose, anche se in modo impulsivo, a volte. Lei era quella più prudente, quella che ci rifletteva su, che esaminava le cose a fondo prima di agire. Due comportamenti che avevano una loro utilità, ma al momento l'impulsività era ciò di cui avevamo bisogno. Non c'era tempo per l'incertezza. Lissa e io eravamo migliori amiche fin dai tempi dell'asilo, da quando la nostra maestra ci aveva messo in coppia per imparare a scrivere. Costringere una bimba di cinque anni a scrivere lettera per lettera Vasilisa Dragomir e Rosemarie Hathaway andava ben oltre la crudeltà, e noi avevamo - o meglio, io avevo - reagito nel modo giusto. Avevo scagliato il quaderno contro la maestra e l'avevo chiamata bastarda fascista. Ancora non sapevo cosa significassero quelle parole, ma sapevo bene come colpire un bersaglio in movimento. Da allora Lissa e io eravamo diventate inseparabili. «L'hai sentito?» chiese all'improvviso. Mi ci volle qualche secondo prima di riuscire a percepire quello che i suoi sensi più acuti avevano già captato. Passi, che si facevano più veloci. Feci una smorfia. Rimanevano ancora due isolati. «Dovremo correre» dissi, afferrandole il braccio. «Ma tu non puoi...» «Corri.» Dovetti metterci ogni grammo della mia forza di volontà per non svenire sul marciapiede. Dopo aver perso sangue e mentre ancora metabolizzava gli effetti della saliva di Lissa, il mio corpo non voleva saperne di correre. Ma ordinai ai muscoli di darsi una mossa e mi aggrappai a Lissa mentre i nostri piedi martellavano l'asfalto. Di regola avrei potuto correre più veloce di lei senza eccessivi sforzi, prima di tutto perché era scalza, ma quella notte era lei a sorreggere me. I passi che ci inseguivano risuonarono più distinti, più vicini. Vedevo macchie nere ballarmi davanti agli occhi. Più avanti, riuscii a scorgere la Honda verde di Jeremy. Oh Dio, se solo fossimo

riuscite a farcela... A tre metri dall'auto, un uomo si materializzò sulla nostra traiettoria. Ci fermammo di colpo, e io strattonai Lissa per il braccio per tirarla indietro. Era lui, l'uomo che avevo visto dall'altra parte della strada mentre mi osservava. Era più grande di noi, doveva avere all'incirca venticinque anni, ed era alto quanto me l'ero immaginato, forse due metri, due metri e cinque. E in altre circostanze se, per esempio, non fosse stato impegnato a ostacolare il nostro disperato tentativo di fuga - l'avrei trovato un bel tipo. Capelli castano lunghi fino alle spalle legati in una corta coda di cavallo. Occhi castano scuro. Un lungo soprabito marrone, uno spolverino, penso si chiami così. Ma in quel momento quanto fosse bello era irrilevante. Era solo un ostacolo che separava Lissa e me dall'auto e dalla libertà. I passi alle nostre spalle si fecero più lenti, e capii che i nostri inseguitori ci avevano raggiunto. Ai lati scorsi altro movimento, persone che ci accerchiavano. Dio. Per recuperarci avevano mandato quasi una dozzina di guardiani. Stentavo a crederci. La regina in persona non viaggiava con una simile scorta. In preda al panico e non nel pieno controllo della mia razionalità, agii d'istinto. Mi avvicinai a Lissa, costringendola a mettersi dietro di me, lontano dall'uomo che sembrava essere il capo. «Lasciala stare» gemetti. «Non toccarla.» La sua espressione era indecifrabile, ma distese una mano in quello che, almeno nelle sue intenzioni, doveva essere un gesto rassicurante, come se io fossi un animale rabbioso che si preparava a sedare. «Non ho intenzione di...» Fece un passo avanti. Troppo vicino. Lo attaccai spiccando un balzo, in una manovra offensiva che non usavo da due anni, da quando Lissa e io eravamo fuggite. Fu una mossa stupida, l'ennesima reazione dovuta all'istinto e alla paura. Lui era un guardiano esperto, non un novizio male addestrato. E in più non si sentiva debole e neppure sul punto di perdere conoscenza. E, ragazzi, se era veloce. Avevo dimenticato quanto sapessero essere rapidi i guardiani, come potessero muoversi e colpire quasi fossero cobra. Deviò il mio assalto come se stesse scacciando una mosca, e le sue mani si abbatterono su di me scaraventandomi all'indietro. Non penso avesse intenzione di colpirmi così forte, con ogni probabilità voleva solo tenermi lontana, ma la mia mancanza di coordinazione rese inutile la mia capacità di reazione. Non riuscii a ritrovare l'equilibrio e iniziai a cadere, puntando diritta verso il marciapiede con una strana angolazione, di bacino. Avrebbe fatto molto male. Molto. Solo che non lo fece. Con la stessa rapidità con cui mi aveva bloccato, l'uomo si proiettò in avanti e mi prese per un braccio, rimettendomi in piedi. Quando ritrovai l'equilibrio, mi accorsi che mi fissava o, per essere più precisi, che mi fissava il collo. Ancora disorientata, non riuscii a rendermi subito conto di che cosa si trattasse. Poi, piano piano, la mano che avevo libera corse alla gola e sfiorò la ferita lasciata da Lissa un attimo prima. Quando ritrassi le dita, notai del sangue scuro e viscoso sui polpastrelli. Imbarazzata scrollai il capo, e i capelli ricaddero in avanti, attorno al viso. Li avevo folti e lunghi, e coprirono il collo. Li avevo fatti crescere proprio per quello. Gli occhi scuri del mio assalitore indugiarono ancora per un momento sul morso ormai nascosto, poi cercarono i miei. Sostenni il suo sguardo con fare sprezzante e cominciai subito ad agitarmi, liberandomi dalla sua presa. Mi rendevo conto che, se avesse voluto, avrebbe potuto trattenermi anche per tutta la notte, ma mi lasciò andare. Lottando contro il capogiro e la nausea raggiunsi di nuovo Lissa, e raccolsi le forze per un nuovo attacco. All'improvviso, la sua mano strinse la mia. «Rose» disse calma. «Non farlo.» Al principio le sue parole non sortirono alcun effetto su di me, ma pensieri tranquillizzanti

iniziarono a poco a poco a farsi spazio nella mia mente, affluendo attraverso il legame. Non si trattava esattamente di compulsione - lei non l'avrebbe mai usata su di me - ma seppe essere convincente, tanto quanto il fatto di essere state surclassate e di essere disperatamente in inferiorità numerica. Mi convinsi anch'io che lottare sarebbe stato inutile. La tensione abbandonò il mio corpo, e mi afflosciai in segno di sconfitta. Intuendo la mia sottomissione, l'uomo si fece avanti, concentrandosi su Lissa. Aveva un'espressione placida. Le fece un inchino e riuscì a dimostrarsi aggraziato, il che mi stupì, considerata la sua altezza. «Il mio nome è Dimitri Belikov» disse. Riconobbi un vago accento russo. «Sono qui per riportarla alla St. Vladimir's Academy, principessa.»

Malgrado la mia ostilità, fui costretta ad ammettere che Dimitri Beli-qualcosa era piuttosto sveglio. Ci aveva scarrozzato fino all'aeroporto e poi sul jet privato dell'Accademia, dopodiché ci aveva lanciato solo uno sguardo, sospirando, e aveva dato l'ordine di separarci. «Non lasciate che si parlino» aveva detto ammonendo il guardiano che mi scortava in fondo all'aereo. «Se passano cinque minuti insieme, prepareranno un piano di fuga.» Gli scoccai un'occhiataccia di sdegno e mi allontanai infuriata lungo il corridoio, sorvolando sul fatto che avevamo già pianificato una fuga. A quanto pareva, le cose non si erano messe bene per i nostri eroi, o meglio, per le nostre eroine. Una volta in volo, le probabilità di fuga si sarebbero drasticamente ridotte. Anche ammettendo l'avverarsi di un miracolo, ossia che riuscissi ad avere la meglio su dieci guardiani, avremmo senza dubbio avuto qualche problemino a scendere dall'aereo. Immaginavo che a bordo ci fossero dei paracadute da qualche parte, ma nell'incerta eventualità che fossi riuscita a farne funzionare uno, rimaneva comunque il problema di riuscire a sopravvivere, visto che con ogni probabilità saremmo atterrate da qualche parte sulle Montagne Rocciose. No, non saremmo scese dall'aereo finché non fosse atterrato nel più remoto e selvaggio Montana. A quel punto avrei dovuto farmi venire in mente qualcosa, qualcosa che includesse l'aggirare le difese magiche dell'Accademia e il vedersela con un numero dieci volte superiore di guardiani. Sì, certo. Nessun problema. Benché Lissa fosse seduta davanti in compagnia del tizio russo, la sua paura riecheggiava in me, tormentandomi la mente come un martello. La mia apprensione per lei si fece largo attraverso la collera. Non potevano riportarla lì, in quel posto. Mi chiesi se Dimitri avrebbe esitato, se mai fosse stato in grado di percepire ciò che io percepivo, e se avesse saputo ciò che io sapevo. Probabilmente no. Non gli importava. Nel frattempo le emozioni di Lissa si fecero così intese che per un istante ebbi la sensazione disorientante di essere seduta al suo posto, nella sua pelle. A volte capitava. Senza preavviso, Lissa mi trascinò nella sua testa. Dimitri mi sedeva accanto con la sua imponente stazza, e la mia mano la sua mano - era stretta attorno a una bottiglia d'acqua. Dimitri si chinò in avanti per raccogliere qualcosa, lasciando intravvedere sei minuscoli simboli tatuati sulla nuca: molnija. Somigliavano a due fulmini dentellati che si incrociavano a formare una X; un molnija per ciascuno degli Strigoi che aveva ucciso. Sopra a questi c'era una linea sinuosa, una specie di serpente, che lo identificava come guardiano. Il marchio della promessa. Sbattendo le palpebre lottai contro Lissa, e con una smorfia riuscii a tornare nella mia testa. Odiavo quando succedeva. Percepire le emozioni di Lissa era un conto, ma scivolare dentro di lei era qualcosa che detestavamo entrambe. Lei la vedeva come un'intrusione nella sua privacy, e così quando capitava di solito non ne facevo parola. Nessuna di noi era in grado di controllarlo. Esistevano leggende sulle connessioni psichiche tra i guardiani e i loro Moroi, ma in quelle storie non si accennava a nulla di simile. Noi facevamo del nostro meglio per conviverci. Quasi al termine del volo Dimitri venne dove ero seduta io e prese il posto del guardiano al mio

fianco. Volsi platealmente lo sguardo altrove, guardando fuori dal finestrino con aria assente. Trascorse qualche attimo di silenzio. Alla fine, lui disse: «Hai davvero intenzione di attaccarci?» Non risposi. «Agire così... proteggerla in quel modo... è stato molto coraggioso.» Fece una pausa. «Stupido, ma coraggioso. Perché ci hai provato?» Gli scoccai un'occhiataccia, scostando i capelli che avevo davanti al viso per poterlo fissare negli occhi. «Perché sono il suo guardiano.» Tornai a guardare fuori dal finestrino. Dopo un altro silenzio, lui si alzò e tornò nella parte davanti del jet. Una volta atterrati, a Lissa e me non restò altra scelta che lasciare che il commando ci portasse all'Accademia. L'auto si fermò davanti al cancello, e l'autista parlò alle guardie, che si accertarono che non fossimo Strigoi pronti a dare inizio a una festosa mattanza. Trascorso un minuto ci lasciarono superare le difese magiche e poi salire fino all'Accademia. Era quasi il tramonto, l'inizio di una giornata vampiresca, e il campus era ammantato di ombre. Tentacolare e gotica, con ogni probabilità l'Accademia non era affatto cambiata. I Moroi erano fissati con le tradizioni; nulla con loro cambiava mai. Questa scuola non era antica come quelle in Europa, ma era stata costruita con lo stesso stile. Gli edifici sfoggiavano architetture elaborate, simili a quelle delle chiese, con alte guglie e sculture in pietra. Qui e là cancellate di ferro battuto racchiudevano piccoli giardini e camminamenti. Dopo aver vissuto nel campus di un college, mi ritrovai ad apprezzare in maniera diversa il modo in cui questo posto cercava di somigliare più a un'università che a una delle solite scuole superiori. Ci trovavamo nel campus secondario, che era suddiviso in classi inferiori e superiori. Ciascuno degli edifici era costruito attorno a un arioso cortile quadrangolare abbellito da vialetti di pietra e alberi maestosi, secolari. Eravamo diretti al cortile della scuola superiore, che aveva le strutture per lo studio da un lato, e i dormitori dei dhampir e la palestra dall'altro. Gli studenti più giovani vivevano nel campus principale, più a ovest. Attorno ai campus c'erano soltanto grandi spazi, e ancora grandi spazi. Eravamo in Montana, dopotutto, a chilometri di distanza da qualunque vera città. L'aria che sentivo nei polmoni era fresca e odorava di pino e di foglie marce bagnate. Foreste troppo rigogliose circondavano i confini dell'Accademia, e durante il giorno si potevano scorgere le montagne ergersi in lontananza. Mentre ci spostavamo nell'ala principale dell'edificio della scuola superiore mi liberai del mio guardiano e corsi da Dimitri. «Ehi, compagno.» Continuò a camminare, e non volle guardarmi. «Adesso vuoi parlare?» «Ci stai portando dalla Kirova?» «Dalla preside Kirova» mi corresse. Dall'altro fianco di Dimitri, Lissa mi scoccò un'occhiata che significava: Non creare problemi. «Preside. Come ti pare. Rimane una vecchia convinta di avere sempre ragione, una stro...» Le mie parole si spensero mentre i guardiani ci scortavano attraverso una serie di porte, fino alla mensa. Ed era ora di colazione. I guardiani novizi, dhampir come me, e i Moroi sedevano insieme, mangiavano e socializzavano, i visi accesi dall'ultimo pettegolezzo capace di aggiudicarsi l'attenzione dell'Accademia. Quando varcammo la soglia il chiassoso brusio delle conversazioni cessò all'istante, come se qualcuno avesse schiacciato un interruttore. Centinaia di occhi si voltarono verso di noi.

Ricambiai gli sguardi dei miei vecchi compagni di classe con un sorriso fiacco, cercando di capire se qualcosa fosse cambiato. Non sembrava affatto. Camille Conta aveva ancora quell'aria da stronza ricercata e agghindata di tutto punto che ricordavo, la guida autoeletta delle cricche dei Moroi di casata reale dell'Accademia. Più in là, Natalie, la goffa quasi-cugina di Lissa, ci guardava con tanto d'occhi, innocente e ingenua come sempre. E sul lato opposto della sala... be', ecco qualcosa di interessante. Aaron. Povero, povero Aaron, che alla partenza di Lissa si era ritrovato di sicuro con il cuore spezzato. Sembrava carino come al solito - forse ancora di più, adesso - con quell'aria da ragazzo d'oro che faceva così bene il paio con quella di lei. I suoi occhi seguivano ogni movimento di Lissa. Sì. Non gli era ancora passata. Era triste, davvero, perché Lissa non si era mai lasciata coinvolgere più di tanto. Penso che fosse uscita con lui solo perché era la cosa che ci si aspettava da lei. Quello che mi sembrava più interessante, però, era che Aaron avesse trovato un modo di passare il tempo anche senza di lei. Accanto a lui, a tenergli la mano, c'era una Moroi che non sembrava avere più di undici anni, ma che in realtà doveva essere più grande, a meno che in nostra assenza lui non fosse diventato un pedofilo. Con le guancine paffute e i boccoli biondi, aveva proprio l'aria di una bambola di porcellana. Una bambola di porcellana malvagia e parecchio incazzata. Stringeva così forte la mano di Aaron e guardava Lissa con uno sguardo carico di un odio così bruciante che la cosa mi lasciò stupita. Ma chi diavolo era? Nessuna che conoscevo. Soltanto una fidanzata gelosa, pensai. Mi sarei incazzata anch'io se il mio ragazzo avesse guardato qualcuno in quel modo. La nostra sfilata della vergogna grazie al cielo si concluse, anche se l'ambiente in cui ci ritrovammo - l'ufficio della preside Kirova - non migliorò affatto le cose. La vecchia megera era proprio come la ricordavo, il naso affilato e i capelli grigi. Era alta e magra, come la maggior parte dei Moroi, e mi aveva sempre evocato un corvo. La conoscevo bene perché nel suo ufficio ci avevo passato un bel po' di tempo. Quando Lissa e io ci mettemmo a sedere, gran parte della nostra scorta ci lasciò, e io mi sentii un po' meno prigioniera. Rimasero soltanto Alberta, il capitano dei guardiani della scuola, e Dimitri. Si sistemarono lungo la parete, assumendo un'aria stoica e terrificante, proprio come richiesto dal loro ruolo. La Kirova ci puntò addosso gli occhi furiosi e aprì la bocca per dare inizio a quella che, senza dubbio, sarebbe stata una tirata da grandissima stronza. Una voce profonda, gentile, la interruppe. «Vasilisa.» Sbigottita, mi resi conto che nella stanza c'era qualcun altro. Non l'avevo notato prima. Un atto di negligenza per un guardiano, persino per una novizia. Con grande sforzo Victor Dashkov emerse da una sedia nell'angolo. Il principe Victor Dashkov. Lissa balzò in piedi e corse da lui, gettando le braccia attorno a quel fragile corpo. «Zio» sussurrò. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime mentre lo abbracciava più stretto. Con un timido sorriso lui le diede qualche pacca sulla schiena, con dolcezza. «Non hai idea di quanto mi renda felice vederti sana e salva, Vasilisa.» Guardò nella mia direzione. «E vedere te, Rose.» Gli feci un cenno d'assenso, cercando di mascherare quanto fossi sconvolta. Quando ce ne eravamo andate lui era già malato, ma questo... questo era orribile. Era il padre di Natalie, e doveva avere all'incirca quarant'anni, ma sembrava ne avesse il doppio. Pallido. Avvizzito. Le mani che gli tremavano. A vederlo mi si spezzò il cuore. Con tutte le persone orribili che esistono al mondo non mi sembrava per niente giusto che proprio lui dovesse soffrire di una malattia che avrebbe finito per ucciderlo ancora giovane, impedendogli, in definitiva, di diventare re. Anche se non era tecnicamente suo zio - i Moroi usavano il lessico familiare con una certa disinvoltura, soprattutto quelli di sangue reale - Victor era un caro amico della famiglia di Lissa e si era dato un gran da fare per aiutarla quando i suoi genitori erano morti. Mi piaceva; era la prima

persona che ero contenta di rivedere. La Kirova concesse loro qualche momento e poi riportò con risolutezza Lissa alla propria sedia. Era il momento della predica. Non fu niente male, una delle migliori della Kirova, il che era tutto dire. Era davvero una maestra, nell'arte delle prediche. Era quella la sola ragione che l'aveva spinta a intraprendere una carriera nell'amministrazione scolastica, ci avrei scommesso, perché non avevo ancora avuto una sola prova del fatto che le piacessero gli studenti. La filippica riguardò i soliti argomenti: responsabilità, impulsività, egoismo... Che palle! Cominciai subito a distrarmi, e a valutare la logistica di una fuga attraverso la finestra dell'ufficio. Ma quando la tirata prese me come bersaglio, tornai a concentrarmi. «E tu, signorina Hathaway, hai infranto la più sacra delle promesse della tua specie: la promessa di un guardiano di proteggere un Moroi. È una grande responsabilità. Una responsabilità a cui tu sei venuta meno portando egoisticamente via la principessa. Gli Strigoi sarebbero deliziati all'idea di mettere fine alla dinastia dei Dragomir; tu hai quasi permesso loro di farlo.» «Rose non mi ha rapito.» Lissa parlò prima che potessi farlo io, la voce e l'espressione serafiche malgrado le emozioni che la turbavano. «Ho voluto andarmene. Non date a lei la colpa.» La signora Kirova ci zittì prontamente e si mise a camminare per l'ufficio, le mani intrecciate sul didietro rinsecchito. «Signorina Dragomir, per quel che so avresti anche potuto orchestrare tu l'intero piano, ma ciò non toglie che fosse una sua responsabilità assicurarsi che tu non lo mettessi in atto. Se la signorina Hathaway avesse fatto il proprio dovere, avrebbe avvisato qualcuno. Se avesse fatto il proprio dovere, ti avrebbe tenuto al sicuro.» «Io ho fatto il mio dovere!» gridai, saltando in piedi dalla sedia. Dimitri e Alberta trasalirono, ma mi lasciarono in pace visto che non avevo intenzione di colpire nessuno. «L'ho fatto per la sua sicurezza! L'ho protetta quando nessuno di voi» feci un ampio gesto percorrendo la stanza con la mano «avrebbe saputo farlo. L'ho portata via per poterla proteggere. Ho fatto ciò che dovevo. Voi di certo non l'avreste fatto.» Attraverso il legame percepii i messaggi tranquillizzanti che mi mandava Lissa nell'ennesimo tentativo di convincermi a non farmi travolgere dalla rabbia. Troppo tardi. La Kirova mi fissava, il viso privo di espressione. «Signorina Hathaway, mi perdonerai se non sono in grado di comprendere in base a quale logica proteggerla significhi portarla via da un ambiente sorvegliato in maniera massiccia, e difeso con la magia. A meno che tu non ci stia nascondendo qualcosa.» Mi morsi il labbro. «Capisco. Molto bene, allora. Secondo la mia valutazione, l'unica ragione per cui siete partite... tralasciando la novità dell'impresa in sé, ovviamente... era di evitare le conseguenze di quell'orribile, devastante prodezza compiuta poco prima della vostra sparizione.» «No, non è...» «E questo non fa che rendere la mia decisione ancora più semplice. In qualità di Moroi, per garantire la sua incolumità la principessa dovrà restare all'Accademia, ma verso di te non abbiamo obblighi. Verrai allontanata quanto prima.» Tutta la mia sfrontatezza svanì. «Io... cosa?» Lissa si mise in piedi accanto a me. «Non può farlo! Lei è il mio guardiano.» «Non è nulla del genere, prima di tutto perché non è un guardiano. È ancora una novizia.»

«Ma i miei genitori...» «So cosa avrebbero voluto i tuoi genitori, Dio conceda pace alle loro anime, ma le cose sono cambiate. La signorina Hathaway è sacrificabile. Non merita di essere un guardiano, e ci lascerà.» Guardai la Kirova, incapace di credere alle mie orecchie. «Dove mi manderete? Da mia mamma in Nepal? Almeno lo sa che me ne sono andata? Oppure mi manderete da mio padre?» Di fronte al sarcasmo di quelle parole i suoi occhi si ridussero a una fessura. Quando tornai a parlare, la mia voce era fredda, a tal punto che stentai a riconoscerla. «O forse volete mandarmi via per farmi diventare una sgualdrina di sangue? Provateci, e ce ne saremo andate prima che questa giornata sia finita.» «Signorina Hathaway» sibilò, «hai superato il limite.» «Hanno un legame.» La voce bassa, dall'accento marcato di Dimitri spezzò la pesante tensione, e tutti ci voltammo verso di lui. Penso che la Kirova si fosse dimenticata che era lì, ma io no. La sua presenza era troppo imponente per poterla ignorare. Era ancora appoggiato alla parete, e con addosso quel ridicolo, lungo soprabito dava l'impressione di essere una specie di cowboy, un guardiano-cowboy. Teneva lo sguardo fisso su di me, non su Lissa; i suoi occhi scuri scrutavano dentro di me. «Rose sa cosa prova Vasilisa. Non è così?» Alla fine ebbi almeno la soddisfazione di vedere la Kirova colta alla sprovvista, mentre spostava in continuazione lo sguardo da noi a Dimitri. «No... è impossibile. Sono secoli che non accade.» «È evidente» disse lui. «L'ho sospettato fin da quando ho cominciato a sorvegliarle.» Né Lissa né io dicemmo niente, e io smisi di guardarlo negli occhi. «Questo è un dono» mormorò Victor dal suo angolo. «Una cosa rara e magnifica.» «I migliori guardiani hanno avuto quel legame» aggiunse Dimitri. «Così si racconta.» L'indignazione della Kirova tornò a farsi sentire. «Lo si racconta in storie vecchie di secoli» esclamò. «Non starai per caso suggerendo di permetterle di restare dopo tutto quello che ha combinato?» Dimitri scrollò le spalle. «Può anche essere sregolata e irriverente, ma se ha un potenziale...» «Sregolata e irriverente?» Lo interruppi. «E tu, comunque, chi diavolo saresti? Manodopera in subappalto?» «Il guardiano Belikov ora è il guardiano della principessa» disse la Kirova. «Il guardiano incaricato.» «Per proteggere Lissa vi servite di manodopera estera a basso costo?» Era una cosa squallida da dire, soprattutto perché la maggior parte dei Moroi e i loro guardiani erano di origine russa o rumena, ma la chiosa mi era parsa più intelligente di quanto non fosse in realtà. E poi da che pulpito. Ero cresciuta negli Stati Uniti, certo, ma i miei genitori erano nati all'estero. Mia madre, una dhampir, era scozzese - capelli rossi, un accento ridicolo -e mi avevano detto che mio padre, un Moroi, era turco. Quella combinazione genetica mi aveva regalato una pelle color mandorla, insieme a quelle che mi piaceva considerare caratteristiche semi-esotiche da principessa del deserto: grandi occhi scuri e capelli di un castano così intenso da sembrare neri. Non mi sarebbe dispiaciuto ereditare i capelli rossi, ma bisogna accontentarsi di quello che si riceve. La Kirova alzò le mani in un gesto di esasperazione e si rivolse a lui. «Lo vedi? Del tutto indisciplinata! Qualunque legame psichico e tutto il potenziale ancora molto grezzo del mondo non potrebbero compensare una cosa simile; essere un guardiano senza disciplina è ancora peggio che non essere affatto un guardiano.» «Allora insegnatele la disciplina. Le lezioni sono appena iniziate. Rimettetela a studiare e tornate

ad addestrarla.» «Impossibile. Rimarrà comunque indietro col programma rispetto agli altri, non c'è speranza.» «No, non succederà» ribattei. Nessuno mi stava ascoltando. «Allora fatele seguire dei corsi supplementari» disse Dimitri. Continuarono così per un po', e il resto di noi seguì lo scambio come se si trattasse di una partita di ping-pong. Il mio orgoglio era ancora ferito per la facilità con cui Dimitri ci aveva beffate, ma dovetti ammettere con me stessa che poteva riuscire a farmi restare lì, con Lissa. Meglio restare in quel posto d'inferno che stare senza di lei. Attraverso il legame riuscii ad avvertire un flusso di speranza. «E chi la seguirà nel suo programma supplementare?» domandò la Kirova. «Tu?» Le argomentazioni di Dimitri subirono una brusca battuta d'arresto. «Be', non è proprio...» La Kirova incrociò le braccia con aria soddisfatta. «Già. Proprio come pensavo.» In evidente difficoltà, Dimitri aggrottò le sopracciglia. Il suo sguardo corse da Lissa a me, e io mi domandai che cosa vedesse: due ragazze patetiche che lo guardavano con occhi grandi, supplichevoli? Oppure due fuggiasche che erano riuscite a scappare da una scuola dotata di elevate misure di sicurezza, e che avevano dilapidato metà dell'eredità di Lissa? «Sì» disse infine. «Posso insegnare io a Rose. La seguirò negli addestramenti che andranno ad aggiungersi a quelli già in programma.» «E poi?» ribatté la Kirova, adirata. «Se la caverà senza alcuna punizione?» «Trovate un altro modo di punirla» le rispose Dimitri. «Il numero di guardiani si è così assottigliato che perderne un altro è un rischio. Soprattutto una ragazza.» Ciò che quelle parole sottintendevano mi fece rabbrividire, al ricordo della mia precedente uscita sulle "sgualdrine di sangue". Soltanto poche dhampir diventavano guardiani, ormai. All'improvviso Victor parlò dal suo angolo. «Sono propenso a dirmi d'accordo col guardiano Belikov. Cacciare Rose sarebbe un peccato, uno spreco di talento.» La Kirova guardò fuori dalla finestra. All'esterno era buio fitto. Considerato il regime notturno dell'Accademia, mattina e pomeriggio erano termini relativi. E in più le finestre erano oscurate per schermare gli eccessi di luce. Quando si voltò tornando a noi, Lissa incontrò i suoi occhi. «La prego, signora Kirova. Permetta a Rose di restare.» Oh, Lissa, pensai. Fa' attenzione. Servirsi della compulsione su un altro Moroi era rischioso, specie in presenza di testimoni. Ma Lissa ne stava utilizzando giusto un nonnulla, e per spuntarla avevamo bisogno di tutto l'aiuto possibile. Per fortuna nessuno parve accorgersi di ciò che stava accadendo. Non so neppure se fu la compulsione a fare la differenza, ma alla fine la Kirova sospirò. «Se la signorina Hathaway rimane, ecco quali saranno le condizioni.» Si rivolse a me. «La tua permanenza alla St. Vladimir è esclusivamente a titolo di prova. Se oltrepasserai il limite una sola volta, sarai fuori. Dovrai seguire tutti i corsi e gli addestramenti previsti per i novizi della tua età. E inoltre ti allenerai col guardiano Belikov in ogni momento libero, prima e dopo le lezioni. In più, ti sarà proibita qualunque attività sociale, fatta eccezione per i pasti, e sarai confinata nel dormitorio. Se mancherai di sottostare a una sola di queste condizioni, verrai... cacciata.» Proruppi in un'aspra risata. «Mi è proibita ogni attività sociale? State forse cercando di tenerci separate?» feci un cenno a Lissa. «Paura che possiamo scappare ancora?»

«Sto prendendo delle precauzioni. Sono sicura che ricordi bene di non essere mai stata punita per aver distrutto delle proprietà della scuola. Hai un grosso debito da saldare.» Le sue labbra sottili si serrarono fino a disegnare una linea retta. «Ti viene offerto un accordo molto generoso. Ti suggerisco di non lasciare che il tuo caratteraccio lo comprometta.» Feci per dire che non era affatto generoso, ma poi colsi lo sguardo di Dimitri. Era difficile da decifrare. Forse mi stava dicendo che credeva in me. Forse mi stava dicendo che ero un'idiota a continuare a litigare con la Kirova. Non sapevo. Distogliendo da lui lo sguardo per la seconda volta, abbassai gli occhi a terra, consapevole di avere Lissa al mio fianco e percependo il suo incoraggiamento attraverso il nostro legame. Alla fine espirai e tornai con lo sguardo alla preside. «D'accordo. Accetto.»

Spedirci alle rispettive lezioni subito dopo l'incontro ci sembrò molto più che crudele, ma fu esattamente ciò che la Kirova fece. Lissa venne portata via dalla scorta, e io rimasi a guardarla mentre se ne andava, felice che il legame mi permettesse di continuare a leggere la sua temperatura emotiva. A dire il vero, come prima cosa io venni spedita da uno dei consulenti scolastici. Era un anziano Moroi, lo ricordavo da prima che partissimo. Non riuscivo a credere che fosse ancora in circolazione. Doveva avere un'età così assurda che sarebbe già dovuto andare in pensione. O essere morto. Il colloquio durò in tutto cinque minuti. Non disse nulla a proposito del mio ritorno e mi fece qualche domanda sui corsi che avevo seguito a Chicago e a Portland. Li confrontò con la mia vecchia documentazione e buttò giù veloce un nuovo orario. Lo presi con aria corrucciata e mi avviai verso la prima lezione. la ora Tecniche avanzate di combattimento 2a ora Teoria Bodyguard e Protezione personale 3 3a ora Pesi e potenziamento muscolare 4a ora Lingua e letteratura (Novizi) - pranzo 5a ora Comportamento e psicologia animale 6a ora Introduzione all'analisi matematica 7a ora Cultura Moroi 4 8a ora Arte slava Avevo dimenticato quanto lungo fosse un giorno all'Accademia. I novizi e i Moroi frequentavano lezioni separate durante la prima metà della giornata, e ciò significava che non avrei visto Lissa fino a dopo pranzo, se mai avessimo avuto qualche lezione pomeridiana da seguire insieme. Si trattava soprattutto di lezioni dell'ultimo anno, quindi avevo la sensazione che le probabilità fossero piuttosto alte. Arte slava sembrava quel genere di corso facoltativo al quale non si iscrive nessuno, perciò c'era la speranza che l'avessero appioppato anche a Lissa. Dimitri e Alberta mi scortarono alla palestra dei guardiani per la prima lezione, senza che nessuno dei due si degnasse di prendere atto della mia esistenza. Camminando alle loro spalle mi accorsi che Alberta aveva i capelli corti, spettinati, che lasciavano in bella mostra il marchio della promessa e i molnija. Un mucchio di altre guardiane li avevano come lei. Per il momento la cosa non mi toccava, visto che il mio collo non aveva ancora alcun tatuaggio, ma non avrei mai voluto tagliarmi i capelli. Lei e Dimitri rimasero in silenzio e continuarono a camminare quasi come se si trattasse di una giornata qualunque. Al nostro arrivo, la reazione dei miei compagni mi disse che invece non lo era affatto. Quando entrammo in palestra erano nel bel mezzo del riscaldamento, e proprio come in mensa, tutti gli occhi puntarono su di me. Non riuscii a decidere se sentirmi una rock star o un

fenomeno da baraccone. Molto bene. Se dovevo rimanere bloccata lì per un po', allora non avrei fatto la parte di quella che si lascia intimorire. Lissa e io una volta godevamo del rispetto di questa scuola, ed era venuto il momento di ricordarlo a tutti. In cerca di un viso familiare diedi una scorsa ai novizi imbambolati, con le bocche spalancate. Per la stragrande maggioranza erano ragazzi. Uno di loro catturò il mio sguardo, e riuscii a malapena a trattenere un ghigno. «Ehi, Mason, asciugati la bava alla bocca. Se vuoi immaginarmi nuda, fallo in un momento più opportuno.» Alcuni grugniti e risolini ruppero il silenzio ossequioso, e Mason Ashford riemerse all'improvviso dal suo stordimento facendomi un sorriso sbilenco. Con i capelli rossi scompigliati e una spolverata di lentiggini, Mason era carino, anche se non proprio irresistibile. Era anche uno dei ragazzi più simpatici che conoscevo. Eravamo stati buoni amici, in passato. «È il momento opportuno, Hathaway. Oggi dirigo io l'allenamento.» «Davvero?» ribattei. «Ah. Be', allora credo che sia un buon momento per immaginarmi nuda.» «È sempre il momento giusto per immaginarti nuda» aggiunse qualcuno lì vicino, allentando ancora di più la tensione. Eddie Castile. Un altro mio amico. Dimitri scosse la testa e s'incamminò verso l'uscita, borbottando in russo qualcosa che non suonava lusinghiero. Ma per quel che mi riguardava... be', era bastato poco ed ero tornata a essere una dei novizi. Era un gruppo alla mano, meno interessato al lignaggio e ai giochi di potere di quanto non fossero gli studenti Moroi. La classe mi inghiottì, e mi sorpresi a ridere ritrovando tutti quelli che avevo quasi dimenticato. Ognuno voleva sapere dove fossimo state; a quanto pareva, io e Lissa eravamo diventate delle leggende. Di certo non potevo dire loro perché ce ne eravamo andate, così mi limitai a un mucchio di battutine sarcastiche e a dei non-vorrete-saperlo-davvero che funzionarono altrettanto bene. L'allegra rimpatriata durò ancora qualche minuto prima che il guardiano adulto che supervisionava l'allenamento si avvicinasse e rimproverasse Mason per non aver assolto ai suoi doveri. Senza smettere di sogghignare, lui abbaiò ordini a tutti, spiegando con quali esercizi iniziare. Con dispiacere, mi resi conto che la maggior parte mi erano sconosciuti. «Avanti, Hathaway» disse afferrandomi per un braccio. «Sarai la mia compagna. Vediamo cos'hai fatto per tutto questo tempo.» Un'ora più tardi, aveva la risposta. «Non ti sei allenata molto, eh?» «Ahi» mi lamentai, al momento quasi incapace di parlare normalmente. Allungò una mano e mi aiutò a rialzarmi dal tappetino sul quale mi aveva spedito... almeno cinquanta volte. «Ti odio» gli dissi, sfregandomi un segno sulla coscia, che l'indomani sarebbe diventato un livido orribile. «Mi odieresti di più se non avessi fatto sul serio.» «Sì, è vero» concordai, mentre me ne andavo barcollando, lasciando i compagni a mettere in ordine gli attrezzi. «Ti sei comportata davvero bene.» «Cosa? Ma sei mi hai appena fatto il culo.» «Be', in effetti sì. Sono passati due anni. Ma, ehi, riesci ancora a camminare. È già qualcosa, dopotutto.» Sogghignò con aria beffarda.

«Ti ho già detto che ti odio?» Mi fece un altro sorriso, che si trasformò subito in un'espressione molto più seria. «Non prenderla nel modo sbagliato... voglio dire, sei davvero una dura, ma non riuscirai mai a superare le prove di primavera...» «Farò degli addestramenti supplementari» gli spiegai. Non che mi importasse. Contavo di riuscire a fuggire da lì con Lissa prima che quegli allenamenti diventassero un vero problema. «Ce la farò.» «Allenamenti supplementari con chi?» «Lo spilungone. Dimitri.» Mason si fermò e mi fissò strabuzzando gli occhi. «Lezioni aggiuntive con Belikow?» «E allora?» «Allora quel tipo è un dio.» «Non starai esagerando?» «No, sono serio. Voglio dire, di solito fa il silenzioso e l'asociale, ma quando combatte... wow. Se credi di sentirti a pezzi adesso, quando avrà finito con te sarai morta.» Grandioso. Ecco un'altra bella notizia tanto per migliorare la giornata. Gli assestai una gomitata e andai alla lezione successiva. Il corso era su teoria e fondamenti per diventare una guardia del corpo ed era obbligatorio per gli studenti dell'ultimo anno. In realtà, era il terzo di una serie di corsi cominciati al terzo anno. Il che voleva dire che ero rimasta indietro anche qui, ma nutrivo la speranza che l'aver protetto Lissa nel mondo reale mi avesse già dato qualche dritta in merito. L'insegnante era Stan Alto, che chiamavamo "Guardiano Alto" in circostanze formali e solo "Alto" quando non ci poteva sentire. Era un po' più vecchio di Dimitri, ma non alto come lui, e aveva sempre l'aria incazzata. Quel giorno, si incupì ancora di più quando, entrando in aula, mi trovò lì seduta. I suoi occhi si spalancarono manifestando sorpresa mentre veniva a piantarsi accanto al mio banco. «E qui cos'abbiamo? Nessuno mi aveva detto che oggi avremmo avuto un ospite, un relatore. Rose Hathaway. Quale onore! È stato molto generoso da parte tua riservarci un po' di tempo nella tua fittissima agenda e condividere con noi le tue conoscenze.» Sentii le guance avvampare, ma dando grande prova di autocontrollo riuscii a trattenermi dal mandarlo a 'fanculo. Ma ero piuttosto sicura che la mia espressione avesse parlato da sola, perché il suo ghigno di scherno si allargò. Mi fece segno di alzarmi in piedi. «Bene, forza, forza. Non stare seduta lì. Vieni alla cattedra, così potrai aiutarmi con la lezione.» Mi lasciai sprofondare nella sedia. «Non dice davvero...» Il suo sorriso sarcastico si spense. «Volevo dire esattamente quello che ho detto, Hathaway. Vai di fronte alla classe.» Un pesante silenzio avvolse l'aula. Stan era un docente che incuteva timore, e la maggior parte della classe aveva troppa paura per ridere subito dell'umiliazione che mi toccava. Decisa a non farmi piegare, andai fino alla cattedra e mi voltai per affrontare la classe. Concessi loro uno sguardo spavaldo e scrollai i capelli per farli ricadere dietro le spalle, guadagnandomi qualche sorriso solidale da parte dei miei amici. Solo allora mi resi conto di avere un pubblico più numeroso del previsto. Alcuni guardiani - incluso Dimitri - rimanevano in fondo all'aula. Fuori dall'Accademia, i guardiani si concentravano sulla protezione uno-a-uno. Qui, però, avevano molti più soggetti da proteggere e dovevano addestrare i novizi. Così, invece di seguire una persona sola, facevano i turni

per sorvegliare tutta la scuola e tenere sotto controllo le classi. «Allora, Hathaway» disse Stan, accondiscendente, trascinandosi fino alla cattedra. «Illuminaci sulle tue tecniche di difesa.» «Le mie... tecniche?» «Ma certo. Perché si presume che, quando hai portato una Moroi di famiglia reale ancora minorenne fuori dall'Accademia e l'hai esposta alla minaccia costante degli Strigoi, tu dovessi avere una specie di piano.» La stessa predica della Kirova, solo con più testimoni. «Non ci siamo mai imbattute negli Strigoi.» «Ovviamente» disse ridacchiando. «L'avevo già capito, visto che sei ancora viva.» Volevo gridargli che avrei potuto sconfiggere uno Strigoi, ma dopo la batosta dell'ultima ora, adesso avevo il sospetto che non sarei sopravvissuta a un attacco di Mason, figuriamoci a uno di un vero Strigoi. Mentre io rimanevo in silenzio, Stan iniziò a passeggiare di fronte alla classe. «Quindi che hai fatto? Come hai salvaguardato la sua incolumità? Avete evitato di uscire durante la notte?» «A volte.» Era vero, soprattutto quando eravamo appena scappate. Avevamo cominciato a rilassarci solo dopo qualche mese senza attacchi. «A volte» ripeté lui con un tono stridulo, facendo sembrare la mia risposta incredibilmente stupida. «Molto bene allora, suppongo che tu abbia dormito di giorno e sia rimasta sveglia di notte.» «Ehm... no.» «No? Eppure è una delle cose di cui si parla nel capitolo riguardante la custodia in solitaria. Oh, aspetta, non potevi saperlo perché non eri qui.» Ricacciai in gola altre imprecazioni. «Sorvegliavo l'area ogni volta che uscivamo» dissi, sentendo il bisogno di difendermi. «Oh. Be', questo è già qualcosa. Hai usato il Metodo Carnagie di Sorveglianza del quadrante o la Perlustrazione a rotazione?» Rimasi in silenzio. «Ah. Devo presumere che tu abbia utilizzato il Metodo Hathaway, Guardati-in-giro-quando-tene-ricordi.» «No» esclamai rabbiosa. «Non è vero. L'ho sorvegliata. È ancora viva, no?» Tornò da me e si chinò, piantandosi davanti alla mia faccia. «Perché hai avuto fortuna.» «Là fuori non ci sono Strigoi appostati dietro ogni angolo» ribattei. «Non è come ci avete insegnato. È più sicuro di quanto voi non lo facciate sembrare.» «Più sicuro? Più sicuro? Noi siamo in guerra con gli Strigoi!» urlò. Era così vicino che riuscii a sentire l'aroma di caffè nel suo alito. «Uno di loro potrebbe avvicinarsi e spezzarti il collo prima ancora che tu te ne renda conto... e senza versare una goccia di sudore. Tu sei più rapida e forte di un Moroi o di un essere umano, forse, ma non sei niente, niente in confronto a uno Strigoi. Sono letali, e potenti. E vuoi sapere cosa li rende ancora più potenti?» Non avrei mai e poi mai permesso a quell'idiota di farmi piangere. Distolsi lo sguardo da lui, cercando di mettere a fuoco qualcos'altro. Il mio sguardo si posò su Dimitri e gli altri guardiani. Assistevano alla mia umiliazione, impassibili.

«Il sangue Moroi» sussurrai. «Quello cos'era?» chiese Stan a voce alta. «Non ho sentito.» Mi voltai di nuovo verso di lui per affrontarlo. «Il sangue Moroi! Il sangue Moroi li rende più forti.» Stan annuì soddisfatto e indietreggiò di qualche passo. «Sì. È così. Li rende più forti e più difficili da distruggere. Possono bere il sangue degli esseri umani o dei dhampir, ma bramano il sangue Moroi più di ogni altra cosa. Lo cercano. Sono passati alla metà oscura per assicurarsi l'immortalità, e sono disposti a fare di tutto pur di preservarla. Ci sono Strigoi disperati che hanno attaccato Moroi in pubblico. Gruppi di Strigoi hanno assalito Accademie uguali a questa. Ci sono Strigoi che hanno vissuto per migliaia di anni nutrendosi di generazioni di Moroi. È quasi impossibile ucciderli. Ed è per questa ragione che il numero dei Moroi si sta riducendo. Alcuni di loro non capiscono più che senso abbia continuare a scappare e addirittura si trasformano in Strigoi per scelta. E se i Moroi scompaiono...» «... lo stesso accadrà ai dhampir» conclusi io. «Bene» disse, leccandosi via la saliva che si era sputato sulle labbra. «Dopotutto sembra che tu abbia imparato qualcosa. Adesso staremo a vedere se riuscirai a imparare quello che serve per superare questo corso e qualificarti per la pratica sul campo nel prossimo semestre.» Ahi. Trascorsi il resto di quell'orribile lezione -seduta al mio posto, per fortuna - ripetendomi quelle parole. La pratica sul campo dell'ultimo anno era la parte migliore di tutto il percorso educativo dei novizi. Per metà del semestre non avremmo avuto corsi. Invece, ci sarebbe stato assegnato uno studente Moroi da sorvegliare e seguire. I guardiani adulti ci avrebbero monitorato e messo alla prova con finti attacchi e altre minacce. Il modo in cui un novizio superava la pratica sul campo era importante quasi quanto il resto di tutti i suoi voti messi insieme. Poteva influire su quale Moroi ci sarebbe stato assegnato dopo il diploma. E io? C'era solo una Moroi che volevo. Due ore più tardi, finalmente mi conquistai la via di fuga per il pranzo. Mentre mi trascinavo attraverso il campus diretta alla mensa, Dimitri comparve al mio fianco e si mise al passo, senza avere un'aria particolarmente divina, a meno di non considerare quelle sue occhiate divinamente belle. «Suppongo che tu abbia assistito a quello che è successo durante la lezione di Stan, vero?» gli chiesi, senza farla lunga con titoli e appellativi. «Sì.» «E non pensi che sia ingiusto?» «Aveva ragione? Eri pronta per proteggere Vasilisa?» Abbassai lo sguardo. «L'ho tenuta in vita» mormorai. «Com'è andata l'ora di combattimento con i tuoi compagni?» Era un colpo basso. Non risposi, e sapevo di non averne bisogno. Dopo quella di Stan, avevo avuto un'altra sessione di allenamento, e senza dubbio Dimitri mi aveva visto prenderle anche là. «Se non riesci a combattere con loro...» «Sì, sì, lo so» sbottai. Rallentò i lunghi passi per adeguarsi ai miei, doloranti. «Sei forte e veloce di natura. Hai solo bisogno di tenerti in allenamento. Hai fatto qualche sport mentre eri via?» «Certo» dissi alzando le spalle. «Ogni tanto.» «Non sei entrata in nessuna squadra?» «Troppa fatica. Se avessi voluto allenarmi così, tanto valeva rimanere qui.»

Mi rivolse un'occhiata esasperata. «Non sarai mai in grado di proteggere la principessa se non perfezioni le tue abilità. Non sarai mai all'altezza.» «Sarò in grado di proteggerla» dissi con impeto. «Non hai alcuna garanzia di essere assegnata a lei, lo sai, né per la pratica sul campo né dopo il diploma.» La voce di Dimitri era bassa e per nulla dispiaciuta. Non mi avevano assegnato un mentore affettuoso e delicato. «Nessuno ha intenzione di sprecare un legame, ma nessuno ha intenzione di affidarla a un guardiano che non sia all'altezza. Se vuoi stare con lei, dovrai darti da fare. Hai i tuoi corsi. Hai me. Puoi approfittarne o decidere di non farlo. Sei la candidata ideale per proteggere Vasilisa dopo il diploma, ma dovrai dimostrare di esserne degna. Spero che tu lo faccia.» «Lissa, chiamala Lissa» lo corressi. Lei odiava il suo nome per esteso, preferiva il soprannome americanizzato. Dimitri si allontanò, e tutto a un tratto non mi sentii più così dura. Nel frattempo avevo sprecato un sacco di tempo solo per allontanarmi dall'aula. Più o meno tutti gli altri si erano precipitati in mensa per il pranzo, ansiosi di godersi fino in fondo il loro momento di libertà. Ero quasi arrivata anch'io quando una voce mi chiamò da sotto la tettoia dell'ingresso. «Rose?» Sbirciando in direzione della voce scorsi Victor Dashkov, se ne stava accanto al muro dell'edificio appoggiato a un bastone e il suo volto cordiale mi sorrideva. I suoi due guardiani erano lì vicino, a una distanza di cortesia. «Signor Dash-mmh, Sua Altezza. Salve.» Riuscii a fermarmi giusto in tempo, mi ero quasi dimenticata della terminologia reale dei Moroi. Durante la mia vita tra gli esseri umani non l'avevo più usata. I Moroi sceglievano i loro governanti tra dodici casate reali. Il più anziano della famiglia riceveva il titolo di "principe" o "principessa". Lissa aveva ricevuto il suo perché era l'ultima rappresentante della sua discendenza. «Com'è andato il primo giorno?» mi chiese. «Non è ancora finito.» Cercai di pensare a qualche argomento adatto di conversazione. «Si tratterrà per un po'?» «Partirò nel pomeriggio, dopo aver salutato Natalie. Quando ho saputo che Vasilisa, e tu, eravate tornate, non ho potuto fare a meno di venirvi a trovare.» Annuii, senza essere molto sicura di cos'altro aggiungere. Era molto più in confidenza con Lissa che con me. «Volevo dirti...» Iniziò esitando. «Comprendo la gravità di ciò che hai fatto, ma penso che la preside Kirova non abbia saputo darti atto di una cosa. Tu hai tenuto Vasilisa al sicuro per tutto questo tempo. È impressionante.» «Be', non è che abbiamo dovuto sconfiggere degli Strigoi» dissi. «Ma hai dovuto sconfiggere altre creature?» «Già. Una volta. Gli psico-segugi mandati dalla scuola.» «Notevole.» «Non proprio. Evitarli è stato piuttosto facile.» Rise. «Mi è capitato di andare a caccia con loro. Non sono così facili da evitare, non coi loro poteri e la loro intelligenza.» Era vero. Gli psico-segugi erano uno dei tanti tipi di creature magiche che si aggiravano per il mondo, creature di cui gli esseri umani non avevano mai saputo nulla, o che non credevano di aver davvero visto. I segugi si muovevano in branchi e praticavano una specie di comunicazione mentale che li rendeva particolarmente micidiali per le loro prede, tanto quanto il

fatto che somigliavano a lupi mutanti. «Hai dovuto vedertela con qualcos'altro?» Scrollai le spalle. «Cosucce qui e là.» «Notevole» ripeté. «Fortuna, credo. Pare che sia rimasta piuttosto indietro in tutte queste faccende da guardiani.» Adesso davo proprio l'impressione di essere Stan. «Sei una ragazza sveglia. Recupererai. E poi hai il vostro legame.» Volsi lo sguardo altrove. La mia capacità di "sentire" Lissa era rimasta segreta così a lungo che adesso era strano che gli altri sapessero. «Le cronache dei tempi antichi sono piene di racconti di guardiani in grado di percepire se le persone a loro affidate si trovassero in pericolo» continuò Victor. «Ho approfondito questa e altre questioni per hobby. Ho sentito dire che è un dono straordinario.» «Credo di sì.» Mi strinsi nelle spalle. Che hobby noioso, pensai, immaginandolo mentre leggeva tutto attento, chino su testi di storia antidiluviana in qualche umida biblioteca infestata di ragnatele. Victor inclinò la testa, la curiosità sul volto. Quando avevamo fatto cenno al nostro legame, la Kirova e gli altri avevano fatto lo stesso sguardo, come se fossimo topi da laboratorio. «Che cosa si prova, se non ti dispiace che te lo chieda?» «È... non so. È come se avessi sempre il sentore di ciò che sente. Di solito sono emozioni. Non riusciamo a mandarci messaggi o altro.» Non gli dissi di come riuscivo a scivolare nella sua mente. Quell'aspetto della questione era difficile da capire persino per me. «Ma al contrario non funziona? Lei non riesce a percepire te?» Scrollai il capo. Il suo volto s'illuminò per la meraviglia. «Com'è successo?» «Non lo so» dissi, continuando a guardare lontano. «È iniziato due anni fa, tutto qui.» Lui aggrottò le sopracciglia. «Dopo l'incidente?» Annuii con riluttanza. L'incidente non era qualcosa di cui avevo voglia di parlare, questo era certo. I ricordi di Lissa erano già abbastanza orribili senza che ci aggiungessi anche i miei. Il metallo ritorto. Una sensazione di caldo, poi di freddo, e poi di nuovo caldo. Lissa che gridava sopra di me, che mi gridava di svegliarmi, che gridava a suo fratello e ai suoi genitori di svegliarsi. Nessuno di loro lo aveva fatto, io soltanto. E i dottori avevano detto che si era trattato di un miracolo. Avevano detto che non sarei dovuta sopravvivere. Quasi come se fosse riuscito a intuire il mio sconforto, Victor lasciò che l'attimo passasse e tornò all'entusiasmo di prima. «Stento ancora a crederci. È passato molto tempo da quando è successo l'ultima volta. Se solo accadesse più spesso... pensa solo a cosa potrebbe significare per la sicurezza dei Moroi. Se altri potessero sperimentarlo. Dovrò proseguire nelle ricerche per capire se è possibile replicarlo con altri.» «Già.» Anche se mi era simpatico, stavo perdendo la pazienza. Anche Natalie vaneggiava, ed era piuttosto chiaro da quale genitore avesse ereditato quella qualità. Il pranzo me lo potevo scordare, e nonostante Moroi e novizi condividessero le lezioni pomeridiane, Lissa e io non avremmo avuto molto tempo per parlare. «Forse potremmo...» Cominciò a tossire, un grande, incontrollabile attacco di tosse che gli squassò tutto il corpo. La sua malattia, la sindrome di Sandovsky, gli stava devastando i polmoni e trascinava il suo corpo verso la morte. Scoccai un'occhiata preoccupata ai suoi guardiani, e uno di loro fece un passo avanti. «Sua Altezza» disse con garbo, «ha bisogno di ritirarsi. Fa troppo freddo

qui fuori.» Victor annuì. «Sì, sì. E sono sicuro che Rose ha fame.» Si rivolse a me. «Grazie per questa conversazione. Non so dirti quanto sia importante per me che Vasilisa sia sana e salva, e che tu abbia dato il tuo contributo perché lo fosse. Ho promesso a suo padre che se gli fosse capitato qualcosa mi sarei preso cura di lei, e quando siete sparite mi sono sentito sull'orlo del fallimento.» Una sensazione di vuoto mi riempì lo stomaco mentre lo immaginavo distrutto dal senso di colpa e dalla preoccupazione per la scomparsa di Lissa. Finora non avevo mai considerato il modo in cui avrebbero potuto sentirsi gli altri a causa della nostra partenza. Ci salutammo, e finalmente riuscii a entrare a scuola. Mentre lo facevo, avvertii l'ansia di Lissa intensificarsi. Senza curarmi del dolore alle gambe, mi affrettai in mensa. E quasi le finii addosso. In ogni caso, lei non mi aveva visto. E neppure quelli che erano con lei: Aaron e la bambolina. Mi fermai e ascoltai, riuscendo a captare soltanto la fine di una conversazione. La ragazza si chinò verso Lissa, che appariva scioccata. «Mi sembra una appena uscita da una svendita dell'usato. Pensavo che una Dragomir così in vista avesse certi standard.» La parola Dragomir grondava disprezzo. Afferrando la Bambolina per la spalla, la spinsi via. Era così leggera che finì un metro più in là barcollando e quasi cadde. «Lei ha certi standard» dissi, «ed è per questo che tu non puoi parlarle.»

Questa volta, grazie a Dio, non attirammo l'attenzione di tutta la mensa, ma alcuni studenti di passaggio si fermarono a guardare la scena. «Che diavolo credi di fare?» chiese Bambolina, gli occhi turchini sbarrati e scintillanti di rabbia. Ora, da molto più vicino, riuscii a studiarla meglio. Aveva la stessa corporatura snella di gran parte dei Moroi, ma non la stessa statura, cosa che contribuiva a farla sembrare così giovane. Il minuscolo abitino porpora che indossava era splendido - e mi ricordava che io avevo addosso una maglietta comprata in un negozio dell'usato - ma un'analisi più accurata mi portò a pensare che si trattasse di un'imitazione. Incrociai le braccia sul petto: «Ti sei persa, piccina? La scuola elementare è nel campus dell'ala ovest.» Una vampata rosa le si allargò sulle guance. «Non toccarmi mai più. Se cerchi di fottermi, io fotterò te.» Ragazzi, che inizio. Solo una scrollata di capo di Lissa mi impedì di replicare a dovere e spassarmela un po'. Invece optai per la semplice forza bruta, per così dire. «E tu prova a creare un'altra volta problemi a una di noi, e ti spezzo in due. Se non mi credi, va' a chiedere a Dawn Yarrow cosa ho fatto al suo braccio al primo anno. All'epoca, probabilmente tu stavi facendo la nanna dopo la pappa.» L'incidente con Dawn non era stato uno dei miei momenti migliori. A dire la verità, quando l'avevo spintonata contro l'albero, non lo avevo fatto con l'intenzione di romperle qualche osso. In ogni caso, mi ero guadagnata la reputazione di una pericolosa, oltre a quella di lingua tagliente. La storia era diventata leggenda, e mi piaceva immaginare che la raccontassero attorno ai falò a tarda notte. A giudicare dall'espressione sul viso di quella ragazza, era così. Uno dei sorveglianti di ronda si avvicinò proprio in quell'istante, gettando occhiate sospettose in direzione del nostro piccolo raduno. Bambolina indietreggiò, prendendo Aaron per un braccio. «Andiamo» disse. «Ehi, Aaron» dissi io in tono allegro, ricordandomi che era lì. «Contenta di averti rivisto.» Lui mi fece un rapido cenno con la testa e sorrise, a disagio, proprio mentre la ragazza lo trascinava via. Caro vecchio Aaron. Era tanto carino, ma grintoso no di certo. Mi voltai verso Lissa. «Stai bene?» Lei annuì. «Hai la minima idea di chi sia quella che ho appena minacciato di prendere a botte?» «Neppure un indizio.» Cominciai a guidarla verso la fila della mensa, ma lei scosse la testa. «Devo passare dai donatori.» Una sensazione bizzarra si impadronì di me. Mi ero così abituata a essere la sua fonte principale di sangue che il pensiero di un ritorno alla routine Moroi mi sembrava strano. In effetti, quasi mi seccava. Ma non avrebbe dovuto. La dose giornaliera era parte della vita Moroi, una cosa che non

ero stata capace di offrirle quando avevamo vissuto da sole. Era stata una situazione infelice, che aveva lasciato me debole nei giorni di nutrimento e altrettanto debole lei in quelli intermedi. Avrei dovuto essere contenta che Lissa potesse ritrovare un po' di normalità. Mi sforzai di sorridere. «Certo.» Entrammo nella stanza di nutrizione, in un locale accanto al self service della mensa. Era divisa in piccole postazioni separate, che organizzavano lo spazio della stanza in modo da garantire un po' di privacy. Una donna Moroi dai capelli neri ci salutò all'ingresso e abbassò lo sguardo per sbirciare tra i suoi appunti, sfogliando le pagine. Trovò ciò di cui aveva bisogno, annotò qualcosa e fece segno a Lissa di seguirla. A me scoccò un'occhiata perplessa, ma non mi impedì di entrare. Ci accompagnò a una delle postazioni, dove una donna paffuta, di mezza età, sedeva leggiucchiando una rivista. La donna alzò lo sguardo vedendoci arrivare e sorrise. Nei suoi occhi riconobbi lo sguardo sognante, appannato che aveva la maggior parte dei donatori. A giudicare da quanto sembrava fatta, era probabile che quel giorno avesse già raggiunto la quota che le spettava. Riconoscendo Lissa, il suo sorriso si allargò. «Bentornata, principessa.» La donna che ci aveva accolto ci lasciò, e Lissa si sedette nella sedia accanto alla donatrice. Avvertii in lei un senso di disagio un po' diverso dal mio. Anche per lei era strano, era passato tanto tempo. Ma la donatrice non aveva altrettante remore. Un'espressione entusiasta le attraversò il volto, l'espressione di una tossicomane che sta per ricevere un'altra dose. Il disgusto mi invase. Era un vecchio istinto, che si era via via radicato negli anni. I donatori erano indispensabili alla vita dei Moroi. Erano esseri umani che si offrivano spontaneamente come fonte regolare di sangue, esseri umani ai margini della società che dedicavano la propria vita al segreto mondo dei Moroi. Ci si prendeva cura di loro e veniva loro garantito ogni genere di comfort di cui potessero avere bisogno. Ma andando al nocciolo della questione, si trattava di drogati, schiavi della saliva dei Moroi e dell'estasi che seguiva ogni morso. I Moroi, e i guardiani, guardavano a questa dipendenza con riprovazione, eppure i Moroi non avrebbero potuto sopravvivere in nessun altro modo, a meno di procurarsi le vittime con la forza. Un'ipocrisia all'ennesima potenza. La donatrice inclinò la testa, dando a Lissa completo accesso al collo. Aveva la pelle segnata dalle cicatrici di anni di morsi quotidiani. Invece, le nutrizioni poco frequenti compiute da me e Lissa avevano mantenuto il mio collo integro; i segni dei morsi non erano quasi mai durati più di un giorno. Lissa si chinò, i canini che penetravano nella carne arrendevole della donatrice. La donna chiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un sommesso mugolio di piacere. Alla vista di Lissa che beveva, io deglutii. Non vedevo il sangue, ma riuscivo a immaginarlo. Un'ondata d'emozione mi crebbe in petto: desiderio. Gelosia. Distolsi lo sguardo, gli occhi a terra. Nella mia mente, mi rimproveravo. Che cos'hai che non va? Perché dovresti sentirne la mancanza? Lo facevi solo una volta al giorno. Non hai una dipendenza, non a questi livelli. E non vuoi arrivare ad averla. Ma non sapevo trattenermi, non potevo fingere di non sentirmi come mi sentivo al ricordo della beatitudine e di quell'ondata di estasi che seguiva il morso di un vampiro. Lissa finì e tornammo in mensa, dirette alla fila del self service. Era corta, visto che restavano solo quindici minuti, e così mi feci avanti e cominciai a riempirmi il piatto di patatine fritte e di alcuni bocconcini rotondi, che somigliavano vagamente a crocchette di pollo. Lissa prese soltanto uno yogurt. I Moroi hanno bisogno di cibo, esattamente come i dhampir e gli esseri umani, ma di rado hanno fame dopo aver bevuto sangue. «Allora, come sono andate le lezioni?» chiesi.

Lissa scrollò le spalle. Adesso il suo viso risplendeva roseo e pieno di vita. «Bene. Un sacco di sguardi. Un sacco di sguardi. E un sacco di domande su dove siamo state. E pettegolezzi.» «Lo stesso per me» dissi. L'inserviente verificò cosa avevamo preso, e poi ci incamminammo verso i tavoli. Guardai Lissa negli occhi. «E a te sta bene? Non ti danno fastidio, vero?» «No... tutto a posto.» Le emozioni che mi arrivavano attraverso il legame contraddicevano le sue parole. Sapendo che potevo percepirlo, Lissa cercò di cambiare argomento allungandomi il suo orario scolastico. Gli diedi un'occhiata. la ora Russo 2 2a ora Letteratura coloniale americana 3a ora Fondamenti del controllo degli elementi 4a ora Poesia antica - pranzo 5a ora Comportamento e psicologia animale 6a ora Analisi matematica avanzata 7a ora Cultura Moroi 4 8a ora Arte slava «Secchiona» dissi. «Se seguissi Matematica per stupidi come me, avremmo lo stesso orario pomeridiano.» Mi interruppi. «Perché devi seguire il corso di Fondamenti del controllo degli elementi? È del secondo anno.» Mi squadrò. «Perché gli studenti dell'ultimo anno seguono corsi di specializzazione.» Questo ci fece rimanere in silenzio. Tutti i Moroi padroneggiavano una magia degli elementi. Era una delle cose che differenziava i vampiri viventi dagli Strigoi, i vampiri morti. I Moroi vedevano la magia come un dono. Faceva parte della loro anima e li metteva in contatto con il mondo. Tempo addietro i Moroi usavano la loro magia senza farne mistero, per prevenire disastri naturali e rendersi utili in attività come l'approvvigionamento di cibo e di acqua. Adesso non avevano più bisogno di farlo, eppure avevano ancora la magia nel sangue. Bruciava loro dentro e li faceva desiderare un contatto con la terra, il desiderio di esercitare i propri poteri. Le accademie come la nostra esistevano per aiutare i Moroi a tenere sotto controllo i propri poteri magici e insegnare loro a raggiungere obiettivi sempre più complessi grazie a essi. Gli studenti dovevano anche apprendere le norme che facevano da cornice alla magia, regole immutate da secoli e applicate con rigidità. Ogni Moroi aveva una minima abilità in ciascun elemento. Più o meno alla nostra età, quando uno degli elementi si faceva più spiccato degli altri, gli studenti si "specializzavano": terra, acqua, fuoco, o aria. Non specializzarsi era come non uscire dalla pubertà. E Lissa... be', Lissa non si era ancora specializzata. «È ancora la signora Carmack a fare lezione? Che dice?» «Dice di non preoccuparsi. Pensa che succederà.» «Le hai... le hai detto di...» Lissa scrollò la testa. «No, certo che no.» Lasciammo cadere l'argomento. Era qualcosa a cui pensavamo molto, ma di cui parlavamo poco. Riprendemmo a camminare, scrutando i tavoli per decidere dove sederci. Alcuni levarono gli occhi e ci guardarono con sfacciata curiosità. «Lissa» si udì una voce nelle vicinanze. Avvistammo Natalie che ci faceva cenno. Lissa e io ci scambiammo uno sguardo. Natalie era una specie di cugina di Lissa, nello stesso modo in cui Victor

era una specie di zio, eppure non ci eravamo mai frequentate granché. Lissa si strinse nelle spalle e si avviò in quella direzione. «Perché no?» La seguii con riluttanza. Natalie era gentile, ma era anche una delle persone meno interessanti che conoscevo. La maggior parte dei reali della scuola godeva di una sorta di prestigio, ma Natalie non era mai riuscita a inserirsi bene in mezzo a quella gente. Era troppo alla mano, troppo poco interessata ai giochi di potere dell'Accademia, e comunque troppo sprovveduta per destreggiarcisi. Gli amici di Natalie ci osservavano con curiosità discreta, ma lei non si trattenne. Ci gettò le braccia al collo. Come Lissa, anche lei aveva occhi color giada, ma i capelli erano di un nero corvino, come quelli di Victor prima che la malattia li ingrigisse. «Siete tornate! Sapevo che sareste tornate! Dicevano tutti che ve ne eravate andate per sempre, ma io non ci ho mai creduto. Sapevo che non potevate rimanere lontano. Perché siete scappate? Girano un sacco di storie sul motivo della vostra fuga!» Lissa e io ci scambiammo qualche sguardo mentre Natalie continuava a cianciare. «Camille ha detto che una di voi era rimasta incinta e che ve ne siete andate per abortire, ma io sapevo che non poteva essere vero. Altri dicevano che ve ne eravate andate per vivere con la mamma di Rose, ma ho pensato che la signora Kirova e papà non sarebbero stati così sconvolti se foste andate da lei. Sai che potremmo essere compagne di stanza? Stavo parlando a...» Blaterava e blaterava, lasciando intravvedere i canini. Le sorrisi per educazione, lasciando che fosse Lissa a far fronte a quell'assalto, finché Natalie non fece una domanda pericolosa. «Come hai fatto per il sangue, Lissa?» La tavolata ci guardò con piglio interrogativo. Lissa si immobilizzò, ma io intervenni subito, la bugia raggiunse senza sforzo le mie labbra. «Oh, semplice. Ci sono un sacco di esseri umani che hanno voglia di farlo.» «Davvero?» chiese uno degli amici di Natalie, gli occhi sbarrati. «Già. Li trovi alle feste o in situazioni del genere. Sono tutti alla ricerca di una dose, e non si rendono davvero conto che sia un vampiro a dargliela: la maggior parte di loro è già così strafatta da non ricordarsi niente comunque.» Avendo dato fondo ai miei già generici dettagli, scrollai le spalle nel modo più distaccato e sicuro di me possibile. Era improbabile che qualcuno di loro ne sapesse di più. «Come ho detto, è stato facile. Piuttosto semplice come coi nostri donatori.» Natalie se la bevve e si buttò a capofitto in un altro argomento. Lissa mi lanciò uno sguardo carico di gratitudine. Tornando a ignorare la conversazione, passai in rassegna le vecchie facce, cercando di capire chi frequentasse chi e quanto gli equilibri di potere fossero cambiati. Mason, seduto con un gruppo di novizi, si accorse del mio sguardo, e gli sorrisi. Vicino a lui sedeva un gruppo di Moroi di casata reale che se la rideva di qualcosa. Aaron e la ragazza bionda erano con loro. «Ehi Natalie» dissi, voltandomi e interrompendola. Lei non se la prese o non sembrò farci caso. «Chi è la nuova ragazza di Aaron?» «Mmh? Oh. Mia Rinaldi.» Notando la mia espressione vacua, mi chiese: «Non te la ricordi?» «Dovrei? Era già qui quando ce ne siamo andate?» «È sempre stata qui» disse Natalie. «Ha solo un anno meno di noi.» Scoccai un'occhiata interrogativa a Lissa, che si limitò ad alzare le spalle. «Perché ce l'ha tanto con noi?» chiesi. «Non la conosciamo.» «Non so» rispose Natalie. «Magari è gelosa di Aaron. Quando voi ve ne siete andate, in pratica lei non era nessuno. È diventata molto popolare molto in fretta. Non è di casata reale o cose del

genere, ma quando ha iniziato a uscire con Aaron, lei...» «Okay, grazie» la interruppi. «Non c'è davvero...» Spostai lo sguardo dal viso di Natalie a quello di Jesse Zeklos, che stava sfilando accanto al nostro tavolo. Ah, Jesse. L'avevo dimenticato. Mi piaceva flirtare con Mason e con qualcuno degli altri novizi, ma Jesse era diverso. Si flirtava con gli altri ragazzi solo per il gusto di flirtare. Con Jesse, invece, nella speranza di ritrovarsi mezza nuda. Era un Moroi reale, ed era così fantastico che avrebbe dovuto indossare un cartello ATTENZIONE: INFIAMMABILE. Incrociò il mio sguardo e mi rivolse un ampio sorriso. «Ehi, Rose, ben tornata. Vai ancora in giro a spezzare cuori?» «Vorresti offrirti volontario?» Il suo ghigno si allargò. «Usciamo insieme qualche volta e scopriamolo. Se mai ti daranno la libertà condizionata.» Continuò a camminare, e io lo guardai ammirata. Natalie e i suoi amici mi fissavano con soggezione. Potevo anche non essere un dio nel modo in cui lo era Dimitri, ma per questa cricca, Lissa e io eravamo divinità, o almeno ex-divinità, di altra natura. «Oh mio Dio!» esclamò una ragazza. Non ricordavo il suo nome. «Quello era fesse.» «Sì» dissi io, sorridendo. «Era proprio lui.» «Vorrei somigliarti» aggiunse lei con un sospiro. I loro sguardi ricaddero su di me. Tecnicamente, ero una mezza-Moroi, ma il mio aspetto era umano. Durante il nostro periodo lontano da lì, mi ero mimetizzata bene tra gli esseri umani, così bene da non aver quasi mai pensato alle mie sembianze. Qui, tra le Moroi magre dai seni minuscoli, alcune mie fattezze, tipo i miei seni più prosperosi e i miei fianchi più definiti, si facevano notare. Sapevo di essere carina, ma per i ragazzi Moroi il mio corpo era molto più che carino: era sexy in modo provocante. Le dhampir erano una conquista esotica, una novità che tutti i ragazzi Moroi volevano "provare". Faceva un po' sorridere il fatto che le dhampir esercitassero un tale fascino, visto che le snelle ragazze Moroi somigliavano davvero molto alle magrissime supermodelle da sfilata così di moda nel mondo degli umani. La maggior parte delle umane non avrebbe mai raggiunto quell'"ideale" di magrezza, proprio come le ragazze Moroi non avrebbero mai avuto un aspetto come il mio. Tutti volevano ciò che non potevano avere. Lissa e io ci sedemmo vicine durante le lezioni del pomeriggio che avevamo in comune, ma non parlammo molto. Gli sguardi a cui aveva accennato ci seguivano, ma scoprii che più parlavo con le persone, più loro si entusiasmavano. Piano piano, per gradi, sembrarono ricordare chi eravamo, e la novità, anche se non il fascino, della nostra folle impresa si esaurì. O forse dovrei dire che ricordavano chi fossi io. Perché ero io l'unica a parlare. Lissa teneva lo sguardo fisso, ascoltava, ma senza sostenere o condividere i miei tentativi di conversazione. Potevo percepire l'ansia e la tristezza che traboccavano da lei. «Molto bene» le dissi alla fine delle lezioni. Eravamo fuori dalla scuola, e mi rendevo benissimo conto che, a essere lì, stavo già violando i termini dell'accordo con la Kirova. «Non rimarremo qui» le dissi perlustrando il campus con lo sguardo, a disagio. «Troverò il modo di farci uscire.» «Pensi davvero che riusciremo a farlo di nuovo?» chiese Lissa pacatamente. «Di sicuro.» Le parlai con determinazione, ancora una volta felice che non potesse leggere i miei sentimenti. Scappare la prima volta era già stato abbastanza complicato. Di certo farlo di nuovo sarebbe stata una vera faticaccia, e non avevo ancora trovato un modo. «Lo rifaresti davvero, non è così?» Sorrise, più a se stessa che a me, come se avesse pensato a

qualcosa di divertente. «Certo che lo rifaresti. Solo che, be'...» Sospirò. «Non so se dovremmo andarcene. Forse, forse dovremmo rimanere.» Strabuzzai gli occhi, incredula. «Cosa?» Non era certo una delle mie repliche più eloquenti, ma era il meglio che fossi riuscita a trovare. Non me lo sarei mai aspettato da lei. «Ti ho visto, Rose. Ti ho visto parlare con gli altri novizi durante le lezioni, parlare dell'addestramento. Ti manca.» «Non ha importanza» dissi. «Non se... non se tu...» Non riuscii a finire la frase, ma aveva ragione. Aveva capito. Gli altri novizi mi erano mancati. Addirittura anche qualcuno dei Moroi. Ma c'era di più, oltre a questo. Il peso della mia inesperienza, tutto ciò in cui ero rimasta indietro, cresceva giorno dopo giorno. «Magari andrà meglio» si oppose lei. «È un po' che non... sai, quelle cose. Non ho più avuto la sensazione che qualcuno ci seguisse o ci tenesse d'occhio.» A quelle parole tacqui. Prima di lasciare l'Accademia aveva sempre avuto la sensazione che qualcuno la seguisse, come se le stessero dando la caccia. Non avevo mai trovato prove che supportassero le sue parole, ma una delle insegnanti ripeteva in continuazione storie del genere. La signora Karp. Era una Moroi molto carina, con i capelli di un intenso color oro e gli zigomi pronunciati. Ed ero piuttosto sicura che fosse completamente pazza. «Non si può mai sapere chi vi sta osservando» diceva sempre, attraversando con passo svelto l'aula mentre chiudeva le veneziane. «O chi vi segue. Meglio essere prudenti. Meglio essere sempre prudenti.» Noi ci avevamo riso su, perché gli studenti fanno così con gli insegnanti eccentrici e paranoici. Il pensiero che Lissa si comportasse come lei mi turbava. «Che c'è che non va?» chiese Lissa, accorgendosi che ero assorta nei miei pensieri. «Eh? Niente. Pensavo.» Sospirai, cercando di trovare un equilibrio tra i miei bisogni e ciò che era meglio per lei. «Lissa, possiamo rimanere, credo... ma a certe condizioni.» Questo la fece ridere. «Un ultimatum alla Rose, eh?» «Dico sul serio.» Non la feci troppo lunga. «Voglio che tu ti tenga alla larga dai reali. Non da Natalie o quelli come lei... sai cosa intendo. Gli altri. I pezzi grossi. Camille. Carly. Quella cricca.» Il suo divertimento si tramutò in incredulità. «Dici sul serio?» «Certo. Del resto, non ti sono mai piaciuti.» «A te sì.» «No. Non davvero. Mi piaceva quello che avevano da offrirmi. Le feste e le altre sciocchezze.» «E adesso puoi farne a meno?» Aveva l'aria scettica. «Sicuro. L'abbiamo fatto a Portland.» «Già, ma era diverso.» Il suo sguardo corse lontano, senza mettere a fuoco nulla in particolare. «Qui... qui io devo farne parte. Non posso evitarlo.» «Certo che puoi, maledizione! Natalie sta alla larga da quella roba.» «Natalie non erediterà il titolo della sua famiglia» ribatté lei. «Io l'ho già fatto. Io devo lasciarmi coinvolgere, iniziare a stringere legami. Andre...» «Liss» gemetti. «Tu non sei Andre.» Non riuscivo a credere che si stesse ancora paragonando al fratello. «Si è sempre lasciato coinvolgere in questo genere di cose.» «Sì» ribattei io, dura, «ma lui è morto ormai.»

Si irrigidì. «Sai, a volte non sei per niente gentile.» «Tu non mi vuoi intorno perché sia gentile. Se vuoi qualcuno di gentile, qui dentro ci sono una dozzina di pecoroni che si sgozzerebbero a vicenda pur di ingraziarsi la principessa Dragomir. Tu mi vuoi intorno perché ti dica la verità, quindi eccola: Andre è morto. Ora sei tu l'erede, e in un modo o nell'altro dovrai affrontare la cosa. Ma per il momento ciò significa stare alla larga dagli altri reali. Dovremo tenere un profilo basso. Barcamenarci. Fatti coinvolgere ancora in quel genere di cose, Liss, e finirai per diventare...» «Pazza?» aggiunse lei, quando non conclusi la frase. Adesso fui io a distogliere lo sguardo. «Non volevo...» «È tutto a posto» disse dopo un istante. Sospirò e mi toccò il braccio. «Molto bene. Rimarremo, e ci terremo alla larga da tutta quella roba. Ci "barcameneremo" come vuoi tu. Frequenteremo Natalie, suppongo.» A essere onesta, io non volevo niente del genere. Io volevo andare a tutte le feste dei reali e a tutte le serate alcoliche, proprio come facevamo prima. Ci eravamo tenute alla larga da quella vita per anni, finché i genitori e il fratello di Lissa non erano morti. Sarebbe toccato ad Andre ereditare il titolo della famiglia, e lui si era sempre comportato di conseguenza. Affascinante e socievole, incantava chiunque conoscesse ed era stato a capo di tutte le combriccole e dei club reali che esistevano nel campus. Dopo la sua morte, Lissa aveva sentito come un dovere di famiglia quello di prendere il suo posto. Io mi ero lasciata convincere a entrare a far parte di quel mondo insieme a lei. Per me era stato facile, perché non avevo dovuto preoccuparmi dei giochi di potere. Ero una dhampir carina, una che non si faceva problemi a finire nei guai e a combinarne di grosse. Ero una novità; era un divertimento per loro avermi intorno. Lissa aveva dovuto affrontare altre questioni. I Dragomir erano una delle dodici casate regnanti. Lei godeva di una posizione di grande potere nella società Moroi, e gli altri giovani Moroi volevano ingraziarsela. I più falsi avevano cercato di stringere amicizia e di fare comunella con lei mettendosi contro altri. I reali sapevano lusingarti e pugnalarti nel tempo dello stesso respiro, tutto fra loro. Con i dhampir e i Moroi non reali, erano assolutamente imprevedibili. Alla fine Lissa era stata costretta a pagare lo scotto di queste spietate usanze. Lei aveva una natura aperta, gentile, un modo di essere che amavo, e odiavo vederla sconvolta e stressata dai giochetti reali. Dall'incidente si era fatta sempre più fragile, e nemmeno per tutte le feste del mondo sarebbe mai valsa la pena di vederla soffrire. «Allora va bene» dissi alla fine. «Rimarremo e vedremo come va. Se qualcosa andrà storto, qualunque cosa, ce ne andremo. Non voglio sentire ragioni.» Annuì. «Rose?» Sollevammo tutte e due lo sguardo verso l'incombente sagoma di Dimitri. Sperai che non avesse sentito la parte riguardante noi che ce ne andavamo. «Sei in ritardo per gli allenamenti» disse in tono pacato. Alla vista di Lissa fece un cenno di cortesia con il capo. «Principessa.» Ci allontanammo, ma il pensiero di Lissa mi tormentava, e mi domandai se rimanere fosse davvero la cosa giusta da fare. Attraverso il legame non percepivo nulla di allarmante, ma le sue emozioni erano in completo subbuglio. Confusione. Nostalgia. Paura. Aspettativa. Intense e poderose, si riversarono dentro di me. Avvertii lo strattone poco prima che arrivasse. Accadde proprio come sull'aereo: le sue emozioni si intensificarono al punto da "risucchiarmi" nella sua mente prima che potessi impedirlo. Adesso

potevo vedere e sentire ciò che vedeva e sentiva lei. Si aggirava lentamente per i corridoi, diretta alla piccola cappella ortodossa russa che soddisfaceva larga parte dei bisogni religiosi della scuola. Lissa era sempre andata a messa con regolarità. Io no. Tra me e Dio vigeva un accordo: io accettavo di credere in lui, a stento, finché lui mi lasciava dormire ogni domenica. Tuttavia, mentre varcava la soglia, potei percepire che Lissa non si trovava lì per pregare. Aveva un'altra intenzione, di cui non sapevo nulla. Guardandosi attorno si accertò che nelle vicinanze non ci fossero né il prete né altri fedeli. Il posto era deserto. Scivolando attraverso una porta sul retro della cappella salì una rampa di gradini scricchiolanti fino a una soffitta. Era buia e polverosa. L'unica luce proveniva da una vetrata colorata che spezzava il fiacco barlume dell'alba in gemme minuscole, multicolori, sparse per terra. Non avevo mai saputo che questo posto fosse un rifugio abituale per lei. Ma adesso riuscivo a percepirlo, percepivo i ricordi di come fosse solita rintanarsi lì per rimanere sola e pensare. La sua ansia si placava un po' quando entrava in un ambiente familiare. Si arrampicò per sedersi sotto la vetrata, e vi poggiò contro la nuca, per un attimo rapita dal silenzio e dalla luce. A differenza degli Strigoi, i Moroi potevano tollerare la luce del sole, ma dovevano limitare l'esposizione. Seduta là, Lissa poteva quasi fingere di non essere immersa nel sole, protetta dalla schermatura che il vetro opponeva ai raggi. Respira, devi solo respirare, si disse. Andrà tutto bene. Rose si occuperà di tutto. Ci credeva con tutta se stessa, come sempre, e si rilassò ancora di più. Poi una voce si levò dall'oscurità. «Puoi tenerti l'Accademia, ma non il posto sotto la vetrata.» Lei balzò in piedi, il cuore che le martellava. Condivisi la sua angoscia, e anche il mio battito accelerò. «Chi è?» Un attimo dopo, una sagoma emerse da dietro una pila di casse, appena al di fuori del suo campo visivo. La figura fece un passo avanti, e in quella misera luce ecco materializzarsi delle sembianze familiari. Un groviglio di capelli neri. Occhi di un azzurro pallido. Un sorrisetto perpetuamente sardonico. Christian Ozera. «Non preoccuparti» disse. «Non ti morderò. Be', almeno non nel modo che temi.» Rise della sua stessa battuta. Lissa non la trovò divertente. Si era del tutto dimenticata di Christian. Io avevo fatto lo stesso. Nel nostro mondo, al di là di ciò che poteva accadere, alcune verità fondamentali sui vampiri rimanevano immutabili. I Moroi erano vivi; gli Strigoi erano non-morti. I Moroi erano mortali; gli Strigoi erano immortali. Moroi si nasceva; Strigoi si diventava. E c'erano due modi per diventare Strigoi. Uno Strigoi poteva trasformare con la forza un essere umano, un dhampir o un Moroi, con un singolo morso. I Moroi tentati dalla promessa dell'immortalità potevano diventare Strigoi per scelta, se per loro stessa volontà uccidevano una persona nutrendosene. Farlo veniva considerato sinistro e snaturato, il più grande dei peccati, sia contro il modo di vivere dei Moroi sia contro la natura stessa. I Moroi che sceglievano il sentiero oscuro perdevano la capacità di mantenere un contatto con la magia degli elementi naturali e con gli altri poteri del mondo. Era questa la ragione per cui non potevano più esporsi al sole. Questo era ciò che era successo ai genitori di Christian. Erano Strigoi.

O meglio, erano stati Strigoi. Un esercito di guardiani aveva dato loro la caccia e li aveva uccisi. Se quello che si diceva in giro era la verità, Christian aveva assistito a tutto quando ancora era molto piccolo. E anche se lui non era uno Strigoi, qualcuno pensava che non fosse lontano dal diventarlo, visto il consueto abbigliamento nero e quello starsene sempre sulle sue. Strigoi o meno, io non mi fidavo di lui. Era sempre stato un idiota, e in silenzio gridai a Lissa di uscire di lì. Non che il fatto di gridare potesse sortire qualche effetto, però. Stupido legame a senso unico. «Che ci fai qui?» gli chiese. «Un giro turistico, mi pare ovvio. La sedia ricoperta di tela impermeabile è deliziosa in questo periodo dell'anno. Quassù abbiamo un vecchio baule zeppo di scritti sul beato e folle san Vladimir. E non dimentichiamoci del meraviglioso tavolo senza gambe laggiù nell'angolo.» «Sì, certo.» Lissa roteò gli occhi e si avviò alla porta, con l'intenzione di andarsene, ma lui le sbarrò la strada. «Be', che mi dici di te?» La provocò. «Perché sei quassù? Non hai feste a cui partecipare o vite da rovinare?» Un barlume della vecchia Lissa si riaccese. «Wow. Questa sì che è divertente. Cos'è, adesso sono diventata una specie di rituale di passaggio? Dimostra quanto sei tosto rompendo le palle a Lissa? Oggi una tizia che non ho mai conosciuto mi ha sbraitato contro, e ora devo vedermela con te? Ma cosa si deve fare per poter stare un po' da soli?» «Oh. Quindi è per questo che sei qui. Per una festicciola d'autocommiserazione.» «Questo non è uno scherzo. Dico sul serio.» Riuscivo a sentire l'irritazione di Lissa che cominciava a salire. Stava avendo la meglio sull'afflizione di poco prima. Lui si strinse nelle spalle e si appoggiò con disinvoltura contro la parete a spiovente. «Anch'io. Adoro le feste in cui ci si piange addosso. Vorrei aver portato i cappellini. Per cosa ti vuoi deprimere prima? Del fatto che ti ci vorrà una giornata intera per tornare a essere popolare e adorata? Di come dovrai aspettare un paio di settimane prima che la Hollister ti spedisca dei nuovi vestiti? Se paghi per una consegna urgente, potrebbero non metterci molto.» «Lasciami andare» disse lei con rabbia, questa volta spingendolo di lato. «Aspetta» disse lui mentre Lissa raggiungeva la porta. Il sarcasmo scomparve dalla sua voce. «Che... mmh, che effetto fa?» «Che effetto fa cosa?» «Essere là fuori. Lontano dall'Accademia.» Ebbe un attimo di esitazione prima di rispondere, presa alla sprovvista da quello che aveva tutta l'aria di essere un autentico tentativo di fare conversazione. «È stato grandioso. Nessuno sapeva chi fossi. Ero soltanto un'altra faccia. Non ero una Moroi. Non appartenevo a una casata reale. Niente di niente.» Volse lo sguardo a terra. «Qui tutti pensano di sapere chi sono.» «Già. È difficile sfuggire al proprio passato.»

In quell'istante a Lissa venne in mente, e di conseguenza in automatico anche a me, di quanto doveva essere dura per Christian. Il più delle volte le persone lo trattavano come se non esistesse. Come se fosse un fantasma. Non parlavano con o di lui. Si limitavano a non accorgersene. L'onta del crimine dei suoi genitori era troppo pesante, proiettava la propria ombra sull'intera famiglia Ozera. Tuttavia Christian l'aveva fatta arrabbiare, e Lissa non era ancora disposta a dispiacersi per lui. «Aspetta: adesso è diventata la tua festicciola di autocommiserazione?» Lui rise, quasi in segno di approvazione. «Questo posto mi è servito per festeggiare la mia autocommiserazione per un anno.» «Mi dispiace» disse Lissa, stizzita. «Ci venivo prima di andarmene. Posso rivendicarne l'usufrutto da prima di te.» «Una questione di diritto tra occupanti abusivi. Senza contare che io devo assicurarmi di rimanere nelle vicinanze della cappella quanto più possibile, in modo che le persone sappiano che non mi sono trasformato in uno Strigoi... non ancora.» L'asprezza era tornata. «Ti ho sempre visto venire a messa. Ci vai solo per questo? Per dare una buona impressione?» Gli Strigoi non potevano entrare in un luogo consacrato. Sempre per la questione del peccarecontro-il-mondo. «Certo» disse. «Perché sennò? Per la salvezza dell'anima?» «Come ti pare» disse Lissa, che evidentemente aveva un'altra opinione. «Allora ti lascio solo.» «Aspetta» ribatté lui. Sembrava volerla trattenere. «Facciamo un patto. Potrai venire qui se mi dici una cosa.» «Di che si tratta?» Christian si chinò in avanti. «Di tutte le voci che ho sentito su di te oggi... e credimi, ne ho sentite parecchie, anche se nessuno me le ha riferite di persona, a dire il vero... c'è una cosa che non è venuta fuori spesso. Hanno dissezionato tutto il resto: perché te ne sei andata, perché sei tornata, la tua specializzazione, ciò che Rose ha detto a Mia, bla, bla, bla. Ma in tutto questo, nessuno ha messo in dubbio la stupida storiella che Rose ha raccontato su quegli umani emarginati che ti lasciavano bere il loro sangue.» Lissa distolse lo sguardo, e potei percepire le sue guance avvampare. «Non è una stupidaggine. E neppure una storiella.» Christian ridacchiò. «Ho vissuto tra gli esseri umani. Mia zia e io siamo stati via per un po' dopo che i miei genitori sono... morti. Non è così facile trovare del sangue.» Quando lei non rispose, lui rise di nuovo. «È stata Rose, non è così? Lei ti ha nutrito.» La paura ci percorse di nuovo tutte e due. A scuola nessuno avrebbe dovuto saperlo. Lo sapevano la Kirova e i guardiani arrivati sulla scena del crimine, ma tenevano la notizia per sé. «Be'. Se questa non è amicizia, allora non so proprio cosa sia» disse lui. «Non devi dirlo a nessuno» sbottò Lissa. Ci mancava solo questa. Come mi era stato appena ricordato, i donatori erano dipendenti dal morso dei vampiri; noi lo accettavamo come un aspetto della vita, e continuavamo lo stesso a guardarli dall'alto in basso. Per quanto riguardava gli altri - specialmente per una dhampir - lasciare che un Moroi bevesse il proprio sangue era quasi, be', osceno. E infatti, una delle cose più assurde, in pratica pornografiche, che una dhampir poteva fare era lasciare che un Moroi bevesse il suo sangue mentre facevano sesso. Lissa e io non avevamo fatto sesso, ovviamente, ma tutte e due sapevamo bene cosa gli altri

avrebbero pensato di me che la nutrivo. «Non dirlo a nessuno» ripeté Lissa. Lui affondò le mani nelle tasche del cappotto e si sedette su una delle casse. «E a chi dovrei dirlo? Senti, siediti pure alla finestra. Oggi puoi farlo e puoi anche rimanere per un po'. Sempre se non hai paura di me.» Lei esitò, studiandolo. Aveva un'aria cupa e scontrosa, le labbra arricciate in un sorrisetto da quanto-sono-ribelle. Ma non sembrava tanto pericoloso. Non sembrava uno Strigoi. Con circospezione, Lissa tornò a sedersi alla finestra, e senza accorgersene si strofinò le braccia per il freddo. Christian la osservò, e un attimo dopo l'aria si riscaldò parecchio. Lissa guardò gli occhi di Christian e sorrise, sorpresa del fatto di non aver mai notato prima quanto glaciale fosse il loro azzurro. «Ti sei specializzato nel fuoco?» Lui annuì e prese una sedia rotta. «Ora abbiamo una sistemazione con tutte le comodità.» Tutto a un tratto riemersi dalla visione. «Rose? Rose?» Strizzando gli occhi misi a fuoco il volto di Dimitri. Era chino su di me, le mani mi tenevano per le spalle. Avevo smesso di camminare; eravamo al centro del cortile che separava gli edifici delle classi superiori. «Stai bene?» «Io... sì. Ero... ero con Lissa...» Mi misi una mano sulla fronte. Non avevo mai avuto un'esperienza così lunga e nitida. «Ero nella sua mente.» «La sua... mente?» «Già. Fa parte del legame.» Non me la sentivo davvero di approfondire. «Lei sta bene?» «Sì, sta...» Esitai. Stava bene? Christian Ozera l'aveva appena invitata a rimanere con lui. Per niente bene. Da un lato c'era il "barcamenarsi", e dall'altro l'avvicinarsi al lato oscuro. Ma le sensazioni che si agitavano giungendo a me attraverso il legame non erano più di paura o turbamento. Lissa era quasi contenta, anche se ancora un po' nervosa. «Non è in pericolo» dissi alla fine. Sperai che fosse così. «Ce la fai a continuare?» Il duro, stoico guerriero che avevo incontrato poco prima svanì, solo per un istante, e mi diede l'impressione di essere davvero preoccupato. Sinceramente preoccupato. Sentirmi i suoi occhi addosso mi mise in subbuglio. Era una cosa stupida, ovviamente. Non avevo motivo di fare la smorfiosa solo perché quel tipo era molto ma molto carino. Dopotutto, a sentire Mason, era una divinità asociale. Uno che, con ogni probabilità, mi avrebbe solo fatto soffrire. «Sì, sto bene.» Andai nello spogliatoio della palestra e mi infilai la tenuta da allenamento che qualcuno finalmente aveva pensato di procurarmi dopo una giornata di addestramenti in jeans e T-shirt. Disgustoso. L'idea di Lissa che si vedeva con Christian mi infastidiva, ma rimandai quel pensiero a dopo, mentre i muscoli mi informavano che per quel giorno non volevano più saperne di allenarsi. Così suggerii a Dimitri che forse avrebbe dovuto lasciarmi libera per quella volta. Lui si fece una risata, ed ero piuttosto certa del fatto che ridesse di me, e non con me. «Che c'è di tanto divertente?»

«Oh» disse lui mettendo da parte il sorriso. «Dicevi sul serio.» «Certo che dicevo sul serio. Ascolta, tecnicamente sono sveglia da due giorni. Che bisogno c'è di iniziare questi allenamenti adesso? Lasciami andare a dormire» mi lagnai. «È soltanto un'ora.» Incrociò le braccia e mi squadrò da capo a piedi. L'apprensione di poco prima era svanita. Adesso era tutto preso dai suoi doveri. Faceva il cuore di pietra. «Come ti senti adesso? Dopo l'allenamento fatto finora?» «Ho un male del diavolo.» «Domani andrà peggio.» «E quindi?» «Quindi è meglio che ti butti a capofitto quando ancora non senti... troppo male.» «Ma che razza di logica è, questa?» ribattei. Mentre mi faceva strada verso la sala attrezzi, però, smisi di protestare. Mi mostrò quanti pesi e quanti esercizi voleva da me, poi si buttò in un angolo, come in un logoro romanzo western. Che divinità. Quando ebbi terminato, Dimitri si mise accanto a me e mi mostrò qualche esercizio di raffreddamento e di stretching. «Come sei finito a fare il guardiano di Lissa?» chiesi. «Qualche anno fa non c'eri. Non sei neppure stato addestrato in questa scuola, no?» Non rispose subito. Ebbi la sensazione che non parlasse di sé molto di frequente. «No. Ne ho frequentata una in Siberia.» «Wow. Dev'essere l'unico posto peggiore del Montana.» Una scintilla di qualcosa, forse divertimento, gli brillò negli occhi, ma non mi diede alcuna soddisfazione. «Dopo il diploma sono stato il guardiano di un lord degli Zeklos. L'hanno ucciso di recente.» Il suo sorriso si spense, il suo volto si fece scuro. «Mi hanno mandato qui perché avevano bisogno di rinforzi per il campus. Quando è arrivata la principessa mi hanno assegnato a lei, visto che ero già qui. Non che questo abbia qualche importanza, fino a quando non lascerà il campus.» Pensai a quello che aveva detto prima. Uno Strigoi aveva ucciso il tizio a cui lui doveva fare da guardiano? «Ma questo lord è morto durante il tuo turno?» «No. Era con l'altro guardiano. Io non c'ero.» Tacque, la mente chiaramente altrove. I Moroi si aspettavano molto da noi, ma erano consapevoli del fatto che i guardiani erano solo, più o meno, esseri umani. E così, proprio come succedeva in ogni altra professione, i guardiani ricevevano uno stipendio e avevano del tempo libero. Qualche guardiano esaltato, tipo mia madre, rifiutava qualunque vacanza, consacrando la propria vita a restare sempre al fianco del proprio Moroi. Nel guardare Dimitri adesso, ebbi la sensazione che sarebbe potuto diventare uno di questi. Se si era allontanato per una licenza legittima, difficilmente poteva darsi la colpa per quello che era successo. Ma con ogni probabilità lo faceva lo stesso. Anch'io me la sarei presa con me stessa se fosse mai successo qualcosa a Lissa. «Ehi» dissi, avvertendo tutto a un tratto l'impulso di tirarlo su di morale, «li hai aiutati tu a elaborare un piano per riportarci qui? Perché non è stato niente male. La forza bruta e tutto il resto.» Inarcò un solo sopracciglio, con un'espressione curiosa. Grande! Avevo sempre desiderato di saperlo fare. «Per caso mi stai facendo i complimenti?» «Be', è stato di gran lunga meglio dell'ultima volta che ci hanno provato.» «L'ultima?»

«Già. A Chicago. Con il branco di psico-segugi.» «Era la prima volta che riuscivamo a rintracciarvi. A Portland.» Mi rimisi seduta dopo gli allungamenti e incrociai le gambe. «Mmh, non penso di essermi immaginata gli psico-segugi. Chi altro avrebbe potuto mandarli? L'unica risposta sono i Moroi. Magari nessuno te ne ha parlato.» «Forse» disse lui tagliando corto. Dalla sua espressione capii che non ci credeva. Dopodiché tornai al dormitorio dei novizi. Gli studenti Moroi vivevano dall'altra parte del cortile, vicino alla mensa. La disposizione degli alloggi era in parte dovuta a ragioni di praticità. Collocarci lì faceva in modo che noi novizi fossimo più vicini alla palestra e ai campi sportivi. Ma vivevamo separati anche per rispettare i diversi stili di vita di Moroi e dhampir. Il loro dormitorio aveva poche finestre, oscurate per attenuare la luce del sole. E poi c'era anche una zona speciale, con donatori sempre a disposizione. Il dormitorio dei novizi era più arioso, per assicurare più luce. Avevo una camera tutta per me perché c'erano pochi novizi, e ancora meno donne. La stanza che mi avevano assegnato era piccola e spoglia, con due letti e una scrivania con un computer. Le mie poche cose erano state portate via di nascosto da Portland e adesso erano abbandonate in scatole sparse per la stanza. Vi rovistai per tirar fuori una maglietta con cui dormire. Scovai anche un paio di foto, una di Lissa e me durante una partita di football a Portland, l'altra scattata mentre ero in vacanza con la sua famiglia, un anno prima dell'incidente. Le appoggiai sulla scrivania e accesi il computer. Qualcuno dell'assistenza tecnica mi aveva utilmente lasciato un foglio con le istruzioni per rinnovare il mio account e-mail e per inserire una password. Eseguii tutte e due le operazioni, felice di scoprire che nessuno si fosse reso conto di quanto utile sarebbe stato per poter comunicare con Lissa. Troppo stanca per scriverle in quel momento, ero sul punto di spegnere quando mi resi conto di avere già un messaggio. Da Janine Hathaway. Era conciso: Mi fa piacere che tu sia tornata. Hai fatto una cosa imperdonabile. «Ti voglio bene anch'io, mamma» borbottai, spegnendo tutto. Quando mi infilai a letto, mi addormentai prima ancora di aver toccato il cuscino e, proprio come aveva previsto Dimitri, quando mi svegliai la mattina dopo mi sentivo dieci volte peggio. Distesa nel letto riconsiderai i vantaggi di una fuga. Poi mi ricordai di come me le ero fatte suonare, e riflettei sul fatto che l'unico modo per impedire che succedesse di nuovo fosse tener duro quella mattina. La sofferenza fisica rese tutto peggiore, ma sopravvissi all'allenamento pre-scuola con Dimitri e alle lezioni successive senza perdere i sensi o perdermi d'animo. A pranzo trascinai via Lissa dal tavolo di Natalie molto presto e le feci una ramanzina degna della Kirova a proposito di Christian, criticandola duramente soprattutto per avergli svelato il nostro patto di sangue. Se si fosse venuto a sapere, la cosa ci avrebbe ucciso dal punto di vista sociale, e io non avevo alcuna fiducia nel fatto che Christian non lo raccontasse in giro. Lissa aveva altre preoccupazioni. «Sei stata nella mia testa di nuovo?» esclamò. «Così a lungo?» «Non l'ho fatto apposta» risposi io. «È successo e basta. E non è questo il punto. Quanto tempo sei rimasta con lui, dopo?» «Non tanto. In un certo senso è stato... divertente.» «Bene, non puoi rifarlo. Se si venisse a sapere che te la fai con lui, ti crocifiggerebbero.» La guardai con circospezione. «Non è che, come dire, ti piace, no?» Si prese gioco di me. «No, certo che no.»

«Perfetto. Perché se hai intenzione di correre dietro a qualche ragazzo, allora riprenditi Aaron.» Era noioso, certo, ma innocuo. Proprio come Natalie. Com'è che le persone inoffensive sono sempre così patetiche? Forse era questa, la definizione di innocuo. Lissa rise. «Mia mi caverebbe gli occhi.» «Possiamo sbarazzarci di lei. E poi Aaron merita qualcosa di meglio di una che fa shopping nel reparto bambini di Gap.» «Rose, devi smetterla di dire cose del genere.» «Dico solo quello che tu non diresti mai.» «Ha solo un anno in meno» disse Lissa. Si fece una risata. «Non riesco a credere che tu stia pensando che sarò io quella che ci farà finire nei guai.» Sorridendo mentre ci trascinavamo verso la classe, la guardai di sbieco. «Però Aaron è ancora piuttosto carino, no?» Ricambiò il mio sorriso ed evitò i miei occhi. «Sì. Piuttosto carino.» «Oh. Vedi? Dovresti fargli la corte.» «Sì, certo. A me va bene se siamo amici, adesso.» «Amici che una volta si ficcavano la lingua in bocca a vicenda.» Roteò gli occhi. «D'accordo.» Misi da parte l'ironia. «Lasciamo che Aaron rimanga all'asilo nido. Ma tu fai altrettanto: tieniti alla larga da Christian. È pericoloso.» «Stai esagerando. Non diventerà uno Strigoi.» «Ha una pessima influenza.» Rise. «Pensi che io corra il pericolo di diventare una Strigoi?» Non restò ad aspettare la mia risposta; invece mi precedette aprendo la porta della classe di scienze. Ribattei alle sue parole dalla soglia, imbarazzata, e la seguii un attimo dopo. Quando lo feci mi ritrovai ad assistere al potere dei reali in azione. Qualche ragazzo, e qualche ragazza dalla risatina facile che rimaneva a guardare, stavano tormentando un Moroi dall'aria allampanata. Non lo conoscevo molto bene, ma sapevo che era povero e di certo non di casata reale. Un paio dei tormentatori erano conoscitori della magia dell'aria; avevano spazzato via dal suo banco dei fogli e con la corrente d'aria li stavano sparpagliando per tutta l'aula, mentre il ragazzo cercava di riprenderli. Il mio istinto mi diceva di fare qualcosa, magari mollare un ceffone a uno dei conoscitori dell'aria. Ma non potevo permettermi di litigare con chiunque mi desse fastidio, e di certo non con un gruppo di reali, soprattutto quando Lissa doveva restare invisibile ai loro radar. Così mi limitai a scoccare loro un'occhiata di disprezzo mentre mi avviavo al mio banco. Proprio in quel momento, una mano mi afferrò per il braccio. Jesse. «Ehi» dissi con fare scherzoso. Per fortuna non sembrava prendere parte alla sessione di tortura. «Giù le mani dalla mercanzia.» Mi fece un sorriso ma tenne la mano su di me. «Rose, racconta a Paul di quella volta che hai scatenato quella rissa durante la lezione della signora Karp.» Alzai lo sguardo verso di lui, facendogli un sorriso allegro. «Ho scatenato un mucchio di risse durante quel corso.» «Quella col paguro terrestre. E il gerbillo.»

Scoppiai a ridere al ricordo. «Oh, sì. Credo che si trattasse di un criceto. L'ho solo lasciato cadere nel terrario del paguro. E forse erano tutti e due così su di giri per la mia vicinanza che ce l'hanno messa tutta.» Paul, un tipo seduto vicino a un altro di cui ignoravo il nome, ridacchiò. Si era trasferito l'anno scorso, a quanto pareva, e non l'aveva mai sentita. «Chi ha vinto?» Guardai Jesse con piglio interrogativo. «Non ricordo. Tu?» «No. Mi ricordo solo che la Karp ha dato di matto.» Si voltò verso Paul. «Avresti dovuto conoscerla, era del tutto fuori di testa quella. Continuava a ripetere che c'erano persone che la seguivano e dava i numeri per cose senza senso. Era completamente pazza. Girovagava per il campus mentre tutti gli altri dormivano.» Sorrisi a labbra strette, come se lo trovassi divertente. Invece tornai con la mente alla signora Karp, sorpresa di ritrovarmi a pensare a lei per la seconda volta in due giorni. Jesse aveva ragione: quando ancora lavorava all'Accademia la Karp aveva girovagato per il campus un sacco di volte. Incuteva un certo timore. Una volta l'avevo incontrata, senza che me lo aspettassi. Stavo scavalcando la finestra del dormitorio per vedermi con qualcuno. Il coprifuoco era già passato da un pezzo e avremmo dovuto essere tutti nelle nostre camere, profondamente addormentati. Quelle tattiche d'evasione per me erano la normalità; me la cavavo piuttosto bene. Ma quella volta ero caduta. La mia camera era al secondo piano, e avevo perso la presa più o meno a metà strada. Sentendo il suolo avvicinarsi, avevo cercato disperatamente un appiglio per rallentare la caduta. Le pietre ruvide dell'edificio mi avevano scorticato la pelle, provocandomi certi tagli ai quali non feci nemmeno troppo caso tale era la preoccupazione. Avevo sbattuto con violenza sul terreno erboso, di schiena, e mi era mancato il respiro. «Pessima prestazione, Rosemarie. Dovresti stare più attenta. I tuoi istruttori sarebbero molto scontenti.» Sbirciando attraverso il groviglio dei miei capelli avevo intravvisto la signora Karp; mi guardava, un'espressione disorientata sul viso. Nel frattempo, il dolore mi si era diffuso in tutto il corpo. Facendo del mio meglio per ignorarlo, ero riuscita a rimettermi in piedi a fatica. Trovarsi in aula con Karp la Pazza e intorno altri studenti era una cosa; ritrovarsi da sola con lei era tutta un'altra faccenda. Aveva sempre avuto un misterioso, inquieto scintillio negli occhi che mi faceva venire la pelle d'oca. E c'erano anche buone possibilità che stesse per trascinarmi dalla Kirova per una punizione. Ancora più spaventoso. Invece si era limitata a sorridere, e mi aveva afferrato le mani. Da parte mia avevo fatto un passo indietro, ma le avevo permesso di prenderle. Alla vista dei graffi aveva commentato con uno tz. Stringendole più forte, aveva contratto un poco il viso. Un formicolio mi aveva infiammato la pelle, accompagnato da una sorta di piacevole ronzio, e poi le ferite si erano rimarginate. Avevo avuto un momentaneo senso di vertigine. La mia temperatura corporea era schizzata. Il sangue era svanito, così come il dolore all'anca e alla gamba. Annaspando, avevo ritratto le mani di colpo. Mi era capitato di vedere molte pratiche di magia Moroi, ma mai niente del genere. «Che cosa... cos'ha fatto?» Mi aveva sorriso di nuovo in quel suo modo bizzarro. «Torna al dormitorio, Rose. Qui fuori si aggirano creature malvagie. Non si può mai sapere chi ci sta seguendo.» Mi stavo ancora fissando le mani. «Ma...» Avevo risollevato lo sguardo verso di lei e per la prima volta avevo notato le cicatrici ai lati della

fronte. Come incise da profonde unghiate. Lei mi aveva strizzato l'occhio. «Non racconterò di te, se tu non racconterai di me.» Tornai con un balzo al presente, turbata al ricordo di quella strana notte. Jesse, nel frattempo, mi stava parlando di una festa. «Devi liberarti del guinzaglio, stanotte. Andremo in quella radura nel bosco verso le 8 e mezza. Mark ha un po' di erba.» Sospirai triste, il rammarico prendeva il posto del brivido che mi aveva lasciato il ricordo della signora Karp. «Non posso liberarmi da quel guinzaglio. Sono col mio carceriere russo.» Mi lasciò andare il braccio, aveva l'aria delusa, e si fece correre una mano tra i capelli color bronzo. Già. Non poter uscire con lui era davvero un peccato. Avrei dovuto metterci una pezza, un giorno o l'altro. «Non puoi cavartela con la buona condotta?» scherzò lui. Gli feci quello che speravo fosse un sorriso seducente mentre mi mettevo a sedere. «Certo» gli dissi da sopra la spalla. «Se mai riuscissi a fare la brava.»

Anche se mi aveva dato fastidio, il giorno dopo l'incontro tra Lissa e Christian mi diede un'idea. «Ehi, Kirova... ehm, signora Kirova.» Me ne stavo sulla soglia del suo ufficio, senza essermi nemmeno presa il disturbo di fissare un appuntamento. Lei alzò gli occhi da qualche scartoffia, evidentemente seccata. «Sì, signorina Hathaway?» «I miei arresti domiciliari vogliono anche dire che non posso andare in chiesa?» «Chiedo scusa?» «Lei ha detto che devo restare nel dormitorio se non ho lezione o allenamento. Ma che mi dice della chiesa, di domenica? Non penso che sia giusto tenermi lontana dai miei... uhm, bisogni religiosi.» O di privarmi di un'altra opportunità, non importava quanto breve e noiosa, di stare un po' con Lissa. Si spinse gli occhiali su per il naso. «Non sapevo avessi dei bisogni religiosi.» «Ho trovato Gesù mentre ero lontana.» «Ma tua madre non è atea?» chiese in tono scettico. «E con ogni probabilità mio padre è musulmano. Ma io ho trovato la mia strada. E lei non dovrebbe tenermici lontana.» Emise un rumore che pareva una sorta di nitrito. «No, signorina Hathaway, non dovrei. Molto bene. Potrai partecipare alle funzioni domenicali.» La vittoria fu comunque effimera perché, come scoprii qualche giorno più tardi andando a messa, la chiesa era insulsa in tutto e per tutto, proprio come la ricordavo. Ma riuscii a trovare posto accanto a Lissa, il che mi diede la sensazione di averci perlomeno guadagnato qualcosa. Più che altro, mi limitai a osservare le persone. La chiesa era facoltativa per gli studenti, ma con così tante famiglie dell'Europa dell'est c'erano moltissimi cristiani ortodossi orientali che partecipavano alla messa o perché credevano, o perché i genitori li obbligavano. Christian era seduto dalla parte opposta della navata, facendo finta di essere devoto come aveva confessato. Per quanto non mi piacesse, quella sua fede fasulla mi faceva sorridere. Dimitri era seduto in fondo, il viso rigato di ombre, e, come me, non fece la comunione. Aveva un'aria così assorta che mi domandai se avesse mai ascoltato prima d'ora una funzione. Io mi sintonizzavo di tanto in tanto. «Seguire il sentiero di Dio non è mai facile» stava dicendo il sacerdote. «Persino per san Vladimir, il santo patrono di questa scuola, è stato assai difficile. Era così pieno di spirito che le genti spesso si raccoglievano attorno a lui, incantate già solo dal-l'ascoltarlo e dal trovarsi in sua presenza. Così grande era il suo spirito, dicono i testi antichi, che egli era in grado di guarire gli ammalati. Tuttavia, malgrado i suoi doni, molti non lo rispettavano. Si facevano beffe di lui, affermando che fosse fuorviato e smarrito.» Che era un modo gentile per dire che Vladimir era fuori di testa. Lo sapevano tutti. Apparteneva alla ristretta cerchia dei santi Moroi, e quindi al sacerdote piaceva molto parlarne. Prima della nostra partenza avevo già ascoltato la sua storia, più volte. Grandioso. A quanto pareva avrei avuto

un'eternità di domeniche per ascoltarla e riascoltarla. «... e lo stesso vale per Anna baciata dalla tenebra.» Levai il capo di scatto. Era da un po' che non prestavo attenzione, e adesso non avevo la minima idea di ciò di cui il sacerdote stava parlando. Ma quelle parole mi si impressero dentro. Baciata dalla tenebra. Era stata solo questione di un attimo, ma non le avrei più dimenticate. Attesi nella speranza che il sacerdote continuasse, ma era già andato avanti con la messa. La predica era finita. Terminata la funzione, e mentre Lissa si voltava per andarsene, le feci cenno con la testa. «Aspettami. Arrivo subito.» Mi spinsi tra la calca, fino ai primi banchi, dove il sacerdote stava parlando con alcune persone. Aspettai impaziente che finisse. Si trattava di Natalie, che gli stava domandando se ci fossero attività di volontariato da poter svolgere. Agh. Quando ebbe finito se ne andò, salutandomi mentre si allontanava. Vedendomi, il sacerdote sollevò le sopracciglia. «Ciao, Rose. E bello rivederti.» «Già... anche per me» dissi. «L'ho sentita parlare di Anna. Di come fosse stata "baciata dalla tenebra". Cosa significa?» Corrugò la fronte. «Non ne sono del tutto certo. È vissuta molto tempo fa. È piuttosto comune riferirsi alle persone con appellativi che riflettono certe loro caratteristiche. Potrebbe esserle stato dato per farla sembrare più feroce.» Cercai di nascondere il mio disappunto. «Oh. E quindi chi era?» Questa volta si accigliò, piuttosto contrariato che meditabondo. «Ne ho parlato tantissime volte.» «Oh. Devo, uhm, essermele perse.» La sua disapprovazione crebbe; si voltò. «Aspetta un momento.» Scomparve dietro una porta accanto all'altare, quella che Lissa aveva infilato per andare in soffitta. Presi in considerazione l'idea di svignarmela, ma pensai che Dio potesse fulminarmi. Meno di un minuto più tardi, il sacerdote fece ritorno con un libro. Me lo porse. I Santi Moroi. «Puoi imparare molte cose su di lei, da qui. Quando ti rivedrò la prossima volta, gradirei sentire cos'hai imparato.» Mentre mi allontanavo mi incupii. Grandioso. Compiti a casa dal sacerdote. Sull'ingresso della cappella trovai Lissa che chiacchierava con Aaron. Parlando sorrideva, e le sensazioni che emanava erano di felicità, malgrado non esprimessero alcuna infatuazione. «Stai scherzando» esclamò. Lui scosse la stessa. «No.» Vedendomi arrivare con passo strascicato, si rivolse a me. «Rose, non ci crederai mai. Hai presente Abby Badica? E Xander? I loro guardiani vogliono rassegnare le dimissioni. E sposarsi tra di loro.» Ecco, questo era un pettegolezzo interessante. Uno scandalo, a dire il vero. «Sul serio? Stanno, come dire, per scappare insieme?» Annuì. «Sì. Prenderanno una casa. E poi cercheranno un lavoro tra gli esseri umani, credo.» Scoccai un'occhiata ad Aaron, che con me nei paraggi era diventato improvvisamente timido. «E Abby e Xander come l'hanno presa?» «Bene. Si sentono a disagio. Credono che sia una stupidaggine.» Poi si rese conto della persona con cui stava parlando. «Oh, non volevo...»

«Figurati.» Gli feci un sorriso a labbra strette. «È una stupidaggine.» Wow. Ero scioccata. La parte ribelle di me adorava tutte le storie di persone che "combattevano il sistema". Solo che, in questo caso, loro stavano combattendo il mio, di sistema, quello in cui mi avevano insegnato a credere da tutta la vita. Tra dhampir e Moroi vigeva uno strano accordo. In origine i dhampir erano nati dall'unione tra Moroi ed esseri umani, e sfortunatamente non potevano riprodursi tra di loro, né con gli esseri umani. Era un'assurda questione genetica. Per i muli era lo stesso, mi avevano spiegato, anche se non era un paragone che mi piaceva sentire. Invece, i dhampir e i Moroi potevano avere figli e, attraverso un'altra bizzarria genetica, i loro bambini nascevano come normalissimi dhampir, con metà del patrimonio genetico da esseri umani, e l'altra metà da vampiri. Essendo i Moroi gli unici con cui i dhampir potevano riprodursi, ci si aspettava che noi li frequentassimo e che ci mescolassimo a loro. Nello stesso modo, per noi aveva grande importanza il fatto che i Moroi sopravvivessero. Senza di loro, per noi sarebbe stata la fine. E considerando quanto gli Strigoi amassero togliere di mezzo i Moroi uno dopo l'altro, la loro sopravvivenza era diventata una nostra preoccupazione legittima. Era per questo che si era sviluppato il sistema dei guardiani. Noi dhampir non avevamo poteri magici, ma sapevano distinguerci come grandi combattenti. Grazie al nostro patrimonio genetico vampiresco avevamo ereditato sensi più sviluppati, mentre dai nostri geni umani ci venivano una forza, riflessi e una resistenza migliori. E non eravamo condizionati dal bisogno di sangue né dai problemi con la luce del sole. Di certo non eravamo forti quanto gli Strigoi, ma ci allenavamo duramente, e i guardiani ce la mettevano tutta per proteggere i Moroi. Molti dhampir sentivano che valeva la pena rischiare la propria vita per assicurarsi che la nostra specie potesse ancora generare una prole. Poiché i Moroi di solito volevano procreare e crescere bambini Moroi, non era semplice trovare storie d'amore tra Moroi e dhampir che durassero a lungo. Soprattutto non si trovavano molte donne Moroi disposte a mettersi con i dhampir. Al contrario, c'erano un sacco di giovani Moroi a cui piaceva spassarsela con le dhampir, anche se di solito finivano per sposare le Moroi. Questo lasciava un mucchio di madri dhampir single; ma noi eravamo tipe toste, ed eravamo perfettamente in grado di gestire la cosa. In ogni modo, molte madri dhampir sceglievano di non diventare guardiani proprio per poter crescere i propri figli. Queste donne a volte facevano un lavoro "normale" insieme a Moroi o a esseri umani; alcune di loro invece vivevano in comunità. Queste comunità avevano una pessima reputazione. Non sapevo quanto ci fosse di vero, ma le voci parlavano di Moroi che ci andavano di continuo per fare sesso, e che certe donne dhampir lasciassero bere loro il proprio sangue mentre lo facevano. Le sgualdrine di sangue. Comunque, quasi tutti i guardiani erano uomini, e questo significava che c'erano molti più Moroi che guardiani. La maggior parte dei ragazzi dhampir accettava l'idea di non avere figli. Sapevano che era loro compito proteggere i Moroi, mentre le loro sorelle e le loro cugine avevano bambini. Invece, alcune donne dhampir, come mia madre, credevano che diventare guardiani fosse anche un loro dovere, sebbene questo significasse non crescere i propri figli. Appena nata, mi aveva dato in affidamento affinché fossi cresciuta dai Moroi. Moroi e dhampir iniziavano ad andare a scuola piuttosto presto, e in sostanza l'Accademia aveva sostituito i miei genitori fin da quando avevo quattro anni. Tra l'esempio di mia madre e la vita lì, credevo con tutta me stessa che fosse compito dei dhampir proteggere i Moroi. Era parte della nostra eredità, ed era l'unico modo che avevamo per sopravvivere. Era piuttosto semplice. Quindi quello che aveva fatto il guardiano di Ahby Badica era sconvolgente. Aveva abbandonato il suo Moroi ed era fuggito con un altro guardiano, e ciò significava che lei, a sua volta, aveva

abbandonato la sua Moroi. Non avrebbero potuto avere figli, e adesso due famiglie erano rimaste senza protezione. Qual era il punto? A nessuno importava se i dhampir da ragazzi uscivano insieme, o se da adulti si concedevano qualche scappatella. Ma una relazione a lungo termine? Uno spreco totale. E un disonore. Dopo qualche altra congettura sui Badica, Lissa e io salutammo Aaron. Mentre uscivamo, udii un rumore buffo, come di qualcosa che scivola, e poi qualcosa cadde davvero. Troppo tardi. Mi resi conto di che cosa stava succedendo proprio mentre la massa di neve scivolava giù dal tetto della cappella, sopra di noi. Erano i primi di ottobre, e la notte precedente era caduta una delle prime nevi, che aveva cominciato quasi subito a sciogliersi. Con il risultato che la roba che ci cadde addosso era piuttosto bagnata e decisamente fredda. A Lissa ne toccò la maggior parte, ma anch'io strillai per l'acqua gelata che mi finì sui capelli e nel collo. Anche altri vicino a noi strillarono, colti di sorpresa dal fronte della mini-valanga. «Stai bene?» chiesi a Lissa. Il suo cappotto era fradicio, e i capelli color platino le aderivano ai lati della faccia. «S-sì» disse battendo i denti. Mi tolsi il giaccone e glielo porsi. Aveva una superficie liscia e lucida e aveva respinto quasi tutta l'acqua. «Togliti il tuo.» «Ma tu rimarrai...» «Prendilo.» Lo fece, e mentre se lo infilava, alla fine iniziai a ridere come sempre succede in situazioni del genere. Evitai i suoi occhi, e mi concentrai a reggere il cappotto bagnato di Lissa. «Vorrei che non avessi avuto addosso quel giaccone, Rose» disse Ralf Sarcozy, un Moroi insolitamente corpulento e grassoccio. Lo odiavo. «Quella maglietta ti sarebbe stata bene, bagnata.» «Quella maglietta fa così schifo che la si dovrebbe bruciare. L'hai rubata a un barbone?» Sollevai lo sguardo mentre Mia si avvicinava e prendeva Aaron sottobraccio. I suoi riccioli biondi erano acconciati alla perfezione, e portava un paio di strepitose scarpe nere con il tacco che sarebbero state molto meglio a me. Almeno la facevano sembrare più alta, questo dovevo riconoscerglielo. Aaron si era trovato pochi passi dietro di noi, ma aveva evitato per miracolo la poltiglia di neve. Vedendo quanto Mia sembrava compiaciuta, dedussi che non si era trattato di un miracolo. «Suppongo che tu voglia offrirti volontaria per bruciarla, eh?» chiesi, sforzandomi di non farle capire quando quell'insulto mi irritasse. Sapevo benissimo che il mio gusto nel vestire negli ultimi due anni mi aveva abbandonato. «Oh, no, aspetta... Il fuoco non è il tuo elemento, vero? Tu lavori con l'acqua. Che coincidenza che ce ne sia caduta addosso uno scroscio proprio ora.» Mia aveva l'aria di essere appena stata insultata, ma il bagliore nei suoi occhi lasciava intendere che si stava divertendo un po' troppo per essere un'innocente spettatrice. «E questo cosa vorrebbe dire?» «A me non dice niente. Ma la signora Kirova forse avrebbe qualcosa da ridire se dovesse scoprire che hai usato la magia contro un'altra studentessa.» «Non è stata un'aggressione» si prese gioco di me. «E non sono stata io. È stato un atto di Dio.» Qualche altra risata, per la sua felicità. Nella mia immaginazione, io le rispondevo con un: proprio come questo, e poi la sbattevo contro la parete laterale della chiesa. Nella vita reale, Lissa si limitò a darmi una leggera gomitata e a dirmi: «Andiamo.» Ci incamminammo verso i rispettivi dormitori, lasciandoci alle spalle risate e battutacce su quanto eravamo fradice e su come Lissa non sapesse ancora nulla della propria specializzazione.

Dentro di me, ribollivo. Capii che dovevo fare qualcosa con Mia. E oltre all'irritazione generale dovuta alla sua stronzaggme, non volevo che Lissa dovesse sopportare altro stress oltre a quello con cui già combatteva. La prima settimana eravamo state bene, e volevo che continuasse così. «Sai» dissi, «il pensiero di te che ti riprendi Aaron continua a sembrarmi una buona idea. Darà una bella lezione a quella Bambolina stronza. E scommetto anche che sarà un gioco da ragazzi. Lui è ancora pazzo di te.» «Non voglio dare una lezione a nessuno» disse Lissa. «E io non sono più pazza di lui.» «Avanti, Mia ci provoca e parla male di noi alle nostre spalle. Ieri mi ha accusato di aver preso i jeans dall'Esercito della salvezza.» «I tuoi jeans vengono dall'Esercito della salvezza.» «Be', sì» sbuffai, «ma non aveva alcun diritto di prendermi in giro mentre lei si mette roba di Target.» «Ehi, Target non ha niente che non va. A me piacciono i vestiti di Target.» «Anche a me. Ma non è questo il punto. Sta cercando di far passare la sua roba come autentica Stella McCartney.» «Ed è un crimine?» Misi su un'espressione grave. «Certo. Devi prenderti la tua vendetta.» «Te l'ho detto, la vendetta non mi interessa.» Lissa mi scoccò un'occhiata di traverso. «E non dovresti pensarci neanche tu.» Sorrisi nel modo più innocente che mi riuscì, e quando ci separammo, per l'ennesima volta mi sentii sollevata all'idea che non potesse leggere i miei pensieri. «Allora, a quando la resa dei conti?» Mason era rimasto ad aspettarmi fuori dal dormitorio dopo che avevo salutato Lissa. Appoggiato al muro con le braccia incrociate a guardarmi, sembrava annoiato e carino. «Non so assolutamente di cosa parli.» Si raddrizzò ed entrò con me nell'edificio, porgendomi il suo giaccone, visto che avevo lasciato a Lissa il mio. «Vi ho visto litigare fuori dalla cappella. Non hai rispetto per la casa di Dio?» Sbuffai. «Tu hai più o meno lo stesso rispetto che ho io, ateo che non sei altro. Non ci vai neppure, in chiesa. Senza contare che, come hai detto, eravamo fuori.» «Ma non hai ancora risposto alla mia domanda.» Mi limitai a fargli un largo sorriso e a infilarmi il suo giaccone. Eravamo nell'area comune del dormitorio, un salone ben sorvegliato e una zona studio dove gli studenti e le studentesse potevano stare insieme, in compagnia degli ospiti Moroi. Essendo domenica, era piuttosto affollato da chi si affannava sui compiti dell'ultimo minuto per il giorno dopo. Adocchiando un tavolino deserto afferrai Mason per il braccio e ce lo trascinai. «Ma non dovresti tornare diritta nella tua stanza?» Mi lasciai cadere sulla sedia, guardandomi attorno con circospezione. «Oggi ci sono molte persone, gli ci vorrà un po' prima di accorgersi di me. Dio, mi sono proprio rotta di starmene rinchiusa. Ed è passata solo una settimana.» «Anch'io ne ho abbastanza. Ci sei mancata ieri notte. Eravamo un gruppetto e siamo andati a giocare a biliardo in sala ricreazione. Eddie era su di giri.» Grugnii. «Non dirmelo. Non voglio ascoltare la vostra seducente vita sociale.»

«Va bene.» Puntò il gomito sul tavolo e poggiò il mento sulla mano. «Dimmi di Mia. Hai intenzione di girarti di scatto e darle un pugno, un giorno o l'altro? Penso di ricordare almeno altre dieci occasioni in cui hai fatto la stessa cosa con chi ti aveva dato sui nervi.» «Sono una nuova Rose, con la testa a posto» dissi, dando la mia migliore interpretazione di falsa mansuetudine. Che non era granché. Mason proruppe in una sorta di risata soffocata. «E poi, se lo facessi violerei la libertà condizionata che mi ha concesso la Kirova. Devo rigare diritto.» «In altre parole, troverai un modo di vendicarti di Mia senza finire nei guai.» Avvertii un sorriso spingere con forza agli angoli della bocca. «Sai cosa mi piace di te, Mase? Che la pensi come me.» «Un'idea spaventosa» ribatté con ironia. «Allora dimmi cosa ne pensi di questo: potrei sapere qualcosa di lei, ma probabilmente non dovrei dirtelo...» Mi allungai in avanti. «Oh, mi hai già dato una soffiata. Ormai non ti resta che dirmelo.» «Non sarebbe giusto» mi stuzzicò. «Come faccio a sapere che userai questa informazione per uno scopo nobile, invece che per uno malvagio?» Sbattei le ciglia. «Sai resistere a questo faccino?» Si prese un momento per osservarmi. «No, a dire la verità no. Okay, ecco qui: Mia non è di casata reale.» Mi abbandonai in modo scomposto contro lo schienale. «Niente scherzi. Già lo sapevo. So chi è di casata reale da quando ho due anni.» «Già, ma c'è molto altro. I suoi genitori lavorano per uno dei lord Drozdov.» Agitai la mano con impazienza. Un mucchio di Moroi lavoravano nel mondo degli umani, ma anche la società Moroi aveva un bel po' di lavoro per i rappresentanti della propria specie. Qualcuno doveva pur farli. «Pulizie. Domestici, in pratica. Suo padre taglia l'erba, sua mamma fa la donna di servizio.» Nutrivo davvero del sano rispetto per chiunque dovesse lavorare un'intera giornata, indipendentemente dal tipo di occupazione. Dappertutto la gente doveva occuparsi di cose schifose per tirare avanti. Ma, proprio come nel caso di Target, cercare di farsi passare per una persona diversa era tut-t'altra questione. E durante la settimana trascorsa lì, mi ero accorta di quanto disperatamente Mia volesse entrare a far parte dell'elite della scuola. «Non lo sa nessuno» dissi pensierosa. «E lei non vuole che si sappia. Sai bene come sono fatti i reali.» Fece una pausa. «Be', a eccezione di Lissa, ovvio. Non le darebbero più tregua.» «Tu come fai a sapere tutte queste cose?» «Mio zio è un guardiano dei Drozdov.» «E tu ti sei limitato a mantenere il segreto, eh?» «Finché non mi hai stanato. Quindi quale sentiero sceglierai: buono o cattivo?» «Penso che le concederò una grazia...» «Signorina Hathaway, lo sa che non le è permesso rimanere qui.» Una delle sorveglianti del dormitorio incombeva su di noi, un'espressione di disapprovazione sul viso. Quando avevo detto che Mason la pensava come me, non scherzavo. Sapeva raccontare balle proprio come sapevo fare io. «Abbiamo un progetto di gruppo per il corso sui classici. Come dovremmo fare, se Rose resta in isolamento?» La sorvegliante affilò lo sguardo. «Non sembra che stiate lavorando a qualcosa.»

Feci scivolare sul ripiano il libro che mi aveva dato il sacerdote e lo aprii a caso. L'avevo appoggiato sul tavolo quando ci eravamo seduti. «Stavamo, uhm, lavorando a questo.» Aveva ancora l'aria sospettosa. «Un'ora. Le concedo un'ora da passare qui sotto, ma spero per lei di vederla lavorare.» «Sì, signora» disse Mason, imperturbabile. «Assolutamente.» La sorvegliante si allontanò, continuando a scoccare occhiate nella nostra direzione. «Mio eroe» dichiarai. Indicò il libro: «Che roba è?» «Una cosa che mi ha dato il sacerdote. Avevo una domanda sulla messa.» Mi guardò con gli occhi sgranati, stupito. «Oh, falla finita e fai finta che ti interessi.» Sfogliai rapida l'indice. «Sto cercando una certa Anna.» Mason fece scivolare la sedia finché non arrivò alla mia destra. «Va bene. Studiamo un po'.» Trovai un numero di pagina che, non c'era da stupirsene, mi portò alla sezione dedicata a san Vladimir. Demmo una scorsa al capitolo, in cerca del nome di Anna. Quando lo scovammo, constatammo che l'autore non aveva molto da dire su di lei. Aveva incorporato nel testo un estratto scritto da un tizio che, a quanto pareva, era vissuto ai tempi di san Vladimir: E accanto a Vladimir c'è sempre Anna, figlia di Fyodor. Il loro amore è casto e puro come tra fratello e sorella, e più volte lei lo difese dagli Strigoi che cercarono di distruggere lui e la sua santità. Parimenti, era ella a confortarlo quando il suo spirito diveniva un grande fardello, e l'oscurità di Satana cercava di soffocarlo e indebolirlo nella salute e nel corpo. Anche da ciò lei lo difese, poiché erano legati fin dai tempi in cui egli le aveva salvato la vita, da bambina. Era un segno dell'amore di Dio, che Egli avesse inviato a Vladimir un tale guardiano benedetto, la baciata dalla tenebra, che sapeva in ogni momento ciò che si celava nel di lui cuore e nella di lui mente. «Ecco qui» disse Mason. «Lei era il suo guardiano.» «Però non dice cosa significa "baciata dalla tenebra". » «Probabilmente non significa niente.» Qualcosa dentro di me mi diceva che le cose non stavano così. Rilessi il passaggio, cercando di cavarne il senso nascosto sotto la lingua arcaica. Mason rimase a guardarmi incuriosito, con l'aria di chi cerca davvero di dare una mano. «Magari se la facevano» suggerì. Scoppiai a ridere. «Lui era un santo.» «E allora? È probabile che anche ai santi piaccia il sesso. Quel "fratello e sorella" magari è tutta una copertura.» Mi indicò una delle righe. «Capisci? Erano "legati".» Ammiccò. «È un codice.» Legati. La scelta del vocabolo era singolare, ma non voleva per forza dire che Anna e Vladimir si stracciassero le vesti di dosso l'un l'altra. «Non credo. Erano soltanto intimi. I ragazzi e le ragazze possono essere solo amici.» Lo dissi senza possibilità di equivoci, e lui mi lanciò uno sguardo pungente. «Sì? Noi siamo solo amici, e io non so cosa ti passa per "il cuore e la mente".» Mason assunse un'espressione da pseudo-filosofo. «Certo, alcuni potrebbero sostenere che non si può mai dire cosa nasconde il cuore di una donna...» «Oh, taci» mi lamentai, tirandogli un pugno sul braccio. «Poiché sono creature bizzarre e misteriose» proseguì con tono da erudito, «e un uomo deve

saper leggere la loro mente se vuole renderle felici.» Iniziai a ridere scioccamente e senza controllo, e capii che con ogni probabilità avrei finito per ricacciarmi nei guai. «Be', cerca di leggere nella mia mente e piantala di fare lo...» Smisi di ridere e tornai con lo sguardo sul libro. Erano legati... sapeva in ogni momento ciò che si celava nel di lui cuore e nella di lui mente. Avevano un legame; capii. Ci avrei scommesso tutto quello che avevo, che non era poi molto. La rivelazione era sbalorditiva. C'erano un sacco di dicerie e di leggende su come i guardiani e i Moroi fossero soliti "avere dei legami." Ma questa era la prima volta che mi capitava di sentirlo dire di qualcuno a cui era accaduto davvero. Mason si accorse della mia reazione sgomenta. «Stai bene? Hai una faccia strana.» Me la scrollai di dosso. «Sì. Sto bene.»

Trascorsero due settimane da quell'episodio, e visto quanto mi assorbiva la vita all'Accademia, presto dimenticai la questione di Anna. Lo shock del nostro ritorno si era un po' attenuato, e ci assestammo in una routine quasi confortevole. Le mie giornate giravano intorno alla chiesa, ai pranzi con Lissa, e a qualunque altra forma di vita sociale riuscissi a mettere insieme oltre a quel poco. Non mi fu difficile restare lontana dai riflettori, anche se riuscii ad accaparrarmi un po' d'attenzione qui e là, malgrado i miei encomiabili discorsi a Lissa sul "barcamenarsi". Non potevo farne a meno. Mi piaceva flirtare, mi piacevano le cricche, e mi piaceva fare commenti saccenti in classe. Il nuovo ruolo di Lissa catturava l'attenzione solo per il fatto che si discostava molto dal suo modo di comportarsi prima che ce ne andassimo, quando era molto attiva fra i reali. La maggioranza ci si abituò presto, accettando che la principessa Dragomir stesse svanendo dal radar sociale, contenta di frequentare solo Natalie e il suo gruppetto. Tutte le divagazioni di Natalie mi facevano ancora venire voglia di sbattere la testa contro il muro, di tanto in tanto, ma era davvero gentile, più gentile di quasi ogni altro reale, e in generale mi piaceva stare con lei. E poi, proprio come mi aveva preannunciato la Kirova, io non facevo altro che allenarmi e darmi sempre da fare. Con il passare del tempo, però, il mio corpo smise di odiarmi. I miei muscoli si fecero più forti, e la mia resistenza aumentò. Me le facevo ancora suonare durante gli allenamenti, ma non come prima, ed era già qualcosa. Il pegno più grande ora sembrava doverlo pagare la mia pelle. Rimanere all'aperto e al freddo così a lungo mi screpolava il viso, e soltanto il costante rifornimento di Lissa di creme protettive mi impedì di invecchiare prima del tempo. Ma lei non potè fare molto per le vesciche sulle mani e sui piedi. Anche tra me e Dimitri si consolidò una routine. Mason aveva ragione riguardo alla sua asocialità. Dimitri non passava molto tempo con gli altri guardiani, ma era evidente che gli altri lo rispettavano. E più lavoravo con lui, più lo rispettavo anch'io, benché non riuscissi a capire fino in fondo i suoi metodi di addestramento. Non sembrava roba da veri duri. Si iniziava con esercizi di stret-ching in palestra, e poi mi mandava fuori a correre, e a tener testa all'autunno sempre più freddo del Montana. Tre settimane dopo il ritorno in Accademia, entrai in palestra prima di un giornata di lezioni e lo trovai steso su un materassino, a leggere un libro di Louis L'Amour. Qualcuno aveva portato un lettore ed, e anche se a prima vista la cosa mi rallegrò, la canzone che suonava non lo fece: When Doves Cry di Prince. Era piuttosto imbarazzante conoscere il titolo, ma uno dei nostri vecchi coinquilini era fissato con gli anni Ottanta. «Whoa, Dimitri» dissi, buttando la sacca per terra. «Mi rendo conto che al momento sia una hit attualissima nell'Europa dell'est, ma non pensi che potremmo ascoltare qualcosa che perlomeno non sia stata registrata prima che io nascessi?»

I suoi occhi corsero a me; per il resto rimase immobile. «Che t'importa? Sarò io ad ascoltarla. Tu sarai fuori a correre.» Feci una smorfia mentre appoggiavo il piede su una delle sbarre e mi allungavo i tendini del ginocchio. Tutto sommato, Dimitri tollerava piuttosto bene la mia causticità. Finché non mi fossi dimostrata troppo sfaticata negli allenamenti, lui non si sarebbe curato dei miei continui commenti. «Ehi» gli chiesi, passando alla serie di allungamenti successiva, «ma a che serve tutto questo correre? Voglio dire, capisco l'importanza della resistenza, ma non dovremmo passare all'azione? Durante le sessioni di allenamento di gruppo continuano a farmi a pezzi.» «Forse dovresti colpire più forte» mi rispose lui con sarcasmo. «Dicevo sul serio.» «È difficile accorgersi della differenza.» Mise giù il libro ma restò spaparanzato. «Il mio lavoro è prepararti per difendere la principessa e combattere contro creature oscure, giusto?» «Sì.» «Allora dimmi una cosa: supponiamo che tu riesca a rapirla ancora e a portarla in un centro commerciale. Mentre siete là, uno Strigoi vi assale. Cosa fai?» «Dipende dal negozio in cui ci troviamo.» Mi scoccò un'occhiataccia. «D'accordo. Lo pugnalo con un paletto d'argento.» A quel punto Dimitri si mise a sedere, incrociando le lunghe gambe con un movimento fluido. Non riuscivo ancora a capacitarmi di come uno così alto potesse essere così aggraziato. «Ah?» sollevò le sopracciglia scure. «Hai un paletto d'argento? Per caso sai come si usa?» Distolsi lo sguardo dal suo corpo e corrugai la fronte. Forgiati con la magia degli elementi, i paletti d'argento erano l'arma più letale dei guardiani. Pugnalare uno Strigoi al cuore con uno di quelli significava dare loro una morte istantanea. Quelle armi, però, erano letali anche per i Moroi, e così non venivano assegnate con leggerezza ai novizi. I miei compagni di classe avevano appena cominciato a imparare come usarli. Mi ero allenata con una pistola, in passato, ma nessuno mi avrebbe fatto avvicinare a un paletto, non ancora. Per fortuna c'erano altri due modi per uccidere uno Strigoi. «D'accordo. Lo decapito.» «Senza contare che non possiedi un'arma per farlo, come compenseresti il fatto che lui sia trenta centimetri più alto di te?» Mi risollevai dopo essermi toccata gli alluci, ormai stufa. «D'accordo, allora gli do fuoco.» «Di nuovo: con cosa?» «Va bene, mi arrendo. Tu sai già la risposta. Stiamo soltanto perdendo tempo. Sono in un centro commerciale e vedo uno Strigoi. Cosa faccio?» Dimitri mi guardò senza sbattere le palpebre. «Corri.» Trattenni l'impulso di tirargli addosso qualcosa. Quando finii con lo stretching mi disse che avrebbe corso con me. Era la prima volta. Forse correre insieme mi avrebbe fornito qualche delucidazione in merito alla sua reputazione da killer. Iniziammo a correre nella fredda sera ottobrina. L'essere tornata agli orari dei vampiri aveva ancora un che di strano, per me. Visto che le lezioni sarebbero cominciate dopo un'ora, mi sarei aspettata che il sole stesse sorgendo, non tramontando. Invece si abbassava verso l'orizzonte, a ovest, incendiando con uno scintillio arancione le montagne incappucciate di neve. Non scaldava davvero, e presto, al crescere del mio fabbisogno d'ossigeno, cominciai a sentire il freddo penetrarmi nei polmoni. Non parlammo. Dimitri rallentò le falcate fino ad adattarsi al mio ritmo,

così restammo vicini. Qualcosa mi infastidiva in quella situazione; tutt'a un tratto cercavo la sua approvazione. Così accelerai la mia andatura, facendo lavorare più duramente i muscoli e i polmoni. Dodici giri di campo facevano quasi cinque chilometri; rimanevano nove giri. Quando arrivammo al terzultimo, un paio di novizi passarono di lì; si preparavano per la sessione d'allenamento di gruppo a cui avrei partecipato anch'io. Vedendomi, Mason mi incitò. «Sei in forma smagliante, Rose!» Sorrisi e restituii il saluto. «Stai rallentando» disse Dimitri in tono brusco, strappando il mio sguardo dai ragazzi. La severità nella sua voce mi spaventò. «È per questo che i tuoi tempi non migliorano? Ti distrai facilmente?» In imbarazzo, accelerai ancora, nonostante il mio corpo cominciasse a gridarmi delle oscenità. Finimmo i dodici giri, e quando Dimitri controllò, scoprì che avevamo limato due minuti dal mio tempo migliore. «Niente male, eh?» mi vantai mentre tornavamo in palestra per gli esercizi di raffreddamento. «A quanto pare posso arrivare almeno al negozio della Limited, prima che lo Strigoi mi assalga al centro commerciale. Non so come si comporterebbe Lissa.» «Se rimanesse con te, starebbe bene.» Sollevai lo sguardo sorpresa. Era il primo, vero complimento che mi faceva da quando avevo cominciato ad allenarmi con lui. I suoi occhi castani mi osservavano, pieni di approvazione e divertiti. E fu allora che accadde. Fu come se qualcuno mi avesse sparato. Appuntito e lacerante, il terrore mi esplose nel corpo e nella mente. Piccole lame di dolore. La mia visione si distorse, e per un istante non fu più lì. Correvo giù da una rampa di scale, impaurita e disperata, dovevo uscire di là, dovevo trovare... me. La vista tornò a farsi nitida, lasciandomi sulla pista e fuori della mente di Lissa. Senza dire una parola a Dimitri mi lanciai in una corsa a perdifiato verso il dormitorio dei Moroi. Che avessi appena costretto le mie gambe a una mini-maratona non aveva alcuna importanza. Correvano sicure e spedite come se fossero nuove di zecca. Capii che Dimitri arrivava alle mie spalle, chiedendomi che cosa non andava. Ma non potevo rispondergli. Avevo un dovere, uno soltanto: arrivare al dormitorio. La sagoma imponente, ricoperta di edera, iniziava a delinearsi di fronte a noi quando Lissa ci piombò addosso, il viso striato di lacrime. Inchiodai, i polmoni sul punto di prendere fuoco. «Cosa c'è che non va? Cos'è successo?» le chiesi afferrandola per le braccia, costringendola a guardarmi negli occhi. Ma non seppe rispondermi. Mi gettò le braccia al collo, nient'altro, singhiozzando contro il mio petto. La tenni lì, carezzandole i capelli setosi, lucidi, mentre le dicevo che sarebbe andato tutto bene, di qualunque cosa si trattasse. E a essere onesta, in quel momento non mi interessava affatto di che cosa si trattasse. Lei era lì, ed era sana e salva: era tutto ciò che contava. Dimitri vegliava su di noi, allerta e preparato a qualsiasi minaccia, il corpo carico e pronto all'attacco. Mezz'ora più tardi affollavamo la camera di Lissa nel dormitorio insieme ad altri tre guardiani, alla signora Kirova e alla sorvegliante al piano. Era la prima volta che vedevo la stanza di Lissa. Natalie era riuscita ad averla come compagna, e le due metà della camera erano in netto contrasto. La metà di Natalie sembrava vissuta, con fotografie alla parete e un copriletto tutto nastrini che non era certo una dotazione del dormitorio. Lissa aveva poche cose, proprio come me, e questo rendeva la sua metà visibilmente spoglia. Aveva una sola fotografia, appesa alla parete con del nastro adesivo, una fotografia dell'ultimo Halloween, quando ci eravamo vestite da fatine, con tanto di ali

e trucco luccicante. Quell'immagine e il tornare con la mente a com'erano le cose una volta mi provocarono un dolore soffocato nel petto. Con tutta quella confusione nessuno pareva ricordarsi che non avrei dovuto essere lì. In corridoio le altre ragazze Moroi formavano un capannello, cercando di capire che cosa stesse succedendo. Natalie si fece strada in mezzo a loro, chiedendosi che cosa fosse tutto quel trambusto in camera sua. Quando lo scoprì, si immobilizzò con un urlo. Lo shock e il disgusto erano evidenti su quasi tutti i volti dei presenti, che tenevano lo sguardo piantato sul letto di Lissa. C'era una volpe sul cuscino. Il manto era di un arancio rossastro, striato di bianco. Aveva l'aria così soffice, da accarezzare, che avrebbe potuto benissimo essere un animaletto, addirittura un gatto, qualcosa da tenere in braccio e coprire di coccole. A parte il fatto che aveva la gola recisa. L'interno si mostrava roseo e gelatinoso. Il sangue aveva sporcato la soffice pelliccia ed era colato sul copriletto giallo, formando una pozza nerastra che si allargava sul tessuto. Gli occhi della volpe erano sbarrati, guardavano in alto, avevano ancora una specie di espressione scioccata, come se la volpe non riuscisse a credere a quello che stava succedendo. La sensazione di nausea allo stomaco aumentò, ma mi sforzai di continuare a guardare. Non potevo permettermi di essere impressionabile. Un giorno avrei ucciso degli Strigoi. Se non potevo vedermela con una volpe, non sarei mai sopravvissuta a prede più grosse. Quello che avevano fatto alla volpe era qualcosa di malvagio, da malati, ed era stato evidentemente qualcuno troppo fuori di testa per servirsi delle parole. Lissa la fissava, il volto cadaverico, e si avvicinò di qualche passo, allungando la mano quasi senza volere. Quell'atto disgustoso l'aveva ferita duramente, lo sapevo, colpendola proprio nel suo amore per gli animali. Lei li amava, e loro amavano lei. Quando eravamo da sole, mi aveva spesso pregato di poter prendere un animale domestico, ma io mi ero sempre rifiutata e le avevo ricordato che non potevamo prenderci cura di qualcuno che forse avremmo dovuto abbandonare senza preavviso. In più, gli animali mi odiavano. Così si era accontentata di aiutare a rimettere in sesto meglio che poteva qualcuno dei randagi che le era capitato di trovare, e di fare amicizia con gli animali degli altri, come Oscar il gatto. Ma non avrebbe potuto rimettere in sesto questa volpe. Per lei non ci sarebbe stato viaggio di ritorno, eppure sul volto di Lissa riconoscevo il desiderio di soccorrerla, proprio come soccorreva qualunque altra creatura. La presi per mano e la portai via, ricordandomi all'improvviso di una conversazione avvenuta due anni prima. «Quella cos'è? Una cornacchia?» «Troppo grande. È un corvo imperiale.» «È morto?» «Già. Stecchito. Non toccarlo.» Allora non mi aveva dato retta. Sperai che lo facesse ora. «Era ancora viva quando sono tornata» mi sussurrò, stringendomi il braccio. «A malapena. Oddio, si contorceva. Deve aver sofferto molto.» Ormai sentivo la bile risalirmi in gola. In circostanze diverse avrei vomitato. «Hai...» «No. Volevo farlo... ho cominciato...» «Lascia perdere» le dissi, brusca. «È una stupidaggine. Uno stupido scherzo. Ripuliranno tutto. Forse ti daranno una nuova stanza, se vorrai.» Si volse verso di me, gli occhi quasi fuori dalle orbite. «Rose... ti ricordi... quella volta...»

«Basta» le dissi. «Dimenticalo. Non è la stessa cosa.» «E se qualcuno avesse visto? Se qualcuno sapesse...?» Le strinsi più forte il braccio, affondando le unghie per avere la sua attenzione. Fece una smorfia. «No. Non è lo stesso. Non ha niente a che fare con quello. Mi hai sentito?» Riuscivo a percepire su di noi sia gli occhi di Dimitri che quelli di Natalie. «Andrà tutto bene. Andrà tutto bene.» Con l'aria di chi non mi credeva affatto, Lissa annuì. «Ripulite tutto» ringhiò la Kirova alla sorvegliante. «E scoprite se qualcuno ha visto qualcosa.» Alla fine qualcuno si accorse che ero lì, ordinò a Dimitri di portarmi via, e a nulla valse che li pregassi di poter rimanere con Lissa. Dimitri mi riportò al dormitorio dei novizi. Non parlò finché non fummo quasi arrivati. «Tu sai qualcosa. Qualcosa su quello che è successo. È questo che intendevi, quando hai detto alla preside Kirova che Lissa era in pericolo?» «Non ne so niente. È soltanto uno scherzo malato.» «Hai idea di chi possa essere stato? O del perché?» Ci pensai su. Prima di partire avrebbero potuto essere parecchie persone. Era così che andava, quando si era popolari. Le persone ti amavano, le persone ti odiavano. Ma adesso? Lissa era scomparsa, fino a un certo punto. L'unica persona che la detestava davvero era Mia, ma lei sembrava combattere le proprie battaglie a parole, non con i fatti. E anche se avesse scelto di lanciarsi in qualcosa di più intraprendente, perché proprio una cosa simile? Non sembrava il tipo. C'erano un milione di altri modi per vendicarsi di una persona. «No» risposi. «Neanche un indizio.» «Rose, se sai qualcosa, devi dirmelo. Siamo dalla stessa parte. Vogliamo proteggerla tutti due. Questa è una cosa seria.» Mi voltai, riversando su di lui la mia rabbia per la volpe. «Già, è una cosa seria. È tutto molto serio. E tu non fai altro che farmi fare qualche giro di pista ogni giorno, quando invece dovrei imparare a combattere e a difenderla! Se vuoi aiutarla, allora insegnami qualcosa! Insegnami a combattere. So già come si fa a scappare.» Fino a quel momento non mi ero mai resa conto di quanto volessi imparare, di quanto volessi dare prova delle mie capacità a lui, a Lissa, e a tutti gli altri. L'incidente della volpe mi aveva fatto sentire impotente, e la sensazione non mi piaceva affatto. Volevo fare qualcosa, qualunque cosa. Dimitri assistette in silenzio al mio scatto d'ira, senza cambiare espressione. Quando tacqui si limitò a farmi cenno di sbrigarmi, come se non avessi detto niente. «Forza. Sei in ritardo per l'allenamento.»

Bruciante di rabbia, quel giorno mi battei meglio e con più ardore di quanto non avessi mai fatto in una delle lezioni con i novizi. Così bene che alla fine vinsi il mio primo corpo a corpo, annientando Shane Reyes. Eravamo sempre andati d'accordo, e quindi la prese di buon grado, applaudendo la mia prova, come fecero alcuni altri. «La riscossa è cominciata» osservò Mason dopo la lezione. «Così pare.» Mi sfiorò con delicatezza il braccio. «Come sta Lissa?» Non mi sorprendeva affatto che sapesse. I pettegolezzi a volte si propagavano così in fretta lì dentro, che si aveva l'impressione che tutti condividessero un legame psichico. «A posto. Se la cava.» Non mi dilungai su come facessi a saperlo. Il nostro legame era un segreto. «Mase, hai detto di sapere qualcosa su Mia. Credi che possa essere stata lei?» «Calma, ehi, non è che sia una specie di esperto in materia di Mia. Però, sinceramente... no. Mia non farebbe neanche le dissezioni nel corso di biologia. Non me la vedo a catturare una volpe, figuriamoci poi... uhm... ucciderla.» «Amici che avrebbero potuto farlo per lei?» Scrollò la testa. «Non direi. Non sono proprio i tipi che si sporcherebbero le mani. Ma chi può dirlo?» Quando la incontrai a pranzo, Lissa era ancora scossa, e il suo umore peggiorò ancora di più perché Natalie e la sua cricca non la facevano finita con la storia della volpe. A quanto pareva, Natalie aveva superato il disgusto quel tanto che bastava per godersi l'attenzione che lo spettacolo aveva attirato su di lei. Forse non era così soddisfatta del suo ruolo marginale, come avevo sempre creduto. «Ed era proprio là» spiegò, agitando le mani per enfatizzare. «Proprio al centro del letto. C'era sangue dappertutto.» Lissa era verde come il maglione che indossava; la trascinai via ancor prima di aver finito di mangiare e mi lanciai subito in una serie di oscenità contro il talento mondano di Natalie. «È gentile» disse Lissa, in automatico. «Solo l'altro giorno dicevi quanto ti piaceva.» «Mi piace, soltanto che è del tutto impreparata su certe cose.»

Eravamo fuori dalla classe di comportamento animale, e notai che, al nostro passaggio, le persone ci lanciavano occhiate curiose e bisbigliavano. Sospirai. «Come te la stai cavando con tutto questo?» Un mezzo sorriso le attraversò il volto. «Non lo percepisci già?» «Sì, ma voglio sentirlo da te.» «Non lo so. Si sistemerà tutto. Vorrei solo che non continuassero a fissarmi come se fossi una specie di fenomeno da baraccone.» La mia rabbia riesplose. La volpe era stata un brutto colpo per lei. E che le persone la infastidissero, non faceva altro che peggiorare le cose; ma almeno a questo proposito potevo fare qualcosa. «Chi ti sta dando fastidio?» «Rose, non puoi picchiare tutti quelli con cui abbiamo problemi.» «Mia?» tirai a indovinare. «E altri» disse lei, evasiva. «Ascolta, non fa niente. Quello che voglio sapere è come sia potuto... voglio dire, non riesco a smettere di pensare a quella volta...» «Non farlo» la misi in guardia. «Perché continui a fingere che non sia accaduto? Tu, tra tutte queste persone. Ti prendi gioco di Natalie perché non la smette, ma non è che tu abbia molto autocontrollo. Di solito parleresti di qualunque cosa.» «Ma non di quello. Abbiamo bisogno di dimenticarlo. È successo tanto tempo fa. Non sappiamo neppure cosa sia successo davvero.» Rimase a fissarmi con quei grandi occhi verdi, valutando l'argomentazione successiva. «Ehi, Rose.» La nostra conversazione si interruppe mentre Jesse ci passava accanto. Misi su il mio sorriso migliore. «Ehi.» Lui annuì con gentilezza a Lissa. «Ehi. Stasera sarò al dormitorio per un gruppo di studio. Pensavo... forse...» Dimenticandomi momentaneamente di Lissa, concessi tutta la mia attenzione a Jesse. All'improvviso avevo davvero bisogno di fare qualcosa di folle e sbagliato. Erano successe troppe cose in un giorno solo. «Certo.» Mi disse a che ora sarebbe arrivato, e io gli dissi che ci saremmo incontrati in una delle aree comuni, dove gli avrei dato "ulteriori informazioni". Quando se ne andò, Lissa mi fissava. «Sei agli arresti domiciliari. Non ti lasceranno stare con lui né parlargli.» «Non ho intenzione di "parlargli". Ce la svigneremo.» Sbuffò. «Certe volte proprio non ti capisco.» «Perché tu sei quella prudente e io, invece, la sconsiderata.» Non appena la lezione di comportamento animale cominciò, presi in considerazione la possibilità che fosse Mia la responsabile. Dall'espressione compiaciuta del suo viso da angioletto psicopatico, di certo sembrava godersi lo scalpore suscitato da quella dannata volpe. Ma questo non significava che fosse colpevole, e siccome l'avevo tenuta d'occhio per le ultime due settimane, sapevo bene che trovava divertente qualsiasi cosa turbasse me e Lissa. Non era necessario che ne fosse responsabile

in prima persona. «I lupi, come molte altre specie, all'interno dei propri branchi distinguono i maschi alfa e le femmine alfa, a cui gli altri membri devono mostrare sottomissione. I membri alfa sono sempre i più forti dal punto di vista fisico, anche se a volte le dispute nel branco somigliano più a una questione di personalità e forza di volontà. Quando un membro alfa viene sfidato e sconfitto, l'esemplare si ritrova ostracizzato dal resto del gruppo, e diventa persino oggetto di attacchi.» Levai lo sguardo, distogliendolo dai miei sogni a occhi aperti, e misi a fuoco la signora Meissner. «La maggior parte delle dispute ha luogo durante la stagione degli accoppiamenti» proseguì. Questo, naturalmente, scatenò qualche risatina nella classe. «Nella stragrande maggioranza dei branchi, la coppia alfa è l'unica ad accoppiarsi. Se il maschio alfa è un lupo anziano, uno più giovane può credere di avere un'opportunità. Se poi sia vero va valutato caso per caso. I più giovani spesso non si rendono conto di quanto gli esemplari con maggiore esperienza possano surclassarli.» Fatta eccezione per la questione lupi giovani-e-vecchi, penso che il resto avesse piuttosto senso. Di certo nella struttura sociale dell'Accademia, conclusi con amarezza, sembravano esserci un sacco di membri alfa e di dispute. Mia alzò la mano. «E le volpi? Anche loro hanno esemplari alfa?» Tutta la classe trattenne il fiato, e seguì qualche risolino nervoso. Nessuno riusciva a credere che Mia si fosse spinta così oltre. La signora Meissner avvampò, di rabbia sospettai. «Oggi parliamo di lupi, signorina Rinaldi.» Mia non sembrò preoccuparsi del sottile biasimo, e quando la classe si divise in coppie per lavorare su un compito, lei non fece altro che guardarci e ridacchiare per tutto il tempo. Attraverso il legame percepivo Lissa sempre più turbata mentre le immagini della volpe continuavano a balenarle in mente. «Non preoccuparti» le dissi. «Ho un modo per...» «Ehi, Lissa» ci interruppe qualcuno. Alzammo tutte e due lo sguardo mentre Ralf Sarcozy si fermava ai nostri banchi. Aveva uno stupido ghigno, il suo marchio di fabbrica, ed ebbi la sensazione che fosse venuto fin lì per una scommessa con i suoi amici. «Allora, ammettilo» disse. «Hai ucciso tu la volpe. Stai cercando di convincere la Kirova che sei pazza per riuscire a svignartela di nuovo.» «Va' a farti fottere» gli dissi a bassa voce. «Ti stai offrendo?» «Da quello che ho sentito dire, non c'è poi molto da fottere» gli ribattei. «Wow» disse con tono canzonatorio. «Sei cambiata. Da quello che ricordo non facevi tante storie sulle persone con cui finire nuda.» «E da quello che ricordo io, le uniche persone che tu abbia mai visto nude sono su internet.» Rizzò il capo in una posa eccessivamente teatrale. «Ehi, ho capito: sei stata tu, non è così?» Guardò Lissa, poi tornò a me. «Lei ha costretto te a uccidere la volpe, vero? Strane cose da voodoo lesbico... ahh!» Ralf prese fuoco. Saltai in piedi e spinsi via Lissa, e non fu una cosa facile, visto che eravamo sedute ai nostri banchi. Finimmo tutte e due per terra mentre le urla, soprattutto quelle di Ralf, riempivano l'aula. La Meissner si lanciò verso l'estintore.

Poi, semplicemente, le fiamme svanirono. Ralf conti luava a gridare e a darsi dei colpetti, ma addost ) non ne aveva traccia. L'unico indizio di ciò che era successo era la puzza di fumo che stagnava nell'aria. Per qualche secondo la classe rimase immobile. Poi, piano piano, ciascuno rimise insieme i pezzi. Le specializzazioni magiche dei Moroi erano note a tutti, e dopo aver perlustrato l'aula, ridussi il numero dei conoscitori del fuoco a: Ralf, il suo amico Jacob, e... Christian Ozera. Considerato che né Jacob né Ralf avrebbero mai dato fuoco a Ralf, il colpevole era in un certo senso evidente. E il fatto che Christian stesse sghignazzando isterico lo denunciava come tale. La signora Meissner passò dal rosso al viola. «Signor Ozera!» urlò. «Come osa... ha la minima idea... a rapporto nell'ufficio della preside Kirova, subito!» Christian, per nulla turbato, si alzò e si buttò 10 zaino su una spalla, senza togliersi dalla faccia 11 suo sorrisetto compiaciuto. «Certo, signora Meissner.» Fece una deviazione lungo il tragitto per passare accanto a Ralf, che indietreggiò rapido al suo passaggio. Il resto della classe rimase a guardare a bocca aperta. Dopodiché la signora Meissner cercò di far rientrare la lezione nella normalità, ma era una causa persa. Nessuno poteva fare a meno di commentare quello che era appena successo. Era stato scioccante per motivi diversi. Prima di tutto, nessuno aveva mai visto quel genere di incantesimo: un grande fuoco che non bruciava davvero. Secondo, Christian se n'era servito per offendere. Aveva attaccato un'altra persona. I Moroi non lo facevano mai. Credevano che la magia si dovesse usare per prendersi cura della terra, per aiutare le persone a vivere esistenze migliori. Non veniva mai, mai usata come arma. Gli istruttori di magia non insegnavano quel genere di incantesimi; non credo neppure che li conoscessero. E infine, cosa più incredibile di tutte: era stato Christian a farlo. Christian, a cui nessuno badava. Be', adesso si erano accorti di lui. A quanto pareva qualcuno conosceva magie offensive, in fin dei conti, e mentre mi godevo l'espressione di terrore sul volto di Ralf all'improvviso mi attraversò la mente il pensiero che Christian fosse davvero uno psicopatico. «Liss» dissi mentre uscivamo dall'aula, «ti prego dimmi che non ti sei più vista con lui.» Il senso di colpa che fece capolino attraverso il legame mi disse più di quanto avrebbe mai potuto fare una qualsiasi spiegazione. «Liss!» La presi per un braccio. «Non così spesso» disse a disagio. «È davvero un tipo a posto...» «A posto? A posto?» La gente in corridoio ci guardava. Mi resi conto che in pratica stavo gridando. «È fuori di testa. Ha dato fuoco a Ralf Pensavo che avessimo deciso che non lo avresti più rivisto.» «Tu hai deciso, Rose. Non io.» Nella sua voce c'era un'asprezza che non mi capitava di sentire da un po'. «Ma che sta succedendo? Voi due... sai?...» «No!» ribadì lei. «Te l'ho già detto. Miodio.» Mi scoccò un'occhiata indignata. «Non tutti pensano, e si comportano, come te.» Accusai il colpo. Poi ci accorgemmo che Mia si avvicinava. Non aveva ascoltato la conversazione ma ne aveva colto i toni. Un sorriso maligno le si allargò sul viso. «Problemi in paradiso?»

«Ma va' va'... vai a cercarti un ciucciotto, e chiudi quella bocca» le dissi, senza aspettare di sentire la risposta. La sua bocca si spalancò, poi si serrò per la rabbia. Lissa e io ci incamminammo in silenzio, e poi Lissa scoppiò a ridere. Detto fatto, la nostra lite svaporò. «Rose...» Il suo tono di voce era più calmo, adesso. «Lissa, è pericoloso. Non mi piace. Sii prudente, ti prego.» Mi sfiorò il braccio. «Lo sono. Sono io quella prudente, ricordi? Tu sei la sconsiderata.» Sperai che fosse ancora vero. Ma più tardi, dopo la scuola, comincia ad avere i miei dubbi. Ero in camera mia e facevo i compiti quando avvertii un flusso provenire da Lissa, qualcosa che poteva definirsi solo come furtività. Persi coscienza di ciò a cui stavo lavorando, mi guardai attorno per farmi un'idea più dettagliata di quello che le succedeva. Se mai doveva esserci un momento, per me, di scivolare nella sua mente, era quello. Ma non sapevo come controllare la faccenda. Corrugando la fronte, cercai di pensare a ciò che di solito ci permetteva di stabilire un contatto. Di norma, lei provava una forte emozione, un'emozione così intesa da esplodere fino ad arrivare alla mia mente; dovevo sforzarmi molto per contrastarne l'impeto. Avevo sempre eretto una sorta di muro mentale. Concentrandomi su di lei, adesso, cercai di rimuovere quel muro. Stabilizzai il respiro e mi schiarii la mente. Non importava quali fossero i miei pensieri, contavano soltanto i suoi. Dovevo aprirmi a lei e lasciare che entrassimo in contatto. Non avevo mai fatto qualcosa del genere; non avevo la pazienza necessaria alla meditazione. Ma il mio bisogno era così forte che mi sforzai di rilassarmi profondamente, di concentrarmi. Era indispensabile per me sapere che cosa le stesse accadendo, e pochi istanti dopo, il mio sforzo fu ripagato. Ero dentro.

Mi catapultai nella sua testa, per l'ennesima volta vedendo e vivendo ciò che le accadeva intorno. Si stava intrufolando di nuovo nella soffitta della cappella, a conferma delle mie peggiori paure. Come l'ultima volta, non incontrò resistenza. Buon Dio, pensai, quel sacerdote avrebbe potuto fare peggio di così per rendere sicura la cappella? L'alba illuminava la vetrata, e la sagoma di Christian si stagliava contro di essa: era disteso sulla panca sotto la finestra. «Sei in ritardo» le disse. «È un po' che ti aspetto.» Lissa prese una delle sedie traballanti, e le tolse un po' di polvere. «Credevo che la preside Kirova ti avesse messo alle strette.» Scrollò la testa. «Non proprio. Mi hanno sospeso per una settimana, tutto qui. E non è che sia così difficile svignarsela.» Fece un ampio gesto con le mani. «Come puoi ben vedere.» «Sono sorpresa che non ti abbiano sospeso più a lungo.» Una macchia di sole illuminò i suoi occhi azzurri come il cristallo. «Delusa?» Lissa aveva l'aria sconvolta. «Hai dato fuoco a qualcuno!» «No, non l'ho fatto. Gli hai visto addosso qualche bruciatura?» «Era ricoperto di fiamme.» «Avevo tutto sotto controllo. Gliele ho tenute lontane.» Raddrizzandosi dalla sua posizione allungata, si mise seduto e si sporse verso di lei. «L'ho fatto per te.» «Hai aggredito qualcuno per me?» «Certo. Non vi stava dando tregua, sia a te che a Rose. Lei stava facendo un buon lavoro, ma ho pensato che le servissero rinforzi. In più, d'ora in poi gli altri la smetteranno con questa storia della volpe.» «Non avresti dovuto farlo» ripeté lei, guardando lontano. Non sapeva come sentirsi a proposito di questa sua "generosità". «E non comportarti come se l'avessi fatto solo per me. A te è piaciuto. Una parte di te lo voleva, solo per il gusto di farlo.»

L'espressione compiaciuta di Christian svanì, lasciando il posto a una insolita sorpresa. Lissa poteva anche non essere una medium, ma aveva una capacità sbalorditiva di leggere le persone. Vedendolo abbassare la guardia Lissa insistè. «Attaccare un'altra persona con la magia è proibito, ed è proprio per questo che hai voluto farlo. Ti ha dato un brivido.» «Queste regole sono stupide. Se usassimo la magia come un'arma invece che solo per creare calore o altre inutili stronzate, gli Strigoi non riuscirebbero a far fuori così tanti di noi.» «È sbagliato» disse lei, decisa. «La magia è un dono. È pacifica.» «Solo perché loro dicono che dev'essere così. Stai ripetendo il discorsetto che ci hanno rifilato per tutta la vita.» Si alzò e cominciò ad andare su e giù per il ridotto spazio della soffitta. «Non è sempre stato così, e tu lo sai. Combattevamo al fianco dei guardiani, secoli fa. Poi la gente ha cominciato ad avere paura e ha smesso di farlo. Ha pensato che fosse più sicuro nascondersi. Ha dimenticato le magie d'offesa.» «E allora come facevi a conoscere quella che hai usato?» Arricciò le labbra in un mezzo sorriso. «Non tutti dimenticano.» «Come la tua famiglia? Come i tuoi genitori?» Il sorriso di Christian si spense. «Tu non sai niente dei miei genitori.» Il suo volto si incupì, lo sguardo si fece duro. Alla maggior parte delle persone sarebbe sembrato spaventoso e aggressivo; mentre studiava e contemplava i suoi tratti, all'improvviso a Lissa sembrò invece molto, molto vulnerabile. «Hai ragione» ammise lei con dolcezza, dopo un momento. «Non so niente. Mi dispiace.» Per la seconda volta Christian restò di sasso. Con ogni probabilità nessuno si era mai scusato con lui così spesso. Dannazione, non c'era neppure qualcuno che gli parlasse così spesso. E di certo nessuno lo ascoltava. Come sua abitudine, si trasformò subito nella versione spavalda di sé. «Lascia perdere.» Smise di colpo di camminare per la stanza e si inginocchiò davanti a lei, in modo che potessero guardarsi negli occhi. Il sentirlo così vicino le fece trattenere il respiro. Un sorriso pericoloso arricciò le labbra di Christian. «E poi non riesco proprio a capire perché tu, fra tutti, dovresti sentirti così oltraggiata dal fatto che io utilizzi magia "proibita"». «Io fra tutti? Cosa vorresti dire?» «Puoi anche fare l'innocentina se vuoi, e ti assicuro che ci riesci bene, ma io so la verità.» «La verità a proposito di cosa?» Lissa non riuscì a nascondere quanto si sentisse a disagio, né a me né a Christian. Lui si chinò facendosi ancora più vicino. «A proposito del fatto che ti servi della compulsione. Di continuo.» «No, non lo faccio» disse lei di rimando. «Certo che lo fai. Sono rimasto sveglio tutta la notte per cercare di capire come siate riuscite ad affittare una casa e a iscrivervi a scuola senza che nessuno abbia mai voluto incontrare i vostri genitori. Poi ho capito. Hai dovuto ricorrere alla compulsione. E forse è così che, prima ancora, sei riuscita ad andartene da qui.» «Capisco. L'hai dedotto e basta. Senza alcuna prova.» «Ho raccolto tutte le prove di cui avevo bisogno tenendoti d'occhio.» «Mi hai tenuto d'occhio, mi hai spiato per provare che uso la compulsione?» Si strinse nelle spalle. «No. A dire il vero sono rimasto a guardarti perché mi piace farlo. La questione della compulsione è stata un di più. Ti ho visto usarla l'altro giorno per farti dare un po' di

tempo in più per la consegna di matematica. E l'hai usata sulla signorina Carmack quando ha cercato di farti qualche altra domanda.» «E così hai dato per scontato che si trattasse di compulsione? Magari sono solo brava a convincere le persone.» Nella sua voce c'era una nota provocatoria: comprensibile, considerate la sua paura e la sua rabbia. Soltanto che al tempo stesso si riavviò i capelli, il che - se non la conoscevi bene -poteva far pensare che stesse flirtando. Ma io la conoscevo bene... o no? D'un tratto non ne ero più così sicura. Christian continuò, ma qualcosa nei suoi occhi mi disse che aveva notato il fatto dei capelli, che notava sempre tutto di lei. «Quando parli con le persone, hanno sempre quest'espressione sciocca. E non persone qualsiasi. Tu sei in grado di farlo con i Moroi. E magari anche con i dhampir. Sei una specie di fenomeno. Una sorta di superstar malvagia che abusa della compulsione.» Era un'accusa, ma il tono e l'atteggiamento emanavano la stessa voglia di flirtare che c'era in lei. Lissa non sapeva che dire. Lui aveva ragione. Era tutto vero. La compulsione era ciò che ci aveva permesso di affrontare il mondo senza l'aiuto degli adulti. Era ciò che ci aveva permesso di convincere la banca a garantirci l'accesso alla sua eredità. Ed era considerato sbagliato tanto quanto il servirsi della magia come un'arma. E perché avrebbe dovuto essere altrimenti? Era un'arma. Un'arma potente, di cui si poteva facilmente abusare. Ai bambini Moroi veniva inculcato fin dalla più tenera età che la compulsione era qualcosa di molto, molto sbagliato. A nessuno veniva insegnato come servirsene, anche se tutti i Moroi tecnicamente avevano le capacità per farlo. In un certo senso Lissa ci si era imbattuta, senza preavviso. E come Christian aveva messo bene in evidenza, poteva esercitarla sui Moroi, e anche sugli esseri umani e sui dhampir. «E quindi cosa hai intenzione di fare?» chiese. «Farai la spia?» Lui scosse la testa e sorrise. «No, lo trovo eccitante.» Lei lo fissò, gli occhi sgranati e il cuore che batteva. Qualcosa nel disegno delle sue labbra la intrigava. «Rose crede che tu sia pericoloso» disse di getto, nervosa. «Crede anche che potresti aver ucciso la volpe.» Non sapevo cosa provare a vedermi tirata in ballo durante quella bizzarra conversazione. Certe persone avevano paura di me. Forse anche lui. A giudicare dal tono meravigliato della sua voce quando iniziò a parlare, mi parve di no. «Le persone credono che io sia instabile, ma ti dirò una cosa: Rose è dieci volte peggio. Certo, così è molto più difficile che le persone rompano le palle a te, quindi mi sta bene.» Appoggiandosi sui talloni ruppe finalmente l'intimità creata dalla vicinanza. «E sono dannatamente sicuro di non averlo fatto. Ma se venissi a sapere chi è stato... quello che ho fatto a Ralf sarebbe una sciocchezza, in confronto a ciò che farei.» La proposta galante di una vendetta spaventosa non tranquillizzò affatto Lissa... ma la fece palpitare un po'. «Non voglio che tu faccia niente del genere. E poi non so ancora chi è stato.» Christian tornò a chinarsi su di lei e le prese i polsi tra le mani. Fece per dire qualcosa, poi tacque e abbassò lo sguardo, sorpreso, facendo correre i pollici sulle cicatrici appena accennate, quasi impalpabili. Quando la guardò ancora negli occhi, aveva una strana - per lui - gentilezza in volto. «Magari non sai chi è stato, però devi sapere qualcosa. Qualcosa di cui non parli.» Lei lo fissò, un turbine di emozioni le si agitava in petto. «Non puoi sapere tutti i miei segreti» mormorò. Christian tornò a guardarle i polsi e poi li lasciò andare; il suo sorrisetto pungente tornò a far capolino sul viso. «No. Credo di no.» Una sensazione di pace si fece largo in Lissa, una sensazione che pensavo di poterle donare io

soltanto. Tornando nella mia mente e in camera mia, mi ritrovai seduta sul pavimento che fissavo il libro di matematica. Poi, per ragioni che non compresi, lo richiusi con forza e lo scagliai contro la parete. Trascorsi il resto della serata a rimuginare, finché non venne l'ora in cui avevo l'appuntamento con Jesse. Scivolando di sotto, entrai in cucina, un posto in cui potevo andare solo a condizione di restarci poco, e mi accorsi del suo sguardo mentre attraversavo la sala visite principale. Passandogli accanto, indugiai per un istante e gli sussurrai: «Al quarto piano c'è un salottino che non usa nessuno. Prendi le scale dalla parte opposta dei bagni e vediamoci là tra cinque minuti. La serratura della porta è rotta.» Si attenne scrupolosamente al piano, e ci ritrovammo nel salottino buio, polveroso, e deserto. La riduzione del numero di guardiani nel corso degli anni significava che larga parte del dormitorio fosse disabitata, un triste segno per la società dei Moroi, ma qualcosa di molto conveniente in quel frangente. Jesse si sedette su un divanetto, e anch'io mi distesi, poggiandogli i piedi in grembo. Ero ancora seccata dalla strana avventura romantica di Lissa e Christian nella soffitta e volevo solo dimenticarla per un po'. «Sei davvero qui per studiare, o era solo una scusa?» gli chiesi. «No, era vero. Ho da fare dei compiti con Meredith.» Il tono della sua voce lasciava intendere che non ne fosse affatto felice. «Oh» lo provocai. «Lavorare con una dhampir è al di sotto della regalità del tuo sangue? Dovrei sentirmi offesa?» Lui sorrise, lasciandomi intravvedere i canini e una bocca piena di bianchi denti perfetti. «Tu sei molto più sexy di lei.» «Contenta di aver passato le selezioni.» Nel suo sguardo c'era un fuoco che mi eccitava, proprio come stava facendo la mano che risaliva su per la mia gamba. Ma c'era una cosa che dovevo fare, prima di qualsiasi altra. Era arrivato il momento della vendetta. «Anche Mia deve averle passate, visto che voi ragazzi la lasciate uscire con voi. Lei non è di casata reale.» Mi piantò scherzosamente il dito nel polpaccio. «Sta con Aaron. Io ho un sacco di amici che non sono di casata reale. E amici dhampir. Non sono del tutto stronzo.» «Già, ma lo sapevi che in pratica i suoi genitori lavorano come custodi per i Drozdov?» La mano sulla mia gamba si fermò. Avevo esagerato, ma lui era un vero babbeo in fatto di pettegolezzi, e aveva la fama di saperli diffondere. «Dici sul serio?» «Già. Puliscono i pavimenti e cose del genere.» «Ah.» Riuscivo a veder girare le rotelle in fondo ai suoi occhi turchesi e dovetti nascondere un sorriso. Il seme era stato piantato. Mettendomi seduta, mi avvicinai e abbandonai una gamba sulle sue ginocchia. Lo abbracciai, e senza ulteriori indugi il pensiero di Mia svanì mentre il suo testosterone cominciava a fare effetto. Mi baciò con avidità - persino troppa - spingendomi contro lo schienale del divanetto, e io mi abbandonai a quella che sarebbe stata la prima attività fisica piacevole da settimane. Ci baciammo a lungo, e non gli impedii di sfilarmi la maglietta. «Non voglio farlo» lo misi in guardia tra i baci. Non avevo intenzione di perdere la mia verginità sul divanetto di un salottino. Lui esitò un momento, riflettendoci, poi decise di non spingere le cose troppo in là. «D'accordo.»

Però spinse me sul divanetto, sdraiandosi sopra di me e continuando a baciarmi con la stessa foga. Le sue labbra corsero sul mio collo, e quando le punte acuminate dei suoi canini strofinarono contro la mia pelle non potei fare a meno di ansimare eccitata. Lui si sollevò, guardandomi con evidente sorpresa. Per un istante riuscii a malapena a respirare, al ricordo dell'ondata di piacere che il morso di un vampiro sapeva procurarmi, e domandandomi che cosa avrei provato nel riceverne uno mentre ce la spassavamo. Poi i vecchi tabù tornarono in azione. Non avremmo fatto sesso, ma dare il sangue mentre ci limitavamo a questo sarebbe stato comunque sbagliato, osceno. «Non farlo» lo avvisai. «Lo vuoi.» La sua voce tradiva uno stupore eccitato. «Sono sicuro.» «No, non voglio.» Il suo sguardo si accese. «Sì, lo vuoi. Come... ehi, l'hai già fatto prima?» «No» mentii. «Certo che no.» I suoi magnifici occhi azzurri mi scrutarono, e in fondo a essi riuscii a scorgere il lavorio delle rotelle. Jesse poteva anche flirtare di continuo e avere la lingua troppo lunga, ma non era uno stupido. «Ti comporti come se lo avessi già fatto. Quando mi sono avvicinato al collo ti sei eccitata.» «Baci bene» replicai, anche se non era del tutto vero. Sbavava un po' troppo per i miei gusti. «Non pensi che lo saprebbero tutti, se dessi il mio sangue?» Fu colpito da una folgorazione. «Se l'avessi fatto prima di andare via. Ma l'hai fatto mentre eri via, vero? Hai nutrito Lissa.» «Certo che no» ripetei. Ormai aveva fiutato qualcosa, e lo sentiva. «Era l'unico modo. Non avevate donatori. Oh, grandioso. Sul serio.» «Ne ha trovato qualcuno» mentii. Era la stessa storiella che avevamo dato in pasto a Natalie, quella che lei aveva fatto circolare e che nessuno, a parte Christian, aveva messo in discussione. «Ci sono un sacco di esseri umani che non aspettano altro.» «Come no» disse lui con un sorriso. Si chinò posando la bocca sul mio collo. «Non sono una sgualdrina di sangue» sbottai, ritraendomi. «Ma lo vuoi. Ti piace. Tutte voi dhampir lo volete.» I suoi denti erano di nuovo sulla mia pelle. Affilati. Favolosi. Avevo la sensazione che l'ostilità avrebbe solo peggiorato le cose, così pensai di disinnescare la situazione stuzzicandolo. «Fermati» gli dissi con gentilezza, facendogli correre un dito sulle labbra. «Te l'ho detto, non sono quel genere di ragazza. Ma se vuoi fare qualcosa con la bocca, posso darti qualche idea.» Questo attirò la sua attenzione. «Davvero? Qualcosa come...» E fu in quel momento che la porta si spalancò. Ci separammo con un balzo. Ero pronta per affrontare un compagno o una sorvegliante. Ciò per cui non ero preparata era Dimitri. Si precipitò nella stanza come se avesse saputo di trovarci lì, e in quei terribili istanti, mentre lui infuriava come una tempesta, capii il motivo per cui Mason ne aveva parlato come se si trattasse di un dio. In un solo battito di ciglia aveva attraversato il salottino e afferrato Jesse per la maglietta, quasi sollevandolo da terra.

«Come ti chiami?» ringhiò. «J-jesse, signore. Jesse Zeklos, signore.» «Signor Zeklos, hai forse avuto il permesso di trovarti in questa zona del dormitorio?» «No, signore». «Conosci il regolamento sulle interazioni tra maschi e femmine qui dentro?» «Sì, signore.» «Allora immagino che te ne voglia andare prima che ti consegni a qualcuno per farti punire come si deve. Se dovessi ritrovarvi così» Dimitri indicò me, che mi coprivo, mezza svestita sul divanetto «sarò io a punirti. E farà male. Molto male. Ci siamo capiti?» Jesse deglutì, gli occhi sbarrati. Non c'era traccia della spacconeria di cui faceva mostra di solito. Credo ci fosse un "di solito", e poi il trovarsi tra le mani di un tizio russo assai muscoloso, assai alto, e assai incazzato. «Sì, signore.» «E allora vai.» Dimitri lo lasciò andare, e Jesse, come se fosse possibile, schizzò via ancora più velocemente di quanto Dimitri avesse fatto irruzione. Il mio mentore allora si rivolse a me, uno scintillio pericoloso negli occhi. Non disse una parola, ma il messaggio di rabbia e sdegno giunse forte e chiaro. Poi qualcosa cambiò. Era come se fosse stato colto di sorpresa, come se non mi avesse mai notato prima. Se fosse stato uno qualunque, avrei detto che mi stava dando una bella guardata. In ogni caso, senza dubbio mi stava studiando con grande attenzione. Studiava il mio viso, il mio corpo. E d'un tratto mi resi conto che ero in jeans e reggiseno, un reggiseno nero per essere precisi. Sapevo bene che non c'erano molte ragazze in quella scuola che potevano fare la stessa figura che facevo io in reggiseno. Persino uno come Dimitri, uno che sembra sempre interessato solo ai suoi doveri e agli allenamenti e a tutto quel genere di cose, doveva averlo notato con piacere. E, infine, mi accorsi che una vampa di calore mi pervadeva, e che l'espressione dei suoi occhi riusciva a fare molto più effetto dei baci di Jesse. A volte Dimitri era silenzioso e distante, eppure aveva anche un trasporto e un'intensità che non avevo mai trovato in altre persone. Mi chiesi in che modo quel genere di intensità e di forza si traducessero nel... be', nel sesso. Mi chiesi che cosa avrebbe provato a toccarmi e... merda! A che pensavo? Ero fuori di testa? Imbarazzata, mascherai quelle sensazioni con un atteggiamento spavaldo. «Visto qualcosa di tuo gradimento?» chiesi. «Rivestiti.» Il disegno della sua bocca si fece più severo e quello che aveva appena provato, qualsiasi cosa fosse stata, era svanito. La sua durezza mi riportò in me, facendomi dimenticare la mia stessa, preoccupante reazione. Mi infilai subito la maglietta, a disagio di fronte al suo lato aggressivo. «Come hai fatto a trovarmi? Mi stai pedinando per assicurarti che non scappi?» «Fa' silenzio» ringhiò, chinandosi finché i nostri occhi non furono alla stessa altezza. «Un addetto alle pulizie ti ha visto e ha fatto rapporto. Hai idea di quanto sia stupido?» «Lo so, lo so, tutta la faccenda del periodo di prova, giusto?» «Non solo. Per prima cosa parlo della stupidità di metterti in una situazione del genere.» «Mi metto sempre in situazioni del genere, compagno. Non è niente di che.» La rabbia prese il

posto della paura. Non mi piaceva essere trattata come una bambina. «Non chiamarmi più in quel modo. Non sai nemmeno di cosa parli.» «Certo che lo so. L'anno scorso ho dovuto fare una relazione sulla Russia e l'SSRU.» «U.R.S.S. E per un Moroi stare con una dhampir è ancora meno di niente. Loro adorano vantarsene.» «Quindi?» «Quindi?» Aveva un'aria disgustata. «Quindi non hai il minimo rispetto? Pensa a Lissa. Dai l'impressione di essere ima facile. Non fai altro che confermare l'opinione che un mucchio di persone ha già delle dhampir, e questo si riflette su di lei. E su di me.» «Oh, capisco. Allora è di questo che si tratta? Sto ferendo il tuo orgoglio di maschio grosso e cattivo? Hai paura che possa rovinarti la reputazione?» «La mia reputazione non è in discussione. Ho già deciso a quali principi attenermi e vivo secondo quelli da molto tempo. Ciò che invece fai tu con i tuoi è ancora tutto da vedere.» La sua voce si indurì ancora di più. «Adesso torna in camera tua, se ci riesci senza buttarti tra le braccia di qualcun altro.» «Era un modo sottile per darmi della puttana?» «Ho sentito le storie che girano. Ho sentito certe storie su di te.» Ahi. Avrei voluto gridargli che quello che facevo con il mio corpo non erano affari suoi, ma qualcosa della rabbia e della delusione sul suo volto mi fece esitare. Non so di che cosa si trattasse. "Deludere" qualcuno come la Kirova era un avvenimento di scarso interesse, ma Dimitri?... Ricordavo quanto mi fossi sentita orgogliosa quando si era complimentato con me durante gli ultimi allenamenti. Vederlo cambiare atteggiamento nei miei confronti... be', all'improvviso mi fece sentire una ragazza facile, proprio come aveva sottointeso. Dentro di me qualcosa si ruppe. Sbattendo le palpebre per ricacciare indietro le lacrime dissi: «Perché dev'essere sbagliato... divertirsi un po'? Ho diciassette anni, lo sai. Dovrei potermi divertire.» «Tu hai diciassette anni, e tra meno di un anno la vita e la morte di un'altra persona saranno nelle tue mani.» La sua voce suonava ancora ferma, ma adesso si indovinava anche una nota di dolcezza. «Se tu fossi un essere umano o una Moroi, allora potresti divertirti. Potresti fare ciò che fanno le altre ragazze.» «Ma stai dicendo che non posso.» Fece correre altrove lo sguardo, senza che i suoi occhi scuri guardassero niente di preciso. Pensava a qualcosa di molto lontano. «Ho incontrato Ivan Zeklos quando avevo diciassette anni. Non eravamo come te e Lissa, ma siamo diventati amici, e dopo il diploma mi ha richiesto come guardiano. Ero il migliore studente della scuola. Avevo seguito con attenzione tutti i corsi, ma alla fine non è stato abbastanza. Così va la vita. Un passo falso, una distrazione...» Sospirò. «Ed è troppo tardi.» Al pensiero che un passo falso o una distrazione potesse costare la vita a Lissa, mi si formò un groppo in gola. «Jesse è uno Zeklos» dissi, e d'un tratto mi resi conto che Dimitri aveva appena strapazzato un parente del suo vecchio amico e protetto. «Lo so.» «Non ti dà fastidio? Non ti ricorda Ivan?» «Non importa come mi sento. Non importa come qualcuno di noi si sente.»

«Però ti dà fastidio.» All'improvviso mi sembrò tutto chiaro. Riuscivo a leggere il suo dolore, anche se stava facendo di tutto per mascherarlo. «Ti fa male. Ogni giorno. Non è vero? Ti manca.» Dimitri sembrò colto alla sprovvista, come se non volesse che io sapessi, come se io avessi portato allo scoperto una parte segreta di lui. Mi era sembrato un tipo duro, riservato, asociale, ma forse si teneva alla larga dagli altri perché se li avesse persi non avrebbe dovuto provare dolore. Era evidente che la morte di Ivan aveva lasciato un segno indelebile. Mi domandai se Dimitri si sentisse solo. La sua espressione di stupore svanì, per lasciare posto alla serietà di sempre. «Non importa come mi sento. Loro vengono prima. Proteggerli viene prima di ogni altra cosa.» Ripensai a Lissa. «Già. Loro vengono prima.» Calò un lungo silenzio prima che parlasse di nuovo. «Hai detto che vuoi combattere, che vuoi combattere davvero. È ancora così?» «Sì. Assolutamente.» «Rose... io posso insegnartelo, ma ho bisogno di sapere se sei devota alla causa. Davvero devota. Non posso tollerare che tu ti faccia distrarre da cose come questa.» Fece un ampio gesto a indicare il salottino. «Posso fidarmi di te?» Sotto il suo sguardo, per la serietà di quello che mi chiedeva, ancora una volta mi sentii quasi sul punto di piangere. Non avevo capito quale portentoso ascendente avesse su di me. Non mi era mai importato così tanto di ciò che pensava qualcuno. «Sì. Lo prometto.» «Molto bene. Ti insegnerò, ma ho bisogno che tu sia forte. So che detesti correre, ma è assolutamente necessario. Non hai idea di come siano gli Strigoi. La scuola vi prepara ma finché non vedete quanto sono forti e veloci... be', non puoi immaginarlo. Quindi non potrò sospendere la corsa e il lavoro con i pesi. Se vuoi imparare qualcosa sul combattimento, dovremo aggiungere nuovi allenamenti. Ti prenderanno altro tempo. Non te ne rimarrà molto per i compiti o altro. Sarai stanca. Molto.» Ci pensai, pensai a lui, e a Lissa. «Non importa. Se mi dici di farlo, allora lo farò.» Rimase a scrutarmi intensamente, come se stesse decidendo se darmi fiducia o no. Finalmente convinto, mi fece un brusco cenno con il capo. «Inizieremo domani.»

Mi scusi, signor Nagy? Non riesco proprio a concentrarmi con Lissa e Rose che continuano a passarsi bigliettini, laggiù.» Mia stava cercando di distogliere l'attenzione da sé, e dalla sua incapacità di rispondere alla domanda del signor Nagy, e stava rovinando quella che, altrimenti, sarebbe sembrata una giornata promettente. Alcune delle voci sulla volpe circolavano ancora, ma quasi tutti preferivano parlare di Christian che aveva attaccato Ralf. Non ero ancora certa dell'innocenza di Christian per l'incidente con la volpe -ero piuttosto sicura che fosse psicopatico quanto bastava per averlo fatto come folle gesto d'affetto nei confronti di Lissa - ma qualsiasi fossero le sue intenzioni, aveva distolto l'attenzione da lei, proprio come aveva detto. Il signor Nagy, leggendario per la sua capacità di umiliare gli studenti leggendo ad alta voce i loro bigliettini, venne verso di noi come un missile. Ci strappò il biglietto di mano, e la classe, febbricitante, si sistemò, preparandosi alla lettura. Soffocai un gemito, cercando di apparire priva di espresssione e quanto meno preoccupata possibile. Ac-canto a me, Lissa sembrava volesse morire. «Perbacco» disse lui dando un'occhiata al biglietto. «Se solo gli studenti scrivessero così tanto nei loro temi. Una di voi scrive considerevolmente peggio dell'altra, quindi perdonatemi se dovessi commettere qualche errore.» Si schiarì la gola. «"E quindi, ieri sera ho visto J" comincia a scrivere la persona con la grafia peggiore, a cui viene data risposta con un "Cosa è successo" seguito da non meno di cinque punti interrogativi. Comprensibile, visto che a volte uno solo, per non dire quattro, non è in grado di chiarire il concetto, eh?» La classe rise, e io notai Mia rivolgermi un sorrisetto particolarmente ignobile. «Il primo interlocutore risponde: "Cosa credi che sia successo? Siamo stati insieme in uno dei salottini vuoti".» Il signor Nagy sollevò lo sguardo dopo aver sentito qualche altra risatina in aula. Il suo accento britannico non faceva altro che accrescere l'ilarità generale. «Posso supporre che questa reazione all'utilizzo del termine "stare insieme" sia dovuta all'accezione più recente e, come dire, carnale del termine rispetto all'uso più insipido col quale sono cresciuto io?» Si susseguirono altri risolini. Raddrizzandomi sulla sedia, dissi spavalda: «Sì, signor Nagy, signore. Sarebbe corretto, signore.» Un mucchio di gente in aula scoppiò a ridere senza ritegno.

«Grazie per la conferma, signorina Hathaway. A che punto ero? Ah sì, l'altro interlocutore chiede: "Com'è stato?" La risposta è: "Bello", sottolineata da una faccina sorridente a confermare il suddetto aggettivo. Bene. Suppongo che al misterioso signor J si debbano tributare degli applausi, uhm? "E quanto in là vi siete spinti?" Uh, signorine» disse il signor Nagy, «voglio davvero sperare che questo non richieda il bollino "sconsigliato ai minori". "Non molto. Ci hanno beccato." E di nuovo la gravità della situazione viene messa in evidenza, questa volta con l'utilizzo di una faccina priva di sorriso. "Cos'è successo?" "È arrivato Dimitri. Ha buttato fuori Jesse e si è incazzato di brutto."». La classe non riuscì più a trattenersi, sia per aver sentito pronunciare al signor Nagy "incazzato", sia per aver finalmente scoperto i nomi dei protagonisti. «Perbacco, signor Zeklos, è lei il suddetto J? Colui che ha saputo guadagnarsi la faccina sorridente dalla pessima scrivente?» Il volto di Jesse si fece paonazzo come una barbabietola, eppure non aveva l'aria di essere del tutto dispiaciuto che le sue imprese fossero state spiattellate di fronte ai suoi compagni. Sembrava proprio che avesse tenuto segreto quello che era successo, compresa la storia del sangue, perché Dimitri l'aveva spaventato a morte, suppongo. «Bene, signor Zeklos, complimenti, ma in futuro ricordi alle sue "amiche" che la mia lezione non è una chat.» Ributtò il biglietto sul banco di Lissa. «Signorina Hathaway, considerato che ha già raggiunto il massimo delle punizioni previste, pare che non rimangano modi praticabili per punirla. Quindi lei, signorina Dragomir, verrà trattenuta in punizione due volte invece di una per colpa della sua amica. Resti qui al suono della campanella, grazie.» Dopo la lezione Jesse mi si avvicinò, un'espressione di disagio sul viso. «Ehi, uhm, a proposito del biglietto... io non c'entro niente. Se Belikov lo scopre... glielo dirai? Voglio dire, gli farai sapere che io non...» «Sì, sì» lo interruppi. «Non preoccuparti. Sei al sicuro.» In piedi accanto a me, Lissa lo guardò uscire dall'aula. Al pensiero di come Dimitri l'aveva strapazzato con facilità, e a quello della sua evidente codardia, non potei trattenermi dal sottolineare: «Sai, all'improvviso Jesse non mi pare più grandioso come pensavo.» Rise solo lei. «Faresti meglio ad andare. Ho dei banchi da pulire.» La lasciai e tornai al dormitorio. Nel tragitto passai accanto a un bel po' di studenti raccolti in capannelli fuori dall'edificio. Li guardai con malinconia, con il desiderio di avere un po' di tempo libero per socializzare. «No, è vero» sentii dire a una voce sicura di sé. Camille Conta. Bella e popolare, membro di una delle casate più prestigiose del clan dei Conta. Prima della nostra fuga, lei e Lissa erano più o meno amiche, in quella maniera impacciata in cui due superpotenze si tengono d'occhio l'un l'altra. «Puliscono i gabinetti o roba del genere.» «O mio Dio» disse una sua amica. «Se fossi Mia morirei.» Sorrisi. A quanto pareva Jesse aveva già messo in circolazione qualcuna delle storielle che gli avevo raccontato ieri notte. Per mia sfortuna, la conversazione che intercettai subito dopo mandò in frantumi il mio successo. «... sentito che era ancora viva. Tipo che si contorceva sul letto.» «È davvero disgustoso. Perché avrebbero dovuto lasciarla lì?» «Non lo so. Perché ucciderla, tanto per cominciare?» «Pensi che Ralf avesse ragione? Che lei e Rose l'abbiano fatto per essere sbattute fuori...» Mi avvistarono e tacquero. Accigliata attraversai il cortile senza dare nell'occhio. Ancora viva, ancora viva.

Non avevo permesso a Lissa di parlare delle analogie tra la volpe e ciò che era successo due anni prima. Non volevo credere che le due cose fossero collegate, e di certo non volevo neppure che fosse lei a crederlo. Ma non potei fare a meno di ripensare all'accaduto, non soltanto perché dava i brividi, ma perché mi ricordava davvero quello che era appena successo in camera di Lissa. Un tardo pomeriggio ci eravamo ritrovate nella foresta nelle vicinanze del campus, dopo aver saltato la nostra ultima lezione. Io avevo appena barattato con Abby Badica un paio di sandali deliziosi, tempestati di brillanti finti, con una bottiglia di un drink alla pesca - estremo, già, ma in Montana si fa quel che si può - di cui era venuta in possesso chissà come. Lissa aveva scosso la testa con biasimo quando le avevo suggerito di saltare la lezione per ammazzare la bottiglia, ma era venuta lo stesso. Come al solito. Avevamo scovato un vecchio ceppo per sederci vicino a una verde palude lercia. Una mezzaluna proiettava una timida luce argentea sopra di noi, ma era più che sufficiente perché vampire e mezzevampire riuscissero a vedere. Continuando a ripassarci la bottiglia, l'avevo sottoposta a un terzo grado su Aaron; aveva già confessato di aver fatto sesso con lui il weekend prima, e io ero stata travolta da un'ondata di gelosia perché era stata lei la prima a farlo. «Allora, com'è?» Lei si era stretta nelle spalle e aveva fatto un altro sorso. «Non so. Non è stato niente di che.» «Cosa significa che non è stato niente di che? La terra non ha tremato, i pianeti non si sono allineati o qualcosa del genere?» «No» aveva detto soffocando una risata. «Certo che no.» Non riuscivo bene ad afferrare il perché dovesse sembrarle divertente, ma avevo capito che non aveva voglia di parlarne. Era più o meno il periodo in cui il legame aveva cominciato a formarsi, e ogni tanto le sue emozioni iniziavano a riversarsi in me. Avevo alzato la bottiglia e l'avevo guardata. «Non penso che questa roba stia funzionando.» «Forse perché quasi non c'è alcol...» Da lì vicino venne il rumore di qualcosa che si muoveva nella boscaglia. Ero scattata in piedi, frapponendo il mio corpo tra lei e il rumore. «Dev'essere stato qualche animale» aveva detto Lissa dopo un minuto di silenzio. Ciò non significava che non potesse trattarsi di qualcosa di pericoloso. Le difese della scuola tenevano alla larga gli Strigoi, ma gli animali selvatici spesso si avventuravano ai margini del campus, mettendo in atto le loro minacce. Orsi. Coguari. «Forza» le avevo detto. «Torniamo indietro.» Non eravamo arrivate molto lontano quando avevo sentito di nuovo qualcosa muoversi, e qualcuno era uscito allo scoperto sbucando sul nostro sentiero. «Signorine.» La signora Karp. Ci eravamo immobilizzate, e di qualunque pronta reazione avessi dato prova alla palude non restò traccia mentre perdevo qualche istante di troppo a nascondere la bottiglia dietro la schiena. Un mezzo sorriso aveva attraversato il viso della signora Karp, che aveva allungato la mano. Con ritrosia le avevo consegnato la bottiglia, e lei l'aveva infilata sotto il braccio. Si era voltata senza dire una parola e noi l'avevamo seguita, sapendo che ci sarebbero state delle conseguenze da affrontare. «Pensate che uno non noti l'assenza di metà della classe?» ci aveva chiesto dopo un po'.

«Metà della classe?» «A quanto pare alcuni di voi hanno deciso di saltare la lezione, oggi. Dev'essere il bel tempo. La primavera.» Lissa e io ci eravamo trascinate a fatica. Non mi ero mai sentita a mio agio con la signora Karp nei paraggi, fin da quella volta in cui mi aveva guarito le mani; il suo comportamento paranoico, bizzarro, mi sembrava più strano, ancora più strano di prima. Spaventoso, persino. E da ultimo non potevo guardarla senza fare a meno di notare quei segni sulla fronte. I capelli di un rosso intenso di solito li nascondevano, anche se non sempre. A volte si intravvedevano nuovi graffi; a volte i vecchi sbiadivano fino a scomparire. Un curioso battere d'ali si era levato alla mia destra. Ci eravamo fermate tutte e tre. «Uno dei vostri compagni di classe, immagino» aveva mormorato la signora Karp, voltandosi in direzione del suono. Raggiunto il punto, però, avevamo trovato un grande uccello nero a terra. Gli uccelli, come gran parte degli animali, non mi avevano mai detto granché, ma nonostante questo persino io ero stata costretta ad ammirarne le piume lustre e il becco fiero. Con ogni probabilità avrebbe potuto cavare gli occhi a qualcuno in meno di trenta secondi, ovviamente se non fosse stato sul punto di morire. Con un ultimo, scorato tremito, alla fine l'uccello era rimasto inerte. «Cos'è? Una cornacchia?» avevo chiesto. «Troppo grosso» aveva risposto la signora Karp. «È un corvo imperiale.» «È morto?» aveva chiesto Lissa. Gli avevo dato un'occhiata. «Già. Stecchito. Non toccarlo.» «Dev'essere stato attaccato da un altro uccello» aveva osservato la signora Karp. «A volte lottano per il territorio e per il cibo.» Lissa si era inginocchiata, la compassione sul viso. La cosa non mi sorprendeva, perché aveva sempre avuto un debole per gli animali. Dopo la tristemente nota lotta-tra-il-criceto-e-il-paguro-terrestre mi aveva fatto la paternale per giorni. Io avevo interpretato la lotta come una prova tra due fieri contendenti; lei l'aveva vista come una crudeltà sugli animali. Quasi paralizzata dallo sgomento, aveva allungato le mani verso il corvo imperiale. «Liss!» avevo urlato, atterrita. «Finirai per prenderti qualche malattia.» Ma la mano aveva continuato a muoversi come se Lissa non mi avesse nemmeno sentito. La signora Karp era rimasta immobile come una statua, il viso pallido come quello di un fantasma. Le dita di Lissa avevano accarezzato le ali del corvo. «Liss» avevo ripetuto avvicinandomi, per allontanarla. D'un tratto, però, una strana sensazione si era riversata nella mia mente, una dolcezza meravigliosa e piena di vita. Il sentimento era così intenso che mi aveva fatto bloccare a metà strada. Poi il corvo si era mosso. Lissa era esplosa in un gridolino e aveva ritratto di colpo la mano. Tutte e due eravamo rimaste a guardare con gli occhi sgranati. Il corvo batteva le ali, cercava piano piano di raddrizzarsi e rimettersi sulle zampe. Dopo esserci riuscito si era voltato verso di noi, scrutando Lissa con uno sguardo che pareva troppo intelligente per un uccello. I suoi occhi si erano piantati in quelli di lei, e io non ero riuscita a leggere la reazione di Lissa attraverso il legame. Alla fine il corvo aveva distolto lo sguardo e si era alzato in aria, portato via dalle sue ali forti. Il vento che agitava le foglie era l'unico suono rimasto.

«Oh mio Dio» aveva sussurrato Lissa. «Cos'è successo?» «Non ne ho la più pallida idea» avevo detto dissimulando il mio assoluto terrore. La signora Karp si era avvicinata e aveva afferrato Lissa per un braccio, obbligandola a voltarsi e a ritrovarsi a faccia a faccia con lei. Ero scattata in un istante, pronta a entrare in azione se Karp la Pazza avesse cercato di fare qualcosa, anche se avevo qualche scrupolo a mettere fuori gioco un insegnante. «Non è successo niente» aveva detto la signora Karp in tono autoritario, lo sguardo allucinato. «Mi hai sentito? Niente. E non dovrete dire a nessuno, nessuno, quello che avete visto. Tutte e due. promettetelo. Promettetemi che non ne parlerete più». Lissa e io ci eravamo scambiate uno sguardo inquieto. «D'accordo» aveva gracchiato lei. La stretta della signora Karp si era allentata un poco. «E non farlo mai più. Se dovessi farlo, ti troveranno. Cercheranno di trovarti a tutti i costi.» Poi si era rivolta a me. «Non lasciarglielo fare. Mai più.» Nel cortile, fuori dal mio dormitorio, qualcuno ripeteva il mio nome. «Ehi, Rose? Ti ho chiamato almeno un centinaio di volte.» Mi scordai della signora Karp e del corvo e diedi un'occhiata a Mason, che a quanto pareva, mentre mi trovavo nel mondo dei sogni, aveva cominciato a camminarmi accanto in direzione del dormitorio. «Scusa» mugugnai. «Non ci sto proprio con la testa. Sono solo... uhm, stanca.» «Troppa eccitazione la notte scorsa?» Gli scoccai un'occhiataccia. «Niente con cui non potessi cavarmela.» «Ci credo» rise lui, anche se non mi sembrava affatto divertito. «Sembra che sia stato Jesse a non cavarsela.» «Si è comportato bene.» «Se lo dici tu. Personalmente, credo che tu abbia un pessimo gusto.» Mi fermai. «E io credo che non siano affari tuoi.» Distolse lo sguardo, con rabbia. «L'hai fatto diventare un affare di tutta la classe.» «Ehi, non l'ho fatto apposta.» «Sarebbe successo comunque. Jesse ha la lingua lunga.» «Non ne avrebbe parlato.» «Già» disse Mason. «Perché è tanto carino e viene da una famiglia tanto importante.» «Piantala di fare l'idiota» ringhiai. «E in ogni caso a te che importa? Sei geloso che non me la stia facendo con te?» Il rossore dilagò, risalendogli fino alla radice dei capelli rossi. «È solo che non mi piace stare ad ascoltare le persone sparlare di te, ecco tutto. Girano un sacco di cattiverie. Dicono che sei una puttana.» «Non mi importa cosa dicono.» «Oh, certo. Sei una dura, tu. Non hai bisogno di nessuno.» Mi fermai. «No. Sono uno dei migliori novizi di questo cazzo di posto. Non ho bisogno che tu faccia il cavaliere e che ti schieri a mia difesa. Non trattarmi come se fossi una ragazza indifesa.» Mi voltai e ripresi a camminare, ma Mason mi raggiunse con facilità. Lo svantaggio di essere alta

solo uno e settanta. «Ascolta... non volevo farti arrabbiare. Sono solo preoccupato per te.» Esplosi in una risata aspra. «Dico sul serio. Aspetta...» Iniziò. «Io... ho fatto qualcosa per te. Una specie. Ieri notte sono andato in biblioteca a cercare qualcosa su san Vladimir.» Mi fermai di nuovo. «Davvero?» «Sì, ma non ho trovato molto su Anna. I libri sono tutti piuttosto generici. Parlano soltanto di lui che guariva le persone, che le riportava indietro dalla soglia della morte.» L'ultima parte toccò un nervo scoperto. «C'era... c'era qualcos'altro?» balbettai. Lui scosse la testa. «No. È probabile che tu abbia bisogno di una fonte primaria, ma qui non ne abbiamo.» «Una fonte che?» Mi prese in giro, un sorriso gli si allargò sul viso. «Non sai far altro che passare bigliettini? Ne abbiamo parlato l'altro giorno alla lezione di Andrews. Sono libri che risalgono al periodo che stai studiando. Le fonti secondarie sono stata scritte da persone che vivono oggi. Troveresti informazioni migliori se recuperassi qualcosa scritto da quel tizio in persona. O da qualcuno che lo conosceva davvero.» «Ah. Okay. E tu cosa saresti, una specie di ragazzo prodigio?» Mason mi diede un leggero pugno sul braccio. «Sto attento, ecco tutto. Tu sei così distratta. Non ti accorgi di un sacco di cose.» Sorrise nervoso. «E senti... mi dispiace davvero per quello che ho detto. Ero soltanto...» Geloso, me ne resi conto. Potevo leggerglielo negli occhi. Come avevo fatto a non accorgermene prima? Era pazzo di me. Ero distratta, davvero. «È tutto a posto, Mase. Non pensarci.» Gli sorrisi. «E grazie per aver dato un'occhiata a quelle cose.» Ricambiò il sorriso, e io entrai nel dormitorio, triste di non provare le stesse cose che provava lui.

Ti serve qualcosa da mettere?» chiese Lissa. «Uhm?» Le lanciai un'occhiata. Stavamo aspettando che cominciasse la lezione di arte slava del signor Nagy, ed ero impegnata ad ascoltare Mia che negava fermamente le voci sui suoi genitori con uno dei suoi amici. «Non è che siano dei domestici» esclamò, chiaramente sconvolta. Indurendo i tratti del viso, provò la strada dell'arroganza. «In pratica sono dei consiglieri. I Drozdov non decidono nulla senza di loro.» Soffocai una risata, e Lissa scosse il capo. «Questa faccenda ti diverte troppo.» «Perché è fantastica. Cosa mi avevi chiesto?» Frugai nella borsa cercando a tentoni il lucidalabbra. Quando lo trovai feci una smorfia. Era quasi finito; non avevo idea di dove potermene procurare un altro. «Ti ho chiesto se ti serve qualcosa da mettere stasera» disse. «Be', sì, certo che sì. Ma nessuna delle tue cose mi sta.» «Come farai?» Scrollai le spalle. «Improvvisazione, come sempre. Non che me ne importi granché. Sono solo contenta che la Kirova mi lasci uscire.» Quella sera ci sarebbe stato un ricevimento. Era il primo di novembre, il giorno di Ognissanti, e questo voleva anche dire che eravamo tornate ormai da quasi un mese. Una delegazione di reali era in visita alla scuola, inclusa la regina Tatiana in persona. A dirla tutta, non era questo a entusiasmarmi. La regina aveva già visitato in passato l'Accademia. Capitava piuttosto spesso, e molto meno eccezionalmente di quanto potesse sembrare. E poi, dopo aver vissuto tra gli esseri umani e i leader da loro eletti, non avevo più una grande opinione per i reali imbalsamati. Ma mi avevano dato il permesso di presenziare, perché ci sarebbero stati tutti. Era un'occasione per stare in mezzo a persone vere, senza dover rimanere chiusa in camera mia al dormitorio. Valeva la pena

sorbirsi qualche conversazione noiosa in cambio di un po' di libertà. Non mi fermai a chiacchierare con Lissa dopo la scuola, come facevo di solito. Dimitri aveva mantenuto la sua promessa di allenamenti extra, e io stavo cercando di mantenere la mia. Adesso avevo due ore di allenamento supplementare con lui, una prima e una dopo la scuola. Più lo vedevo in azione, più mi rendevo conto di quanto la sua reputazione di dio con tutti gli attributi fosse meritata. Era chiaro che sapeva il fatto suo - lo provavano anche i suoi sei molnija - e io morivo dalla voglia che mi insegnasse quello che sapeva. Quando arrivai in palestra, mi accorsi che indossava una T-shirt e pantaloni larghi da corsa, al posto dei soliti jeans. Gli stavano bene. Davvero bene. Smettila di fissarlo, mi dissi subito. Mi fece mettere di fronte a lui sul materassino e incrociò le braccia. «Qual è il primo problema con cui dovrai vedertela affrontando uno Strigoi?» «Che sono immortali?» «Pensa a qualcosa di più basilare.» Più basilare di quello? Ci pensai su. «Potrebbero essere più grossi di me. E più forti.» La maggior parte degli Strigoi, anche se prima erano stati degli esseri umani, erano alti come i loro cugini Moroi. Ma avevano anche forza, riflessi e sensi migliori, come i dhampir. Era questo il motivo per il quale i guardiani si allenavano duramente; avevamo una "curva di apprendimento" con cui compensare. Dimitri annuì. «Questo rende la faccenda più complicata, ma non impossibile. Di solito si può sfruttare la sproporzione di altezza e peso di un altro rivolgendogliela contro.» Si voltò e diede dimostrazione di alcune mosse, facendomi notare dove spostarmi e come colpire. Esaminando i movimenti con lui capii perché le prendevo regolarmente durante le sessioni di allenamento di gruppo. Imparai le tecniche con rapidità e non stavo più nella pelle al pensiero di poterle mettere in pratica. Quando il tempo a nostra disposizione era quasi scaduto, mi lasciò provare. «Avanti» disse. «Cerca di colpirmi.» Non me lo feci ripetere un'altra volta. Lanciandomi in avanti, cercai di assestare un colpo, e venni prontamente bloccata e mandata KO sul tappetino. Il dolore si propagò per tutto il corpo, ma rifiutai di arrendermi. Balzai in piedi di nuovo, con la speranza di coglierlo con la guardia abbassata. Non ci riuscii. Dopo altri tentativi falliti, mi risollevai e stesi le mani in un segno di tregua. «Okay, cosa sto sbagliando?» «Niente.» Non ne ero così convinta. «Se non avessi fatto niente di sbagliato, a quest'ora saresti già privo di sensi.» «Improbabile. Le mosse sono corrette, ma questa è la prima volta che le metti in pratica. Io lo faccio da anni.» Davanti a quel suo modo di fare da più-anziano-e-più-saggio scrollai la testa e roteai gli occhi. Una volta mi aveva detto di avere ventiquattro anni. «Come dici tu, Nonnetto. Possiamo riprovarci?» «Non abbiamo più tempo. Non vuoi andare a prepararti?» Scoccai un'occhiata all'orologio polveroso appeso al muro e mi consolai un pochino. Era quasi ora del banchetto. Il pensiero mi diede le vertigini. Mi sentivo come Cenerentola, solo senza l'abito. «Dannazione, sì, devo.»

Dimitri mi voltò le spalle, e fece per andarsene. Lo studiai con attenzione, e mi resi conto che non potevo farmi sfuggire quell'occasione. Spiccai un salto verso la sua schiena, mettendomi proprio nella posizione che mi aveva insegnato. Potevo sfruttare l'elemento sorpresa. Era tutto perfetto, e non mi avrebbe visto arrivare. Prima che entrassimo in contatto, lui si voltò a una velocità assurdamente elevata. In un solo, abile movimento mi afferrò come se non avessi peso e mi buttò a terra, inchiodandomi lì. Gemetti. «Non ho fatto niente di sbagliato!» Mentre mi stringeva i polsi, i suoi occhi guardarono diritti nei miei; non aveva la stessa aria seria che aveva tenuto durante la lezione. Sembrava che lo trovasse divertente: «Il grido di battaglia sembra averti tradito. Prova a non gridare, la prossima volta.» «Avrebbe fatto davvero la differenza, se fossi rimasta in silenzio?» Ci pensò su. «No. Probabilmente no.» Sospirai forte, eppure ero ancora troppo di buon umore per lasciare che la delusione mi abbattesse. C'erano alcuni vantaggi nell'avere un mentore così duro, uno che era pure alto trenta centimetri più di me e mi superava considerevolmente di peso. Senza considerare la sua forza. Non era grosso, ma il suo corpo aveva muscoli possenti, tonici. Se mai fossi riuscita a battere lui, avrei potuto battere chiunque. Tutto a un tratto, il pensiero che mi stesse tenendo ancora premuta a terra mi folgorò. Mi stringeva i polsi e la pelle delle sue dita era calda. Il suo viso era sospeso a qualche centimetro dal mio, e le gambe e il busto premevano contro i miei. Alcune ciocche dei suoi lunghi capelli castani gli penzolavano attorno al viso, e anche lui sembrava essersi accorto di me, quasi come aveva fatto la notte del salottino. E, oh Dio, aveva un buon profumo. Respirare divenne difficile, e la cosa non aveva nulla a che fare con l'esercizio o con i miei polmoni compressi. Avrei dato qualunque cosa per potergli leggere la mente in quell'istante. Dalla notte del salottino lo avevo sorpreso più volte a guardarmi con quella stessa, attenta espressione. Non lo faceva mai durante gli allenamenti, quello era lavoro. Ma prima e dopo si lasciava un po' andare, e così avevo notato che mi osservava quasi con ammirazione. E a volte, se ero davvero molto, molto fortunata, mi sorrideva. Un sorriso vero, persino, non quello arido che accompagnava l'ironia con cui spesso bisticciavamo. Non lo avrei ammesso con nessuno, né con Lissa né con me stessa, ma certi giorni vivevo per quei sorrisi. Gli illuminavano il viso. Il termine "bellissimo" non riusciva più a descriverlo nel modo adeguato. Nella speranza di sembrare calma cercai di pensare a qualcosa di professionale e che avesse a che fare con i guardiani. Invece, dissi: «Quindi, uh... hai altre mosse da farmi vedere?» Le sue labbra si contrassero, e per un istante pensai di essere sul punto di ricevere uno di quei sorrisi. Il mio cuore sussultò. Poi, con uno sforzo notevole, Dimitri ricacciò indietro il sorriso e tornò a essere il mio mentore, amorevole ma severo. Scivolò via da me, appoggiandosi sui talloni, e sollevandosi. «Avanti. Dovremmo andare.» Mi tirai in piedi e lo seguii fuori dalla palestra. Camminando non si voltò indietro, e io mi presi mentalmente a calci sulla via del ritorno verso la mia stanza. Avevo una cotta per il mio mentore. Una cotta per il mio mentore più vecchio di me. Dovevo essere fuori di testa. Aveva sette anni più di me. Vecchio quanto bastava per essere mio... be', okay, niente. Però era comunque più vecchio di me. Sette anni erano un sacco di tempo. Lui aveva imparato a scrivere mentre io nascevo. Mentre io imparavo a scrivere, lui tirava libri addosso agli insegnanti, e probabilmente baciava le ragazze. Probabilmente un mucchio di ragazze, considerando il suo aspetto. In questo momento, non avevo proprio bisogno di questa complicazione nella mia vita.

Di ritorno in camera mia trovai un maglioncino passabile e dopo una doccia veloce attraversai il campus diretta al ricevimento. Malgrado le incombenti mura di pietra, le statue stravaganti, e le torrette che spuntavano dagli edifici, all'interno l'Accademia era piuttosto moderna. Avevamo il Wi-Fi, luci al neon, e ogni altro aggeggio tecnologico si riuscisse a immaginare. Soprattutto la mensa somigliava molto ai locali dove avevo mangiato quando ero a Portland e a Chicago, con semplici tavoli rettangolari, pareti di un grigio riposante, e accanto una zona dove i nostri piatti preparati in modo dubbio venivano serviti. Qualcuno si era preso perlomeno il disturbo di appendere alle pareti qualche foto in bianco e nero incorniciata nel tentativo di decorare l'ambiente, ma non consideravo fotografie di vasi e alberi spogli quello che si dice propriamente "arte". Quella sera, comunque, qualcuno era riuscito a trasformare una mensa di solito banale in una vera e propria sala da pranzo. Vasi che traboccavano di rose rosse e delicati gigli bianchi. Candele scintillanti. Tovaglie di, indovinate un po', lino rosso sangue. L'effetto era sbalorditivo. Era difficile credere che si trattasse dello stesso posto in cui di solito mangiavo sandwich con cotolette di pollo. Sembrava adatta a, be', a una regina. I tavoli erano disposti in file, a creare un corridoio al centro della sala. C'erano stati assegnati dei posti e, naturalmente, non avrei avuto la possibilità di sedere vicino a Lissa. Lei era davanti, con gli altri Moroi. Io nelle retrovie, con i novizi. Quando entrai, però, Lissa richiamò la mia attenzione e mi fece un sorriso. Si era fatta prestare un vestito da Natalie - blu, di seta, senza spalline - che si sposava meravigliosamente con la sua carnagione pallida. Chi avrebbe mai potuto dire che Natalie possedesse qualcosa di così bello? Fece perdere qualche punto al mio maglioncino. Questi banchetti formali si svolgevano sempre nello stesso modo. Un tavolo principale era posizionato su un palco nella parte anteriore della sala, perché tutti potessimo prorompere in esclamazioni di meraviglia in direzione della Regina Tatiana e degli altri reali che gustavano la cena. I guardiani erano allineati lungo le pareti, rigidi e in posa come statue. Dimitri era tra loro, e una bizzarra sensazione mi annodò lo stomaco al pensiero di quello che era successo in palestra. Guardava diritto davanti a sé, come se non si stesse concentrando su nulla in particolare e su ogni cosa nello stesso istante. Quando fu il momento dell'ingresso dei reali, ci alzammo tutti rispettosamente in piedi e li guardammo percorrere il corridoio. Ne riconobbi alcuni, per la maggior parte quelli che avevano dei figli che frequentavano l'Accademia. Victor Dashkov era tra loro, camminava piano e con un bastone. Benché fossi felice di vederlo, la vista di quei passi incerti e sofferenti con cui si dirigeva verso la parte anteriore della sala mi faceva sentire male. Una volta che il gruppo ebbe sfilato, quattro solenni guardiani con giacca gessata in rosso e nero fecero il loro ingresso nella mensa. Tutti, a eccezione dei guardiani lungo le pareti, cademmo in ginocchio dando scioccamente mostra della nostra devozione. Quante cerimonie, quanta scena, pensai con disgusto. I monarchi Moroi venivano scelti dai loro predecessori all'interno delle casate reali. Il re o la regina non poteva scegliere nessuno dei loro discendenti diretti, e per un motivo ragionevole un consiglio delle casate nobili e reali poteva contestarne la decisione. Non accadeva quasi mai, però. La regina Tatiana era seguita dai suoi guardiani, c' e indossavano un abito di seta rosso e una giacca abbinata. Aveva appena varcato la soglia dei sessant'anni e aveva capelli di un grigio scuro tagliati a caschetto e incoronati con un diadema alla Miss America. Entrò nella stanza con lentezza, come se stesse facendo una passeggiata, altri quattro guardiani dietro di lei. Attraversò la sezione dei novizi piuttosto rapida, anche se fece qualche cenno con il capo e sorrise qui e là. Noi dhampir potevamo anche essere figli illegittimi dei Moroi e per metà umani, ma ci addestravamo e dedicavamo la nostra vita a servirli e proteggerli. C'era una discreta probabilità che molti di quelli raccolti lì morissero giovani, e la regina doveva mostrare rispetto davanti a una

tale evenienza. Quando raggiunse la sezione dei Moroi si concesse pause più lunghe e parlò addirittura con qualche studente. Essere riconosciuti era una gran cosa, in sostanza era la prova che i genitori di qualcuno erano riusciti a ingraziarsela. Naturalmente, i reali ricevettero le maggiori attenzioni. Non disse loro niente di così interessante, solo qualche frase di cortesia. «Vasilisa Dragomir.» Levai rapida il capo. Al suono del suo nome un timore fluì attraverso il legame. Infrangendo il protocollo mi spinsi ben oltre la mia posizione e mi contorsi per avere una visuale migliore, sapendo che nessuno avrebbe prestato attenzione a me quando la regina in persona aveva appena scelto tra tutti l'ultima dei Dragomir. Tutti volevano sentire che cosa la monarca avrebbe detto a Lissa, la principessa fuggitiva. «Abbiamo saputo del tuo ritorno. Siamo felici di riavere fra noi i Dragomir, anche se ne rimane una soltanto. La perdita dei tuoi genitori e di tuo fratello ci rincresce profondamente; erano tra i Moroi più esemplari, la loro morte è una vera tragedia.» Non ero mai riuscita a capire bene questa storia del "noi" reale, ma a parte questo, il resto sembrava a posto. «Hai un nome interessante» continuò. «Molte delle eroine delle favole russe si chiamano Vasilisa. Vassilissa l'Impavida, Vassilissa la Bella. Erano giovani donne assai diverse tra loro, ma tutte avevano lo stesso nome e le stesse eccellenti qualità: forza, intelligenza, disciplina, e rettitudine. Tutte realizzarono grandi cose, trionfando sui propri avversari. «E parimenti, il nome Dragomir impone il dovuto rispetto. I re e le regine dei Dragomir hanno regnato con saggezza e giustizia nel corso della nostra storia. Si sono serviti dei propri poteri per fini prodigiosi. Hanno trucidato gli Strigoi, combattendo fianco a fianco con i propri guardiani. C'è una ragione per cui sono reali.» Attese un istante, lasciando che il peso delle sue parole fosse colto. Potevo sentire l'umore della sala mutare, così come avvertivo la sorpresa e la timida gioia che si propagavano da Lissa. Questo avrebbe dato una scossa agli equilibri sociali. Con ogni probabilità dovevamo aspettarci che qualche galletto tentasse di farsi amica Lissa, l'indomani. «Sì» riprese Tatiana, «il tuo nome racchiude un doppio potere. I tuoi nomi rappresentano ciò che di meglio le persone hanno da offrire e debbono pretendere, fin dai tempi in cui le gesta erano grandi e valorose.» Fece un attimo di pausa. «Ma, come hai avuto modo di dimostrare, i nomi non fanno una persona. Né hanno qualche responsabilità sul modo in cui una persona dà prova di sé.» E con questo schiaffo verbale in pieno volto, si voltò dall'altra parte e continuò la processione. Uno shock collettivo si impadronì della sala. Presi rapidamente in considerazione e poi scartai ogni possibile tentativo di saltare in mezzo al corridoio e affrontare la regina. Mezza dozzina di guardiani mi avrebbero inchiodato a terra ancor prima che fossi riuscita a fare cinque passi. Così mi sorbii con impazienza la cena, avvertendo di continuo l'assoluta mortificazione di Lissa. * Dopocena, quando arrivò il momento del ricevimento, Lissa attraversò la sala e uscì dalle porte che conducevano al cortile. Io le andai dietro, ma persi tempo a zigzagare per evitare le persone che socializzavano e familiarizzavano. Lissa continuò a camminare all'aperto, fino a un cortile adiacente, uno di quelli che bene si accordavano con il sontuoso stile degli esterni dell'Accademia. Una pensilina di legno intagliato con decorazioni a tortiglione copriva il giardino, punteggiata da minuscoli fori che qui e là lasciavano filtrare un po' di luce, ma non sufficiente da nuocere ai Moroi. Gli alberi, già spogli delle foglie autunnali, delimitavano l'area e stavano a guardia dei sentieri che portavano ad altri giardini, ai

cortili minori e a quello principale. Un laghetto, anch'esso svuotato per l'inverno, restava in un angolo, dominato dall'incombente statua di san Vladimir in persona. Scolpito in pietra grigia, il santo indossava una lunga tunica e aveva barba e baffi. Svoltato l'angolo mi fermai e vidi che Natalie mi aveva battuto sul tempo. Valutai la possibilità di interromperle ma feci un passo indietro prima che potessero vedermi. Spiare era sbagliato, ma d'un tratto ero molto curiosa di sentire ciò che Natalie aveva da dire a Lissa. «Non avrebbe dovuto dirlo» cominciò Natalie. Indossava un vestito giallo simile, nel taglio, a d tello di Lissa, ma in qualche modo le mancavano j grazia e la compostezza necessarie per farlo sembrare bello. Il giallo poi le stava malissimo. Stonava con i suoi capelli neri, che aveva raccolti in uno chignon sbilenco. «Non è giusto» continuò. «Non lasciare che ti ferisca.» «Troppo tardi.» Gli occhi di Lissa erano incollati al sentiero di pietra sotto di lei. «Aveva torto.» «Aveva ragione» esclamò Lissa. «I miei genitori... e Andre... mi avrebbero odiato per ciò che ho fatto.» «No, non è vero.» Natalie parlava con voce gentile. «Scappare è stata una stupidaggine. Da irresponsabili.» «E allora? Hai commesso un errore. Io non faccio altro. L'altro giorno dovevo fare i compiti di scienze sul capitolo dieci, e invece io ho letto il capitolo und...» Natalie si interruppe e, con una notevole dimostrazione di ritegno, tornò sul binario giusto. «Le persone cambiano. Cambiamo di continuo, no? Non sei più la stessa di allora. Io non sono la stessa di allora.» A dire il vero, a me Natalie sembrava esattamente la stessa, ma la cosa aveva smesso di darmi fastidio. Adesso la apprezzavo di più. «E poi» aggiunse, «scappare è stato davvero un errore? Dovevi avere un motivo. Dev'esserti servito a qualcosa, giusto? Ti erano successe un mucchio di brutte cose, no? Con i tuoi genitori e tuo fratello. Forse era la cosa giusta da fare.» Lissa nascose un sorriso. Tutte e due eravamo sicure che Natalie stesse cercando di scoprire perché eravamo scappate, proprio come chiunque altro a scuola. Come agente segreto faceva piuttosto schifo. «Non sono certa che lo fosse» rispose Lissa. «È stata una debolezza. Andre non sarebbe scappato. Era così bravo. Bravo in tutto. Bravo a vedersela con le persone e con tutte quelle fesserie reali.» «Anche tu sei brava.» «Credo di sì. Ma non mi piace. Voglio dire, mi piacciono le persone... ma gran parte di ciò che fanno è così finto. Ecco cosa non mi piace.» «Allora non sentirti in colpa se non ti lasci coinvolgere» disse Natalie. «Neppure io frequento quelle persone, e guarda me. Sono contenta così. Papà dice che non gli importa se frequento i reali o no. Vuole solo che io sia felice.» «E questo» dissi io, facendo finalmente la mia apparizione, «è il motivo per cui lui dovrebbe regnare al posto di quella stronza della regina. È stato derubato.» Natalie fece un balzo di quasi tre metri. Ero piuttosto sicura che il suo vocabolario di parolacce si limitasse a "perbacco" e "dannazione". «Mi chiedevo dove fossi» disse Lissa. Natalie spostò lo sguardo più volte da me a Lissa, sentendosi d'improvviso un po' in imbarazzo a trovarsi in mezzo al dream team delle migliori amiche. Cambiò posizione e ricacciò qualche ciocca

ribelle dietro le orecchie. «Be'... devo trovare papi. Ci rivediamo dentro.» «Ci vediamo» disse Lissa. «E grazie.» Natalie si affrettò ad andarsene. «Lo chiama davvero "papi"?» Lissa mi scoccò un'occhiataccia. «Lasciala in pace. È gentile.» «Lo è, davvero. Ho sentito quello che ti ha detto, e anche se odio ammetterlo, non c'era niente per cui prenderla in giro. Era tutto vero.» Feci una pausa. «La ucciderò, sai. La regina, non Natalie. 'Fanculo i guardiani. Lo farò. Non può passarla liscia.» «Dio, Rose! Non dirlo neanche. Ti arresteranno per alto tradimento. Lascia perdere e basta.» «Lasciar perdere? Dopo quello che ti ha detto? Di fronte a tutti?» Non si prese nemmeno la briga di rispondermi, né mi guardò. Invece si mise a giocherellare con fare assorto con i ramoscelli di un cespuglio mal cresciuto, già addormentato per l'inverno. Aveva un'aria vulnerabile che ben conoscevo, e che temevo. «Ehi.» Abbassai la voce. «Non fare così. Non aveva idea di quello che diceva, okay? Non lasciare che la cosa ti deprima. Non fare niente che non dovresti.» Risollevò lo sguardo verso di me. «Succederà di nuovo, non è così?» sussurrò. La sua mano, ancora aggrappata all'arbusto, iniziò a tremare. «Non se tu non lo permetti.» Cercai di guardarle i polsi senza che fosse troppo evidente. «Non hai?...» «No.» Scrollò la testa e ricacciò indietro le lacrime strizzando gli occhi. «Non ho sentito l'impulso di farlo. Ero sconvolta per la volpe, ma è andata bene. Mi piace la cosa del "barcamenarsi". Mi manca non poterti vedere, ma è andato tutto bene. Mi piace...» fece una pausa. Avvertii la parola prendere forma nella sua mente. «Christian.» «Speravo che non ci saresti riuscita. O che non volessi farlo.» «Mi spiace. C'è bisogno che ti faccia un altro discorsetto su Christian-lo-sfigato-psicopatico?» «Penso di averlo imparato a memoria dopo le ultime dieci volte» mugugnò. Stavo per lanciarmi nell'undicesima volta quando sentii una specie di risata e dei tacchi risuonare sulla pietra. Mia veniva verso di noi con qualche amico a rimorchio, ma senza Aaron. Le mie difese alzarono subito. Dentro di sé, Lissa era ancora scossa dalle critiche della regina. Il rammarico e l'umiliazione la rendevano nervosa. Si sentiva in imbarazzo per quello che gli altri avrebbero potuto pensare di lei e di come la sua famiglia l'aveva odiata per via della fuga. Io non credevo che le cose stessero così, ma a lei sembrava di sì, e le sue emozioni più oscure non la smettevano di ribollire. Non stava bene, non importava quanto disinvolta cercasse di apparire, e temevo che potesse fare qualcosa di avventato. «Che vuoi?» chiesi. Mia sorrise con aria perfida all'indirizzo di Lissa e mi ignorò, facendo qualche passo avanti. «Volevo solo sapere cosa si prova a essere così importanti e così reali. Devi essere davvero entusiasta al pensiero che la regina abbia parlato con te.» Qualche risatina sciocca si levò dal gruppetto. «Sei troppo vicina.» Mi misi tra loro, e Mia indietreggiò un po', forse perché temeva ancora che

potessi romperle un braccio. «E comunque, almeno la regina sa il suo nome, che è più di quanto tu potrai mai dire di te o di tutta quella tua montatura da aspirante reale. O dei tuoi genitori.» Riuscii a distinguere il dolore che le provocò. Accidenti, desiderava profondamente appartenere a una casata reale. «Almeno io i miei genitori li vedo» ribatté. «Almeno so chi sono, tutti e due. Dio solo sa chi sia tuo padre. E tua mamma è una delle guardiane più famose in circolazione, ma neppure a lei importa molto di te. Tutti sanno che non ti è mai venuta a trovare. Probabilmente quando sei scomparsa l'hai fatta felice. Se mai se n'è accorta.» Faceva male. Strinsi i denti. «Già, be', almeno lei è famosa. Lei dà davvero consigli a nobili e reali. Non fa le pulizie al posto loro.» Sentii uno dei suoi amici reprimere una risata alle sue spalle. Mia aprì la bocca, senza dubbio per dare fiato a una delle risposte che aveva accumulato da quando la storia aveva cominciato a circolare, quando le si accese una lampadina. «Sei stata tu» disse, gli occhi sbarrati. «Qualcuno mi ha detto che è stato Jesse a mettere in giro la voce, ma non poteva sapere niente di me. L'ha saputo da te. Quando sei andata a letto con lui.» Adesso cominciava davvero a farmi incazzare. «Non sono andata a letto con lui.» Mia puntò il dito contro Lissa e poi mi guardò di nuovo. «È così, quindi? Tu fai il lavoro sporco perché lei è troppo patetica per farlo da sola. Non potrai proteggerla per sempre» mi mise in guardia. «Neppure tu sei al sicuro.» Minacce vuote. Mi chinai in avanti, rendendo la mia voce più minacciosa possibile. In quello stato d'animo, non mi fu difficile. «Davvero? Prova a toccarmi e lo scopriremo.» Sperai che lo facesse. Lo volevo. In quel momento non avevamo bisogno della sua stupida vendetta. Era un ostacolo, qualcuno che avrei proprio voluto prendere a pugni in quel preciso momento. Guardando oltre Mia, avvistai Dimitri attraversare il giardino, gli occhi in cerca di qualcosa, qualcuno. Avevo una certa idea di chi fosse. Quando mi avvistò ci venne incontro, cambiando la natura della sua attenzione a mano a mano che notava la calca che ci si era formata attorno. I guardiani riuscivano a fiutare uno scontro a un chilometro di distanza. Certo, anche un bambino di sei anni avrebbe potuto fiutare quella lite. Dimitri si mise al mio fianco e incrociò le braccia. «Tutto a posto?» «Certo, guardiano Belikov.» Sorrisi mentre lo dicevo, ma ero arrabbiata. Furibonda, addirittura. Il litigio con Mia non aveva fatto altro che far sentire Lissa ancora peggio. «Ci stavamo solo raccontando qualche storiella di famiglia. Mai sentito parlare di quella di Mia? È incantevole.» «Andiamo» disse Mia al suo seguito. Portò via tutti, ma non prima di avermi scoccato un'ultima, spaventosa occhiataccia. Non avevo bisogno di leggerle nel pensiero per rendermi conto di cosa voleva dire. Non finiva lì. Avrebbe cercato di prendersi la sua vendetta su una di noi, o su tutte e due. Molto bene. Facci vedere che sai fare, Mia. «Devo riportarti al dormitorio» disse Dimitri, asciutto. «Non stavi per fare a botte, vero?» «Certo che no» risposi, gli occhi ancora puntati sul sentiero ormai deserto lungo cui Mia era scomparsa. «Non litigo mai in un posto dove gli altri possono assistere.» «Rose» gemette Lissa. «Andiamo. Buonanotte, principessa.» Si voltò, ma io non mi mossi. «Andrà tutto bene, Liss?» Annuì. «Sto bene.» Era una tale bugia che stentavo a credere che avesse avuto il sangue freddo di provare a darmela

a bere. Non mi serviva il legame per vedere le lacrime che le brillavano negli occhi. Non avremmo mai dovuto tornare in quel posto, mi resi conto con desolazione. «Liss...» Mi rivolse un esile, triste sorriso e fece cenno a Dimitri. «Te l'ho detto, sto bene. Devi andare.» Lo seguii riluttante. Mi accompagnò dall'altra parte del giardino. «Forse abbiamo bisogno di qualche lezione extra sull'autocontrollo» ribadì. «Ho un sacco di autocontrol... ehi, tu!» Mi interruppi alla vista di Christian che ci sfilava accanto, scendendo lungo il sentiero da cui noi eravamo appena passati. Non l'avevo visto al ricevimento, ma se la Kirova aveva permesso a me di essere presente, immaginavo che avesse fatto lo stesso con lui. «Vai da Lissa?» gli chiesi, indirizzando contro di lui la furia che avevo accumulato nei confronti di Mia. Si ficcò le mani in tasca e mi diede una di quelle occhiate da ragazzaccio annoiato. «E se anche fosse?» «Rose, non è il momento» disse Dimitri. E invece era proprio il momento. Lissa aveva ignorato i miei avvertimenti in merito a Christian per settimane. Era arrivata l'ora di andare a fondo della questione e mettere una volta per tutte la parola fine a quel ridicolo corteggiamento. «Perché non la lasci in pace e basta? Sei così incasinato e cerchi così disperatamente un po' d'attenzione che non ti rendi neppure conto quando non piaci a qualcuno?» Aggrottò le sopracciglia. «Tu sei una specie di pazzo, uno stalker, e lei lo sa. Mi ha detto tutto della tua assurda ossessione, di come vi vedete sempre nella soffitta, di come hai dato fuoco a Ralf per far colpo su di lei. Lei ti crede un fenomeno da baraccone, ma è troppo garbata per dirtelo.» Impallidì, e qualcosa di oscuro ribollì in fondo ai suoi occhi. «Tu però non sei così garbata, vero?» «No. Non quando sono preoccupata per qualcuno.» «Basta così» disse Dimitri, trascinandomi via. «Allora grazie per il tuo "aiuto"» sbottò Christian, la voce che grondava ostilità. «Non c'è problema» ribattei io da sopra la spalla. Quando fummo abbastanza lontani riuscii a dare un'occhiata alle mie spalle, e vidi Christian in piedi, poco fuori dal giardino. Si era fermato e guardava il sentiero che portava da Lissa, in cortile. Ombre gli ricoprivano il volto mentre rifletteva, e poi, dopo qualche istante, si voltò e si avviò verso i dormitori dei Moroi.

Quella notte il sonno fece fatica ad arrivare, e mi agitai e rigirai a lungo prima di riuscire ad addormentarmi. Quasi un'ora più tardi mi sedetti sul letto per cercare di rilassarmi e mettere ordine nelle emozioni che arrivavano da Lissa. Spaventata e sconvolta. Instabile. Gli eventi della serata mi si riproposero all'improvviso mentre passavo in rassegna ciò che la tormentava. La regina che la umiliava. Mia. Persino Christian, forse. Per quanto ne sapevo poteva anche averla trovata. Eppure... niente di tutto questo era il reale problema. Sepolto dentro di lei, c'era altro. Qualcosa di terribilmente sbagliato. Scesi dal letto, mi vestii in tutta fretta, e pensai a che cosa fare. La mia camera era al terzo piano, troppo in alto per una discesa, soprattutto ora che non avevo una signora Karp a rimettermi in sesto. Non sarei mai potuta sgattaiolare fuori dall'ingresso principale senza essere vista. L'unica opzione che restava era utilizzare i canali "appropriati". «Dove pensi di andare?» Una delle sorveglianti di guardia al mio piano levò lo sguardo dalla sedia. Stava in fondo al corridoio, vicino alla rampa di scale che portava al piano di sotto. Di giorno le scale non erano sorvegliate. Di notte era come essere in prigione. Incrociai le braccia. «Devo vedere Dim... il guardiano Belikov.» «È tardi.» «È un'emergenza.» Mi squadrò da capo a piedi. «Mi sembra che tu stia bene.» «Domani si ritroverà in un mucchio di guai quando si verrà a sapere che mi ha impedito di fare rapporto su ciò che so.» «Dimmelo.» «È una questione da guardiani.» Le scoccai l'occhiata più dura che mi riuscì di fare. E funzionò, perché alla fine si alzò e tirò fuori un cellulare. Chiamò qualcuno - Dimitri, sperai -ma bisbigliava troppo a bassa voce perché riuscissi

a sentire. Aspettammo per qualche minuto, e poi la porta che dava sulle scale si aprì. Dimitri fece la sua comparsa, vestito di tutto punto e in allerta, benché fossi piuttosto sicura che lo avessimo tirato giù dal letto. Mi scoccò uno sguardo soltanto. «Lissa.» Annuii. Senza dire un'altra parola si voltò, e cominciò a ridiscendere le scale. Io lo seguii. Attraversammo il cortile in silenzio, avvicinandoci all'imponente dormitorio dei Moroi. Per i vampiri era "notte", il che significava che per il resto del mondo era giorno. Il sole del tardo pomeriggio brillava su di noi con una luce fredda, dorata. I geni umani dentro di me lo apprezzavano e si erano sempre rammaricati della sensibilità dei Moroi alla luce, che ci costringeva a vivere nell'oscurità per la maggior parte del tempo. La nostra apparizione fece restare a bocca aperta la sorvegliante del piano, ma Dimitri incuteva troppo timore perché lei potesse opporsi. «È in bagno» dissi loro. Quando la sorvegliante fece per seguirmi all'interno, non glielo permisi. «È sconvolta. Prima mi ci lasci parlare da sola.» Dimitri ci rifletté. «Sì. Dia loro un minuto.» Spinsi la porta. «Liss?» Un rumore sommesso, come un singhiozzo, proveniva da là dentro. Passai in rassegna le cinque cabine e trovai l'unica chiusa. Bussai piano. «Lasciami entrare» dissi, sperando di sembrare calma e forte. Sentii tirare su con il naso, e pochi istanti dopo il chiavistello della porta si aprì. Non ero preparata a quello che vidi. Lissa stava in piedi di fronte a me... ... coperta di sangue. Inorridita, trattenni un urlo e quasi chiamai aiuto. Guardando con più attenzione, notai che in realtà non era lei a perdere sangue. Ne era imbrattata, come se se lo fosse ritrovato sulle mani e se lo fosse strofinato sulla faccia. Si accasciò a terra, e io la raggiunsi, inginocchiandomi di fronte a lei. «Stai bene?» sussurrai. «Cos'è successo?» Lei si limitò a scrollare il capo, ma vidi la sua fronte corrugarsi, mentre altre lacrime si riversavano dai suoi occhi. Le presi le mani. «Avanti. Diamoci una ripulita...» Indugiai. Stava sanguinando. Delle linee nette le attraversavano i polsi senza avvicinarsi a nessun vaso sanguigno critico, ma lasciando rossi, umidi solchi nella pelle. Lissa non aveva reciso i vasi sanguigni; la morte non era il suo obiettivo. Mi guardò negli occhi. «Mi dispiace... Non volevo... Per favore non permettere che lo scoprano...» singhiozzò. «Quando l'ho visto ho dato di matto.» Si indicò i polsi con un cenno. «È successo prima che me ne rendessi conto. Ero troppo sconvolta...» «È tutto a posto» dissi automaticamente, chiedendomi che cosa avesse visto. «Forza.» Sentii bussare alla porta. «Rose?» «Un secondo» risposi a voce alta. La accompagnai al lavandino e le sciacquai via il sangue dai polsi. Afferrai il kit di primo soccorso e misi velocemente qualche cerotto sui tagli. L'emorragia era già diminuita. «Stiamo entrando» disse la sorvegliante.

Mi tolsi la felpa col cappuccio e la passai a Lissa. L'aveva appena infilata quando Dimitri e la sorvegliante entrarono. Lui ci fu accanto in un istante, e io mi resi conto che nel nascondere i polsi di Lissa mi ero dimenticata del suo viso. «Non è mio» si affrettò a dire lei, notando l'espressione di Dimitri. «È di... è di un coniglio...» Dimitri la esaminò. Io sperai che non le guardasse i polsi. Quando sembrò convinto che Lissa non avesse ferite aperte, chiese: «Quale coniglio?» Io mi stavo domandando la stessa cosa. Con le mani che tremavano, Lissa indicò il cestino dei rifiuti. «Ho ripulito tutto. In modo che Natalie non lo vedesse.» Dimitri e io ci avvicinammo e gettammo un'occhiata nel cestino. Mi ritrassi di scatto, ricacciando indietro l'impulso di vomitare. Non so come Lissa potesse sapere che si trattava di un coniglio. Si vedeva soltanto sangue. Sangue e asciugamani imbrattati di sangue. Un ammasso di grumi che non sapevo identificare. Il fetore era tremendo. Dimitri si avvicinò a Lissa, chinandosi finché non si trovarono occhi negli occhi. «Mi dica cos'è successo.» Le porse diversi fazzoletti di carta. «Sono tornata circa un'ora fa. Ed era là. In mezzo alla stanza. Fatto a pezzi. È come se fosse... esploso.» Tirò su con il naso. «Non volevo che Natalie lo trovasse, non volevo spaventarla... così io... io ho ripulito tutto. Poi però non sono più... non sono più riuscita a tornare...» Cominciò a piangere, le tremavano le spalle. Potevo immaginare il resto, la parte che non aveva raccontato a Dimitri. Aveva trovato il coniglio, ripulito tutto, e dato di matto. Poi si era tagliata, ma era il suo modo assurdo di affrontare le cose che la turbavano. «Nessuno dovrebbe riuscire a entrare nelle camere!» esclamò la sorvegliante. «Com'è potuto succedere?» «Sa chi è stato?» chiese Dimitri con voce gentile. Lissa infilò la mano in tasca e ne trasse un pezzo di carta spiegazzato. Era così macchiato di sangue che mentre Dimitri lo reggeva e lo lisciava riuscii a malapena a leggere. So cosa sei. Se rimani qui non sopravviver ai. Me ne assicurerò io. Vettene adesso. È l'unico modo per uscirne viva. Lo shock della sorvegliante si trasformò in qualcosa di più risoluto. Si diresse alla porta. «Vado a chiamare Ellen.» Mi ci volle un secondo per ricordare che era il nome della Kirova. «Dille che ci troverà in clinica» disse Dimitri. Quando la sorvegliante se ne andò, si rivolse a Lissa. «Dovrebbe mettersi sdraiata.» Visto che lei non si muoveva, la presi sottobraccio. «Forza, Liss. Usciamo di qui.» Con lentezza, Lissa mise un piede davanti all'altro e ci permise di accompagnarla fino alla clinica medica dell'Accademia. Di solito c'erano sempre almeno due medici, ma quella notte c'era di turno soltanto un'infermiera. Si offrì di svegliare uno dei medici, ma Dimitri rifiutò. «Ha soltanto bisogno di riposare.» Lissa si era appena allungata su un lettino quando arrivarono la Kirova e pochi altri e cominciarono a farle domande. Io mi ci parai davanti, bloccandola. «Lasciatela in pace! Non vedete che non ha voglia di parlarne? Prima lasciatela dormire un po'.» «Signorina Hathaway» dichiarò la Kirova, «come al solito hai passato il segno. Non so neppure cosa ci fai, qui.» Dimitri le chiese se poteva parlarle in privato e le fece strada in corridoio. Sentii i bisbigli

rabbiosi di lei, e quelli calmi e fermi di lui. Quando tornarono, lei disse con freddezza: «Puoi restare con lei per un po'. Gli addetti daranno un'altra ripulita e ispezioneremo il bagno e la sua camera, signorina Dragomir, e domattina discuteremo la situazione nei dettagli.» «Non svegliate Natalie» sussurrò Lissa. «Non voglio spaventarla. La stanza l'ho già pulita.» La Kirova sembrava indecisa. Il gruppo si ritirò, ma non prima che l'infermiera avesse chiesto a Lissa se voleva mangiare o bere qualcosa. Lei rifiutò. Quando rimanemmo sole, mi sdraiai accanto a lei e le passai un braccio attorno alle spalle. «Non lascerò che lo scoprano» le dissi, intuendo che era preoccupata per la faccenda dei polsi. «Ma avrei voluto che me lo avessi detto prima che io me ne andassi dal ricevimento. Avevi detto che saresti venuta sempre da me, prima.» «In quel momento non stavo pensando di farlo» disse lei, fissando il vuoto con occhi spenti. «Te lo giuro, non ci avevo pensato. Cioè, ero sconvolta... ma pensavo... pensavo di poterla gestire. Ci ho provato così tanto... davvero, Rose. Ci ho provato. Ma poi sono tornata in camera, e ho visto quello, e... ho perso il controllo. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, capisci? E sapevo di dover pulire. Di pulire prima che venissero a saperlo, prima che lo scoprissero, ma c'era così tanto sangue... e poi, dopo aver pulito, è diventato troppo, e ho avuto come la sensazione di essere sul punto di... non so... esplodere, era davvero troppo, e ho dovuto buttarla fuori, capisci? Dovevo...» Interruppi la sua isteria. «È tutto a posto, ti capisco.» Era una bugia. Non ci capivo niente, di quel suo autolesionarsi. Dopo la disgrazia lo aveva fatto sporadicamente, e ogni volta la faccenda mi lasciava sgomenta. Lissa aveva cercato di darmi una motivazione, di spiegarmi che non aveva intenzione di uccidersi, ma che sentiva solo il bisogno di far uscire qualcosa. Si sentiva così emotivamente instabile, avrebbe detto lei, che uno sfogo fisico, un dolore fisico, era l'unico mezzo per far svanire il dolore interiore. Era l'unico modo per riuscire a controllarlo. «Perché sta capitando a me?» pianse nel cuscino. «Perché sono così strana?» «Non sei strana.» «Non capita a nessun altro. Nessuno riesce a usare la magia come me.» «Hai cercato di usare la magia?» Nessuna risposta. «Liss? Hai cercato di guarire il coniglio?» «Ho allungato le mani, solo per vedere se potevo aggiustarlo, ma c'era così tanto sangue... non ho potuto.» Più se ne serve, peggio sarà. Fermala, Rose. Lissa aveva ragione. La magia dei Moroi poteva materializzare d'incanto fuoco e acqua, spostare rocce o blocchi di terra. Ma nessuno sapeva guarire o riportare indietro gli animali dalla morte. Nessuno, eccetto la signora Karp. Fermala prima che se ne accorgano, prima che se ne accorgano e prendano anche lei. Portala via di qui. Detestavo tenermi dentro questo segreto, soprattutto perché non sapevo che cosa farci. Non mi piaceva sentirmi impotente. Avevo bisogno di proteggerla da tutto questo, e da se stessa. Eppure, allo stesso tempo, dovevo proteggerla anche da loro. «Dovremmo andarcene» dissi tutto d'un tratto. «Ce ne andiamo.» «Rose...» All'improvviso desiderai con tutta me stessa di tornare a Portland. Poteva anche essere più lurida e caotica del brullo Montana, ma almeno uno sapeva che cosa aspettarsi, non come lì. Lì all'Accademia il passato e il presente erano in guerra. C'erano le meravigliose mura antiche e i

giardini, ma dentro l'Accademia si insinuavano cose moderne, e nessuno sapeva come gestire la situazione. Proprio come per i Moroi. Le loro arcaiche casate reali mantenevano il potere, ma in apparenza, perché tutti erano sempre più insoddisfatti: i dhampir, che aspiravano a qualcosa di più per la propria esistenza; i Moroi come Christian, che volevano combattere gli Strigoi. I reali rimanevano attaccati alle loro tradizioni, continuavano a esercitare il loro potere sugli altri proprio come facevano gli intricati cancelli di ferro dell'Accademia: mettendo in scena uno spettacolo di tradizione e inespugnabilità. E, oh, le menzogne e i segreti. Correvano lungo i corridoi e si nascondevano dietro ogni angolo. Qualcuno qui odiava Lissa, qualcuno che con ogni probabilità le faceva grandi sorrisi e fingeva di esserle amico. Non potevo lasciare che la distruggessero. «Hai bisogno di dormire un po'» le dissi. «Non riesco a dormire.» «Sì, invece. Rimango qui io. Non sarai sola.» Ansia, paura e altre inquiete emozioni la pervadevano. Ma alla fine, il suo corpo ebbe la meglio. Dopo un po' vidi i suoi occhi chiudersi. Il respiro si fece regolare, e il nostro legame si acquietò. La guardai dormire, troppo in subbuglio per concedermi io stessa un po' di riposo. Penso che fosse ormai passata un'ora quando l'infermiera tornò e mi disse che dovevo andarmene. «Non posso» risposi. «Le ho promesso che non sarebbe rimasta sola.» L'infermiera era alta, lo sarebbe stata persino per una Moroi, con occhi castani e gentili. «Non lo sarà. Rimarrò io con lei.» La guardai con aria scettica. «Lo prometto.» Tornata in camera, ebbi anch'io la mia crisi. La paura e tutta quell'agitazione avevano sfibrato anche me, e per un attimo desiderai una vita normale, con una migliore amica normale. Ma scacciai quel pensiero. Nessuno era normale, non davvero. E poi non avevo mai avuto un'amica migliore di Lissa... ma, accidenti, a volte era davvero dura. Dormii profondamente fino alla mattina. Mi avviai alla prima lezione con passo incerto, preoccupata che circolassero già notizie sulla notte appena trascorsa, ma l'attenzione era tutta focalizzata sulla regina e sul ricevimento, del coniglio non si sapeva ancora nulla. Era difficile da credere, ma mi ero quasi dimenticata di quest'altra faccenda. Ad ogni modo, tutto a un tratto mi diede l'impressione di essere una sciocchezza, paragonata al fatto che qualcuno aveva provocato un'esplosione sanguinolenta in camera di Lissa. Eppure, con il trascorrere della giornata, mi resi conto di qualcosa di strano. Le persone non si concentravano più così tanto su Lissa. Adesso si concentravano su di me. Che lo facessero pure. Ignorai tutti e diedi la caccia a Lissa; la scovai mentre finiva con un donatore. Di nuovo mi colse quella strana sensazione che provavo alla vista della sua bocca al lavoro sul collo di un donatore, mentre ne beveva il sangue. Un rivolo corse lungo la gola, stagliandosi sulla carnagione pallida. I donatori, nonostante fossero umani, erano pallidi quasi come i Moroi a causa della perdita di sangue. Il donatore non sembrò curarsene, perso com'era nell'estasi del morso. Sentendomi divorare dalla gelosia, stabilii che forse mi avrebbe fatto bene andare in terapia. «Tutto a posto?» le chiesi più tardi, mentre andavamo in classe. Indossava una maglia a maniche lunghe per nascondere i polsi. «Sì... ma non riesco a smettere di pensare al coniglio... è stato orribile. Continuo a rivedermelo davanti. E poi quello che ho fatto.» Strizzò gli occhi, solo per un istante, poi li riaprì. «La gente parla di noi.»

«Lo so. Lasciali perdere.» «Detesto tutto questo» disse con rabbia. Un'ondata di malvagità si impadronì di lei e corse lungo il nostro legame. Mi atterrì. La mia migliore amica era allegra e gentile. Non conosceva sentimenti simili. «Detesto questi pettegolezzi. È così stupido. Come fanno a essere tutti così superficiali?» «Lasciali perdere» le ripetei, con fare accomodante. «Sei abbastanza intelligente per non frequentarli più.» Ignorarli si fece sempre più difficile, però. I commenti a fior di labbra e le occhiate si moltiplicavano. Durante la lezione di comportamento animale, divenne così difficile che non riuscii a concentrarmi su quella che ora era la mia materia preferita. La signora Meissner aveva cominciato a parlare dell'evoluzione e della selezione naturale delle specie capaci di adattarsi ai mutamenti, e di come gli animali andassero in cerca di compagni con il patrimonio genetico migliore. Mi affascinava, ma persino la signora Meissner aveva qualche difficoltà a rimanere concentrata, considerato che doveva gridare di continuo alla classe di tacere e prestare attenzione. «Sta succedendo qualcosa» dissi a Lissa tra un'ora e l'altra. «Non so cosa sia, ma hanno qualcosa di nuovo di cui sparlare.» «Di più nuovo? Qualcosa che non sia la regina che mi detesta? Cosa potrebbe mai essere?» «Vorrei proprio saperlo.» Le cose finalmente vennero a galla all'ultima ora, arte slava. Iniziò tutto quando uno che conoscevo a malapena mi fece una proposta esplicita e quasi oscena mentre lavoravamo su progetti individuali. Gli risposi per le rime, facendogli sapere esattamente che cosa poteva farci, con la sua richiesta. Lui si limitò a ridere. «Avanti, Rose. Io sanguino per te.» Seguirono delle risatine, e Mia ci scoccò un'occhiataccia provocatoria. «Ehi, aspetta un momento, è Rose quella che sanguina, no?» Nuove risate. La folgorazione mi colpì come uno schiaffo in faccia. Strattonai Lissa. «Lo sanno.» «Sanno cosa?» «Di noi. Di come... sai, di come ti nutrivo quando eravamo via.» Rimase a bocca aperta. «Com'è possibile?» «Tu che credi? Il tuo "amico" Christian.» «No» disse lei decisa. «Non lo farebbe mai.» «Chi altro allora?» La fiducia in Christian lampeggiava in fondo ai suoi occhi e attraverso il nostro legame. Ma lei non sapeva quello che sapevo io. Lei non sapeva come l'avevo trattato la sera prima, di come gli avevo fatto credere che lei lo odiasse. Quel tipo era instabile. Diffondere il nostro più grande segreto - be', uno dei più grandi - sarebbe stata una vendetta adeguata. Forse aveva anche ucciso il coniglio. Dopotutto la bestia era morta soltanto un paio d'ore dopo che gli avevo parlato in quel modo. Senza perdere tempo ad ascoltare le rimostranze di Lissa, mi spostai furtiva verso il lato opposto dell'aula, dove Christian lavorava da solo, come al solito. Lissa mi seguì a ruota. Nient'affatto preoccupata che gli altri potessero vederci, mi chinai sul banco, mettendo la mia faccia a qualche centimetro da quella di lui. «Ti ucciderò.» Il suo sguardo corse a Lissa, uno scintillio di desiderio negli occhi; poi un'espressione torva gli si allargò sul volto. «Perché? Ti darà qualche credito extra come guardiano?»

«Dacci un taglio» lo misi in guardia, tenendo la voce bassa. «So che hai raccontato a tutti che Lissa si nutriva di me.» «Diglielo» disse Lissa, disperata. «Dille che si sbaglia.» Christian trascinò lo sguardo da me a lei, e mentre loro si fissavano, avvertii sopraggiungere un'ondata di attrazione così dirompente che fu un miracolo che non mi scaraventasse a terra. Lissa aveva il cuore negli occhi. Per me era del tutto evidente che Christian provasse lo stesso sentimento, eppure Lissa sembrava non riuscire a notarlo, anzitutto perché lui non smetteva di guardarla in cagnesco. «Puoi smetterla, lo sai» disse lui. «Non devi più fingere.» La vertiginosa attrazione provata da Lissa svanì, rimpiazzata dal dolore e dallo shock causati dal tono di Christian. «Io... cosa? Fingere cosa?...» «Sai bene cosa. Smettila e basta. Falla finita con questa recita.» Lissa rimase a guardarlo, gli occhi spalancati e pieni di sofferenza. Non immaginava che cosa gli avevo detto la sera prima. Non sapeva che lui era convinto che lei lo odiasse. «Smettila di autocommiserarti, e dicci che succede» gli ringhiai contro. «Sei stato tu o no?» Mi scrutò con sguardo di sfida. «No. Non sono stato io.» «Non ti credo.» «Io sì» disse Lissa. «So che è impossibile credere che un freak come me riesca a tenere la bocca chiusa, soprattutto perché nessuna di voi due sa farlo, ma ho di meglio da fare che mettere in giro sciocchezze. Stai cercando qualcuno a cui dare la colpa? Prenditela col tuo cocco, laggiù.» Seguii il suo sguardo fino a dove Jesse sghignazzava con quell'idiota di Ralf. «Jesse non lo sa» disse Lissa, sprezzante. Christian mi teneva gli occhi incollati addosso. «Invece lo sa. Non è così, Rose? Lui lo sa.» Mi si rivoltò lo stomaco. Sì. Jesse sapeva. L'aveva capito quella notte nel salottino. «Non credevo... non credevo che l'avrebbe detto. Aveva troppa paura di Dimitri.» «Glielo hai detto?» esclamò Lissa. «No, ci è arrivato da solo.» Iniziavo ad avere la nausea. «A quanto si dice ha fatto molto più che tirare a indovinare» mugugnò Christian. Mi voltai verso di lui. «E questo cosa vorrebbe dire?» «Ah. Allora non lo sai.» «Te lo giuro su Dio, Christian, dopo la lezione ti spezzo il collo.» «Wow, sei davvero instabile.» Lo disse quasi con allegria, ma le parole che seguirono furono più gravi. Aveva ancora un ghigno sulle labbra, bruciava di rabbia, ma quando parlò nella sua voce riuscii a scorgere il più sottile dei malesseri. «Ha fatto una specie di rielaborazione di ciò che c'era scritto nel vostro biglietto. È sceso più nei dettagli.» «Oh, ci sono. Ha detto che l'abbiamo fatto.» Non avevo bisogno di ricorrere a eufemismi. Christian annuì. Quindi Jesse stava cercando di migliorare la sua reputazione. Okay. Me la sarei cavata. Tanto per cominciare, non è che la mia reputazione fosse poi così stellare; tutti credevano già che facessi sesso a ogni occasione. «E, uh, anche con Ralf. Che tu e lui...»

Ralf? Nessuna quantità d'alcol o sostanza illegale mi avrebbero mai indotto a sfiorarlo. «Io... cosa? L'avrei fatto anche con Ralf?» Christian annuì. «Quello stronzo. Lo...» «C'è altro.» «Cosa? Sono andata a letto con tutta la squadra di basket?» «Dice, tutti e due dicono, che li hai lasciati... be', che li hai lasciati bere il tuo sangue.» Questo lasciò senza parole persino me. Bere sangue mentre si faceva sesso. La più oscena tra le oscenità. Uno squallore. Peggio che essere una ragazza facile o una prostituta. Un trilione di volte peggio di aver lasciato che Lissa bevesse da me per sopravvivere. Il territorio delle sgualdrine di sangue. «È assurdo!» strillò Lissa. «Rose non lo avrebbe... Rose?» Ma io non stavo più ascoltando. Ero in un mondo tutto mio, un mondo in cui stavo attraversando la classe fino a dove erano seduti Jesse e Ralf. Tutti e due levarono lo sguardo, l'espressione per metà compiaciuta e per metà... tesa, se avessi dovuto tirare a indovinare. Non che non se lo aspettassero, visto che l'avevano sparata grossa. «Cosa diavolo credete di fare?» chiesi con una voce bassa, minacciosa. L'espressione nervosa di Jesse lasciò spazio a uno sguardo spaventato. Era più alto di me, ma tutti e due sapevamo chi avrebbe vinto se avessi deciso di passare alle mani. Ralf, invece, mi sorrideva spavaldo. «Non abbiamo fatto niente che tu non volessi.» Il suo sorriso si fece crudele. «E non provare neppure a pensare di sfiorarci con un dito. Se scateni una rissa, la Kirova ti sbatterà fuori per mandarti a vivere con le altre sgualdrine di sangue.» Il resto degli studenti tratteneva il fiato, in attesa di vedere che cosa avremmo fatto. Non so come fosse possibile che il signor Nagy non si rendesse conto del dramma che si stava consumando durante la sua lezione. Volevo prenderli a pugni entrambi, picchiarli così forte da far sembrare una pacca sulla schiena ciò che Dimitri aveva fatto a Jesse. Volevo cancellare quel ghigno dalla faccia di Ralf. Ma per quanto fosse stronzo, aveva ragione. Se li toccavo, la Kirova mi avrebbe espulso senza battere ciglio. E se mi sbattevano fuori, Lissa sarebbe rimasta sola. Inspirando a fondo, presi una delle decisioni più difficili della mia vita. Me ne andai. Il resto della giornata fu squallido. Battendo in ritirata mi ero esposta alle beffe di chiunque. Le voci e i commenti a fior di labbra si fecero più rumorosi. Le persone mi fissavano senza remore. Le persone ridevano. Lissa cercava di parlarmi, di consolarmi, ma non facevo nemmeno caso a lei. Seguii il resto delle lezioni come uno zombie, e poi mi avviai agli allenamenti con Dimitri il più in fretta possibile. Lui mi guardò con aria perplessa, ma non fece domande. Più tardi, sola nella mia stanza, per la prima volta dopo anni piansi. Dopo essermi sfogata, stavo per mettermi il pigiama e infilarmi a letto quando sentii bussare alla porta. Dimitri. Mi scrutò in volto e poi distolse lo sguardo, quando si accorse che avevo pianto. Da parte mia, capii che i pettegolezzi erano arrivati fino a lui. Sapeva. «Stai bene?» «Non importa che io stia bene, ricordi?» Levai il capo e lo guardai. «Lissa sta bene? Sarà dura per lei.»

Un'espressione divertita gli attraversò il volto. Penso che lo meravigliasse il fatto che continuassi a preoccuparmi per lei persino in un momento come quello. Mi fece cenno di seguirlo e mi portò fino alla tromba delle scale sul retro, quella che di solito era vietata agli studenti. Ma quella notte era aperta, e mi fece cenno di uscire. «Cinque minuti» mi avvertì. Più curiosa che mai, sgattaiolai fuori. C'era Lissa. Avrei dovuto sentire che era vicina, ma le mie emozioni fuori controllo avevano oscurato le sue. Senza dire una parola mi gettò le braccia al collo e mi tenne stretta. Dovetti soffocare le lacrime. Quando ci separammo, mi guardò con occhi calmi, sereni. «Mi dispiace» disse. «Non è colpa tua. Passerà.» Ne dubitava. E anch'io. «È colpa mia» disse. «Lei l'ha fatto per vendicarsi di me.» «Lei?» «Mia. Jesse e Ralf non sono abbastanza furbi per architettare una cosa del genere da soli. L'hai detto tu stessa: Jesse aveva troppa paura di Dimitri per raccontare quello che era successo. E poi perché aspettare fino ad adesso? È successo da un po', ormai. Se avesse voluto far circolare la voce, lo avrebbe fatto allora. Mia lo sta facendo per vendicarsi di quello che hai detto dei suoi genitori. Non so come ci sia riuscita, ma è lei che ha convinto quei due a dire quelle cose.» In fondo alle viscere sentii che Lissa aveva ragione. Jesse e Ralf erano solo il braccio; Mia doveva essere la mente. «Ormai non si può più fare niente» sospirai. «Rose...» «Lascia perdere, Liss. È fatta, okay?» Mi scrutò per un attimo. «Era molto che non ti vedevo piangere.» «Non stavo piangendo.» Un sentimento d'angoscia e compassione attraversò il legame travolgendomi. «Non doveva farti una cosa del genere» obiettò. Risi con amarezza, per metà sorpresa dalla mia stessa rassegnazione. «Ormai l'ha fatto. Aveva detto che si sarebbe vendicata, che non sarei stata più in grado di proteggerti. E l'ha fatto. Quando tornerò in classe...» La nausea mi riempì lo stomaco. Pensai agli amici e al rispetto che avevo cercato di guadagnarmi. Sarebbe svanito. Dopo una cosa del genere non si poteva più tornare indietro. Sgualdrina di sangue una volta, sgualdrina di sangue per sempre. E a peggiorare la situazione c'era la consapevolezza che a un parte oscura, segreta di me piaceva essere morsa. «Non dovrai più proteggermi» disse. Scoppiai a ridere. «E il mio lavoro. Diventerò il tuo guardiano.» «Lo so. Volevo dire un'altra cosa. Non avresti dovuto soffrire a causa mia. Non avresti dovuto prenderti sempre cura di me. E invece l'hai fatto. Mi hai portato via di qui. Ti sei occupata di ogni cosa quando eravamo sole. Da quando siamo tornate... sei sempre stata tu a preoccuparti di tutto. Ogni volta che crollavo, come ieri notte, tu c'eri. Io sono debole. Non sono come te.» Scossi il capo. «Non importa. È così che deve essere. Non conta.» «Già, ma guarda cos'è successo. È verso di me che lei prova rancore, anche se non ne ho ancora capito il motivo. Comunque sia, basta così. D'ora in poi sarò io a proteggerti.»

C'era determinazione nel suo sguardo; emanava ima sicurezza meravigliosa e mi ricordava la Lissa di prima dell'incidente. Allo stesso tempo, dentro di lei riuscivo anche a percepire dell'altro, qualcosa di più oscuro, un senso di rabbia sepolto in profondità. Avevo già visto questo lato di lei, e non mi piaceva. Non volevo che se ne servisse. Volevo solo che fosse al sicuro. «Lissa, tu non puoi proteggermi.» «Sì che posso» disse lei con fierezza. «C'è una cosa che Mia desidera ancora più che distruggere te e me. Vuole essere accettata. Vuole frequentare i reali e sentirsi una di loro. Io posso portarglielo via.» Sorrise. «Posso metterglieli contro.» «Come?» «Dicendo loro di farlo.» Quella sera il mio cervello girava troppo lento. Mi ci volle un po' per afferrare il senso. «Liss... no. Non puoi usare la compulsione. Non qui.» «Dovrò pur farci qualcosa, con questi stupidi poteri.» Più se ne serve, peggio sarà. Fermala, Rose. Fermala prima che se ne accorgano, prima che se ne accorgano e prendano anche lei. Portala via di qui. «Liss, se ti scoprono...» Dimitri fece capolino. «Rose, devi tornare dentro prima che qualcuno ti trovi.» Scoccai un'occhiata ansiosa a Lissa, ma lei stava già indietreggiando. «Questa volta mi occuperò io di tutto, Rose. Di tutto.»

Le conseguenze delle bugie di Jesse e Ralf furono terribili come avevo previsto. L'unico modo per sopravvivere era mettere un paraocchi, ignorare tutti e tutto. Mi permetteva, a stento, di restare sana di mente, ma lo odiavo. Avevo voglia di piangere in continuazione. Persi l'appetito e non riuscii più a dormire bene. Eppure, per quanto fosse dura, non mi preoccupavo per me stessa più di quanto non mi preoccupassi per Lissa. Stava mantenendo la promessa di cambiare le cose. All'inizio lentamente, ma a poco a poco vidi uno o due reali avvicinarsi a lei per pranzo o in classe per dirle ciao. Lei sfoderava un sorriso smagliante, rideva e parlava con loro come se fossero i suoi migliori amici. All'inizio non riuscivo a capire dove volesse arrivare. Mi aveva detto che sarebbe ricorsa alla compulsione per mettere i reali contro Mia. Ma non lo vedevo accadere. Era possibile, comunque, che Lissa stesse convincendo le persone senza fare ricorso alla compulsione. Dopotutto era divertente, sveglia, e carina. Piaceva a tutti. Qualcosa, però, mi diceva che non si stava facendo degli amici alla vecchia maniera; poi alla fine capii. Si serviva della compulsione quando non ero nei paraggi. La vedevo solo per una piccola parte della giornata, e poiché sapeva bene che non avrei approvato, si serviva dei suoi poteri in mia assenza. Dopo qualche giorno seppi cosa fare: dovevo tornare nella sua mente. A comando. L'avevo già fatto; dovevo riprovarci. Perlomeno, questo era ciò che mi raccontavo un giorno, seduta con la testa altrove, durante la lezione di Stan. Ma non fu facile come previsto, in parte perché ero troppo agitata per riuscire a rilassarmi e aprirmi ai suoi pensieri. E poi avevo scelto un momento in cui Lissa era relativamente tranquilla, e questo mi stava dando qualche difficoltà. La sentivo "forte e chiaro" quando era scossa da emozioni intense. Tentai lo stesso di fare ciò che mi era già riuscito una volta, quando l'avevo spiata con Christian. La meditazione. Il respiro lento. Gli occhi chiusi. Concentrarmi in quel modo non era facile, ma alla fine riuscii a guadagnarmi la transizione, scivolando nella sua mente e sentendo il mondo come se fossi lei. Era nell'aula di letteratura americana, durante l'ora della tesina ma, come la maggior parte

dei ragazzi, non stava lavorando. Lei e Camilla Conta erano appoggiate alla parete in fondo all'aula, e parlavano con voci smorzate. «È uno schifo» disse Camilla, decisa, un'espressione corrucciata sul viso grazioso. Aveva una gonna blu di un tessuto simile al velluto, abbastanza corta da mettere in mostra le gambe lunghe e attirare l'attenzione. «Se lo facevate voi, non mi sorprende che abbia una dipendenza, e che l'abbia fatto con Jesse.» «Lei non l'ha fatto con Jesse» insistette Lissa. «E non è che noi facessimo sesso. Solo che non avevamo donatori, ecco tutto.» Lissa si concentrò su Camille e sorrise. «Non è niente di che. Esagerano tutti.» Camille aveva l'aria di dubitarne seriamente, ma poi, più fissava Lissa, più il suo sguardo si faceva spento. Un'espressione vuota le appannò gli occhi. «D'accordo?» chiese Lissa, la voce come la seta. «Non è niente di che.» L'espressione corrucciata riemerse. Camille cercò di scrollarsi di dosso la compulsione. Era incredibile che si fosse spinta così oltre. Come le aveva fatto notare Christian, usare la compulsione sui Moroi era qualcosa che non si era mai sentito. Camille, benché dotata di una volontà ferrea, perse la battaglia. «Già» disse lentamente. «Non è proprio niente di che.» «E Jesse sta mentendo.» Camille annuì. «Assolutamente.» Lissa si sforzava con tutta la mente di mantenere il controllo sulla compulsione. Doveva fare un grande sforzo, e non aveva ancora finito. «Voi che fate stasera?» «Carly e io ci prepariamo per il test di Mattheson in camera sua.» «Invitami.» Camilla ci pensò su. «Ehi, vuoi studiare con noi?» «Certo» disse Lissa, sorridendole. Camille ricambiò. Lissa allentò la compulsione, e un'onda di vertigini la travolse. Si sentiva debole. Camille si guardò attorno, sorpresa per un istante, poi si scrollò via la strana sensazione. «Ci vediamo dopo cena, allora.» «A dopo» mormorò Lissa, rimanendo a guardarla mentre si allontanava. Quando Camille se ne fu andata, Lissa raccolse i capelli per farsi la coda. Le dita non riuscivano ad afferrare tutte le ciocche, ma all'improvviso un altro paio di mani le prese i capelli per aiutarla. Lissa si voltò e si ritrovò a fissare gli occhi di ghiaccio di Christian. Lei si ritrasse. «Non farlo più!» esclamò, tremando al pensiero che fossero state le dita di lui a toccarla. Lui le fece quel suo sorriso fiacco, un po' obliquo, e si s :ostò dal viso alcune ciocche indisciplinate di capelli neri. «Me lo stai chiedendo o me lo stai ordinando?» «Taci.» Lissa si guardò attorno, sia per evitare lo sguardo di Christian sia per assicurarsi che nessuno si fosse accorto di loro. «Che c'è? Sei preoccupata di cosa penseranno i tuoi schiavetti se ti vedono parlare con me?» «Loro sono miei amici» ribatté lei. «Oh, giusto. Certo che lo sono. Cioè, da quel che ho visto, Camille sarebbe disposta a fare qualunque cosa per te, giusto? Amiche fino alla morte.» Incrociò le braccia sul petto, e a dispetto della sua rabbia Lissa non potè fare a meno di notare quanto il grigio argentato della maglietta che

indossava mettesse in risalto i suoi capelli neri e i suoi occhi azzurri. «Almeno lei non è come te. Non finge di essere mia amica un giorno, per poi fregarsene quello dopo, senza motivo.» Sul viso di Christian si dipinse un'espressione dubbiosa. Nell'ultima settimana, da quando gli avevo sbraitato contro dopo il ricevimento reale, tra lui e Lissa la tensione e la rabbia erano cresciute. Visto che credeva a quello che gli avevo raccontato, Christian aveva smesso di parlarle e l'aveva trattata sempre peggio a ogni tentativo di conversazione. Adesso, ferita e confusa, lei aveva smesso di cercare di essere gentile. Ed era sempre peggio. Guardando attraverso gli occhi di Lissa, potevo vedere che Christian teneva ancora a lei e ancora la desiderava. Era stato ferito nell'orgoglio, però, e non aveva intenzione di mostrarsi debole. «Ah sì?» disse lui in un tono basso, crudele. «Credevo che tutti i reali si comportassero così. Tu, per esempio, sei davvero brava. O forse stai usando su di me la compulsione per convincermi a pensare che sei una stronza ipocrita. Magari no, anche se ne dubito.» Alla parola compulsione Lissa avvampò, e si guardò di nuovo attorno preoccupata, ma decise di non dargli la soddisfazione di continuare la discussione. Gli concesse solo un'ultima occhiata prima di allontanarsi in tutta fretta per unirsi a un crocchio di reali che si affollavano attorno a un compito. Tornando in me, feci correre uno sguardo vacuo per l'aula, riflettendo su ciò che avevo visto. Una minuscola, minuscola parte di me cominciava a dispiacersi per Christian. Ma era soltanto una parte minuscola, e quindi molto facile da ignorare. All'inizio del giorno seguente uscii per incontrarmi con Dimitri. Gli allenamenti erano diventati il mio momento preferito della giornata, in parte per via della mia stupida cotta per lui e in parte perché non dovevo stare insieme agli altri. Come al solito iniziammo con i giri di campo, e Dimitri corse insieme a me, silenzioso e quasi gentile nei comandi, forse preoccupato di poter scatenare una specie di crisi. In qualche modo era venuto a conoscenza delle voci che circolavano, ma non ne aveva mai parlato. Quando finimmo di correre mi fece esercitare con qualche tecnica d'attacco dove mi permise di utilizzare qualunque arma improvvisata mi venisse in mente per assalirlo. Con mia sorpresa, riuscii ad assestargli qualche colpo, anche se mi sembrò di fare più male a me stessa che a lui. Gli impatti facevano sempre indietreggiare me; lui non si spostava nemmeno di un millimetro. Ma questo non mi impedì di continuare ad attaccarlo ancora e ancora, di combattere con una furia quasi cieca. Non sapevo bene contro chi lottavo in quei momenti: Mia o Jesse o Ralf. Magari contro tutti loro. Alla fine Dimitri chiese una pausa. Avevamo portato gli attrezzi sul campo dove ci eravamo allenati, e così riportammo tutto nel magazzino. Mentre mettevamo in ordine, mi scrutò e rimase di sale. «Le tue mani.» Imprecò in russo. Ormai lo riconoscevo, anche se Dimitri si rifiutava di insegnarmi il significato delle parole. «Dove sono i tuoi guanti?» Mi guardai le mani. Erano malridotte da settimane, e quell'allenamento non aveva fatto altro che peggiorare la situazione. Il freddo aveva screpolato la pelle lacerandola, e in alcuni punti le mani sanguinavano un po'. Le vesciche erano gonfie. «Non ne ho. Non ne ho mai avuto bisogno a Portland.» Lanciò qualche altra imprecazione e mi indicò una sedia mentre recuperava il kit di primo soccorso. Ripulendomi dal sangue con un panno inumidito, mi disse in tono burbero: «Ne troveremo un paio.» Mi guardai le mani distrutte mentre Dimitri era al lavoro. «Questo è solo l'inizio, vero?» «Di cosa?»

«Di me. Che mi trasformo in Alberta. Lei... e tutte le altre donne guardiano. Sono tutte calli e cose così. Combattono e si allenano e stanno sempre all'aperto... non sono più carine.» Feci una pausa. «Questa... questa vita. Le distrugge. Il loro aspetto, intendo.» Esitò un istante e alzò lo sguardo dalle mie mani. Mi studiò con quei suoi occhi castani, e qualcosa dentro il mio petto si serrò. Dannazione. Dovevo smetterla di sentirmi così quando gli stavo vicino. «A te non succederà. Tu sei troppo...» Brancolò in cerca della parola giusta, e nella mia mente io aggiunsi ogni genere di possibilità. Divina. Sexy da mozzare il fiato. Alla fine si arrese, e si limitò a dire: «A te non accadrà.» Tornò a dedicarsi alle mie mani. Pensava... pensava che fossi carina? Non avevo mai dubitato della reazione che scatenavo nei ragazzi della mia età, ma con lui proprio non ne avevo idea. La stretta al petto si serrò ancora di più. «A mia mamma è successo. Era bella. Penso che lo sia ancora, in un certo senso. Ma non nel modo in cui lo era prima.» Con amarezza, aggiunsi: «È un po' che non la vedo. Per quanto ne so, adesso potrebbe essere completamente diversa.» «Tua madre non ti piace» commentò lui. «L'hai notato, eh?» «La conosci appena.» «È questo il punto. Mi ha abbandonata. Ha lasciato che fosse l'Accademia a crescermi.» Quando finì di ripulire le ferite, Dimitri trovò un barattolo di unguento lenitivo e iniziò a sfregarlo sulle zone più ruvide della pelle. La sensazione delle sue mani che massaggiavano le mie quasi mi fece perdere la testa. «Dici così... ma che altro avrebbe dovuto fare? So che vuoi diventare un guardiano. So cosa significa per te. Pensi che lei provi qualcosa di diverso? Credi che avrebbe dovuto lasciar perdere tutto per crescerti, quando avresti comunque finito per trascorrere gran parte della tua vita qui?» Non accettavo tanto di buon grado che mi si rivolgessero delle obiezioni, anche se erano ragionevoli. «Vuoi dire che sono un'ipocrita?» «Sto solo dicendo che non dovresti essere così dura con lei. È una dhampir molto rispettata. Ti ha messo sulla strada giusta perché tu possa diventare come lei.» «Venire a trovarmi più spesso non la ucciderebbe» brontolai. «Ma credo che tu abbia ragione. In parte. Penso che avrebbe potuto andarmi peggio. Sarei potuta crescere con delle sgualdrine di sangue.» Dimitri levò lo sguardo. «Io sono stato cresciuto in una comune di dhampir. Non sono male quanto credi.» «Oh.» D'un tratto mi sentii sciocca. «Non volevo...» «È tutto a posto.» Tornò a occuparsi delle mie mani. «E quindi hai, tipo, una famiglia laggiù? Sei cresciuto con loro?» Annuì. «Mia madre e due sorelle. Dopo la scuola non le ho viste più molto, ma ci teniamo in contatto. In pratica le comunità sono una specie di famiglia. Sono piene d'amore, non so che storie tu abbia sentito.» La mia amarezza tornò a farsi sentire, e abbassai di nuovo lo sguardo per non darlo a vedere. Dimitri aveva avuto una vita familiare più felice con una madre e delle parenti disonorate di quanto non l'avessi avuta io con la mia "rispettabilissima" mamma guardiano. Di certo lui conosceva sua madre meglio di quanto io non conoscessi la mia. «Già, ma... non è stato strano? Ci sono un mucchio di Moroi che le vanno a trovare e le usano

come passatempo, sai?» Le sue mani disegnarono dei cerchi sulle mie. «A volte.» C'era qualcosa di temibile nel suo tono, qualcosa che mi diceva che quell'argomento non gli piaceva. «Mi... mi dispiace. Non volevo tirare in ballo qualcosa di brutto...» «In realtà... forse non lo troveresti tanto brutto» disse dopo quasi un minuto. Un sorriso a denti stretti si formò sulle sue labbra. «Tu non lo conosci, tuo padre, vero?» Scossi la testa. «No. L'unica cosa che so è che deve avere dei capelli dannatamente belli.» Dimitri sollevò lo sguardo, e i suoi occhi mi percorsero rapidi. «Già. Deve.» Tornando alle mie mani, disse esitante: «Io conosco il mio.» Mi si gelò il sangue. «Davvero? La maggior parte dei Moroi non rimane... voglio dire, alcuni lo fanno, ma sai, di solito...» «Be', a lui mia madre piaceva.» Non disse "piaceva" in modo carino. «E andava spesso a trovarla. È anche il padre di mia sorella. Ma quando veniva. .. be', non trattava mia madre molto bene. Ha fatto delle cose orribili.» «Tipo...» Esitai. Stavamo parlando della madre di Dimitri. Non sapevo quanto potessi spingermi in là. «Cose da sgualdrina di sangue?» «Cose del tipo picchiarla» rispose lui in tono piatto. Finì di bendarmi ma continuò a tenermi le mani. Non so neppure se se n'era accorto. Di certo io lo feci. Le sue erano calde e grandi, con dita lunghe e aggraziate. Dita che in un'altra vita avrebbero potuto suonare il pianoforte. «Oh Dio» dissi. Era orribile. Gli strinsi le mani. Lui restituì la stretta. «È orribile. E lei... lei lo permetteva?» «Sì.» Un angolo della bocca gli si sollevò in un sorriso allusivo, triste. «Ma io no.» Avvampai di eccitazione. «Dimmi, dimmi che l'hai fatto piangere.» Il suo sorriso si allargò. «Proprio così.» «Wow.» Non avevo mai pensato che Dimitri potesse essere più grandioso di così, ma mi sbagliavo. «Hai picchiato tuo padre. Cioè, quello che è... è orribile. Ma tu sei davvero un dio.» Batté le palpebre. «Cosa?» «Uh, niente.» Cercai di cambiare in fretta argomento. «Quanti anni avevi?» Sembrava ancora perplesso dal mio commento sul fatto che fosse un dio. «Tredici.» Whoa. Davvero un dio. «Le hai suonate a tuo padre quando avevi tredici anni?» «Non è stato così difficile. Ero più forte di lui, e quasi più alto. Non potevo permettergli di continuare a farlo. Doveva imparare che essere di casata reale e Moroi non significa poter fare ciò che si vuole con gli altri, nemmeno con le sgualdrine di sangue.» Lo guardavo a occhi sgranati. Non riuscivo a credere che avesse appena detto una cosa del genere di sua madre. «Mi dispiace.» «Va tutto bene.» Ogni tessera del puzzle andò al proprio posto. «È per questo che te la sei presa così tanto per Jesse, vero? Era un Moroi di casata reale che cercava di approfittarsi di una ragazza dhampir.» Dimitri volse lo sguardo altrove. «Me la sono presa per molte ragioni. Dopotutto, stavi infrangendo il regolamento, e...»

Non finì la frase, ma tornò a guardarmi diritto negli occhi, riuscendo a creare fra noi dell'intimità. Pensare a Jesse, sfortunatamente, finì per deprimermi. Abbassai lo sguardo. «So che hai sentito quello che si dice su di me, che sono...» «So che non è vero» mi interruppe. La sua immediata, ferma risposta mi stupì, e come una stupida mi ritrovai a chiedergliene la ragione. «Già, ma come fai...» «Perché ti conosco» ribatté con fermezza. «Conosco la tua natura. So che diventerai un grande guardiano.» La sua sicurezza fece tornare quel sentimento caldo. «Sono contenta che qualcuno la pensi così. Tutti gli altri sono convinti che io sia solo un'irresponsabile.» «Il modo in cui ti preoccupi più di Lissa che di te stessa...» Scosse la testa. «No. Sei più consapevole delle tue responsabilità di tanti guardiani che hanno il doppio dei tuoi anni. Farai tutto ciò che è necessario per arrivare fino in fondo.» Ci pensai su. «Non so se sarò in grado di fare tutto il necessario.» Sollevò un sopracciglio, con aria stupita. «Non voglio tagliarmi i capelli» spiegai. Sembrava disorientato. «Non devi tagliarti i capelli. Non è necessario.» «Le altre donne guardiano lo fanno. Mettono in mostra i tatuaggi.» Inaspettatamente mi lasciò le mani e si chinò in avanti. Allungò piano una mano e mi afferrò una ciocca di capelli, attorcigliandola attorno a un dito con fare pensieroso. Rimasi immobile, e per un istante al mondo non ci fu altro che lui che mi toccava capelli. Lasciò andare la ciocca, con l'aria un po' sorpresa - e imbarazzata - per ciò che aveva fatto. «Non tagliarli» disse con voce roca. In qualche modo ricordai come si faceva a parlare. «Ma se non lo faccio, nessuno potrà vedere i miei tatuaggi.» Andò verso la porta, un sorrisetto faceva capolino sulle sue labbra. «Legali.»

Continuai a spiare Lissa per un altro paio di giorni, sentendomi ogni volta appena un po' colpevole. Lo aveva sempre odiato quando succedeva per caso, e ora lo stavo facendo apposta. La vidi riallacciare i rapporti con i pezzi grossi delle casate reali uno alla volta, con costanza. Non poteva esercitare una compulsione di gruppo, ma prendere una persona alla volta era ugualmente efficace, solo più lento. E poi alcuni non avevano bisogno di essere convinti, per tornare a frequentarla. Certi non erano superficiali come sembravano; si ricordavano di Lissa e la apprezzavano per com'era. Le si affollavano intorno, e adesso, un mese e mezzo dopo il nostro ritorno all'Accademia, era come se non se ne fosse mai andata. E durante quest'ascesa verso la fama, lei assumeva le mie difese e si schierava contro Mia e Jesse. Una mattina mi ritrovai dentro di lei mentre si preparava per la colazione. Aveva passato gli ultimi venti minuti a fonare e stirare i capelli, una cosa che non faceva da un po'. Natalie, seduta sul letto nella loro stanza, assisteva incuriosita. Quando Lissa passò al trucco, Natalie finalmente parlò. «Ehi, dopo la scuola guarderemo un film in camera di Erin. Ci vieni?» Avevo sempre scherzato sul fatto che Natalie fosse noiosa, ma la sua amica Erin aveva la personalità di una parete di cartongesso. «Non posso. Devo aiutare Camille a decolorare i capelli di Carly.» «Passi davvero un sacco di tempo con loro, ormai.» «Già, credo di sì.» Lissa si mise un po' di mascara, e subito i suoi occhi sembrarono più grandi. «Pensavo che non ti piacessero più.» «Ho cambiato idea.» «Sembra che anche tu piaccia molto a loro, ormai. Voglio dire, non che tu non possa piacere a qualcuno, però quando sei tornata e non gli hai più rivolto la parola, anche loro sembravano ignorarti. Li ho sentiti sparlare spesso di te. Non c'è da stupirsi, considerato che sono anche amici di

Mia, ma è strano quanto ti apprezzino ora. Voglio dire, li ho sentiti: aspettano sempre di vedere cosa hai voglia di fare tu prima di pianificare qualcosa. E un gruppetto adesso sta anche prendendo le difese di Rose, che è davvero un'assurdità. Non che io creda a tutto quello che si dice su di lei, ma non avrei mai immaginato che fosse possibile...» Dietro i vaneggiamenti di Natalie si nascondeva il germe del sospetto, e Lissa lo riconobbe. Con ogni probabilità a Natalie non sarebbe mai passato per la mente che si trattasse di compulsione, ma Lissa non poteva correre il rischio che qualche domanda innocente si trasformasse in qualcosa di più. «Sai una cosa?» la interruppe. «Forse potrei fare un salto da Erin, dopotutto. Scommetto che per i capelli di Carly non ci vorrà molto.» L'offerta fece deragliare il treno dei pensieri di Natalie. «Davvero? Oh, wow, sarebbe grandioso. Mi stava proprio dicendo di quanto fosse dispiaciuta di non vederti più così spesso, e io le ho detto...» Lissa insistette con la compulsione, e tornò popolare. Io rimasi a osservarla in silenzio, sempre preoccupata, malgrado i suoi grossi sforzi cominciassero a ridurre le occhiate e i pettegolezzi su di me. «Ti si ritorcerà contro» le sussurrai in chiesa, un giorno. «Qualcuno inizierà a farsi delle domande e a pretendere delle risposte.» «Piantala di essere così melodrammatica. Gli equilibri di potere qui dentro cambiano di continuo.» «Sì, ma non in questo modo.» «Non credi che possa bastare la mia personalità?» «Certo che lo credo, ma se Christian se n'è accorto subito, magari qualcun altro se ne...» Mi bloccai quando due ragazzi più in là sulla nca proruppero in risolini. Sollevando gli occhi, mi accorsi che fissavano me, senza neppure prendersi il disturbo di nascondere i loro sogghigni. Guardando altrove, cercai di ignorarli, sperando all'improvviso che il sacerdote iniziasse la funzione. Ma Lissa ricambiò con un'occhiataccia, e un'inattesa ferocia le balenò sul volto. Non disse una parola, ma i sogghigni si fecero sempre più esili sotto il suo sguardo intenso. «Chiedetele scusa» disse. «E fate in modo di essere convincenti.» Un istante più tardi, si prostravano a terra dicendosi dispiaciuti e pregandomi di perdonarli. Stentavo a crederci. Aveva usato la compulsione in pubblico; e fra tutti i posti possibili, in chiesa. Su due persone contemporaneamente. Alla fine i due esaurirono le loro scorte di scuse, ma Lissa non aveva ancora finito. «È questo il massimo che riuscite a fare?» ringhiò. I loro occhi si spalancarono, allarmati, terrorizzati al pensiero di farla arrabbiare. «Liss» mi affrettai a dire, sfiorandole il braccio. «Va bene così. Io, uh, accetto le loro scuse.» II suo viso trasmetteva ancora condanna, ma alla fine Lissa fece cenno di sì con il capo. I ragazzi si lasciarono cadere sulla panca, rincuorati. Accidenti. L'inizio di una messa non mi aveva mai fatto sentire tanto sollevata. Attraverso il legame, percepivo una sorta di oscura soddisfazione provenire da Lissa. Era insolito per lei, e non mi piaceva. Sentendo il bisogno di distrarmi da quel suo comportamento preoccupante, mi misi a studiare le altre persone, come spesso mi capitava di fare. Vicino a noi, Christian teneva d'occhio Lissa senza nemmeno cercare di nasconderlo, con un'espressione inquieta in volto. Quando si accorse di me, aggrottò le sopracciglia e distolse lo sguardo.

Dimitri era seduto in fondo, come sempre, e per la prima volta non sembrava in allerta, alla continua ricerca di una minaccia nascosta. Era concentrato su se stesso e aveva un'espressione addolorata, quasi. Non sapevo ancora perché venisse in chiesa. Aveva sempre l'aria di uno che lottava contro qualcosa. Di fronte a noi, il sacerdote stava parlando ancora una volta di san Vladimir. «Il suo spirito era forte, e Dio lo aveva benedetto con un dono. Al suo tocco, gli storpi tornavano a camminare, e i ciechi tornavano a vedere. Dove poggiava il piede, sbocciavano fiori.» Ragazzi, ai Moroi serviva davvero qualche altro santo... Guariva gli storpi e i ciechi? Mi ero del tutto dimenticata di san Vladimir. Masoi aveva accennato al fatto che san Vladimir riportasse indietro le persone dalla morte, e allora la cosa mi aveva fatto venire in mente Lissa. Poi altre faccende avevano finito per distrarmi. Per un po' non avevo più pensato al santo e al suo guardiano "baciato dalla tenebra", e al loro legame. Come aveva potuto sfuggirmi? La signora Karp, mi resi conto, non era l'unico altro Moroi in grado di guarire come Lissa. Anche Vladimir sapeva farlo. «E intanto le folle si raccoglievano attorno a lui, amandolo, desiderose di mettere in pratica i suoi insegnamenti e di ascoltarlo predicare la parola di Dio...» Voltandomi, fissai Lissa. Lei mi guardò perplessa. «Che c'è?» Non ebbi modo di approfondire il discorso, non so neanche se sarei stata in grado di trovare le parole, perché fui scortata alla mia prigione nell'istante preciso in cui mi alzai al termine della funzione. Una volta in camera, mi collegai a internet per fare una ricerca su san Vladimir ma non trovai niente di utile. Dannazione. Mason aveva dato un'occhiata ai libri in biblioteca e aveva detto che là dentro c'era ben poco. E quindi che cos'avevo in mano? Non c'era modo di sapere qualcosa di più su quel vecchio santo impolverato. O invece un modo c'era? Che cos'aveva detto Christian il primo giorno, insieme a Lissa? Quassù abbiamo un vecchio baule zeppo di scritti sul beato e folle san Vladimir. La soffitta della cappella. Avevo gli scritti. Me li aveva suggeriti Christian. Avevo bisogno di dar loro un'occhiata, ma come? Non potevo chiedere al sacerdote. Come avrebbe reagito, scoprendo che gli studenti andavano lassù? Sarebbe stata la fine della tana di Christian. Forse, però... forse Christian poteva darmi una mano. Ma era domenica, e non lo avrei visto fino al pomeriggio del giorno dopo. E anche allora, non sapevo se avrei avuto la possibilità di parlargli da sola. Più tardi, uscendo per gli allenamenti, mi fermai nella cucina del dormitorio per prendere una barretta ai cereali. Nel farlo superai un paio di novizi, Miles e Anthony. Vedendomi, Miles fischiò. «Come va, Rose? Ti senti sola? Vuoi compagnia?» Anthony rise. «Non posso morderti, ma posso darti qualcos'altro che desideri.» Per uscire dovevo passare per la porta davanti a cui erano fermi. Furiosa, mi feci strada, ma Miles mi afferrò per la vita, la mano che scivolava verso il mio sedere. «Levami le mani dal culo prima che ti spacchi la faccia» gli dissi, ritraendomi di scatto. Nel farlo, però, finii per sbattere contro Anthony. «Avanti» disse Anthony «pensavo che non avessi problemi a farti due ragazzi contemporaneamente.» Un'altra voce parlò. «Se non ve ne andate subito, sarò io a farmi voi due.» Mason. Mio eroe.

«Ti dai troppe arie, Ashford» disse Miles. Tra i due era il più grosso, e mi lasciò andare per piantarsi di fronte a Mason. Anthony si allontanò senza preoccuparsi di me, molto più interessato a un eventuale scontro. C'era così tanto testosterone nell'aria che sentivo il bisogno di una maschera antigas. «Te la fai anche tu?» chiese Miles a Mason. «Non vuoi condividerla?» «Di' un'altra parola su di lei, e ti stacco la testa.» «Perché? È soltanto una da quattro soldi, una putt...» Mason gli tirò un pugno. Non gli staccò la testa né gli ruppe o fece sanguinare qualcosa, ma sembrava facesse male. Miles spalancò gli occhi; balzò in avanti verso Mason. Il rumore delle porte che si aprivano fece immobilizzare tutti. I novizi si ritrovavano in un mucchio di guai se facevano a pugni. «Probabilmente sta arrivando qualche guardiano» sogghignò Mason. «Volete che si sappia che stavate maltrattando una ragazza?» Miles e Anthony si scambiarono un'occhiata. «Andiamo» disse Anthony. «Andiamo. Non abbiamo tempo per questa roba.» Miles lo seguì con riluttanza. «Ci vediamo più tardi, Ashford.» Quando se ne furono andati, mi rivolsi a Mason. «Maltrattare una ragazza?» «Prego» disse lui con sarcasmo. «Non avevo bisogno del tuo aiuto.» «Certo. Te la stavi cavando benissimo da sola.» «Mi hanno preso alla sprovvista, ecco tutto. Alla fine me la sarei cavata.» «Ascolta, non scaricare su di me l'incazzatura.» «E solo che non mi piace essere trattata come... una ragazza.» «Tu sei una ragazza. E stavo solo cercando di darti una mano.» Lo guardai e riconobbi la sincerità sul suo viso. Aveva avuto le migliori intenzioni. Non c'era ragione di fare la stronza con lui quando negli ultimi tempi avevo già così tante persone da dover odiare. «Be'... grazie. Mi spiace di essermela presa proprio con te.» Parlammo per un po', e riuscii a scucirgli qualche altro pettegolezzo che circolava a scuola. Si era accorto dell'ascesa di Lissa ma non sembrava trovarla sospetta. Mentre parlavamo, mi accorsi dello sguardo adorante che aveva ogni volta che mi ave-va vicino. Mi rattristava sapere che provava un sentimento del genere per me. Mi faceva perfino sentire in colpa. Quanto poteva essere dura, mi chiesi, uscire con lui? Era gentile, divertente, e abbastanza carino. Andavamo d'accordo. Perché dovevo sempre mettermi nei casini con gli altri ragazzi, quando ne avevo uno a portata di mano, uno così dolce e carino che mi desiderava? Perché non potevo ricambiare i suoi sentimenti e basta? La risposta arrivò ancora prima che avessi finito di farmi la domanda. Non potevo essere la ragazza di Mason perché quando immaginavo qualcuno stringermi e sussurrarmi cosacce all'orecchio, quella persona aveva un accento russo. Mason continuò a fissarmi adorante, ignaro di ciò che accadeva nella mia testa. E di fronte alla sua ammirazione, tutto a un tratto mi venne in mente un modo per sfruttarla a mio vantaggio. Anche se mi sentivo un po' in colpa, cominciai a civettare e vidi che l'ardore di Mason cresceva.

Mi appoggiai alla parete, accanto a lui, così che le nostre braccia si sfiorassero, e gli feci un sorriso languido. «Sai, continuo a non approvare tutta la faccenda di te che fai l'eroe, ma li hai spaventati. Ne valeva quasi la pena.» «Però non approvi?» Feci scivolare le dita lungo il suo braccio. «No, voglio dire, è eccitante in teoria, ma non lo è in pratica.» Rise. «Sì, come no.» Mi afferrò la mano e mi guardò con sguardo furbo. «A volte hai bisogno di essere salvata. Sono anche convinto che a volte ti piaccia essere salvata, ma che non ti vada di ammetterlo.» «E io credo che a te ecciti salvare le persone ma che non ti vada di ammetterlo.» «Non credo che tu sappia cosa mi eccita. Salvare damigelle come te è soltanto la cosa più onorevole da fare» dichiarò nobilmente. Repressi l'impulso di dargli un ceffone per aver usato il termine damigelle. «Allora provamelo. Fammi un favore soltanto perché è la cosa giusta da fare.» «Certo» rispose pronto. «Dimmi di che si tratta.» «Ho bisogno che porti un messaggio a Christian Ozera.» Il suo zelo vacillò. «Ma che...? Non dici sul serio.» «Sì. Invece sì.» «Rose... non posso parlare con lui. Lo sai.» «Pensavo che avessi detto che mi avresti aiutato. Pensavo che avessi detto che aiutare "damigelle" è la cosa più onorevole da fare.» «Non vedo proprio che cosa c'entra l'onore.» Gli scoccai l'occhiata più cocente di cui ero capace. Cedette. «Cosa vuoi che gli dica?» «Digli che ho bisogno dei libri su san Vladimir. Quelli nella soffitta. Deve farmeli avere al più presto. Digli che si tratta di Lissa. E digli... digli che la sera al ricevimento gli ho mentito.» Esitai per un istante. «Digli che mi dispiace.» «Non ha alcun senso.» «Non deve averne. Fallo e basta. Per piacere.» Tornai al mio sorriso da reginetta di bellezza. Con la precipitosa rassicurazione che avrebbe fatto tutto ciò che avrebbe potuto, se ne andò a pranzo, e io uscii per l'allenamento.

Mason recapitò il messaggio. Mi trovò il giorno dopo prima della scuola. Aveva con sé una scatola di libri. «Eccoli» disse. «Datti una mossa e prendili prima di farmi finire nei guai per averti parlato.» Me li passò, e io sbuffai. Erano pesanti. «Te li ha dati Christian?» «Già. Sono riuscito a parlarci senza che nessuno se ne accorgesse. Ha un bel caratterino, te ne sei mai accorta?» «Già, l'ho notato.» Ricompensai Mason con un sorriso che lui divorò. «Grazie. Significa molto per me.» Trascinai il bottino in camera mia, perfettamente cosciente di quanto fosse assurdo che qualcuno che odiava così tanto studiare, vale a dire io, stesse per finire sepolta sotto un polveroso mucchio di idiozie del quattordicesimo secolo. Tuttavia, quando aprii il primo volume, vidi che doveva trattarsi di una ristampa di una ristampa di una ristampa, probabilmente perché qualcosa di così vecchio doveva già essere caduto a pezzi. Passando al setaccio i libri scoprii che si potevano dividere in tre categorie: libri scritti dopo la morte di san Vladimir, libri scritti da altri mentre era ancora in vita, e una specie di diario scritto di suo pugno. Che cos'aveva detto Mason a proposito di fonti primarie e secondarie? Gli ultimi due gruppi furono quelli che considerai per primi. Chi li aveva ristampati aveva rielaborato i testi quanto bastava perché non dovessi leggerli in inglese antico. O peggio ancora, in russo, immaginai. San Vladimir era vissuto nella vecchia madre

patria. Oggi ho guarito la madre di Sava, che da molto soffriva di forti dolori allo stomaco. Il suo malanno è scomparso, ma Dio non mi ha concesso la facoltà di compiere una tale impresa con facilità. Mi sento debole e stordito, e la pazzia sta cercando di insinuarsi nella mia mente. Ringrazio Dio ogni giorno di avere con me Anna baciata dalla tenebra, poiché senza di lei, di certo non sopravviverei. Anna, di nuovo. E "baciata dalla tenebra". Tra le altre cose, parlava molto di lei. Si trattava soprattutto di lunghi sermoni, proprio come quelli che avevo ascoltato in chiesa. Super-noiosi. Altre volte, però, il libro si leggeva proprio come un diario, con il resoconto delle giornate di san Vladimir. E se davvero non si trattava di un mucchio di fesserie, Vladimir passava tutto il tempo a guarire. I malati. I feriti. Persino le piante. Faceva rivivere i raccolti andati a male se la gente moriva di fame. A volta faceva sbocciare i fiori solo per il piacere di farlo. Continuando a leggere scoprii che avere accanto Anna, per il vecchio Vladimir, era un'ottima cosa, considerato che era messo piuttosto male. Più usava i suoi poteri, infatti, più quei poteri si impossessavano di lui. Si infuriava o intristiva senza ragione. Dava la colpa ai demoni e a sciocchezze simili, ma era evidente che soffrisse di depressione. Una volta ammise nel suo diario di aver tentato di suicidarsi. Anna lo aveva fermato. Più avanti, leggiucchiando un libro scritto dal tizio che conosceva Vladimir, lessi: E molti lo credono persino miracoloso, il potere che il pio Vladimir esercita sugli altri. Moroi e dhampir si affollano attorno a lui e ascoltano le sue parole, felici solo di potergli stare vicino. Alcuni sostengono che sia pazzia, ciò che si impossessa di lui, e non uno spirito grande, ma la maggior parte di loro lo adora, e farebbe qualunque cosa gli venisse chiesta. È tale il modo in cui Dio marchia i suoi prescelti; e se simili momenti sono seguiti da allucinazioni e sconforto, è un sacrificio insignificante se paragonato alla benevolenza e al carisma di cui può dare prova tra le persone. Ricordava molto ciò che ripeteva il sacerdote, ma sentivo che san Vladimir era stato ben più di una "personalità carismatica". Le persone lo adoravano, avrebbero fatto qualunque cosa avesse chiesto loro. Sì. Vladimir aveva usato la compulsione sui suoi seguaci, ne ero certa. Molti Moroi lo avevano fatto, prima che venisse vietato, ma non erano mai arrivati a servirsene su dhampir e Moroi. Non ne erano in grado. Solo Lissa sapeva farlo. Richiusi il libro e mi sdraiai. Vladimir guariva piante e animali. Sapeva usare la compulsione su larga scala. E secondo ciascuna versione della storia, l'uso di quei poteri lo aveva gettato nella depressione e reso folle. E in aggiunta, a rendere le cose ancora più strane, c'era il fatto che tutti continuassero a descrivere il suo guardiano come "baciato dalla tenebra". Quel modo di dire non mi dava più pace, dalla prima volta che l'avevo sentito... "Sei baciata dalla tenebrai Devi prenderti cura di lei." La signora Karp mi aveva gridato quelle parole, le mani aggrappate alla mia maglietta mentre mi strattonava. Era successo una notte di due anni prima, quando mi ero trovata ad aggirarmi nell'edificio principale della scuola superiore per restituire un libro. Era da poco scattato il coprifuoco, e i corridoi erano deserti. Avevo sentito un gran trambusto, e poi la signora Karp era sbucata a tutta velocità da dietro l'angolo, l'espressione delirante e gli occhi sbarrati. Mi aveva sbattuto contro una parete, senza lasciarmi andare. "Hai capito?" Conoscevo un numero sufficiente di tecniche di autodifesa e, con ogni probabilità, avrei potuto spingerla via, ma lo shock mi aveva gelato il sangue. "No." "Stanno venendo per me. Poi verranno per lei." "Chi?"

"Lissa. Devi proteggerla. Più se ne serve, peggio sarà. Fermala, Rose. Fermala prima che se ne accorgano, prima che se ne accorgano e prendano anche lei. Portala via di qui!" "Io... cosa sta dicendo? Portarla via... intende dire dall'Accademia?" "Sì! Dovete andarvene. Siete unite da un legame. È compito tuo. Portala lontano da qui." Le sue parole non avevano alcun senso. Nessuno lasciava l'Accademia. Eppure, mentre mi teneva bloccata e mi guardava diritta negli occhi, avevo iniziato a sentirmi strana. Una sensazione confusa mi aveva annebbiato la mente. Ciò che aveva detto all'improvviso mi appariva ragionevole, la cosa più ragionevole del mondo. Sì. Dovevo portare via Lissa, prenderla... Dei passi erano riecheggiati nel corridoio, e un gruppo di guardiani aveva svoltato l'angolo. Non li avevo riconosciuti. Non erano della scuola. Me l'avevano strappata via di dosso, immobilizzandola nonostante tutto il suo agitarsi. Qualcuno mi aveva chiesto se stavo bene, ma io non sapevo far altro che fissare la signora Karp. "Non lasciarle usare il potere!" aveva gridato. "Salvala. Salvala da se stessa." Più tardi i guardiani mi avevano spiegato che non si sentiva bene e che era stata portata in un posto dove potesse riprendersi. Là sarebbe stata al sicuro e avrebbe avuto chi si sarebbe preso cura di lei, mi garantirono. Si sarebbe ristabilita. Solo che non era successo. Tornando al presente, fissai a lungo i libri e cercai di mettere insieme le cose. Lissa. La signora Karp. San Vladimir. Che cosa avrei dovuto fare? Qualcuno bussò alla porta, strappandomi ai ricordi. Dopo la mia sospensione nessuno mi aveva più fatto visita, neppure qualcuno del personale della scuola. Quando aprii la porta, trovai Mason nel corridoio. «Due volte in un giorno?» chiesi. «E come hai fatto ad arrivare fin qui?» Mi fece quel suo sorriso disinvolto. «Qualcuno ha messo un fiammifero in uno dei cestini del bagno. Il personale è piuttosto impegnato. Andiamo, ti faccio strada.» Scossi la testa. A quanto pareva appiccare il fuoco era diventato una nuova dimostrazione d'affetto. L'aveva fatto Christian, e adesso Mason. «Scusami, ma niente salvataggi stasera. Se mi beccano...» «Ordini di Lissa.» Chiusi la bocca e mi lasciai guidare di nascosto fuori dall'edificio. Mi portò fino al dormitorio dei Moroi e riuscì per miracolo a farmi entrare e arrivare alla camera di Lissa senza che nessuno mi vedesse. Mi domandai se come diversivo ci fosse un incendio anche nel bagno di quell'edificio. In camera mi ritrovai nel bel mezzo di un party. Lissa, Camille, Carly, Aaron e qualche altro reale stavano seduti e ridevano, ascoltavano musica ad alto volume e si passavano bottiglie di whisky. Niente Mia, niente Jesse. Natalie, notai qualche istante dopo, stava seduta in disparte rispetto al gruppo, visibilmente in difficoltà su come comportarsi in loro presenza. La sua goffaggine era lampante. Lissa si tirò in piedi a fatica, le sensazioni confuse che arrivavano attraverso il legame dicevano che stava bevendo da un po'. «Rose!» Si rivolse a Mason con un sorriso abbagliante. «Hai recapitato il messaggio.» Mason le fece un inchino esagerato. «Sono ai vostri comandi » Sperai che io avesse fatto per il brivido di farlo e non per una compulsione. Lissa mi agganciò la vita con un braccio, e mi tirò giù, verso gli altri. «Unisciti alle celebrazioni.»

«Cosa festeggiamo?» «Non so. La tua evasione di stanotte?» Qualcuno degli altri levò i bicchieri di plastica, acclamando e brindando alla mia salute. Xander Badica riempì altri due bicchieri, passandoli a Mason e me. Presi il mio sorridendo, e senza smettere di sentirmi a disagio per la piega che stavano prendendo gli eventi quella sera. Fino a non molto tempo prima, avrei gradito una festa del genere e mi sarei scolata il mio drink in trenta secondi. Questa volta, però, c'erano troppe cose che mi infastidivano. Per esempio il fatto che i reali trattassero Lissa come una divinità. Per esempio il fatto che nessuno di loro sembrasse ricordare che ero stata accusata di essere una sgualdrina di sangue. Per esempio il fatto che Lissa fosse del tutto infelice nonostante i sorrisi e le risate. «Dove avete trovato il whisky?» chiesi. «Il signor Nagy» disse Aaron. Sedeva molto vicino a Lissa. Tutti sapevano che il signor Nagy dopo la scuola non faceva altro che bere, e che aveva una bella scorta al campus. Trovava sempre nuovi nascondigli, e gli studenti li scovavano ogni volta. Lissa si appoggiò alla spalla di Aaron. «Aaron mi ha dato una mano a intrufolarmi nella sua camera e a prenderlo. Lo aveva nascosto in fondo all'armadio.» Gli altri risero, e Aaron la guardò con completa e totale devozione. Mi accorsi con piacere che su di lui Lissa non doveva utilizzare alcuna compulsione. Lui era semplicemente pazzo di lei. Lo era sempre stato. «Perché non bevi?» mi chiese Mason poco dopo, sussurrandomi nell'orecchio. Abbassai lo sguardo sul bicchiere, abbastanza sorpresa di vederlo pieno. «Non so. Credo che i guardiani non dovrebbero bere in compagnia dei loro protetti.» «Ma lei non è ancora la tua protetta! Non sei in servizio. Non lo sarai ancora per molto. Da quando sei diventata così responsabile?» Non pensavo di essere tanto responsabile. Ma stavo ripensando a quello che aveva detto Dimitri sul controbilanciare il divertimento con il dovere. Avevo l'impressione che fosse sbagliato lasciarmi andare quando Lissa, di recente, era stata tanto vulnerabile, tutto qui. Sgusciando via dallo spazio angusto tra lei e Mason mi allontanai per sedermi accanto a Natalie. «Ehi Nat, sei silenziosa stasera.» Reggeva in mano un bicchiere colmo quanto il mio. «Anche tu.» Risi piano. «Credo di sì.» Inclinò il capo, guardando Mason e gli altri reali come fossero una specie di esperimento di scienze. Da quando ero arrivata avevano fatto fuori un altro bel po' di whisky, e la loro stupidità era schizzata considerevolmente in alto. «Strano, eh? Mi ero abituata a essere al centro dell'attenzione. Adesso c'è lei.» Strabuzzai gli occhi per la sorpresa. Non l'avevo mai vista sotto questa luce. «Credo di sì.» «Ehi, Rose» disse Xander, finendo quasi per rovesciare il drink mentre si avvicinava. «Allora, com'è stato?» «Com'è stato cosa?» «Lasciare che qualcuno si nutrisse di te?» Gli altri ammutolirono, una specie di senso di attesa calò su di loro. «Non l'ha fatto» disse Lissa in tono allarmato. «Te l'ho detto.» «Sì, sì, lo so che non è successo niente con Jesse e Ralf. Ma voi ragazze lo avete fatto, giusto?

Mentre eravate via?» «Dacci un taglio» disse Lissa. La compulsione funzionava benissimo con il contatto visivo, ma l'attenzione di Xander era concentrata su di me, non su di lei. «Cioè, è tutto a posto. Voi ragazze avete fatto quello che dovevate, giusto? Non è come se tu fossi una donatrice. Voglio solo sapere com'è. Danielle Szelsky mi ha permesso di morderla, una volta. Dice che non ha sentito niente.» Un "oh" collettivo si levò dalle ragazze. Sesso e sangue con i dhampir erano qualcosa di osceno; tra Moroi era cannibalismo. «Sei proprio un bugiardo» disse Camille. «No, dico sul serio. Si è trattato solo di un morsetto. Non era strafatta come i donatori. E tu?» Mi passò il braccio libero attorno alle spalle. «A te è piaciuto?» Il viso di Lissa divenne rigido e pallido. L'alcol indeboliva l'intensità dei suoi sentimenti, ma riuscivo comunque a percepirne quanto bastava per sapere che cosa stava provando. Pensieri oscuri, di terrore, affluivano in me, accentuati dalla rabbia. Di solito Lissa aveva un discreto controllo sui propri eccessi emotivi, a differenza mia, ma l'avevo già vista dare in escandescenze prima d'ora. Era capitato durante una festa molto simile a questa, qualche settimana dopo che la signora Karp era stata portata via. Greg Dashkov, un cugino alla lontana di Natalie, aveva dato una festa in camera sua. A quanto pareva i suoi genitori dovevano conoscere qualcuno che conosceva qualcuno, perché aveva una delle stanze più grandi del dormitorio. Prima dell'incidente era stato amico del fratello di Lissa, ed era stato più che felice di accogliere la sorellina di Andre nella sua cerchia. Greg era stato felice di accogliere anche me, e noi due quella sera ci stavamo dando da fare. Per una al secondo anno come me, stare con un Moroi dell'ultimo era un gran colpo. Avevo bevuto molto quella notte, ma riuscivo ancora a tenere d'occhio Lissa. Aveva sempre addosso un velo di inquietudine quando era in mezzo a tanta gente, e tuttavia nessuno se ne accorgeva, perché Lissa interagiva piuttosto bene con gli altri. La mia sbronza colossale teneva lontane molte sue emozioni, ma fintanto che mi era sembrata a posto, non mi ero preoccupata. Tra i baci, tutto a un tratto Greg si era tirato indietro e aveva guardato sopra la mia spalla. Eravamo seduti tutti e due sulla stessa sedia, io gli stavo in braccio, così avevo allungato il collo per vedere. "Che c'è?" Lui aveva scrollato il capo in un gesto di esasperazione divertita. "Wade ha portato una donatrice." Avevo seguito la traiettoria del suo sguardo fino a Wade Voda, che se ne stava in piedi con il braccio attorno a una gracile ragazza all'incirca della mia età. Era umana e graziosa, con capelli biondi e mossi e una pelle di porcellana, pallida per l'eccessiva perdita di sangue. Qualcun altro si era lanciato su di lei ed era accanto a Wade, rideva e le toccava il viso e i capelli. "Ve ne ha già dato abbastanza, per oggi" avevo detto vedendo il colorito e l'espressione confusa della ragazza. Greg mi aveva fatto scivolare una mano dietro al collo e mi aveva fatto voltare verso di lui. "Non le faranno del male." Ci eravamo baciati per un po', ma poco dopo avevo sentito un colpetto sulla spalla. "Rose." Sollevando lo sguardo avevo trovato il viso di Lissa. La sua espressione allarmata mi aveva intimorito, perché non ero riuscita a percepire l'emozione che nascondeva. Troppa birra. Così ero scesa dalle gambe di Greg. "Dove stai andando?" mi aveva chiesto lui.

"Torno subito." Avevo preso Lissa in disparte, desiderando all'improvviso di essere sobria. "Che c'è che non va?" "Loro." Aveva fatto cenno ai ragazzi che erano con la donatrice; ne aveva ancora attorno un gruppetto, e quando l'avevo vista voltarsi per guardare uno dei ragazzi, ero riuscita a notare le piccole ferite rosse sparse su tutto il collo. Era una sorta di nutrizione di gruppo, la mordevano a turno e a turno si lasciavano andare a commenti disgustosi. Fatta e inconsapevole, lei lo permetteva. "Non possono farlo" aveva detto Lissa. "È una donatrice. Nessuno li fermerà." Lissa mi aveva guardato con occhi supplicanti. Dolore, sdegno e rabbia li riempivano. "Lo farai tu?" Ero sempre stata io quella combattiva, quella che si era presa cura di lei fin da quando eravamo piccole. Il vederla lì in quel momento, così turbata, che non mi staccava gli occhi di dosso perché sistemassi le cose, era troppo per me. Facendole un cerino poco convinto mi ero trascinata fino al gruppetto. "Siete messi così male che dovete procurarvi le ragazze drogandole, Wade?" Mentre faceva correre le labbra sul collo della ragazza, lui aveva sollevato lo sguardo. "Perché? Con Greg hai finito e sei in cerca di qualcun altro?" Mi ero messa le mani sui fianchi nella speranza di apparire sprezzante. La verità era che cominciavo ad avere un po' di nausea per via di tutto quello che avevo bevuto. "Al mondo non ci sono abbastanza droghe per convincermi a venirti vicino" gli avevo detto. Qualcuno dei suoi amici era scoppiato a ridere. "Magari potresti fartela con quella lampada laggiù. Mi sembra fuori quanto basta per decidersi a rendere felice persino uno come te. Non hai più bisogno di lei." Altri avevano riso. "Non sono affari tuoi" aveva sibilato lui. "È soltanto uno spuntino." Paragonare le donatrici al cibo era perfino peggio che dare a una dhampir della sgualdrina di sangue. "Questa non è una sala nutrizioni. Nessuno ha voglia di vedere cose del genere." "Già" si era detta d'accordo una ragazza dell'ultimo anno. "Fa schifo." Anche alcuni dei suoi amici erano stati d'accordo. Wade ci aveva squadrato, riservando a me l'occhiata più dura. "Bene. Nessuno di voi è obbligato ad assistere. Andiamo." Aveva afferrato la donatrice per il braccio e l'aveva trascinata via. Goffamente, lei si era allontanata con passo malfermo insieme a lui piagnucolando. "Era il massimo che potessi fare" avevo detto a Lissa. Lei mi aveva fissato sgomenta. "Non farà altro che portarla in camera sua. Ci farà cose ancora peggiori." "Liss, neanche a me piace, ma non è che posso pedinarlo." Mi ero grattata la fronte. "Potrei prenderlo a pugni o qualcosa del genere, ma in questo momento sento proprio che vomiterei." Si era fatta scura in viso, e si era morsa un labbro. "Non può farlo." "Mi dispiace." Ero tornata da Greg, e mi ero seduta sulle sue ginocchia, un po' dispiaciuta per l'accaduto. Non volevo che ci si approfittasse della donatrice tanto quanto Lissa, mi ricordava troppo bene quello che un sacco di Moroi credevano di poter fare con le ragazze dhampir. Ma non potevo vincere quella battaglia, non quella notte. Greg mi aveva fatto voltare per avere un accesso migliore al mio collo e così, qualche minuto più

tardi, mi ero accorta che Lissa se n'era andata. Praticamente cadendo, ero scesa dalle sue ginocchia e mi ero guardata attorno. "Dov'è Lissa?" Greg aveva allungato una mano per afferrarmi. "Sarà in bagno." Non riuscivo a percepire nulla attraverso il legame. L'alcol lo aveva intorpidito. Raggiunsi il corridoio e tirai un sospiro di sollievo per essermi lasciata alle spalle la musica ad alto volume e le voci. Fuori c'era silenzio, fatta eccezione per il fracasso che proveniva da due camere più in là. La porta era socchiusa, e così mi ero intrufolata. La donatrice era acquattata in un angolo, terrorizzata. Lissa era in piedi con le braccia conserte, l'espressione furiosa e terribile. I suoi occhi tempestosi erano tutti concentrati su Wade, e lui contraccambiava quello sguardo, ammaliato. Teneva in mano una mazza da baseball, e sembrava che l'avesse già usata, perché la stanza era a pezzi: le mensole della libreria, lo stereo, lo specchio... "Rompi anche la finestra" gli aveva detto Lissa con dolcezza. "Avanti. Tanto non ha importanza." Ipnotizzato, Wade aveva raggiunto la grande finestra oscurata. Io ero rimasta a guardare, a bocca aperta, mentre Wade caricava il colpo e centrava con la mazza il vetro. Che era andato in mille pezzi, disseminando schegge dappertutto, lasciando entrare la luce del primo mattino. Wade era indietreggiato mentre la luce gli accendeva gli occhi, ma non si era allontanato. "Lissa" avevo esclamato. "Basta. Fallo smettere." "Avrebbe dovuto fermarsi prima." Riuscivo a malapena a riconoscere l'espressione sul suo viso. Non l'avevo mai vista così sconvolta, e di sicuro non l'avevo mai vista fare una cosa simile. Mi ero resa conto di che cosa si trattava, ovviamente: compulsione. Per quel che ne sapevo, mancava pochissimo che Lissa costringesse Wade a utilizzare la mazza contro se stesso. "Lissa, ti prego. Smettila. Ti prego." Attraverso il confuso annebbiamento alcolico, avevo cominciato a percepire un flusso di emozioni. Erano così intense che avrebbero potuto buttarmi a terra. Malvagie. Colleriche. Spietate. Sentimenti spaventosi, a sentirli arrivare dalla dolce ed equilibrata Lissa. Eravamo amiche dalla scuola materna, ma in quel momento la riconoscevo appena. Avevo avuto paura. "Ti prego, Lissa" avevo ripetuto. "Non ne vale la pena. Lascia perdere." Non mi aveva degnato neppure di uno sguardo. I suoi occhi tempestosi erano rimasti concentrati solo ed esclusivamente su Wade. Con lentezza, con cura, lui aveva sollevato la mazza, inclinandola in modo da allinearla al proprio cranio. "Liss" l'avevo scongiurata. Oddio. Avrei dovuto metterla al tappeto o qualcosa del genere per riuscire a fermarla. "Non farlo." "Avrebbe dovuto smetterla" aveva detto Lissa con voce calma. La mazza si era fermata. Era distante quanto bastava per prendere velocità e sferrare il colpo. "Non avrebbe dovuto farle questo. Non si trattano così gli altri... neppure se sono donatori." "Ma le stai mettendo paura" le avevo detto con dolcezza. "Guardala." In un primo momento non era successo niente, poi Lissa aveva lasciato correre il suo sguardo sulla donatrice. La ragazza umana era ancora accuc-ciata in un angolo, si teneva le braccia strette attorno al corpo come per proteggersi. Gli occhi blu erano sgranati, e la luce si rifletteva sul viso umido, solcato di lacrime. Si era lasciata sfuggire un soffocato, terribile singhiozzo. Lissa era rimasta impassibile. Riuscivo a percepire la battaglia che combatteva dentro di sé per controllarsi. Una parte di lei non avrebbe voluto fare del male a Wade, nonostante la rabbia cieca di

cui si sentiva piena. Aveva corrugato la fronte, e socchiuso gli occhi. Con la mano destra si era afferrata il polso sinistro e lo aveva stretto, le unghie che affondavano in profondità nella carne. Aveva sussultato, ma attraverso il legame avevo percepito il modo in cui lo shock di quel dolore riusciva a distrarla da Wade. Aveva smesso di usare la compulsione, e Wade aveva lasciato ricadere la mazza, assumendo d'un tratto un'aria confusa. Io avevo ricominciato a respirare. Intanto in corridoio risuonavano dei passi. Avevo lasciato la porta aperta, e il trambusto aveva richiamato l'attenzione. Un paio di membri del personale del dormitorio aveva fatto irruzione nella stanza, immobilizzandosi alla vista della devastazione che si erano trovati di fronte. "Cos'è successo?" Noi tre ci eravamo guardati l'uno con l'altra. Wade aveva l'aria smarrita. Aveva guardato la camera, la mazza, e poi Lissa e me. "Non lo so... non riesco..." Si era concentrato su me soltanto, e all'improvviso s'era acceso di rabbia. "Che caz... sei stata tu! Non ti andava bene la faccenda della donatrice!" Gli addetti del dormitorio mi avevano guardato con piglio interrogativo, e nel giro di pochi secondi avevo preso una decisione. Devi proteggerla. Più se ne serve, peggio sarà. Fermala, Rose. Fermala prima che se ne accorgano, prima che se ne accorgano e prendano anche lei. Portala via di qui! Nella mia mente riuscivo a vedere il viso della signora Karp, che mi implorava disperata. Avevo scoccato a Wade un'occhiata carica di sdegno, sapendo bene che nessuno avrebbe messo in dubbio una mia confessione e neppure sospettato di Lissa. "Sì, be', se tu l'avessi lasciata andare" gli avevo detto, "non avrei combinato tutto questo." Salvala. Salvala da se stessa. Dopo quella notte non avevo più bevuto. Mi rifiutavo di abbassare la guardia in presenza di Lissa. E due giorni più tardi, mentre scontavo la mia sospensione per "distruzione di proprietà", avevo preso Lissa ed ero fuggita dall'Accademia. Tornando in camera di Lissa, con il braccio di Xander attorno alle spalle e gli occhi di Lissa rabbiosi e inquieti puntati su di lui, non sapevo se fosse pronta per fare qualcosa di altrettanto drastico. Ma la situazione mi ricordava troppo quella di due anni prima, e sapevo di dover neutralizzare il pericolo. «Solo un goccio di sangue» stava dicendo Xander. «Non ne prenderò molto. Voglio solo sapere che gusto hanno i dhampir. Non darà fastidio a nessuno dei presenti.» «Xander» ringhiò Lissa, «lasciala stare.» Scivolai via da sotto il suo braccio e sorrisi, in cerca di una risposta divertente più che di una che avrebbe potuto scatenare una lite. «Avanti» lo presi in giro, «ho dovuto prendere a pugni l'ultimo ragazzo che me lo ha chiesto, e tu sei più carino di Jesse. Sarebbe un peccato.» «Carino?» chiese. «Io sono una bomba sexy, non sono carino e basta.» Carly rise. «No, sei carino. Todd mi ha detto che ti sei comprato una specie di gel francese per i capelli.» Xander, distratto come la maggior parte delle persone ubriache, si voltò per difendere l'onore, dimenticandosi di me. La tensione si sciolse, e lui accettò di buon grado le battute sui suoi capelli. Dalla parte opposta della camera, Lissa incrociò il mio sguardo, sollevata. Mi sorrise e mi fece un piccolo cenno di ringraziamento prima di tornare a occuparsi di Aaron.

Il giorno dopo, restai stupita di quanto le cose fossero cambiate rispetto a quando le prime voci di Jesse-e-Ralf avevano cominciato a circolare. Per alcuni, io rimanevo una fonte inesauribile di bisbigli e risate. I convertiti di Lissa mi davano amicizia e, a volte, protezione. Più che altro, mi resi conto, i nostri compagni di classe non dedicavano più a me gran parte delle loro attenzioni. E questo valeva soprattutto quando c'era una novità a distrarli. Lissa e Aaron. A quanto pareva, Mia era venuta a sapere della festa e aveva dato di matto scoprendo che Aaron c'era andato senza di lei. Gliele aveva cantate e gli aveva detto che se voleva stare con lei, allora non poteva metterle le corna con Lissa. Così Aaron aveva deciso che non voleva rimanere con lei. L'aveva lasciata quella mattina... ma non si era limitato a questo. Adesso lui e Lissa erano tutti presi l'uno dall'altra. Stavano insieme in corridoio o a pranzo, stretti stretti, a ridere e chiacchierare. Le emozioni di Lissa che arrivavano attraverso il legame rivelavano solo un interesse blando, malgrado quel suo guardarlo come se fosse la creatura più affascinante del pianeta. Era quasi tutta una messa in scena, all'insaputa di Aaron. Lui sembrava pronto a costruirle un altarino da un momento all'altro. E io? Io mi sentivo male. Ma quello che provavo io, era ben poca cosa in confronto a quello che provava Mia. A pranzo si

sedette dalla parte opposta della sala, il più distante possibile da noi, lo sguardo fisso davanti a sé, noncurante della consolazione che le veniva offerta dagli amici che le stavano vicino. Aveva chiazze rosa sulle guance pallide, rotonde, e gli occhi arrossati. Non disse nulla di ignobile quando le passai accanto. Nessuna battutina compiaciuta. Nessuno sguardo canzonatorio. Lissa l'aveva annientata, proprio come Mia aveva promesso di fare con noi. L'unica persona più sfortunata di Mia era Christian. A differenza di Mia, lui non si faceva scrupoli a spiare la felice coppietta con un'aperta espressione di odio sul viso. Come al solito, nessuno tranne me si accorse di lui. Dopo aver visto Lissa e Aaron sbaciucchiarsi per la decima volta, abbandonai il pranzo e andai dalla signora Carmack, la docente che insegnava fondamenti di elementi naturali. Era da un po' che volevo chiederle una cosa. «Rose, giusto?» Sembrava sorpresa di vedermi, ma non arrabbiata o infastidita come la metà degli altri insegnanti in quell'ultimo periodo. «Esatto. Avrei una domanda in merito alla, uhm, magia.» Inarcò un sopracciglio. I novizi non frequentavano i corsi di magia. «Ma certo. Cosa vuoi sapere?» «L'altro giorno ascoltavo il sacerdote a proposito di san Vladimir... Lei sa in quale elemento era specializzato? Vladimir, intendo. Non il sacerdote.» Inarcò tutte e due le sopracciglia. «Strano. Considerando quanto è famoso da queste parti, sono sorpresa che non sia mai venuto fuori. Non sono un'esperta, ma dai racconti che ho sentito non ha mai fatto nulla che io possa associare a uno degli elementi. O è così, oppure qualcuno ha dimenticato di annotare qualcosa.» «E che mi dice delle guarigioni?» Mi spinsi più in là. «C'è forse un elemento che permette di realizzarle?» «No, non che io sappia.» Arricciò le labbra in un timido sorriso. «Le persone di fede direbbero che guariva grazie al potere di Dio, non grazie a una sorta di magia degli elementi. Dopotutto, una cosa su cui concordano tutte le versioni della sua storia è che fosse "pieno di spirito".» «È possibile che non si sia mai specializzato?» Il suo sorriso svanì. «Rose, stiamo parlando di san Vladimir, o si tratta di Lissa?» «Non proprio...» farfugliai. «So quanto sia difficile per lei, soprattutto agli occhi dei suoi compagni di classe, ma deve avere pazienza» mi spiegò con gentilezza. «Succederà. Succede sempre.» «Ma a volte no.» «Raramente. Ma non credo che sarà questo il caso. Ha una predisposizione al di sopra della media per ciascuno dei quattro elementi, anche se non ha raggiunto il livello di specializzazione. Uno di loro un giorno o l'altro prevarrà sugli altri.» Il che mi diede un'idea. «È possibile specializzarsi in più di un elemento?» Lei scoppiò a ridere e scosse il capo. «No. Troppo potere. Nessuno sarebbe in grado di padroneggiare tutta quella magia. Non senza perdere la testa.» Oh. Grandioso. «Okay. Grazie.» Feci per andarmene, poi mi venne in mente un'altra cosa. «Si ricorda della signorina Karp? Lei in cos'era specializzata?» La signora Carmack fece la stessa espressione imbarazzata che avevano fatto gli altri insegnanti quando avevo nominato la signora Karp. «A dire il vero...»

«Cosa?» «Me n'ero quasi dimenticata. Lei era uno di quei rari casi di persone non specializzate. Aveva sempre mantenuto un controllo modesto su tutti e quattro gli elementi.» Trascorsi il resto delle lezioni pomeridiane a ripensare alle parole della signora Carmack, cercando di adattarle alla mia teoria unificata Lissa-Karp-Vladimir. Tenni anche d'occhio Lissa. Ormai erano così tante le persone che volevano parlarle che Lissa notò appena il mio silenzio. Di tanto in tanto, però, la vidi lanciarmi qualche occhiata e sorridere, uno sguardo stanco negli occhi. Ridere e spettegolare per tutto il giorno con persone che le interessavano fino a un certo punto aveva il suo prezzo. «Missione compiuta» le dissi dopo la scuola. «Possiamo mettere fine al Progetto Lavaggio Del Cervello.» Eravamo sedute sulle panchine del cortile, e lei dondolava le gambe avanti e indietro. «Cosa vuoi dire?» «Ce l'hai fatta. Hai impedito che le persone mi rendessero la vita orribile. Hai annientato Mia. Ti sei ripresa Aaron. Sta' al gioco con lui per un altro paio di settimane, poi lascialo perdere, lui e gli altri reali. Sarai più felice.» «Non credi che adesso sia felice?» «So che non lo sei. Certe feste sono divertenti, ma tu odi far finta di essere amica di gente che non ti piace, e a te la maggior parte di loro non piace. So quanto ti ha fatto arrabbiare Xander, l'altra sera.» «È un idiota, ma posso cavarmela. Se smetto di frequentarli, tutto tornerà come prima. Mia ricomincerà. Così non può darci fastidio, invece.» «Ma se alla fine ti infastidisce tutto il resto, allora non ne vale la pena.» «Non c'è niente che mi dia fastidio.» Sembrava un po' sulla difensiva. «Davvero?» chiesi, subdola. «Perché sei così innamorata di Aaron? Perché non vedi l'ora di fare di nuovo sesso con lui?» Mi scoccò un'occhiataccia. «Ti ho mai detto che a volte sai essere una vera stronza?» Finsi di non aver sentito. «Sto solo dicendo che abbiamo già abbastanza rogne, senza bisogno di questa roba. Usare di continuo la compulsione ti sta rovinando.» «Rose!» Si guardò attorno ansiosa. «Taci!» «Ma è vero. Servirtene di continuo ti fotterà il cervello. Sul serio.» «Non credi di esagerare?» «Che mi dici della signora Karp?» Lissa si pietrificò. «Cosa c'entra lei?» «Tu. Tu sei esattamente come lei.» «No. Non lo sono!» L'offesa scintillò in fondo ai suoi occhi verdi. «Anche lei sapeva guarire.» Sentirne parlare la sconvolse. L'argomento ci aveva oppresso per molto tempo, ma non ne avevamo mai parlato. «Non significa niente.» «Lo credi davvero? Conosci qualcun altro in grado di farlo? O che sappia usare la compulsione su dhampir e Moroi?»

«Lei non ha mai usato la compulsione così» obiettò. «L'ha fatto. Ha cercato di servirsene su di me la notte che se n'è andata. Stava funzionando, ma l'hanno portata via prima che potesse finire il lavoro.» Forse invece c'era riuscita. Dopotutto Lissa e io eravamo scappate dall'Accademia solo un mese dopo. Avevo sempre pensato che fosse stata una mia idea, ma forse il consiglio della signora Karp era stato il vero motore di tutta quella faccenda. Lissa si mise a braccia conserte. Aveva un'aria di sfida sul viso, ma percepivo la sua inquietudine. «Molto bene. E quindi? Lei era strana quanto me. Non significa niente. È diventata pazza perché... be', perché lo era. Non c'è nient'altro dietro.» «Ma non si tratta solo di lei» dissi io piano. «C'è qualcun altro come voi. Qualcuno di cui sono venuta a conoscenza.» Esitai. «Hai presente san Vladimir...» E fu allora che mi lasciai andare. Le raccontai tutto. Le dissi di come lei, la signora Karp e san Vladimir potessero guarire e utilizzare una super-compulsione. Malgrado la mortificasse, le dissi di come tutti e tre si lasciassero facilmente turbare, e di come avessero cercato di farsi del male da soli. «Lui ha cercato di uccidersi» dissi senza guardarla negli occhi. «E mi è capitato di notare dei segni sulla pelle della signora Karp, come se si fosse graffiata la faccia. Cercava di nasconderli con i capelli, ma si vedevano le vecchie cicatrici e si capiva quando se ne formavano di nuove.» «Questo non significa niente» insistette Lissa. «È... è soltanto una coincidenza.» Lo disse come se si stesse sforzando di convincersene e, dentro di lei, una parte ne era convinta davvero. Ma c'era un'altra parte di lei, una parte che aveva perso la speranza, che per molto tempo aveva preferito credere di non essere un mostro, di non essere sola. Nonostante fossero brutte notizie, almeno adesso sapeva che esistevano altri come lei. «E una coincidenza anche che, a quanto pare, nessuno di loro si sia mai specializzato?» Le raccontai della mia conversazione con la signora Carmack e le spiegai la mia teoria sulla specializzazione in tutti e quattro gli elementi. Le riferii anche il commento della signora Carmack a proposito di come, una tale possibilità, avrebbe finito per esaurire del tutto qualcuno. Quando ebbi terminato, Lissa si strofinò gli occhi, sbavando un po' il trucco. Mi fece un sorriso fiacco. «Non so quale sia la cosa più assurda: quello che mi stai raccontando, o il fatto che tu abbia davvero letto qualcosa per scoprire tutto questo.» Feci una smorfia, sollevata che fosse riuscita a mettere insieme una battuta. «Ehi, so anch'io come si fa a leggere.» «Lo so. Ma so anche che ci hai messo un anno a finire II codice Da Vinci.» Scoppiò a ridere. «Non è colpa mia. E non cercare di cambiare discorso.» «Non lo sto facendo.» Sorrise, poi sospirò. «Non so proprio cosa pensare.» «Non devi pensare a niente. Soltanto, non fare cose che ti turbano. Ti ricordi il "barcamenarsi"? Torna a quello. È molto più semplice per te.» Scrollò il capo. «Non posso farlo. Non ancora.» «Perché no? Te l'ho già detto...» Mi interruppi, domandandomi come avessi fatto a non accorgermene prima. «Non si tratta solo di Mia. Tu fai tutto questo perché senti di essere tenuta a farlo. Cerchi ancora di diventare Andre.» «I miei genitori avrebbero voluto che io...» «I tuoi genitori avrebbero voluto che tu fossi felice.» «Non è così facile, Rose. Non posso ignorare queste persone per sempre. Anch'io sono di casata reale.»

«La maggior parte di loro fa schifo.» «E molti di loro daranno il proprio contributo nel governare i Moroi. Andre lo sapeva. Lui non era come gli altri, ma faceva ciò che andava fatto perché si rendeva conto di quanto fossero importanti.» Appoggiai la schiena alla panchina. «Be', forse è questo il problema. Si stabilisce chi è "importante" solo in base alla casata, e così finisce che sono gli svitati a prendere le decisioni. È per questo che i Moroi diminuiscono e le stronze come Tatiana diventano regine. Forse c'è bisogno di un nuovo sistema reale.» «Avanti, Rose. È così che funziona. Ed è così che funziona da secoli. Dobbiamo conviverci.» Le lanciai un'occhiataccia. «D'accordo, allora che ne dici di questo?» proseguì. «Ti preoccupa che possa diventare come loro, come la signora Karp e san Vladimir, giusto? Bene, lei disse che non avrei dovuto usare i miei poteri, che se me ne fossi servita le cose sarebbero peggiorate. E se lasciassi perdere tutto? La compulsione, le guarigioni, il resto.» Strizzai gli occhi. «Saresti in grado di farlo?» Fatta eccezione per la convenientissima compulsione, era questo che avevo sempre voluto che riuscisse a fare. La sua depressione era cominciata nel periodo in cui si erano manifestati i poteri, poco dopo l'incidente. Le due cose dovevano essere connesse, soprattutto alla luce delle prove e degli avvertimenti legati alla signora Karp. «Sì.» Il suo viso era perfettamente composto, l'espressione seria e decisa. Con i pallidi capelli raccolti in una treccia alla francese e un blazer scamosciato sopra il vestito, aveva l'aria di poter prendere il posto della sua famiglia nel consiglio reale in quel preciso istante. «Dovresti lasciar perdere tutto» la avvertii. «Niente più guarigioni, non importa quanto carini e coccoloni possano essere gli animali. E niente più compulsione per far colpo sui reali.» Annuì seria. «Posso farlo. Ti farebbe sentire meglio?» «Già, ma mi sentirei ancora meglio se la smettessi con la magia e ricominciassi a frequentare Natalie.» «Lo so, lo so. Ma non posso smettere, non adesso, almeno.» Non potevo farle cambiare idea, non ancora, ma sapere che avrebbe evitato di usare i suoi poteri mi sollevava. «Molto bene» dissi afferrando il mio zainetto. Ero in ritardo per gli allenamenti. Un'altra volta. «Puoi continuare a prendere in giro quei ragazzacci, almeno finché tieni "il resto" sotto controllo.» Esitai. «E sai una cosa, hai ottenuto ciò che volevi, con Aaron e Mia. Non sei obbligata ad averlo intorno per continuare a frequentare i reali.» «Perché ho la sensazione che non ti piaccia più?» «Non mi dispiace, che è esattamente quanto piace a te. E credo che non dovresti ritrovarti tutta accaldata e sudata con qualcuno di cui pensi solo che non ti dispiace.» Lissa spalancò gli occhi fingendo stupore. «Parla proprio Rose Hathaway? Hai messo la testa a posto? O ce l'hai tu qualcuno che "non ti dispiace" per niente?» «Ehi» le dissi imbarazzata. «Mi sto solo prendendo cura di te. E in più non mi ero mai accorta prima di quanto Aaron fosse noioso.» Mi prese in giro. «Tu trovi tutti noiosi.» «Christian non lo è.» Mi scappò di bocca prima che riuscissi a impedirlo. Lei smise di sorridere. «È un idiota. Da un giorno all'altro ha smesso di parlarmi senza motivo.» Incrociò le braccia. «E poi, non eri tu quella

che lo odiava?» «Posso odiarlo e trovarlo comunque interessante.» Ma cominciavo anche a pensare che, forse, avevo commesso un grosso errore con Christian. Era un tizio che dava i brividi, tetro, e gli piaceva dare fuoco alle persone, questo era vero. Dall'altra parte, però, era sveglio e divertente - in maniera contorta - e in qualche modo aveva un effetto rilassante su Lissa. Ma avevo incasinato tutto. Avevo lasciato che la rabbia e la gelosia mi facessero dare il peggio di me e avevo finito per separarli. Se avessi permesso a Christian di raggiungerla, quella notte in giardino, forse lei non si sarebbe lasciata sconvolgere così e non avrebbe finito per tagliarsi i polsi. Forse adesso avrebbero potuto stare insieme, al riparo dai giochi di potere della scuola. Il destino forse la pensava allo stesso modo, perché cinque minuti dopo aver lasciato Lissa, attraversando il cortile passai accanto a Christian. I nostri sguardi si incrociarono per un istante prima che ci superassimo. Ci mancò poco che tirassi dritto. Ci mancò poco. Presi un profondo respiro, e mi fermai. «Christian... aspetta» dissi. Dannazione, ero davvero in ritardo per gli allenamenti. Dimitri mi avrebbe ucciso. Christian si voltò per affrontarmi, le mani ficcate nelle tasche del lungo cappotto nero, con aria ciondolante e annoiata. «Sì?» «Grazie per i libri.» Non disse niente. «Quelli che hai dato a Mason.» «Oh, pensavo volessi dire gli altri.» Simpaticone. «Non stai per chiedermi a cosa mi servivano, vero?» «Affari tuoi. Ho solo immaginato che ti annoiassi durante la sospensione.» «Be', avrei dovuto essere ben più che annoiata per uscirmene con una cosa del genere.» Non rise alla mia ironia. «Cosa vuoi, Rose? Dovrei essere da un'altra parte.» Sapevo che mentiva, ma il mio sarcasmo non sembrava divertente come al solito. «Vorrei che tu, uhm, ricominciassi a vederti con Lissa.» «Dici sul serio?» Mi scrutò con attenzione, il sospetto sul volto. «Dopo quello che mi hai detto?» «Già, be'... Mason non te ne ha parlato?...» Le labbra di Christian si sollevarono in un ghigno. «Mi ha accennato qualcosa.» «E?» «E non voglio sentirlo da Mason.» Il ghigno si allargò quando gli lanciai un'occhiataccia. «Lo hai mandato a chiedere scusa per te. Fatti avanti e fallo da sola.» «Sei un idiota» lo informai. «Già. E tu sei una bugiarda. Voglio vederti calpestare il tuo orgoglio.» «È quello che faccio da due settimane» ringhiai. Scrollò le spalle, si voltò e fece per andarsene. «Aspetta!» dissi, appoggiandogli la mano sulla spalla. Si fermò e si voltò. «D'accordo. D'accordo. Ho mentito. Non ha mai detto nessuna di quelle cose su di te, va bene? Le piaci. Mi sono inventata tutto perché non piaci a me.» «Eppure vuoi che parli con lei.» Quando quelle parole mi uscirono di bocca, stentai di nuovo a crederci. «Penso... che forse tu...

potresti farle bene.» Rimanemmo a guardarci per alcuni, lunghi istanti. Il suo ghigno si assottigliò un poco. Non c'era molto che potesse stupirlo. Questo lo aveva fatto. «Mi dispiace. Non ti ho sentito. Potresti ripetere?» mi chiese alla fine. Per poco non gli diedi un pugno in faccia. «La finisci? Voglio che torni a frequentarla.» «No.» «Ascolta, te l'ho detto, io...» «Non è questo il punto. Si tratta di Lissa. Pensi che potrei parlarle, adesso? È tornata a essere la principessa Lissa.» Le sue parole grondavano veleno. «Non posso avvicinarla, non se ha sempre attorno tutti quei reali.» «Anche tu sei di casata reale» dissi, rivolgendomi più a me stessa che a lui. Continuavo a dimenticare che gli Ozera erano una delle dodici casate. «Non conta molto se la tua famiglia è piena di Strigoi...» «Ma tu non lo sei... Aspetta. È questo che ti unisce a lei» mi resi conto con sorpresa. «Vuoi dire che diventerò uno Strigoi?» mi chiese sprezzante. «No... anche tu hai perso i tuoi genitori. Tutti e due li avete visti morire.» «Lei ha visto morire i suoi. Io ho visto i miei venire uccisi.» Trasalii. «Lo so. Mi dispiace. Dev'essere stato... be', non ho idea di come possa essere stato.» I suoi occhi azzurri come cristallo si appannarono. «È stato come vedere casa mia invasa da un'armata della Morte.» «Vuoi dire... i tuoi genitori?» Scrollò il capo. «I guardiani che li hanno uccisi. Voglio dire, i miei genitori incutevano timore, non c'è dubbio, ma erano pur sempre i miei genitori, soltanto un po' più pallidi, direi. Con un po' di rosso negli occhi. Ma camminavano e parlavano come prima. Io non avevo notato nulla di strano, ma mia zia sì. Ero con lei quando sono venuti per me.» «Sono venuti per convertirti?» Troppo presa dalla storia, mi dimenticai del tutto della mia missione originaria. «Eri molto piccolo.» «Suppongo che volessero tenermi con loro fino a quando fossi diventato più grande, per poi tramutarmi. Zia Tasha non permise loro di portarmi via. Cercarono di farla ragionare, di convertire anche lei, ma quando lei non volle assecondarli, cercarono di prenderla con la forza. Lei si batté, ne uscì malconcia, e poi arrivarono i guardiani.» Il suo sguardo tornò su di me. Sorrise, ma in quel sorriso non c'era felicità. «Come ho detto, un'armata della Morte. Io sono convinto che tu sia fuori di testa, Rose, ma se dimostrerai di essere come loro, un giorno potresti causare danni seri. Neppure io vorrei vedermela con te.» Mi sentivo malissimo. Aveva vissuto un'esistenza orrenda, e io lo avevo privato di una delle poche cose belle che aveva. «Christian, mi dispiace di aver rovinato le cose tra te e Lissa. È stato stupido. Lei voleva stare con te. E credo che lo voglia ancora. Se solo tu...» «Te l'ho detto. Non posso.» «Sono preoccupata per lei. Si è ributtata in tutte quelle storie da reali solo perché crede che così potrà vendicarsi di Mia. Lo sta facendo per me.» «E tu non le sei grata?» Ecco di nuovo il suo sarcasmo. «Sono preoccupata. Lei non è in grado di gestire la malignità dei loro giochetti. Non le fanno

bene, ma non mi dà retta. Mi serve... mi serve aiuto.» «A lei serve aiuto. Ehi, non essere così sorpresa, so che le sta succedendo qualcosa di strano. E non mi sto riferendo a quella faccenda dei polsi.» Feci un balzo. «Te l'ha detto?...» Era possibile. Gli aveva raccontato anche tutto il resto. «Non ha avuto bisogno di farlo» disse. «Ci vedo.» Dovevo sembrargli patetica, perché sospirò e si passò una mano tra i capelli. «Ascolta, se trovo Lissa da sola... cercherò di parlarle. Ma a dirla tutta... se davvero vuoi aiutarla... be', so che dovrei essere quello che lotta contro il sistema, ma per trovare l'aiuto che ti serve dovresti parlare con qualcun altro. Con la Kirova. Con quel tuo guardiano. Non so. Qualcuno che ne sappia qualcosa. Qualcuno di cui ti fidi.» «A Lissa non piacerebbe.» Riflettei. «E neppure a me.» «Già, be', tutti dobbiamo fare cose che non ci piacciono. È la vita.» L'interruttore dell'irritabilità scattò. «E tu cosa saresti, un corso del doposcuola?» Un sorriso spettrale gli comparve in viso. «Se non fossi così psicopatica, frequentarti sarebbe divertente.» «Curioso, io penso la stessa cosa di te.» Non disse altro, ma il suo sorriso si allargò. Poi se ne andò.

Qualche giorno dopo, Lissa mi venne incontro fuori dalla mensa e mi raccontò novità sbalorditive. «Questo weekend zio Victor porterà Natalie fuori dal campus per fare shopping a Missoula. In vista del ballo. Hanno detto che posso andarci anch'io.» Restai in silenzio. Lei parve sorpresa. «Non è grandioso?» «Per te, immagino. Nel mio futuro non ci sono centri commerciali o balli.» Lissa sorrise eccitata. «Ha detto a Natalie che può portare con lei altre due persone. L'ho convinta a portare te e Camille.» Sollevai le mani. «Be', grazie, ma non posso neanche andare in biblioteca. Nessuno mi darà il permesso di venire a Missoula.» «Zio Victor crede di poter convincere la preside Kirova a lasciarti venire. Ci sta provando anche

Dimitri.» «Dimitri?» «Già. Se lascio il campus, dovrà venire con me.» Fece un largo sorriso, scambiando il mio interesse per Dimitri per un interesse per il centro commerciale. «Alla fine hanno stimato il mio patrimonio: ho di nuovo il mio assegno. Così potremo comprare altro, oltre ai vestiti. E se ti lasciano venire al centro commerciale, allora dovranno lasciarti venire anche al ballo.» «Adesso partecipi ai balli?» dissi. Non lo avevamo mai fatto. Eventi sociali sponsorizzati dalla scuola. Era fuori discussione. «Certo che no. Ma ci saranno un mucchio di feste segrete. Inizieremo con l'andare al ballo, e poi ce la svigneremo.» Si lasciò sfuggire un sospiro di gioia. «Mia è così gelosa che non riesce a crederci.» Continuò elencando tutti i negozi in cui saremmo dovute andare, tutte le cose che avremmo dovuto comprare. Lo ammetto, ero piuttosto su di giri al pensiero di qualche vestito nuovo, ma nutrivo seri dubbi sulla possibilità di ottenere questa leggendaria autorizzazione. «Oh, ehi» disse Lissa in preda all'eccitazione. «Devi vedere le scarpe che mi ha prestato Camille. Non sapevo di avere il suo stesso numero. Aspetta.» Aprì lo zaino e iniziò a frugarci dentro. All'improvviso urlò e lo buttò a terra. I libri e le scarpe si rovesciarono fuori. E così la tortora morta. Era una di quelle tortore americane di un marroncino pallido, una di quelle che stavano sui cavi della linea elettrica lungo la superstrada o ai piedi degli alberi del campus. Era talmente piena di sangue che non riuscivo a capire dove fosse ferita. Chi l'avrebbe mai detto che qualcosa di così piccolo avesse tutto quel sangue. A ogni modo, la tortora era morta stecchita. Lissa la guardava in silenzio, con gli occhi sbarrati e le mani sulla bocca. «Figlio di puttana» imprecai. Senza esitare afferrai un bastone e allontanai il corpicino ricoperto di piume. Poi cominciai a ricacciare le cose di Lissa nello zaino, cercando di non pensare ai germi dell'uccello morto. «Perché diavolo continua a... Liss!» Spiccai un balzo e l'afferrai, trascinandola via. Si stava inginocchiando, la mano tesa verso la tortora. Non credo che si fosse resa conto di ciò che stava per fare. L'istinto in lei era così forte da agire per conto proprio. «Lissa» dissi, serrando la mano attorno alla sua. La tendeva ancora verso l'uccello. «No. Non farlo.» «Posso salvarla.» «No, non puoi. L'hai promesso, ricordi? Alcune creature devono rimanere morte. Lascia che lei lo sia.» Percependo ancora il suo stato di agitazione, la implorai. «Ti prego, Liss. L'hai promesso. Niente più guarigioni. Hai detto che non l'avresti più fatto. Me l'hai promesso.» Dopo qualche altro istante, sentii la sua mano rilassarsi e il corpo abbandonarsi contro il mio. «Lo odio, Rose. Odio tutto questo.» Natalie sbucò in quel momento, ignara dello spettacolo raccapricciante che l'aspettava. «Ehi, voi ragazze... oh mio Dio!» strillò alla vista della tortora. «Cos'è?» Diedi una mano a Lissa mentre ci rimettevamo in piedi. «Un altro, uhm, scherzo.» «È... morta?» Corrugò la fronte per il disgusto. «Sì» dissi io risoluta. Natalie, fiutando la nostra agitazione, posò lo sguardo su di noi. «Che altro c'è che non va?»

«Niente.» Passai lo zaino a Lissa. «È soltanto uno scherzo idiota e malato, e andrò a dirlo alla Kirova perché ripuliscano.» Natalie distolse lo sguardo, aveva un colorito lievemente verdastro. «Perché continuano a farti cose del genere? È orribile.» Lissa e io ci scambiammo uno sguardo. «Non ne ho idea» dissi. Eppure, mentre camminavo diretta all'ufficio della Kirova, iniziai a domandarmelo. Quando avevamo trovato la volpe, Lissa aveva avanzato l'ipotesi che qualcuno fosse al corrente del corvo. Io non le avevo creduto. Quella notte eravamo nella foresta, e la signora Karp di certo non lo aveva riferito a nessuno. Ma se qualcuno avesse davvero visto? Se qualcuno lo stava facendo non con l'intenzione di spaventarla, ma per vedere se poteva guarire ancora? Cosa diceva il biglietto col coniglio? So cosa sei. Non accennai a Lissa nessuna di queste cose; immaginavo che fosse in grado di gestire soltanto alcune delle mie teorie sul complotto. Per di più, quando la rividi il giorno dopo, aveva praticamente dimenticato la tortora alla luce di un'altra novità: la Kirova mi aveva concesso l'autorizzazione di partecipare alla gita, quel weekend. La prospettiva dello shopping può rischiarare anche le situazioni più tetre, persino l'uccisione di un animale, e così finii anch'io per mettere da parte le mie preoccupazioni. Solo che, quando venne il momento, scoprii che la mia autorizzazione era accompagnata da alcune clausole. «La preside Kirova pensa che tu ti sia comportata bene dopo il tuo ritorno» mi disse Dimitri. «Dici tralasciando il fatto di aver scatenato una rissa durante la lezione del signor Nagy?» «Non ti dà la colpa di quell'episodio. Non del tutto. Sono riuscito a convincerla che ti serve una pausa... e che puoi usare questa esperienza come un'esercitazione. » «Un'esercitazione?» Mi fornì una breve spiegazione mentre uscivamo, per raggiungere gli altri che sarebbero venuti con noi. Victor Dashkov, malaticcio come al solito, era in compagnia dei suoi guardiani, e Natalie gli si lanciò addosso come un treno. Lui le sorrise e le diede un cauto abbraccio, che finì quando un attacco di tosse prese il sopravvento. Victor disse di essere in grado di accompagnarci, e benché ammirassi la sua determinazione, pensai che si stava costringendo ad affrontare parecchi problemi solo per fare shopping con un manipolo di ragazzine. Passammo le due ore del tragitto verso Missoula su un grosso furgoncino della scuola, partendo poco dopo il sorgere del sole. Molti Moroi vivevano separati dagli umani, ma molti altri vivevano in mezzo a loro, e quando si doveva fare shopping in centri commerciali degli umani si doveva farlo nei loro orari. I finestrini posteriori del furgoncino avevano vetri oscurati per schermare la luce ed evitare che i vampiri vi rimanessero troppo esposti. Il nostro gruppo si componeva di nove persone: Lissa, Victor, Natalie, Camille, Dimitri, io, e altri tre guardiani. Due di loro, Ben e Spiridon, viaggiavano sempre con Victor. Il terzo era uno dei guardiani della scuola, Stan, l'idiota che mi aveva umiliato il giorno del mio ritorno. «Camille e Natalie non hanno ancora guardiani personali» mi spiegò Dimitri. «Sono tutte e due sotto la protezione dei guardiani delle loro famiglie. E visto che sono studentesse dell'Accademia che si allontanano dal campus, un guardiano della scuola le accompagna, Stan. Io vengo perché sono il guardiano assegnato a Lissa. La maggior parte delle ragazze della sua età non ha un guardiano personale, ma le circostanze la rendono un'eccezione.»

Sedevo sull'ultima fila di sedili del furgoncino con lui e Spiridon, in modo che potessero dispensarmi saggezza guardiana come parte dell'esercitazione". Ben e Stan sedevano davanti, mentre il resto del gruppo si era accomodato nel sedile di mezzo. Lissa e Victor parlarono molto, aggiornandosi sulle novità. Camille, cresciuta per comportarsi educatamente in presenza di reali più anziani, sorrideva e annuiva. Natalie, invece, sembrava tagliata fuori, e cercava di distogliere l'attenzione di suo padre da Lissa. Ma non ci riusciva. A quanto pareva Victor aveva imparato a non prestare attenzione al suo chiacchiericcio. Tornai a Dimitri. «Dovrebbe avere due guardiani. I principi e le principesse li hanno sempre.» Spiridon aveva l'età di Dimitri, con capelli biondi a spazzola e un atteggiamento più disinvolto. Malgrado il nome greco, aveva una pronuncia del sud. «Non preoccuparti, ne avrà un mucchio quando verrà il momento. Dimitri è già uno di loro. Ci sono buone probabilità che lo diventi anche tu. È per questo che sei qui oggi.» «L'esercitazione» indovinai io. «Già. Sarai la partner di Dimitri.» Calò un imbarazzante momento di silenzio, forse senza che la ragione fosse chiara a qualcuno eccetto che a me e Dimitri. I nostri sguardi si incontrarono. «Partner guardiani» precisò Dimitri senza che ce ne fosse bisogno, come se anche lui avesse pensato ad altri generi di partner. «Già» si disse d'accordo Spiridon. Ignaro della tensione attorno a sé, continuò a spiegare come lavorano le coppie di guardiani. Era roba standard, che arrivava diretta dal libro di testo, ma farlo nel mondo reale aveva più senso. E poi era una delle formazioni che avrei usato più spesso in futuro. Un guardiano rimaneva vicino al soggetto; l'altro rimaneva indietro tenendo d'occhio i dintorni. Senza troppa fantasia, queste due posizioni venivano chiamate guardia prossima e guardia lontana. «E probabile che tu sarai sempre la guardia prossima» mi disse Dimitri. «Sei una donna e hai la stessa età della principessa. Puoi starle accanto senza attirare troppo l'attenzione.» «E dovrò sempre tenerla d'occhio» presi nota. «E tenere d'occhio te.» Spiridon si fece un'altra risata e diede di gomito a Dimitri. «Hai una fuoriclasse, qui. Le hai già dato un paletto?» «No. Non è pronta.» «Lo sarei se qualcuno mi facesse vedere come usarlo» obiettai. Sapevo che tutti i guardiani nel furgone avevano un paletto e una pistola nascosti addosso. «Ci sono cose più importanti che usare un paletto» disse Dimitri con il suo solito atteggiamento da vecchio saggio. «Devi anche domarli. E devi convincerti di doverli uccidere.» «Perché non dovrei esserne capace?» «Molti degli Strigoi sono Moroi che si sono tramutati per scelta; altre volte si tratta di Moroi o dhampir tramutati a forza. Non c'è differenza. C'è un'alta probabilità che tu possa conoscerne. Sapresti uccidere qualcuno che conoscevi?» Questo viaggio si stava facendo meno divertente di minuto in minuto. «Penso di sì. Se mi trovassi a doverlo fare, giusto? Se dovessi scegliere tra loro o Lissa...» «Potresti comunque esitare» disse Dimitri. «E quell'esitazione potrebbe finire per uccidere te. E lei.»

«E allora che si deve fare, per essere sicuri di non esitare?» «Ti devi ripetere che non sono le persone che conoscevi. Sono diventate qualcosa di oscuro e malvagio. Qualcosa di innaturale. Devi dimenticare ogni legame affettivo e fare ciò che è giusto. Se in loro rimanesse un briciolo della personalità che avevano, probabilmente ti ringrazierebbero.» «Mi ringrazierebbero perché li sto uccidendo?» «Se qualcuno ti trasformasse in uno Strigoi, cosa vorresti per te?» mi chiese. Non sapevo rispondergli, e così rimasi in silenzio. Senza distogliere lo sguardo da me, mi incalzò. «Che cosa vorresti, se sapessi che ti convertiranno in uno Strigoi contro la tua volontà? Se sapessi che perderai la tua morale e il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato? Se sapessi che dovrai vivere il resto della tua vita, la tua vita immortale, uccidendo persone innocenti? Cosa vorresti?» Il furgoncino era sprofondato in un silenzio che metteva a disagio. Alla vista di Dimitri, oppressa da tutte quelle domande, d'un tratto capii il perché della nostra reciproca attrazione, a prescindere dal nostro aspetto. Non avevo mai incontrato nessuno che prendesse il suo compito di guardiano così seriamente, qualcuno che ne accettasse le conseguenze più drastiche. Di certo, alla mia età nessuno lo faceva; Mason non era riuscito a capire perché non riuscivo a rilassarmi e a bere alla festa. Dimitri aveva detto che io capivo i miei doveri meglio di molti guardiani più anziani di me, e io non riuscivo a capacitarmene, soprattutto considerando che avevano di certo già visto più morti e affrontato più pericoli di me. Ma in quel momento capii che aveva ragione, che io avevo una strana coscienza di come la vita e la morte, e il bene e il male, dipendessero l'uno dall'altra. E lo stesso era per lui. Ci sarebbero state volte in cui ci saremmo sentiti soli e avremmo dovuto mettere da parte il nostro "divertimento". Non saremmo mai stati in grado di vivere le vite che avremmo voluto. Ma era così che doveva essere. Ci capivamo a vicenda, sapevamo di avere altri da proteggere. Le nostre vite non sarebbero mai state semplici. E prendere una decisione come questa ne faceva parte. «Se diventassi una Strigoi... vorrei che qualcuno mi uccidesse.» «Lo vorrei anch'io» disse lui, sereno. Mi resi conto che Dimitri aveva avuto la mia stessa folgorazione, che aveva avuto la percezione del legame che esisteva tra noi. «Mi ricorda Mikhail che dà la caccia a Sonya» mormorò Victor con fare pensieroso. «Chi sono Mikhail e Sonya?» chiese Lissa. Victor sembrò sorpreso. «Pensavo che lo sapessi. Sonya Karp.» «Sonya Kar... vuoi dire la signora Karp? Lei che c'entra?» Continuò a spostare lo sguardo da me a suo zio e viceversa. «Lei... è diventata una Strigoi» dissi io, senza guardarla negli occhi. «Per scelta.» Sapevo che Lissa l'avrebbe scoperto, un giorno o l'altro. Era l'ultima parte della saga della signora Karp, un segreto che avevo tenuto per me. Un segreto che continuava ad assillarmi. Il volto di Lissa e il legame registrarono un vero e proprio shock, che crebbe ancora di più quando Lissa si rese conto che sapevo e che non le avevo detto niente. «Però non so chi sia Mikhail» aggiunsi. «Mikhail Tanner» disse Spiridon. «Oh. Il guardiano Tanner. Era qui prima che ce ne andassimo.» Aggrottai le sopracciglia. «Perché dava la caccia alla signora Karp?»

«Per ucciderla» disse Dimitri senza tradire emozioni. «Erano amanti.» Tutta la faccenda degli Strigoi assunse una nuova prospettiva per me. Sapevo che imbattersi in uno Strigoi nell'infuriare di una battaglia era una cosa; ma dare la caccia a qualcuno di proposito... a qualcuno che amavi. Be', non sapevo se sarei stata in grado di farlo, anche se tecnicamente sarebbe stata la cosa giusta. «Forse è venuto il momento di cambiare discorso» disse Victor con garbo. «Oggi non è proprio la giornata adatta per gli argomenti deprimenti.» Penso che ciascuno di noi fu sollevato nel raggiungere il centro commerciale. Entrai nella parte di guardia del corpo e restai vicino a Lissa mentre giravamo di negozio in negozio, curiosando tra le nuove proposte di abbigliamento. Era bello essere di nuovo in mezzo alla gente e fare insieme qualcosa che fosse divertente e basta, senza che questo dovesse implicare gli oscuri, malsani giochi di potere dell'Accademia. Era quasi come ai vecchi tempi. Mi era mancato stare con lei. Mi era mancata la mia migliore amica. Benché fosse da poco passata la metà di novembre, il centro commerciale aveva già le decorazioni natalizie. Arrivai alla conclusione di avere il migliore lavoro del mondo. Ma provai un leggero fastidio nel vedere che i guardiani più vecchi erano provvisti di minuscoli e sofisticatissimi apparecchi di comunicazione con cui si tenevano in contatto. Quando ne reclamai uno anch'io, Dimitri mi disse che avrei potuto imparare di più senza. Se potevo gestire la protezione di Lissa come si faceva in passato, allora avrei potuto gestire qualunque situazione. Victor e Spiridon rimasero con noi mentre Dimitri e Ben si aprirono a ventaglio, riuscendo in qualche modo a non dare l'impressione di essere degli stalker inquietanti a caccia di adolescenti. «Questo è fatto apposta per te» disse Lissa da Macy's, passandomi un top smanicato e scollato, abbellito da un merletto. «Te lo compro.» Lo guardai con grande desiderio, immaginandomelo addosso. Poi, dopo essermi scambiata la solita occhiata con Dimitri, scossi il capo e glielo ripassai. «Sta arrivando l'inverno. Avrò freddo.» «Non te n'è mai importato.» Stringendosi nelle spalle, lo riappese. Lei e Camille provarono una serie infinita di vestiti, i consistenti assegni garantivano che il prezzo non avrebbe rappresentato un problema per loro. Lissa si offrì di comprarmi qualunque cosa volessi. Eravamo state generose l'una con l'altra per tutta la nostra vita, e così non esitai a prenderla in parola. Le mie scelte la sorpresero. «Hai preso tre magliette termiche e una felpina col cappuccio» mi informò, passando in rassegna una pila di jeans BCBG. «Sei diventata troppo noiosa per i miei gusti.» «Ehi, non mi pare di averti mai visto comprare top da sgualdrinella.» «Non sono io quella abituata a metterli.» «Grazie tante.» «Sai cosa voglio dire. Ti leghi persino i capelli.» Era vero. Avevo ascoltato il consiglio di Dimitri e mi ero raccolta i capelli in uno chignon molto alto, guadagnandomi il suo sorriso quando mi aveva visto. Se avessi avuto dei molnija, si sarebbero potuti vedere. Guardandosi intorno, Lissa si assicurò che nessuno potesse sentirci. Le emozioni che percepivo attraverso il legame si tramutarono in qualcosa di più inquieto. «Sapevi della signora Karp.» «Già. L'ho sentito più o meno un mese dopo che se n'era andata.»

Lissa si gettò un paio di jeans ricamati sul braccio, senza guardarmi. «Perché non me l'hai detto?» «Non avevi bisogno di saperlo.» «Pensavi che non avrei saputo gestire la cosa?» Mantenni un'espressione neutra. Mentre la scrutavo in volto, la mia mente tornò indietro nel tempo, a due anni prima. Era successo durante il secondo giorno dopo la sospensione che mi ero guadagnata per aver presumibilmente distrutto la camera di Wade: la delegazione dei reali era in visita alla scuola. Mi era stato concesso di prendere parte al ricevimento ma sotto stretta sorveglianza, per impedirmi di "combinare qualcosa". Due guardiani mi avevano scortato alla mensa e si erano parlati a voce bassa per tutto il tragitto. "Ha ucciso il dottore che l'aveva in cura e nella fuga ha fatto fuori quasi metà dei pazienti e degli infermieri." "Hanno la minima idea di dove sia andata?" "No, stanno cercando di rintracciarla... ma, be', sai come vanno queste cose." "Non me lo sarei mai aspettato da lei. Non mi sembrava il tipo." "Già, be', Sonya era pazza. Hai visto quanto era diventata violenta, verso la fine. Era capace di qualsiasi cosa." Io arrancavo miseramente e avevo sollevato il capo. "Sonya. Intendete dire la signora Karp?" avevo chiesto. "Ha ucciso qualcuno?" I due guardiani si erano scambiati uno sguardo. Poi finalmente uno aveva detto in tono grave: "Si è tramutata in una Strigoi, Rose." Mi ero bloccata e avevo scoccato loro un'occhiataccia. "La signora Karp? No... lei non avrebbe..." "Temo di sì" aveva ribattuto l'altro. "Ma... è meglio che tu lo tenga per te. È una tragedia. Non farlo diventare un pettegolezzo." Avevo passato il resto della serata in uno stato di stordimento. La signora Karp. Karp la Pazza. Aveva ucciso qualcuno per tramutarsi in una Strigoi. Stentavo a crederci. Quando il ricevimento era finito, ero riuscita a sfuggire ai miei guardiani e mi ero guadagnata qualche prezioso attimo insieme a Lissa. A quel tempo il legame si era ormai fatto più forte, e non avevo avuto bisogno di guardarla in faccia per sapere quanto fosse sconsolata. "Che c'è che non va?" le avevo chiesto. Eravamo in un angolo del corridoio, proprio fuori dalla mensa. I suoi occhi erano inespressivi. Riuscivo a percepire che aveva mal di testa; il suo dolore si trasferiva in me. "Io... io non lo so. Mi sento strana. Ho la sensazione di essere seguita, come se dovessi fare attenzione, capisci?" Non avevo saputo che cosa dirle. Non pensavo che qualcuno la stesse seguendo, ma la signora Karp diceva sempre la stessa cosa. Sempre paranoica. "Probabilmente non è niente" avevo ribattuto in tono leggero. "Probabilmente" aveva ribadito anche lei. Aveva strizzato gli occhi. "Ma Wade è un problema. Non terrà la bocca chiusa. Non puoi immaginare le cose che racconta in giro su di te." Invece immaginavo, davvero, ma non mi interessava. "Lascialo perdere. È una nullità." "Lo detesto" aveva detto lei. La voce era tagliente in modo innaturale. "Sono con lui nel comitato per quella raccolta fondi, e detesto sentir muovere senza sosta quella sua grassa bocca, e vederlo flirtare con qualunque essere di sesso femminile gli capiti a tiro. Non avresti dovuto essere punita

per quello che ha fatto lui. Deve pagarla." Mi si era seccata la bocca. "È tutto a posto... non m'importa. Calmati, Liss." "Importa a me" aveva ribattuto lei, rivolgendo la sua rabbia contro di me. "Vorrei che ci fosse un modo per vendicarmi di lui. Un modo per fare a lui lo stesso male che fa a te." Con le mani dietro la schiena si era messa a camminare avanti e indietro furiosa, a passi energici e risoluti. L'odio e la rabbia ribollivano dentro di lei. Li avevo percepiti attraverso il legame. Sembrava una tempesta, e mi aveva spaventato a morte. Le si avvolgeva intorno un'incertezza, un'instabilità che diceva che Lissa non sapeva che cosa fare, ma voleva disperatamente fare qualcosa. Qualunque cosa. La mia mente era corsa alla notte della mazza da baseball. E avevo ripensato alla signora Karp. È diventata una Strigoi, Rose. Era stato il momento più spaventoso della mia vita. Ancora più spaventoso che vederla nella camera di Wade. Ancora più spaventoso che vederla guarire il corvo. Ancora più spaventoso della mia cattura da parte dei guardiani. Perché in quel momento non avevo più riconosciuto la mia migliore amica. Non sapevo di che cosa fosse capace. Un anno prima sarei scoppiata a ridere in faccia a chiunque avesse sostenuto che Lissa avrebbe potuto decidere di diventare una Strigoi. Ma un anno prima avrei anche riso in faccia a chiunque avesse detto che Lissa avrebbe provato il desiderio di tagliarsi le vene o farla "pagare" a qualcuno. In quel momento mi ero d'un tratto convinta che sarebbe stata capace di fare l'impossibile. Dovevo assicurarmi che non lo facesse. Salvala. Salvala da se stessa. "Ce ne andiamo" le avevo detto prendendola per il braccio e trascinandola lungo il corridoio. "Adesso." Il disorientamento aveva rimpiazzato la rabbia in un batter d'occhio. "Che vuoi dire? Vuoi andare nella foresta?" Non le avevo risposto. Ma qualcosa nel mio atteggiamento o nelle mie parole doveva averla intimorita, perché non aveva fatto domande mentre la trascinavo fuori dalla mensa, attraverso il campus, diretta al parcheggio dove arrivavano i visitatori. Era pieno delle auto degli ospiti di quella sera. C'era anche una grossa Lincoln Town Car. Mi ero fermata a guardare l'autista mentre la metteva in moto. "Qualcuno se ne va presto" avevo detto sbirciando da dietro un ammasso di cespugli. Avevo gettato un'occhiata alle mie spalle e non avevo visto niente. "Probabilmente saranno qui da un momento all'altro." Allora Lissa aveva capito. "Quando hai detto 'Ce ne andiamo' volevi dire... no. Rose, non possiamo lasciare l'Accademia. Non riusciremo mai a oltrepassare le difese magiche e i checkpoint." "Non dovremo farlo" le avevo detto, decisa. "Sarà lui a farlo." "Ma come può aiutarci?" Avevo tratto un respiro profondo, già pentita di quello che stavo per dire, ma vedendolo come il male minore. "Hai presente il modo in cui hai costretto Wade a fare quelle cose?" Lissa era trasalita, ma aveva annuito. "Ho bisogno che tu faccia lo stesso. Va' da quel tizio e digli di nasconderci nel bagagliaio." Era attanagliata dalla paura. Non sapeva capacitarsene, ed era spaventata. Molto spaventata. Si sentiva così da settimane, a partire dalle guarigioni, dai cambi d'umore, da Wade. Era fragile e sull'orlo di qualcosa che non conosceva. Al di sopra di tutto, però, lei si fidava di me. Credeva che avrei potuto tenerla al sicuro. "Okay" aveva detto. Aveva fatto qualche passo verso di lui, tornando poi a guardare nella mia

direzione. "Perché? Perché lo stiamo facendo?" Avevo ripensato alla rabbia di Lissa, al suo desiderio di fare qualunque cosa pur di vendicarsi di Wade. E avevo pensato alla signora Karp - dolce, instabile signora Karp - che si trasformava in una Strigoi. "Mi sto prendendo cura di te" le avevo risposto. "Non serve che tu sappia altro." Nel centro commerciale di Missoula, in piedi tra due rastrelliere di abiti griffati, Lissa mi chiese di nuovo: «Perché non me lo hai detto?» «Non serviva che lo sapessi» ripetei. Andò verso i camerini, continuando a bisbigliare. «Avevi paura che potessi perdere la testa. Avevi paura che potessi tramutarmi anch'io in una Strigoi?» «Nient'affatto. Era un problema della signora Karp. Tu non lo avresti mai fatto.» «Anche se fossi stata pazza?» «No» dissi, cercando di buttarla sul ridere. «Ti saresti limitata a rasarti la testa e vivere con trenta gatti.» I sentimenti di Lissa si fecero ancora più tenebrosi, ma non disse altro. Immobile di fronte ai camerini, afferrò un vestito nero dall'espositore. E divenne più allegra. «Sei nata per questo vestito. Non mi interessa se adesso hai gusti più pratici.» Di un morbido tessuto nero, il vestito era lucido e senza spalline, lungo fino al ginocchio. Benché avesse un orlo leggermente a balza, il resto sembrava proprio fatto apposta per qualche seria impresa seduttiva. Strasexy. Forse persino sexy-da-sfidare-il-regolamento-scolastico-sull'abbigliamento. «È il vestito per me» ammisi. Continuai a rimirarlo, desiderandolo così tanto da sentire una fitta al petto. Era il genere di vestito in grado di cambiare il mondo. Il genere di vestito capace di far nascere una nuova religione. Lissa pescò la mia taglia. «Provalo.» Scossi il capo e iniziai a indietreggiare. «Non posso. Ti metterei in pericolo. Un vestito non vale la tua orribile morte.» «Allora lo prenderemo senza che tu l'abbia provato.» Comprò il vestito. Il pomeriggio proseguì, e cominciai a sentirmi più stanca. Stare sempre in guardia tutt'a un tratto non era più così divertente. Quando arrivammo all'ultima tappa, un negozio di gioielli, ne fui grata. «Eccoci» disse Lissa, indicando uno degli astucci. «La collana fatta per stare col tuo vestito.» La guardai. Una catenella d'oro sottile con un pendente a forma di rosa, in oro e diamanti. I diamanti catturavano tutta l'attenzione. «Odio le cose a forma di rosa.» Lissa aveva sempre amato regalarmi oggetti a forma di rosa, soltanto per godersi la mia reazione, credo. Quando vide il prezzo della collana, il suo sorriso svanì. «Oh, guarda un po'. Persino tu hai dei limiti» la presi in giro. «Le tue pazze spese giungono finalmente al termine.» Aspettammo che Victor e Natalie finissero. A quanto pareva lui le stava comprando qualcosa, e lei sembrava sul punto di mettere le ali e volare via dalla contentezza. Ne ero felice. Aveva desiderato le sue attenzioni con tutta se stessa. C'era da sperare che lui le comprasse qualcosa di molto costoso per pareggiare i conti. Viaggiammo verso casa in un silenzio stanco, le nostre abitudini notturne del tutto sconvolte a causa della gita alla luce del sole. Seduta vicino a Dimitri, mi abbandonai contro il sedile e

sbadigliai, perfettamente cosciente del fatto che le nostre braccia si stavano toccando. Quella sensazione di vicinanza e di contatto bruciava tra noi. «Allora non posso nemmeno più provare dei vestiti?» gli chiesi a bassa voce, per non disturbare gli altri. Victor e i guardiani erano svegli, ma le ragazze si erano addormentate. «Puoi farlo quando non sei in servizio. Puoi farlo durante il tuo tempo libero.» «Non voglio del tempo libero. Voglio soltanto occuparmi di Lissa.» Sbadigliai ancora. «Hai visto il vestito?» «Sì.» «Ti piace?» Non rispose. Lo presi per un sì. «Metterò in pericolo la mia reputazione se lo indosserò al ballo?» Quando parlò, riuscii a malapena a sentirlo. «Metterai in pericolo la scuola.» Sorrisi e mi addormentai. Quando mi svegliai, avevo la testa appoggiata alla sua spalla. Il suo lungo soprabito, lo spolverino, mi copriva come un lenzuolo. Il furgoncino si era fermato; eravamo arrivati alla scuola. Scostai lo spolverino e scesi dopo Dimitri, sentendomi d'improvviso del tutto sveglia e felice. Che peccato che la mia libertà stesse per finire. «Di ritorno alla prigione» sospirai, camminando accanto a Lissa, diretta alla scuola. «Se fingi un infarto, magari potrei riuscire a fuggire.» «Senza i tuoi vestiti?» Mi allungò una borsa, e io la feci roteare felice. «Non vedo l'ora di vedertelo addosso.» «Anch'io. Se mi lasceranno venire. La Kirova sta ancora decidendo se sono stata abbastanza brava.» «Mostrale le magliette banali che ti sei comprata. Cadrà in coma. Io sono lì lì.» Mi misi a ridere e saltai su una delle panchine, tenendo il passo di Lissa. Saltai giù quando arrivai alla fine. «Non sono così banali.» «Non so cosa pensare di questa Rose inedita, giudiziosa.» Saltai su un'altra panchina. «Non sono così giudiziosa.» «Ehi» chiamò Spiridon. Lui e il resto del gruppo erano rimasti indietro. «Sei ancora in servizio. Non sono ammessi divertimenti.» «Nessun divertimento» ribattei, sentendo l'allegria nella sua voce. «Lo giuro... merda!» Ero sulla terza panchina, quasi alla fine. I miei muscoli si tesero, pronti per risaltare a terra. Solo che quando cercai di farlo il mio piede non seguì il resto del corpo. Il legno, che solo un attimo prima dava l'impressione di essere resistente e solido, cedette, come se fosse di carta. Si disintegrò. Il mio piede lo trapassò, la caviglia rimase incastrata nel buco mentre il mio corpo cercava di andare in un'altra direzione. La caviglia si piegò in modo innaturale. Mi schiantai sul terreno. Avvertii un rumore secco, ma non si trattava del legno. Il dolore più forte della mia vita mi corse lungo il corpo. E persi i sensi.

Quando aprii gli occhi, mi ritrovai a fissare il bianco monotono del soffitto della clinica. Una luce schermata - per rilassare i pazienti Moroi - risplendeva sulla mia testa. Mi sentivo strana, come disorientata, ma non provavo dolore. «Rose.»

La voce fu come seta sulla pelle. Delicata. Profonda. Girando la testa, incontrai gli occhi scuri di Dimitri. Era seduto su una sedia accanto al mio letto, i capelli lunghi fino alle spalle cadevano in avanti e gli incorniciavano il volto. «Ehi» dissi, la voce che usciva come un gracidio. «Come ti senti?» «Strana. Come stordita.» «La dottoressa Olendzki ti ha dato qualcosa per il dolore. Quando ti abbiamo portata qui sembrava che stessi piuttosto male.» «Non me lo ricordo... per quanto tempo sono rimasta incosciente?» «Qualche ora.» «Deve aver fatto effetto. Sta ancora facendo effetto.» Mi tornarono alla mente alcuni dettagli. La panchina. La mia caviglia che si incastrava. E poco altro. Avevo sentito caldo e freddo e poi di nuovo caldo. Con poca convinzione provai a muovere le dita del piede. «Non mi fa per niente male.» Lui scrollò il capo. «No. Perché non ti sei fatta male sul serio.» Mi ricordai il rumore della caviglia che si spezzava. «Sei sicuro? Io ricordo... il modo in cui si è piegata. No. Qualcosa dev'essersi rotto.» Riuscii a mettermi seduta, così da poter dare un'occhiata alla caviglia. «O almeno distorta.» Si slanciò in avanti per fermarmi. «Fa' attenzione. La caviglia potrà anche essere a posto, ma probabilmente sei ancora un po' frastornata.» Scivolai con cura sul bordo del letto e abbassai lo sguardo. I miei jeans erano stati arrotolati. La caviglia sembrava un po' arrossata, ma non avevo nemmeno un'escoriazione. «Dio, sono stata fortunata. Se mi fossi fatta male, sarei dovuta rimanere lontano dagli allenamenti per un bel po'.» Sorridendo, Dimitri tornò alla sua sedia. «Lo so. Continuavi a ripetermelo mentre ti portavo qui. Eri molto agitata.» «Tu... mi hai portato qui?» «Dopo che abbiamo fatto a pezzi la panchina e liberato il tuo piede.» Ragazzi. Mi ero persa parecchio. Soltanto una cosa poteva essere meglio che immaginare Dimitri che mi portava tra le braccia: immaginarlo a torso nudo che mi portava tra le braccia. Poi la realtà dei fatti si abbatté su di me. «Sono stata sconfitta da una panchina» mugugnai. «Cosa?» «Sono sopravvissuta un'intera giornata facendo la guardia a Lissa, e voi ragazzi avete detto che ho fatto un buon lavoro. Poi, torno qui e vado incontro alla mia disfatta, che ha la forma di una panchina.» Ahi. «Capisci quant'è imbarazzante? E voi avete visto tutto.» «Non è stata colpa tua» disse. «Nessuno sapeva che la panchina era marcia. Sembrava a posto.» «Fa lo stesso. Avrei dovuto rimanere sul vialetto come una persona normale. Gli altri novizi non me la faranno passare liscia quando tornerò.» Le sue labbra trattennero un sorriso. «Forse i regali ti tireranno un po' su.»

Mi misi seduta più diritta. «Regali?» Il sorriso riuscì a sfuggirgli, e Dimitri mi allungò una piccola scatola accompagnata da un biglietto. «Questo è del principe Victor.» Sorpresa del fatto che Victor mi avesse regalato qualcosa, lessi il bigliettino. Erano solo poche righe, scritte a penna in tutta fretta. Rose, Sono felice che tu non sia andata incontro a gravi ferite a causa della caduta. In verità, è un miracolo. Conduci una vita incantata, e Vasilisa è fortunata ad avere te. «È carino da parte sua» dissi, aprendo la scatola. Poi vidi cosa nascondeva all'interno. «Whoa. Molto carino.» Era la collana con la rosa, quella che Lissa avrebbe voluto comprarmi ma che non si era potuta permettere. La sollevai, arrotolando la catenella attorno alla mano perché la rosa scintillante, ricoperta di diamanti, penzolasse libera. «È piuttosto eccessivo come regalo di pronta guarigione» notai, ricordandomi del prezzo. «L'ha comprato per come ti sei comportata durante il tuo primo giorno come guardiano ufficiale. Ha visto te e Lissa che la guardavate.» «Wow.» Fu tutto ciò che riuscii a dire. «Non credo di aver fatto un lavoro così buono.» «L'hai fatto.» Con un largo sorriso riposi la collana nell'astuccio e la appoggiai sul tavolo lì vicino. «Hai detto "regali", giusto? Quindi... più di uno?» Scoppiò a ridere, e quel suono mi avvolse come una carezza. Dio, amavo il suono della sua risata. «Questo è da parte mia.» Mi passò un piccolo, semplice sacchetto di carta. Confusa ed eccitata, lo aprii. Lucidalabbra, quello che piaceva a me. Mi ero lamentata con lui un mucchio di volte perché stavo per finirlo, ma ero convinta che non ci avesse mai fatto caso. «Come sei riuscita a procurartelo? Al centro commerciale ti ho tenuto d'occhio per tutto il tempo.» «Segreti da guardiano.» «A cosa lo devo? Al mio primo giorno?» «No» disse lui, candido. «Ho solo immaginato che ti avrebbe reso felice.» Senza neppure pensarci, mi slanciai in avanti e lo abbracciai. «Grazie.» A giudicare dalla sua posa rigida, dovevo averlo colto di sorpresa. E sì... a dire il vero anch'io mi ero colta di sorpresa. Ma in un istante Dimitri si rilassò, e quando restituì l'abbraccio poggiando le mani sulla parte bassa della mia schiena, pensai che stavo per morire. «Sono contento che tu stia meglio» disse. La sua bocca mi dava l'impressione di essere quasi tra i miei capelli, poco sopra il mio orecchio. «Quando ti ho visto cadere...» «Hai pensato: "Che sfigata".» «Non proprio.» Si ritrasse un po', affinché potessi vederlo meglio, ma non ci dicemmo nulla. I suoi occhi erano così scuri e profondi che avrei voluto perdermici. Guardarli mi faceva sentire caldo dappertutto, come se dentro vi bruciasse un fuoco. Lentamente, con attenzione, le sue lunghe dita trovarono il

mio zigomo, continuando a muoversi sul mio viso. Al primo tocco della sua pelle sulla mia, fremetti. Si arrotolò una ciocca dei miei capelli attorno a un dito, proprio come aveva fatto in palestra. Deglutendo, distolsi lo sguardo dalle sue labbra. Il pensiero mi eccitava e spaventava allo stesso tempo, ed era qualcosa di stupido. Avevo baciato un mucchio di ragazzi, e non ci avevo mai pensato troppo. Non c'era ragione perché un altro, anche se più grande di me, dovesse rappresentare un problema. Eppure il pensiero di lui che annullava la distanza tra noi portando le sue labbra sulle mie cominciava a far vorticare il mondo intorno. Un sommesso bussare alla porta, e mi ritrassi di colpo. La dottoressa Olendzki fece capolino. «Mi era parso di sentirti parlare. Come ti senti?» Si avvicinò e mi fece distendere di nuovo. Tastandomi e piegandomi la caviglia cercò di valutare i danni, e quando ebbe finito scosse il capo. «Sei fortunata. Con tutto il chiasso che hai fatto venendo qui, pensavo di doverti amputare il piede. Dev'essere stato lo shock.» Fece un passo indietro. «Mi sentirei meglio se aspettassi domani per riprendere gli allenamenti, ma per il resto puoi andare.» Tirai un sospiro di sollievo. Non avevo ricordi della mia reazione - e a dire il vero ero piuttosto imbarazzata di essermi lasciata andare così - ma ne avevo tutte le ragioni: una caviglia rotta o una distorsione sarebbero state un grosso problema per me. Non potevo permettermi di perdere tempo; dovevo superare le prove di primavera e diplomarmi. La dottoressa Olendzki mi diede il suo okay per la dimissione e poi lasciò la stanza. Dimitri raggiunse un'altra sedia e mi passò le scarpe e il cappotto. Nel vederlo, mi sentii percorsa da una vampa di calore, al ricordo di ciò che era successo prima che la dottoressa entrasse. Lui rimase a osservarmi mentre mi infilavo le scarpe. «Hai un angelo custode.» «Non credo negli angeli» gli dissi. «Credo in ciò che posso fare da me.» «Molto bene allora, hai un corpo strabiliante.» Levai lo sguardo fissandolo con piglio interrogativo. «Per capacità di guarigione, intendo. Ho sentito parlare dell'incidente...» Non specificò a quale incidente si riferisse, ma poteva essere uno soltanto. Di solito parlarne mi seccava, ma con lui sentivo di poter dire qualunque cosa. «Tutti dicevano che non sarei dovuta sopravvivere» spiegai. «Considerato dov'ero seduta e il modo in cui la macchina ha centrato l'albero. Lissa era l'unica a sedere in un posto sicuro. Lei e io ne siamo uscite solo con qualche graffio.» «E tu non credi negli angeli o nei miracoli.» «Nah. Io...» In verità, è un miracolo. Conduci una vita incantata... E proprio in quel momento un milione di pensieri si misero a premere con forza nella mia mente. Forse... forse avevo un angelo custode dopotutto... Dimitri colse il cambiamento nel mio stato d'animo. «Che c'è che non va?» Mi proiettai con la mente, cercai di espandere il legame e scrollarmi di dosso gli effetti residui dell'antidolorifico. Fui sfiorata da altre emozioni di Lissa. Ansia. Turbamento. «Dov'è Lissa? Era qui?» «Non so dove sia. Era con te quando ti ho portato qui. È rimasta al tuo capezzale fino a quando è arrivata la dottoressa. Con lei seduta al tuo fianco eri più tranquilla.» Chiusi gli occhi ed ebbi la sensazione di svenire. Mi ero tranquillizzata con Lissa seduta al mio fianco perché lei si era portata via il dolore. Mi aveva guarito...

Proprio come aveva fatto la notte dell'incidente. Adesso tutto aveva senso. Non sarei dovuta sopravvivere. L'avevano detto tutti. Chi poteva dire quali ferite avessi davvero sofferto? Emorragia interna. Ossa rotte. Non aveva importanza perché Lissa aveva aggiustato tutto, proprio come aveva aggiustato ogni altra cosa. Con ogni probabilità era per questo che aveva perso i sensi nel tragitto verso l'ospedale. Nei giorni seguenti era esausta. Ed era stato allora che era cominciata la sua depressione. Era sembrata la normale reazione per la perdita della famiglia, ma adesso cominciavo a domandarmi se non ci fosse dell'altro, se la mia guarigione non avesse giocato un qualche ruolo. Schiudendo di nuovo la mente mi proiettai verso di lei, con il bisogno di trovarla. Se mi aveva guarito, chissà in quali condizioni si trovava in quel momento. I suoi cambiamenti d'umore e la magia erano collegati, e questo era stato un numero di magia piuttosto impegnativo. I medicinali erano quasi svaniti dal mio organismo, e detto fatto, balzai dentro di lei. Una marea di emozioni mi raggiunse, e fu peggio di quando mi ero ritrovata immersa nei suoi incubi. Non avevo mai provato una tale intensità in lei. Sedeva nella soffitta della cappella, piangeva. E non sapeva neppure bene per quale ragione. Si sentiva contenta e sollevata che ne fossi uscita illesa, e che fosse stata in grado di guarirmi. Allo stesso tempo, però, si sentiva debole nel corpo e nella mente. Si sentiva bruciare, come se avesse perso una parte di sé. Aveva paura che fossi fuori di me perché aveva fatto ricorso ai suoi poteri. Era terrorizzata di doversi sorbire un'altra giornata di scuola domani, di dover far finta che le piacesse stare in compagnia di un ammasso di gente che non aveva altro interesse se non quello di spendere i soldi dei propri genitori e prendersi gioco di quelli meno belli e popolari. Non voleva andare al ballo con Aaron e vederlo che la guardava in adorazione, e sentirsi toccare da lui, quando l'unica cosa che provava nei suoi confronti era amicizia. In gran parte erano preoccupazioni del tutto normali, ma la stavano tormentando più di quanto avrebbero fatto con una persona normale, pensai. Lei non riusciva a sbrogliarle né a capire come affrontarle. «Tutto bene?» Levò lo sguardo e scostò i capelli appiccicati alla guancia bagnata. Christian era sulla soglia della soffitta. Lei non lo aveva neppure sentito salire le scale. Era troppo persa nel suo sconforto. Un barlume di desiderio e di rabbia si accese in lei. «Sto bene» disse di scatto. Tirando su con il naso cercò di fermare le lacrime, non voleva mostrarsi debole davanti a lui. Appoggiandosi al muro, Christian incrociò le braccia e mise in mostra un'espressione indecifrabile. «Ti va... ti va di parlare?» «Oh...» disse lei, aspra. «Adesso vuoi parlare? Dopo che ci ho provato così tante volte...» «Non l'ho voluto io! È stata Rose...» S'interruppe ed esitò. Non avevo scampo. Lissa si alzò e gli si avvicinò. «Cosa c'entra Rose?» «Niente.» Sul volto gli tornò la solita maschera d'indifferenza. «Lascia perdere.» «Cosa c'entra Rose?» Lissa fece qualche altro passo avanti. Nonostante tutta quella rabbia, provava ancora un'inspiegabile attrazione verso di lui. E poi capì. «Ti ha costretto a farlo, non è così? Ti ha detto di non parlare più con me?» Lui guardava impassibile davanti a sé. «Probabilmente era per il tuo bene. Avrei soltanto incasinato le cose. Non avresti ottenuto quello che volevi.»

«E questo cosa dovrebbe voler dire?» «Secondo te? Le persone ormai vivono o muoiono secondo il Vostro volere, Altezza.» «Sei un po' troppo melodrammatico.» «Davvero? E allora perché parlano tutti di quello che fai e di quello che pensi e di quello che indossi? Vogliono sapere se concederai loro la tua approvazione. Chi ti piace. Chi odi. Sono diventate le tue marionette.» «Non è come dici tu. E poi io detesto farlo. Per vendicarmi di Mia...» Roteando gli occhi, Christian guardò altrove, lontano da lei. «Non sai nemmeno di cosa ti stai vendicando.» Lissa avvampò di rabbia. «Ha convinto Jesse e Ralf a dire quelle cose su Rose! Non potevo fargliela passare liscia.» «Rose è una dura. L'avrebbe superata.» «Tu non l'hai vista» ribatté lei, ostinata. «Stava piangendo.» «E allora? Le persone piangono. Tu stai piangendo.» «Non Rose.» Christian tornò con lo sguardo a lei, un sorriso oscuro gli arricciava le labbra. «Non ho mai visto niente che somigliasse a voi due. Sempre così preoccupate l'una dell'altra. Capisco lei, è una sua specie di strana ossessione da guardiano, ma tu ti comporti proprio come lei.» «È mia amica.» «Immagino di sì. Non saprei.» Sospirò, per un attimo meditabondo, poi tornò al suo stile sarcastico. «A ogni modo. Mia. Ti sei vendicata per ciò che ha fatto a Rose. Ma non riesci ad afferrarne il senso. Perché lei lo ha fatto?» Lissa fece una smorfia. «Perché è gelosa di me e Aaron...» «È molto più di questo, principessa. Di cosa avrebbe mai dovuto essere gelosa? Lui era già suo. Non aveva bisogno di attaccare te per accaparrarselo. Ma forse era tutta una sceneggiata, il suo interesse per Aaron. Un po' come per te adesso» aggiunse beffardo. «Okay. Allora che altro c'è? Perché aveva intenzione di rovinarmi la vita? Non le ho mai fatto niente... prima di tutto questo, voglio dire.» Christian si chinò in avanti, gli occhi azzurri che scavavano in quelli di Lissa. «Hai ragione. Tu no. Ma tuo fratello sì.» Lissa indietreggiò. «Tu non sai niente di mio fratello.» «Ci ha fatto quello che voleva. Letteralmente.» «Finiscila, smettila di mentire.» «Non mento. Te lo giuro su Dio o su chiunque altro in cui tu voglia credere. In passato parlavo con Mia, di tanto in tanto, quando era ancora una matricola. Non era molto popolare, ma era intelligente. Lo è ancora. Era in un mucchio di comitati di cui facevano parte anche i reali, per balli e cose così. Non ne so molto. Ma deve aver conosciuto tuo fratello in uno di quei comitati, e in qualche modo sono finiti insieme.» «No. L'avrei saputo. Andre me l'avrebbe detto.» «No. Non lo disse a nessuno. E disse a lei di fare lo stesso. La convinse che si trattava di una specie di segreto romantico, quando in realtà non voleva che nessuno dei suoi amici scoprisse che andava a letto con una matricola che non veniva da alcuna casata reale.»

«Se te l'ha detto Mia, allora se l'è inventato» esclamò Lissa. «Già, be', quando l'ho vista piangere non ho creduto che se lo fosse inventato. Lui si è stufato di lei dopo qualche settimana e l'ha scaricata. Le ha detto che era troppo piccola e che lui non poteva fare sul serio con qualcuno che non veniva da una buona casata. Da quello che ho capito, non ci è andato leggero, non si è neppure preso il disturbo di raccontarle tutte quelle storie tipo "rimaniamo amici".» Lissa si piantò davanti a Christian. «Tu Andre non lo conoscevi neanche! Non l'avrebbe mai fatto.» «Sei tu che non lo conoscevi. Sono sicuro che fosse gentile con la sua sorellina. Sono sicuro che ti volesse bene. Ma a scuola, con i suoi amici, era un idiota, proprio come gli altri reali. L'ho notato perché noto tutto. È facile, quando nessuno si accorge di te.» Lei trattenne un singhiozzo, incerta se credergli o no. «Quindi è per questo che Mia mi odia?» «Esatto. Lei ti odia a causa sua. Per questo, e in più perché sei di casata reale e perché la sua posizione con i reali è instabile, che è il motivo per cui ha lavorato così duramente per scalare i ranghi e diventare loro amica. Penso che sia una coincidenza il fatto che sia finita con il tuo ex, ma il tuo ritorno probabilmente ha peggiorato le cose. Tra l'averglielo rubato e aver messo in giro le voci sui suoi genitori, voi ragazze avete davvero scelto il modo migliore per farla soffrire. Bel lavoro.» Il più esile dei rimorsi si fece strada dentro Lissa. «Sono ancora convinta che tu menta.» «Sono molte cose, ma non un bugiardo. Questo è il tuo campo. E quello di Rose.» «Noi non...» «Ingigantire storie sulle famiglie degli altri? Dire che mi odi? Far finta di essere amica di persone che reputi stupide? Uscire con un ragazzo che non ti piace?» «Lui mi piace.» «Ti piace o ti piace?» «Oh, c'è qualche differenza?» «Sì. Piacere è quando si esce con un grosso, biondo cretino e si ride alle sue battute.» Poi, senza il minimo preavviso, si chinò e la baciò. Fu rovente e rapido e impetuoso, un assaggio della rabbia e della passione e del desiderio che Christian racchiudeva in sé. Lissa non era mai stata baciata così, e la sentii rispondere, rispondergli: quanto la faceva sentire infinitamente più viva rispetto a come la facevano sentire Aaron e chiunque altro. Christian si sottrasse al bacio ma tenne il viso vicino al suo. «Questo è ciò che si fa con qualcuno che ti piace.» Il cuore di Lissa martellava di rabbia e desiderio. «Be', a me tu non piaci né piaci. E penso che sia tu che Mia stiate mentendo su Andre. Aaron non si sarebbe mai inventato niente del genere.» «Questo perché Aaron non dice mai niente che abbia bisogno di parole composte da più di una sillaba.» Lissa si ritrasse. «Va' via. Stammi lontano.» Lui si guardò attorno con aria divertita. «Non puoi buttarmi fuori. Abbiamo firmato tutti e due il contratto d'affitto.» «Vattene. Via!» gridò. «Ti odio!» Lui fece un inchino. «Ai Vostri ordini, Maestà.» Con un'ultima cupa occhiata lasciò la soffitta.

Lissa cadde in ginocchio, lasciando scorrere le lacrime che aveva nascosto a Christian. Riuscivo a malapena a distinguere ciò che la feriva. Anch'io ero turbata da dio solo sa quante cose - come l'incidente con Jesse -, però non mi assalivano allo stesso modo. Dentro di lei invece vorticavano, tormentandole la mente. Le storie su Andre. L'odio di Mia. Il bacio di Christian. La mia guarigione. Questa, mi resi conto, era la sensazione che dava una depressione vera. La sensazione che dava la follia. Sopraffatta, annaspando nel proprio dolore, Lissa prese l'unica decisione che poteva prendere. L'unica cosa che poteva fare era incanalare quelle emozioni. Aprì la borsetta e trovò il minuscolo rasoio che portava sempre con sé... Disgustata, eppure incapace di andarmene, la sentii ferirsi il braccio sinistro, incidersi tagli perfettamente identici, guardare il sangue che scorreva sulla pelle pallida. Evitò come sempre le vene, ma questa volta i tagli erano più profondi. L'incisione pungeva in modo orribile, eppure nel farlo Lissa fu in grado di concentrarsi sul dolore fisico, di distrarsi dall'angoscia mentale, in modo da poter avere la sensazione di riprendere il controllo. Gocce di sangue si sparsero sul pavimento impolverato, e il mondo cominciò a vorticarle attorno. La vista del suo stesso sangue la intrigava. Aveva bevuto il sangue degli altri per una vita intera. Il mio. Quello dei donatori. Adesso, eccolo che colava via. Con una risatina nervosa si convinse di trovarlo divertente. Forse lasciandolo uscire, lo stava restituendo a quelli a cui lo aveva rubato. O forse lo sprecava, sprecava il sacro sangue dei Dragomir, che sembrava ossessionare tutti. Mi ero introdotta a forza nella sua testa, e adesso non riuscivo più a uscirne. Le sue emozioni mi avevano intrappolata, erano troppo intense e troppo potenti. Ma dovevo fuggire, lo sentivo con ogni grammo del mio corpo. Dovevo fermarla. Era troppo debole a causa della guarigione per potersi permettere di perdere tutto quel sangue. Era arrivato il momento di dirlo a qualcuno. Quando alla fine riuscii a farcela, mi ritrovai nella clinica. Le mani di Dimitri erano su di me, mi scuotevano mentre lui ripeteva il mio nome ancora e ancora, nel tentativo di richiamare la mia attenzione. La dottoressa Olendzki era accanto a lui, l'espressione cupa e preoccupata. Scrutai Dimitri in volto, rendendomi conto di quanto fosse in ansia e di quanto ci tenesse a me. Christian mi aveva detto di cercare aiuto, di rivolgermi a qualcuno di cui mi fidavo e di metterlo al corrente di Lissa. Non avevo dato ascolto al suo suggerimento perché mi fidavo soltanto di lei. Ma adesso vedendo Dimitri, e percependo l'intesa che condividevamo, capii che c'era qualcun altro di cui mi fidavo. Sentii la mia voce incrinarsi mentre parlavo. «So dove si trova. Lissa. Dobbiamo aiutarla.»

E' difficile dire che cosa, alla fine, mi spinse a farlo. Mi ero tenuta moltissimi segreti per molto tempo, facendo quello che credevo giusto per proteggere Lissa. Ma nascondere il suo autolesionismo non serviva a proteggerla. Non ero stata in grado di farla smettere, e adesso mi chiedevo davvero se fosse per colpa mia che lei aveva iniziato. Non era mai successo niente del genere, prima che mi guarisse nell'incidente. E se mi avesse lasciato ferita? Forse mi sarei rimessa. Forse adesso lei sarebbe stata bene. Rimasi nella clinica mentre Dimitri recuperava Alberta. Quando gli avevo spiegato dov'era Lissa, non aveva esitato un secondo. Gli avevo detto che era in pericolo, e lui era partito all'istante. Dopodiché tutto accadde come in una sorta di incubo al rallentatore. I minuti si trascinarono nell'attesa. Quando Dimitri finalmente tornò con Lissa incosciente, la clinica si mise in subbuglio; mi dicevano tutti di stare alla larga. Aveva perso molto sangue, e malgrado avessero un donatore a portata di mano, riportarla a un livello di coscienza sufficiente perché potesse bere si rivelò difficile. Solo verso metà della notte qualcuno decretò che si era stabilizzata quanto bastava per permettere che io le facessi visita. «È vero?» mi chiese quando entrai nella stanza. Era stesa sul letto, i polsi bendati. Sapevo che le avevano rimesso in circolo molto sangue, ma a me sembrava ancora pallidissima. «Dicono che sei stata tu. Che gliel'hai detto tu.» «Ho dovuto» risposi, con la paura di avvicinarmi troppo. «Liss... ti sei ferita molto peggio di quanto tu non abbia mai fatto. E dopo avermi guarito... dopo quello che è successo con Christian... non avresti saputo cavartela. Avevi bisogno di aiuto.» Lei chiuse gli occhi. «Christian. Allora lo sai. Ma certo che lo sai. Sai sempre tutto.» «Mi dispiace. Volevo solo dare una mano.» «Che ne è stato di ciò che ci aveva detto la signora Karp? Tenere le cose segrete?» «Si riferiva ad altre cose. Non penso volesse che tu continuassi a provocarti lesioni da sola.» «Hai raccontato anche "il resto"?» Scrollai il capo. «Non ancora.» Si volse verso di me, lo sguardo gelido. «"Non ancora". Ma lo farai.» «Devo. Puoi guarire gli altri... ma ti sta uccidendo.» «Ho guarito te.» «Alla fine mi sarei ripresa lo stesso. La caviglia sarebbe guarita. Non ne vale la pena, visto ciò che fa a te. E penso di sapere come sia cominciato... La prima volta che mi hai guarito.» Le spiegai la mia intuizione a proposito dell'incidente e di come tutti i suoi poteri e la depressione fossero cominciati poco dopo. E poi le feci notare che anche il nostro legame si era formato dopo l'incidente, malgrado non ne capissi ancora bene il motivo. «Non so cosa stia succedendo, ma è troppo per noi. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti.» «Mi porteranno via» disse in tono piatto. «Come la signora Karp.» «Penso che cercheranno di aiutarti. Erano tutti molto preoccupati. Liss, lo sto facendo per te. Voglio solo che tu stia bene.» Volse lo sguardo altrove. «Rose, va' via.» Lo feci. La dimisero la mattina dopo a condizione che tornasse per un incontro giornaliero con lo psicologo. Dimitri mi disse che avevano anche previsto di darle dei farmaci per aiutarla con la depressione. Non ero una grande fan delle pillole, ma ero disposta ad accogliere di buon grado

qualunque cosa potesse aiutarla. Per nostra sfortuna, uno del secondo anno era stato ricoverato in clinica per un attacco d'asma. Aveva visto Lissa arrivare con Dimitri e Alberta. Non sapeva perché fosse stata ricoverata, ma questo non gli impedì di riferire ciò che aveva visto ai ragazzi del suo corridoio. Quelli lo dissero ad altri durante la colazione. A pranzo, tutti gli studenti delle classi superiori sapevano di quella capatina in clinica a tarda notte. E cosa ancora più importante, tutti sapevano che Lissa non mi parlava. Quindi, qualunque progresso sociale avessi fatto, andò in fumo. Lei non mi aveva condannato in modo esplicito, ma il suo silenzio era molto eloquente, e le persone si comportavano di conseguenza. Per tutta la giornata mi aggirai per l'Accademia come un fantasma. Le persone mi guardavano e a volte mi parlavano, ma soltanto qualcuno fece uno sforzo in più. Si adeguavano alla presa di posizione di Lissa, imitavano il suo silenzio. Nessuno si mostrava sgarbato con me a viso aperto, probabilmente non volevano correre alcun rischio nel caso in cui lei e io avessimo messo una pezza alla questione. Tuttavia, sentii sussurrare "sgualdrina di sangue" qui e là quando qualcuno credeva di non essere sentito. Mason mi avrebbe accolto al suo tavolo, per pranzo, ma alcuni dei suoi amici forse non si sarebbero dimostrati così gentili. Non volevo essere motivo di discussione tra lui e loro. Così scelsi Natalie. «Ho sentito che Lissa ha cercato di scappare ancora, e che tu l'hai fermata» disse. Nessuno aveva idea di come mai fosse stata ricoverata. Sperai che la situazione non cambiasse. «Scappare? Questa da dove diavolo salta fuori? Perché mai avrebbe dovuto farlo?» «Non lo so.» Abbassò la voce. «Perché è già scappata una volta? È soltanto quello che dicono.» Quella versione imperversò fino all'indomani, così come fecero le voci che si rincorrevano a proposito del perché Lissa fosse dovuta andare in clinica. Le teorie che prevedevano gravidanza e aborto erano eternamente popolari. Alcuni bisbigliavano che potesse aver contratto il morbo di Victor. Nessuno riuscì ad avvicinarsi alla verità. Lasciando l'ultima ora di lezione il più in fretta possibile, rimasi sgomenta quando Mia cominciò a camminarmi accanto. «Che vuoi?» le domandai. «Non posso uscire a giocare con te, oggi, ragazzina.» «Per essere qualcuno che al momento non esiste, hai davvero un bel caratterino.» «In confronto al tuo, intendi?» le chiesi. Ricordandomi di ciò che aveva detto Christian, mi sentii un poco dispiaciuta per lei. Il senso di colpa però svanì e le diedi un'occhiata. Un tempo poteva anche essere stata una vittima, ma adesso era un mostro. Aveva un'aria fredda, scaltra, molto diversa da quella disperata e depressa di qualche giorno prima. Non si era data per vinta dopo ciò che le aveva fatto Andre - sempre se era vero, ma io credevo di sì - e dubitavo che si sarebbe arresa con Lissa. Mia era una che sopravviveva sempre. «Ti ha fatto fuori, e tu sei troppo orgogliosa per ammetterlo.» Gli occhi turchini le fuoriuscivano quasi dalle orbite. «Non vuoi vendicarti di lei?» «Sei più psicopatica del solito? È la mia migliore amica. E poi, perché continui a venirmi dietro?» «Non si comporta come se lo fosse. Avanti, dimmi cos'è successo alla clinica. È qualcosa di grosso, ho ragione? È incinta davvero, giusto? Dimmi di che si tratta» chiese Mia, irritata. «Levati di torno.»

«Se me lo dici farò in modo che Jesse e Ralf dicano di essersi inventati tutto.» Mi bloccai e mi voltai per affrontarla. Intimorita, lei fece qualche passo indietro. Doveva essersi ricordata di una delle mie recenti minacce di ritorsioni fisiche. «Che si sono inventati tutto lo so già, perché io non ho mai fatto niente del genere. E se provi ancora a mettermi contro Lissa, si comincerà a parlare di te che sanguini perché io ti ho aperto la gola!» A ogni parola la mia voce si era fatta più alta e in pratica avevo finito per gridare. Mia indietreggiò ancora, visibilmente terrorizzata. «Sei davvero fuori di testa. Non mi meraviglio che ti abbia scaricata.» Scrollò le spalle. «Come vuoi. Scoprirò cosa succede senza di te.» Quando arrivò il momento del ballo, quel weekend, giunsi alla conclusione che non ci volevo andare per nessuna ragione. Tanto per cominciare mi sembrava stupido, e comunque a me sarebbe interessato soprattutto andare agli afterhour dopo la festa. Ma senza Lissa era improbabile che riuscissi a farmi ammettere. Così mi rintanai in camera mia, cercando -senza riuscirci - di fare un po' di compiti. Grazie al legame, avvertivo provenire da lei un miscuglio di emozioni, soprattutto ansia ed esaltazione. Doveva essere difficile rimanere tutta la notte in compagnia di un ragazzo che non ti piaceva sul serio. Una decina di minuti dopo l'inizio del ballo decisi di mettere via tutto e farmi una doccia. Mentre percorrevo il corridoio, di ritorno dal bagno, l'asciugamano attorno alla testa, avvistai Mason fuori dalla mia porta. Non era esattamente in ghingheri, ma comunque non aveva addosso un paio di jeans. Era già un inizio. «Eccoti qui, party girl. Stavo quasi per darmi per vinto.» «Hai appiccato un altro incendio? I ragazzi non sono ammessi in questo corridoio.» «Sì, va be'. Come se facesse qualche differenza.» Vero. La scuola poteva anche tenere lontani gli Strigoi, ma faceva un pessimo lavoro nel tenere lontani noi l'uno dall'altra. «Lasciami entrare. Devi prepararti.» Mi ci volle un minuto per rendermi conto di quello che intendeva. «No. Non vengo.» «Avanti» mi stuzzicò, seguendomi dentro la mia stanza. «Solo perché hai litigato con Lissa? Voi due farete pace presto. Non c'è motivo di startene qui tutta la notte. Se non la vuoi intorno, Eddie sta racimolando un po' di gente per vedersi in camera sua più tardi.» Il mio vecchio spirito festaiolo fece capolino. Niente Lissa. Niente reali. «Davvero?» Vedendo che cominciava a conquistarmi, Mason fece un largo sorriso. Guardandolo negli occhi mi resi conto di quanto gli piacessi. E poi mi chiesi di nuovo: Perché non potevo avere un ragazzo normale? Perché dovevo volere il mio sensuale, vecchio mentore, quel mentore che probabilmente avrei finito per far licenziare? «Ci saranno solo novizi» proseguì Mason, all'oscuro dei miei pensieri. «E quando arriveremo, ho una sorpresa per te.» «È una bottiglia?» Se Lissa aveva deciso di ignorarmi, non avevo motivo di rimanere sobria. «No. Di quello si occupa Eddie. Sbrigati a vestirti. So che non verrai vestita così.» Abbassai lo sguardo sui jeans strappati e sulla maglietta della Oregon University. Già. Non sarei andata vestita così. Quindici minuti più tardi stavamo attraversando il cortile in direzione della palestra, ridendo mentre ricordavamo un compagno di classe particolarmente goffo che si era fatto un occhio nero durante l'allenamento di quella settimana. Muoversi veloci sul terreno gelato non era facile con i

tacchi, e così rimasi aggrappata al braccio di Mason per non cadere, facendomi quasi trascinare. Cosa che ci fece ridere ancora di più. Iniziai a sentirmi meglio; non mi ero liberata del tutto dell'avvilimento per Lissa, ma era già qualcosa. Forse non avevo più lei e i suoi amici, ma ne avevo di miei. Ed era anche molto probabile che mi sarei ritrovata sbronza persa, quella sera, il che, benché non fosse un bel modo di risolvere i problemi, sarebbe stato perlomeno divertente. Già. La mia vita sarebbe potuta andare peggio. Poi incontrammo Dimitri e Alberta. Andavano da qualche parte, e parlavano di questioni da guardiani. Alla nostra vista Alberta sorrise, concedendoci quel genere di sguardo indulgente che le persone più grandi danno ai giovani sul punto di divertirsi e fare sciocchezze. Come se pensasse che noi due fossimo carini. Che faccia tosta. Ci fermammo incespicando, e Mason mi poggiò la mano sul braccio per aiutarmi a mantenere l'equilibrio. «Signor Ashford, signorina Hathaway. Mi sorprende che non siate già in palestra.» Mason le fece un sorriso angelico, da cocco dell'insegnante. «Siamo stati trattenuti, guardiano Petrov. Sa come sono le ragazze. Devono sempre essere perfette. Lei dovrebbe saperlo bene.» Di norma gli avrei dato una gomitata per aver detto qualcosa di così stupido, ma stavo fissando Dimitri ed ero incapace di parlare. Cosa ancora più importante, lui stava fissando me. Avevo addosso il vestito nero, e mi stava proprio come avevo sperato. In effetti era inspiegabile che Alberta non mi avesse richiamato al codice sull'abbigliamento. Il tessuto aderiva in ogni punto, e il seno di nessuna delle ragazze Moroi avrebbe potuto tenere su quel vestito. Avevo al collo la rosa di Victor, e mi ero data un rapido colpo di fon ai capelli, lasciandoli sciolti come piaceva a Dimitri. Non mi ero messa le calze perché nessuno indossava più le calze con un vestito del genere, quindi i miei piedi stavano congelando dentro le scarpe con i tacchi. Qualunque cosa, pur di apparire bella. Ed ero piuttosto sicura di stare maledettamente bene, ma il volto di Dimitri non lasciava trapelare niente. Continuava a fissarmi, e guardava, guardava. Forse questo diceva già qualcosa sul mio aspetto. Ricordandomi di come Mason mi teneva più o meno la mano, mi ritrassi. Lui e Alberta smisero di fare commenti spiritosi, e tutti continuammo per le rispettive strade. Quando arrivammo, in palestra era già iniziata la musica; se non fosse stato per le luci di Natale bianche e - uh - una palla da discoteca, la sala sarebbe stata completamente buia. Un turbinio di corpi, in gran parte delle classi inferiori, affollava la pista da ballo. Quelli della nostra età restavano lungo i margini della sala a gruppetti per darsi un tono, in attesa del momento opportuno per squagliarsela. Un assortimento di chaperon, guardiani e insegnanti Moroi in misura uguale era di pattuglia, e separava le coppie che ci davano un po' troppo dentro con il movimento. Quando adocchiai la Kirova in un abito scozzese senza maniche mi voltai verso Mason e dissi: «Sicuro che non possiamo già mettere le mani su quel superalcolico?» Ridacchiò e mi prese per mano. «Avanti, è il momento della sorpresa.» Mi lasciai condurre attraverso la sala, passando in mezzo a un crocchio di matricole che avevano l'aria di essere davvero troppo giovani per quel genere di colpi di bacino in cui si affannavano. Dov'erano gli chaperon quando c'era bisogno di loro? Poi mi accorsi di dove Mason mi stava portando e puntai i piedi per fermarmi. «No» dissi, senza smuovermi quando mi strattonò la mano. «Avanti, sarà grandioso.» «Mi stai portando da Jesse e Ralf. Mi farei vedere in loro compagnia solo se avessi in mano un oggetto contundente, e stessi prendendo la mira tra le loro gambe.» Mi strattonò ancora. «Non più. Vieni.»

Con riluttanza, alla fine ripresi a muovermi: le mie peggiori paure si materializzarono quando alcune paia d'occhi si voltarono lungo il tragitto. Grandioso. Ricominciava tutto da capo. All'inizio Jesse e Ralf non si accorsero di noi, ma quando lo fecero, una spassosa serie di espressioni passò sui loro volti. Prima videro il mio corpo e il vestito. Il testosterone prese il sopravvento sotto forma di pura libidine maschile che scintillava nei loro sguardi; poi si resero conto che si trattava di me, e il terrore li gelò subito. Fantastico. Mason puntò deciso il dito contro il petto di Jesse. «Molto bene, Zeklos. Dillo.» Jesse non disse niente, e Mason ripeté il gesto, con più forza. «Dillo.» Senza guardarmi negli occhi Jesse mormorò: «Rose, sappiamo che nessuna di quelle cose è successa.» La risata quasi mi soffocò. «Ah, ma dai? Wow. Sono felice di sentirtelo dire. Perché sai, finché non me lo hai detto ho continuato a credere che fosse successo davvero. Grazie a Dio, voi ragazzi siete qui per chiarire la questione e dirmi che cosa ho fatto o non ho fatto!» Trasalirono, e l'espressione luminosa di Mason si incupì facendosi più dura. «Lo sa già» ringhiò. «Ditele il resto.» Jesse gemette. «L'abbiamo fatto perché Mia ci ha detto di farlo.» «E?» suggerì Mason. «E ci dispiace.» Mason si rivolse a Ralf. «Voglio sentirlo da te, ragazzone.» Neppure Ralf volle guardarmi negli occhi, ma mormorò qualcosa che suonava vagamente come delle scuse. Alla vista della loro resa, Mason si fece più tagliente. «Però non hai ancora sentito la parte migliore.» Gli lanciai un'occhiata di traverso. «Davvero? Tipo la parte dove riavvolgiamo il tempo e niente di tutto questo è mai successo?» «Quella che arriva è meglio.» Diede di nuovo qualche colpetto a Jesse. «Dillo. Dille perché lo avete fatto.» Jesse sollevò lo sguardo e si scambiò un'occhiata imbarazzata con Ralf. «Ragazzi» li mise in guardia Mason, visibilmente deliziato, «state facendo arrabbiare la Hathaway e me. Ditele perché lo avete fatto.» Con l'espressione di chi si rende conto che le cose non possono andare peggio di così, Jesse finalmente mi guardò negli occhi. «L'abbiamo fatto perché è venuta a letto con noi. Con tutti e due.»

Spalancai la bocca per la sorpresa. «Ehh... aspetta... intendi dire sesso?» Lo stupore non mi permise di pensare a una risposta migliore. Mason sembrava in preda a un attacco isterico. Jesse aveva l'aria di uno che vuole morire. «Certo che intendo dire sesso. Ha detto che lo avrebbe fatto con noi, se avessimo detto che... lo sai...» Feci una smorfia. «Voi ragazzi non lo avete, uhm, fatto contemporaneamente, vero?» «No» disse Jesse con ripugnanza. Ralf invece dava l'impressione che non gliene sarebbe importato granché. «Dio» mormorai, scostandomi i capelli dal viso. «Non posso credere che ci odi fino a questo punto.» «Ehi» esclamò Jesse intuendo la mia insinuazione. «E questo cosa vorrebbe dire? Non siamo niente male. E tu e io... siamo arrivati molto vicini a...» «No. Noi non siamo mai arrivati così vicino.» Mason rise di nuovo, e a me venne in mente una cosa. «Se questa storia risale a quel periodo, però... lei stava ancora con Aaron.» I tre ragazzi annuirono. «Oh. Whoo.» Mia doveva odiarci davvero. Era andata ben al di là della parte da poverella-maltrattata-dalfratello e si era inoltrata nel territorio della sociopatica. Era andata a letto con quei due e aveva tradito un ragazzo che pareva adorare. Quando se ne andarono, Jesse e Ralf sembravano incredibilmente sollevati. Mason mi appoggiò mollemente un braccio attorno alle spalle. «Be'. Che ne pensi? Sono il migliore, vero? Puoi dirmelo. Non mi dà fastidio.» Scoppiai a ridere. «Come hai fatto a scoprirlo?» «Ho dovuto chiedere un sacco di favori. E fare ricorso a qualche minaccia. Anche il fatto che Mia non potesse ripagarmi con la stessa moneta mi è stato d'aiuto.» Ricordai di quando Mia mi aveva avvicinato qualche giorno prima. Non credevo che fosse già alle strette, ma non potevo esserne sicura. «Cominceranno a raccontarlo in giro lunedì» continuò. «L'hanno promesso. Per pranzo lo sapranno tutti.» «Perché non adesso?» gli chiesi mettendo il broncio. «Sono andati a letto con una ragazza. Danneggerà più lei che loro.» «Già. Vero. Ma forse non avevano voglia di farlo stasera. Potresti cominciare a dirlo tu agli altri, se ti va. Potremmo fare uno striscione.» Con tutte le volte che Mia mi aveva chiamato puttana e sgualdrina? Non era una cattiva idea. «Hai qualche pennarello e un foglio?» Le parole mi vennero meno quando guardai dalla parte opposta della palestra, dove Lissa era circondata da ammiratori, il braccio di Aaron attorno alla vita. Indossava un tubino rosa lucido di una tonalità che mi lasciava senza parole. Aveva raccolto i capelli in uno chignon usando delle forcine tempestate di cristalli. Sembrava quasi che indossasse una corona. La principessa Vasilisa. Avvertivo le sue emozioni, così com'era successo tante altre volte prima di allora: ansia ed eccitazione. Non riusciva davvero a spassarsela, stasera.

A guardarla dall'altra parte della sala, appostato nel buio, c'era Christian. Si confondeva con le tenebre. «Falla finita» si lamentò Mason, vedendomi con lo sguardo fisso. «Non pensare a lei, stasera.» «Sarà difficile.» «Ti fa sembrare depressa. E sei troppo sexy con quel vestito per sembrare depressa. Andiamo, c'è Eddie.» Mi trascinò via, ma non prima che potessi lanciare un'ultima occhiata a Lissa da sopra la spalla. I nostri occhi si incontrarono per un istante. Il rimorso percorse il legame. Ma me la levai dalla mente - metaforicamente parlando - e riuscii ad assumere un'aria amabile quando ci unimmo a un gruppo di altri novizi. Guadagnammo molti punti col racconto dei pettegolezzi scandalosi riguardanti Mia e, che fosse poca cosa o meno, vedere il mio nome ripulito e vendicarmi di lei mi faceva sentire sorprendentemente bene. E mentre quelli del nostro gruppo si allontanavano per mischiarsi con altri, vidi che la notizia si stava diffondendo a macchia d'olio. L'ipotesi di aspettare fino a lunedì era morta e sepolta. Fosse come fosse. Non mi importava. Mi stavo davvero divertendo. Mi sentivo nel mio vecchio ruolo, felice di constatare di non aver perso smalto in fatto di commenti divertenti e maliziosi. Tuttavia, mentre il tempo passava e la festa da Eddie si avvicinava, iniziai a percepire l'ansia di Lissa farsi più intensa. Accigliandomi, smisi di parlare e mi voltai, passando in rassegna la sala in cerca di lei. Là. Era ancora in compagnia di un gruppetto, ancora il sole di quel piccolo sistema solare. Ma Aaron stava chino sopra di lei, le diceva qualcosa all'orecchio. Un sorriso che riconobbi come falso le si era appiccicato sul viso, e il fastidio e l'ansia crebbero ancora. Poi raggiunsero un picco. Mia si era unita a loro. Qualunque cosa fosse andata a dire, non perse tempo. Con gli sguardi degli ammiratori di Lissa addosso, la piccola Mia nel suo vestitino rosso gesticolava in modo frenetico, discutendo animatamente. Ero dall'altra parte della sala e non riuscivo a sentire le parole, ma attraverso il legame percepivo le emozioni di Lissa farsi sempre più cupe e intense. «Devo andare» dissi a Mason. Per metà camminai, e per metà corsi, catturando solo alla fine la scenata di Mia. Parata davanti al viso di Lissa, le sbraitava addosso senza freni. Da quello che potevo capire, la notizia di Jesse e Ralf che l'avevano tradita doveva essere arrivata fino a lei. «... tu e quella puttana della tua amica. Dirò a tutti che genere di psicopatica sei e di come hanno dovuto rinchiuderti in clinica perché sei troppo fuori di testa. Ti metteranno sotto psicofarmaci. Ecco perché tu e Rose siete partite; perché nessuno potesse scoprire il tuo autole...» Uuh. Niente di buono. Proprio come al nostro primo incontro in mensa, la afferrai per il braccio e la spinsi via. «Ehi» dissi. «La puttana della sua amica è qui. Ricordi quello che ti ho detto sul fatto di non starle troppo vicino?» Mia ringhiò, mostrandomi i canini. Come avevo già avuto modo di notare, non riuscivo più a sentirmi dispiaciuta per lei. Era pericolosa. Si era umiliata pur di riuscire a vendicarsi di me. In qualche modo, era venuta a sapere di Lissa e dei tagli. E per di più lo sapeva davvero; non stava solo tirando a indovinare. Le informazioni di cui era in possesso sembravano derivare sia da ciò che i guardiani presenti sulla scena avevano riferito, sia da ciò che io avevo raccontato loro della storia di Lissa. Forse addirittura da qualche rapporto riservato della dottoressa. In qualche modo, Mia aveva messo le mani sui documenti.

Anche Lissa se ne rese conto, e l'espressione sul suo viso - spaventata e fragile, non più da principessa - mi fece prendere quella decisione al posto suo. Non mi importava che la Kirova qualche giorno prima avesse accennato al fatto di ridarmi la libertà, che mi ero comportata bene, e che quella notte avrei potuto lasciare da parte le mie preoccupazioni e festeggiare. Stavo per rovinare tutto, lì, e subito. Non sono per niente brava quanto si tratta di reprimere gli impulsi. Sferrai a Mia il pugno più forte che riuscii; ancora più forte, penso, di quando avevo colpito Jesse. Sentii uno scricchiolio mentre la mano finiva contro il suo naso; il sangue zampillò a fiotti. Qualcuno gridò. Mia urlava e indietreggiò finendo contro qualche ragazza che squittiva e non voleva sangue sul vestito. Mi lanciai sulla preda, mettendo a segno un altro pugno prima che qualcuno mi staccasse da lei. A differenza di quanto avevo fatto quando mi avevano portato via dall'aula del signor Nagy, non opposi resistenza. Me l'ero aspettato fin dal momento in cui mi ero scagliata contro di lei. Mettendo fine a qualunque tentativo di ribellione, lasciai che due guardiani mi portassero via dal ballo mentre la Kirova cercava di ristabilire un'apparenza di ordine. Non mi importava di ciò che mi avrebbero fatto. Che mi punissero o espellessero. Facessero come gli pareva. Me la sarei cavata... Davanti a noi, tra le ondate di studenti che andavano e venivano attraverso la porta a doppio battente, vidi una sagoma in rosa lanciarsi all'esterno. Lissa. Le mie personali emozioni fuori controllo si erano sovrapposte alle sue, ma ecco queste ultime tornare ad affluire dentro di me. Devastazione. Disperazione. Tutti conoscevano il suo segreto adesso. Avrebbe dovuto vedersela con molto più che qualche inutile elucubrazione mentale. Le tessere del puzzle erano andate tutte al loro posto. Non sarebbe stata in grado di cavarsela. Sapendo di non poter andare da nessuna parte, cercai disperatamente un modo di aiutarla. Una sagoma scura attirò il mio sguardo. «Christian!» gridai. Stava osservando la figura di Lissa che batteva in ritirata, ma al suono del suo nome levò lo sguardo. Una della mia scorta mi fece segno di tacere e mi afferrò il braccio. «Fa' silenzio.» La ignorai. «Va' da lei» gridai a Christian. «Sbrigati.» Lui si sedette, e io dovetti reprimere un gemito. «Vai, idiota!» I miei guardiani mi ingiunsero di fare silenzio, ma qualcosa dentro Christian si risvegliò. Lasciò la sua posa annoiata e saltò in piedi, lanciandosi verso Lissa. Nessuno volle occuparsi di me quella notte. L'indomani avrei dovuto pagare il conto, sentii parlare di sospensione o persino di una possibile espulsione, ma adesso la Kirova aveva le mani occupate da Mia, sanguinante, e da un corpo studentesco in preda all'isteria. I guardiani mi scortarono in camera sotto l'occhio attento della sorvegliante del dormitorio, che mi informò che sarebbe venuta a controllarmi ogni ora per assicurarsi che non mi muovessi da lì. Un paio di guardiani sarebbero rimasti agli ingressi del dormitorio. A quanto pareva, adesso ero un grosso pericolo per la sicurezza. E probabilmente avevo rovinato la festa di Eddie; il gruppo non sarebbe più riuscito a raggiungerlo di nascosto in camera sua, ormai. Senza preoccuparmi del vestito, mi abbassai incrociando le gambe fino a sedermi per terra. Proiettai la mente verso Lissa. Adesso era più calma. Gli eventi del ballo le facevano ancora orribilmente male, ma in qualche modo Christian la calmava, anche se non sapevo dire se fosse grazie alle parole o al suo fascino incantato. Non mi importava. Finché riusciva a sentirsi meglio ed evitava di fare qualcosa di stupido. Tornai in me stessa. Sì, adesso le cose si stavano facendo più complicate. Le rispettive accuse di Mia e Jesse avrebbero infiammato la scuola. Probabilmente mi avrebbero cacciato e avrei dovuto vivere in compagnia di una manciata di dhampir scosciate. Perlomeno Lissa si era resa conto che Aaron era

troppo noioso e che voleva stare con Christian. Ma pur ammettendo che quella fosse la cosa giusta, avrebbe comunque voluto dire che... Christian. Christian. Christian era ferito. Tornai d'improvviso nel corpo di Lissa, risucchiata dal terrore che pulsava dentro di lei. Era circondata, circondata da uomini e donne sbucati dal nulla, che avevano fatto irruzione nella soffitta della cappella dove lei e Christian si erano rintanati per parlare. Christian si rimise in piedi con un balzo, fiamme si allungavano dalle sue dita. Uno degli invasori lo colpì sulla testa con qualcosa di duro, facendolo accasciare a terra. Sperai con tutta me stessa che stesse bene, ma non potevo sprecare altra energia preoccupandomi di lui, adesso. Adesso le mie paure erano tutte per Lissa. Non potevo permettere che le accadesse la stessa cosa. Non potevo lasciare che le facessero del male. Dovevo salvarla, portarla via di là. Ma non sapevo come. Era troppo lontana, e al momento non riuscivo neppure a scappare dalla sua mente, figurarsi evadere da lì o trovare aiuto. Gli aggressori si avvicinarono, chiamandola principessa e dicendole di non preoccuparsi, che erano guardiani. E infatti davano l'impressione di essere dei guardiani. Di sicuro dei dhampir. Si muovevano con precisione, efficienza. Ma tra loro non riconoscevo nessuno dei guardiani della scuola. E neppure Lissa. Dei guardiani non avrebbero mai assalito Christian. Dei guardiani di certo non l'avrebbero mai legata e imbavagliata... Qualcosa mi costrinse a uscire dalla sua mente, e io corrugai la fronte, guardandomi attorno, in camera mia. Avevo bisogno di tornare dentro di lei per scoprire che cosa le stava succedendo. Di solito il nostro contatto si affievoliva o si interrompeva, ma era come se qualcosa mi avesse scacciato via da lei. Trascinato qui. Ma non aveva senso. Che cosa mai avrebbe potuto trascinarmi qui... un momento. La mia mente ebbe un vuoto di memoria. Non riuscivo a ricordare quello a cui stavo pensando un attimo prima. Era svanito. Un disturbo elettrostatico nel mio cervello. Prima dov'ero? Con Lissa? Che ne era di Lissa? Alzandomi in piedi, confusa, mi strinsi tra le braccia nel tentativo di capire che cosa stava succedendo. Qualcosa che aveva a che fare con Lissa. Dimitri, disse all'improvviso una voce nella mia testa. Va' da Dimitri. Sì. Dimitri. D'un tratto il mio corpo e la mia anima avvamparono per lui, e desiderai la sua compagnia più di quanto non avessi mai fatto. Non potevo rimanergli lontana. Lui avrebbe saputo che cosa fare. E mi aveva detto di andare da lui per qualsiasi problema che riguardasse Lissa. Era un vero peccato che non riuscissi a ricordare di che cosa si trattasse. Ma nonostante questo, sapevo che lui si sarebbe occupato di tutto. Raggiungere l'ala del dormitorio riservata al personale non fu difficile, visto che il loro scopo era di trattenermi lì, quella notte. Non sapevo dove si trovasse la sua stanza, ma non aveva importanza. Qualcosa mi stava attirando verso di lui, mi spingeva sempre più vicino. Un impulso irrazionale mi condusse a ima delle porte, e la tempestai di pugni. Dopo qualche istante, lui aprì la porta, i suoi occhi bruni si spalancarono alla mia vista. «Rose?» «Fammi entrare. Si tratta di Lissa.» Si fece subito da parte per lasciarmi passare. A quanto pareva l'avevo sorpreso a letto, perché le coperte erano scostate e nel buio riluceva solo una piccola lampada da comodino. In più, aveva addosso solo i pantaloni del pigiama; il suo petto -che non avevo mai visto prima, e wow, aveva un

aspetto eccezionale - era nudo. Le punte dei suoi capelli scuri si arricciavano all'altezza del mento e sembravano bagnate, come se si fosse fatto una doccia poco tempo prima. «Che c'è che non va?» Il suono della sua voce mi diede i brividi, e non seppi rispondere. Non riuscivo a smettere di fissarlo. La forza che mi aveva attirato qui mi spingeva verso di lui. Desideravo così tanto, così tanto che mi toccasse, che potevo sopportarlo a fatica. Era così incantevole. Così incredibilmente bello. Sapevo che c'era qualcosa di sbagliato, ma non mi sembrava importante. Non se io ero qui con lui. Con quasi trenta centimetri di differenza tra noi, non c'era modo di riuscire a baciarlo senza la sua collaborazione. Quindi puntai al suo petto, con l'intenzione di gustare quella pelle calda, liscia. «Rose!» esclamò lui, indietreggiando. «Che stai facendo?» «Tu cosa credi?» Mi mossi verso di lui, avvertendo il bisogno di toccarlo e baciarlo e fare molte altre cose. «Sei ubriaca?» mi chiese, allungando una mano per ammonirmi con un gesto. «Spero di no.» Cercai di scansarlo, poi feci una pausa, incerta per un momento. «Pensavo che lo volessi anche tu... non mi trovi carina?» Da quando ci eravamo conosciuti, da quando quell'attrazione aveva cominciato a svilupparsi, non mi aveva mai detto che ero carina. L'aveva lasciato intendere, ma non era la stessa cosa. E malgrado le conferme che gli altri ragazzi mi davano sul fatto che io fossi l'incarnazione della sensualità, avevo bisogno di sentirmelo dire dall'unico ragazzo che desideravo davvero. «Rose, non so cosa stia succedendo, ma devi tornare in camera tua.» Quando mi avvicinai, allungò le mani e mi afferrò i polsi. A quel contatto, una scarica elettrica ci attraversò tutti e due, e lo vidi dimenticare qualunque preoccupazione. Qualcosa si impossessò anche di lui, qualcosa che d'improvviso gli fece desiderare me tanto quanto io desideravo lui. Lasciandomi andare i polsi, risalì le mie braccia con le mani, scivolando con lentezza sulla pelle. Tenendomi sotto il suo sguardo scuro, affamato mi tirò a sé, premendomi contro il suo corpo. Una mano mi strinse la nuca. Infilò le dita fra i capelli, avvicinando il mio viso al suo. Le sue labbra sfiorarono appena la mia bocca. Deglutii, e gli chiesi di nuovo: «Mi trovi carina?» Mi guardò con assoluta gravità, come faceva sempre. «Trovo che tu sia molto bella.» «Molto bella?» «Sei così bella che a volte mi sento male.» Le sue labbra arrivarono alle mie, prima delicate, poi con più forza e fame. Il suo bacio mi consumò. Le mani sulle mie braccia scivolarono in basso, sui fianchi, giù fino all'orlo del vestito. Raccolse il tessuto tra le mani e iniziò a farlo scorrere su, lungo le gambe. Al suo tocco, ai suoi baci e al modo in cui ardevano contro la mia bocca, mi sciolsi. Le mani scivolarono sempre più su, finché non ebbero sollevato il vestito sopra la testa e lo ebbero lanciato sul pavimento. «Te... te ne sei sbarazzato in fretta» gli feci notare tra i sospiri. «Pensavo che ti piacesse.» «Mi piace» disse. Il suo respiro era pesante quanto il mio. «Lo amo.» E poi mi trascinò sul letto.

Non ero mai stata completamente nuda con un ragazzo. Mi spaventava a morte, eppure mi eccitava allo stesso tempo. Distesi sopra le coperte, stavamo avvinghiati l'uno all'altra e continuavamo a baciarci, e baciarci e baciarci e baciarci. Le sue mani e le sue labbra presero possesso del mio corpo, e ogni tocco era come fuoco sulla mia pelle. Dopo averlo desiderato così a lungo, stentavo a credere a quello che stava succedendo. E malgrado l'intesa fisica fosse grandiosa, mi piaceva anche solo stargli così vicina. Mi piaceva il modo in cui mi guardava, come se fossi la creatura più sexy, più stupenda del mondo. Mi piaceva il modo in cui pronunciava il mio nome in russo, mormorandolo come una preghiera: Roza, Roza... E da qualche parte, in mezzo a tutto questo, c'era la stessa voce pressante che mi aveva guidato fino in camera sua, una voce che non somigliava per nulla alla mia ma che ero incapace di ignorare. Resta con lui. Resta con lui. Non pensare ad altro che a lui. Continua a toccarlo. Dimentica il resto. Io la ascoltavo, anche se non avevo alcun bisogno di essere convinta. L'ardore nei suoi occhi mi diceva che Dimitri voleva molto di più rispetto al punto in cui eravamo, ma fece le cose con calma, forse perché si rendeva conto che ero nervosa. I pantaloni del pigiama rimasero al loro posto. A un certo punto cambiai posizione e mi misi sopra di lui, i miei capelli gli ricadevano addosso. Gli feci voltare appena il capo, e riuscii a scorgere la sua nuca. Feci correre le dita sopra i sei minuscoli marchi che vi erano tatuati. «Hai davvero ucciso sei Strigoi?» Lui annuì. «Wow.» Portò il mio collo alla sua bocca e mi baciò. I suoi denti sfiorarono la mia pelle, diversi da quelli di un vampiro ma altrettanto eccitanti. «Non preoccuparti. Tu ne avrai molti più di me, un giorno.» «Ti senti in colpa?» «Uhm?» «Per averli uccisi. Nel furgoncino hai detto che era la cosa giusta da fare, ma comunque ti turba. È per questo che vai in chiesa, non è vero? Ti ci vedo spesso, ma non partecipi mai davvero alla funzione.» Sorrise, sorpreso e divertito che avessi indovinato un altro dei suoi segreti. «Come fai a sapere queste cose? Non è che mi senta colpevole... solo triste, a volte. Un tempo erano esseri umani o dhampir o Moroi. È un peccato, ecco tutto ma, come ho già detto, è qualcosa che devo fare. Qualcosa che noi tutti dobbiamo fare. A volte mi turba, e la cappella è un buon posto per riflettere su questo genere di cose. Là trovo pace, qualche volta, non spesso. Trovo più pace con te.» Mi fece rotolare via da lui e si rimise sopra di me. I baci ricominciarono, ma questa volta più intensi. Più insistenti. Oddio, pensai. Alla fine sto per farlo. Eccoci. Ci siamo. Lui dovette accorgersi della determinazione nel mio sguardo. Sorridendo mi fece scivolare le dita sulla nuca e slacciò la collana di Victor. La poggiò sul comodino. Non appena la catenella si staccò dalle sue dita, ebbi la sensazione di aver ricevuto una schiaffo in pieno viso. Strabuzzai gli occhi per la sorpresa. Dimitri doveva sentirsi allo stesso modo. «Cos'è successo?» chiese. «Io... io non lo so.» Mi sentivo come se stessi cercando di svegliarmi, come se avessi dormito per due giorni. Sentivo il bisogno di ricordare qualcosa. Lissa. Qualcosa che aveva a che fare con Lissa. In testa avevo una sensazione bizzarra. Non di dolore o di vertigini, ma... la voce, realizzai. La

voce che mi aveva spinto verso Dimitri era scomparsa. Non significava che non lo volessi più, perché, ehi, vederlo con quei pantaloni del pigiama, con i capelli castani che gli incorniciavano viso, era piuttosto piacevole. Ma quella influenza estranea che mi aveva spinta verso di lui non c'era più. Bizzarro. Dimitri si rabbuiò, non era più su di giri. Dopo qualche attimo di riflessione, allungò una mano e afferrò la collana. Nell'istante in cui le sue dita la toccarono, vidi il desiderio tornare a sopraffarlo. Fece scivolare la mano libera sulla mia anca, e d'improvviso, quella voglia bruciante si ripresentò con violenza dentro di me. Mentre la mia pelle tornava a intorpidirsi e a farsi di nuovo bollente, il mio stomaco veniva preso dalla nausea. Il respiro mi si fece pesante. Le sue labbra si avvicinarono di nuovo alle mie. Una parte nascosta di me lottò per farsi strada. «Lissa» sussurrai, strizzando gli occhi fino a chiuderli. «Dovevo dirti qualcosa a proposito di Lissa. Ma non riesco... a ricordare... mi sento così strana...» «Lo so.» Ancora sopra di me, poggiò la guancia alla mia fronte. «C'è qualcosa... qualcosa qui...» Volse il viso altrove, e io riaprii gli occhi. «Questa collana. È quella che ti ha dato il principe Victor?» Annuii e vidi il lento lavorio della mente cercare di ridestarsi in fondo ai suoi occhi. Prendendo un profondo respiro, tolse la mano dal mio fianco e si allontanò. «Che stai facendo?» esclamai. «Torna qui...» Aveva l'aria di volerlo fare - disperatamente - e tuttavia scese dal letto. Lui e la collana si allontanarono da me. Era come se mi avesse strappato una parte di me, ma allo stesso tempo ebbi la sorprendente sensazione di risvegliarmi, come se potessi tornare a pensare chiaramente senza che fosse più il mio corpo a prendere le decisioni. Da parte sua, Dimitri aveva ancora uno sguardo di passione animale, e attraversare la stanza sembrò richiedergli davvero uno sforzo notevole. Raggiunse la finestra e la aprì con una mano sola. L'aria fredda invase la stanza e io mi strofinai le mani sulle braccia per riscaldarmi. «Cosa stai...» La risposta mi ferì, e saltai giù dal letto proprio mentre la collana volava fuori dalla finestra. «No. Hai idea di quanto...» La collana scomparve, e io smisi di sentirmi come se fossi sul punto di svegliarmi. Io ero sveglia. Dolorosamente, sorprendentemente sveglia. Presi coscienza dell'ambiente. La camera di Dimitri. Io nuda. Il letto disfatto. Ma era niente in confronto a ciò che mi assalì dopo. «Lissa!» dissi annaspando. Mi tornò in mente tutto, i ricordi e le emozioni. Anzi, le emozioni di Lissa che avevo tenuto lontane si riversarono dentro di me, con un'intensità sconcertante. Altro terrore. Un terrore profondo. Quei sentimenti volevano risucchiarmi dentro il suo corpo, ma io non potevo permetterlo. Non ancora. Lottai contro di lei, avvertendo il bisogno di rimanere lì. Con le parole che mi uscivano di getto, raccontai a Dimitri tutto quello che era successo. Si mise in azione prima ancora che avessi finito, buttandosi addosso i vestiti e dandomi davvero l'impressione di essere un ragazzaccio divino. Mentre mi ordinava di mettermi qualcosa addosso, mi lanciò una felpa con delle scritte in cirillico da infilare sopra il vestito striminzito. Fu difficile stargli dietro giù per le scale; questa volta non ci provò neppure, a rallentare per me. Quando arrivammo si levarono grida. Furono strillati ordini. C'erano la Kirova e altri insegnanti. Gran parte dei guardiani del campus. Pareva che tutti parlassero nello stesso istante. E nel frattempo io continuavo a percepire la paura di Lissa, la sentivo farsi sempre più lontana. Urlai loro di darsi una mossa e di fare qualcosa, ma nessuno a eccezione di Dimitri volle credere

alla storia del rapimento finché non trovarono Christian nella cappella e non si furono assicurati che Lissa non era nel campus. Christian si avvicinò barcollando, sorretto da due guardiani. La dottoressa Olendzki fece la sua comparsa poco dopo, lo visitò e ripulì il sangue che aveva dietro alla testa. Finalmente, pensai, qualcosa sarebbe successo. «Quanti Strigoi c'erano?» mi chiese uno dei guardiani. «Come diavolo hanno fatto a entrare?» mugugnò un altro. Lo fissai interdetta. «Cos...? Non erano Strigoi.» Altri sguardi corsero a me. «Chi altri avrebbe potuto prenderla?» chiese la signora Kirova con freddezza. «Devi aver visto male attraverso la tua... visione.» «No. Sono sicura. Si trattava... erano... guardiani.» «Ha ragione» biascicò Christian, ancora tra le mani della dottoressa. Sussultò mentre lei gli medicava la nuca. «Guardiani.» «È impossibile» disse qualcuno. «Non erano guardiani della scuola.» Mi strofinai la fronte, lottando con tutte le mie forze per non abbandonare la conversazione e tornare da Lissa. La mia irritazione saliva. «Volete darvi una mossa? Si sta allontanando ancora!» «Stai dicendo che un gruppo di guardiani privati sarebbe stato assoldato per venire fino a qui e rapirla?» Il tono di voce della Kirova insinuava che stessi in qualche modo scherzando. «Sì» ribattei a denti stretti. «Loro...» Lentamente, con prudenza, rimossi le barriere mentali e mi ributtai nel corpo di Lissa. Ero seduta in una macchina, un'auto costosa con finestrini oscurati che schermavano gran parte della luce. A bordo poteva anche essere "notte", ma per il resto del mondo era pieno giorno. Uno dei guardiani della cappella era alla guida; un altro sedeva accanto a lui, qualcuno che conoscevo. Spiridon. Sul sedile posteriore, Lissa sedeva con le mani legate, tra due altri guardiani... «Lavorano per Victor Dashkov» dissi con l'affanno, tornando a focalizzarmi sulla Kirova e sugli altri. «Sono i suoi guardiani.» «Il principe Victor Dashkov?» chiese uno dei guardiani sbuffando. Come se potesse esserci un altro dannato Victor Dashkov. «Vi prego» gemetti, le mani premute contro la testa. «Fate qualcosa. Si stanno allontanando. Sono su...» Un'immagine brevissima, catturata guardando dal finestrino, scintillò nel mio campo visivo. «Sull'ottantatré. Diretti a sud.» «Già sulla ottantatré? Quanto tempo fa se ne sono andati? Perché non siete venuti prima?» I miei occhi si rivolsero pieni d'ansia a Dimitri. «Un incantesimo compulsivo» disse lui, piano. «Un incantesimo compulsivo applicato a una collana che il principe le ha dato. L'ha indotta ad attaccarmi.» «Nessuno sa servirsi di quel genere di compulsione» esclamò la Kirova. «Nessuno lo fa da secoli.» «Be', qualcuno lo fa. Quando alla fine sono riuscito a immobilizzarla e a prendere la collana, era passato molto tempo» proseguì Dimitri, con un'espressione controllata. Nessuno mise in dubbio il suo racconto.

Finalmente il gruppo entrò in azione. Nessuno voleva che andassi, ma Dimitri insistette quando si rese conto che avrei potuto guidarli da lei. Tre squadroni di guardiani partirono a bordo di un SUV di un nero sinistro. Io viaggiavo nel primo, seduta sul sedile del passeggero, con Dimitri alla guida. I minuti correvano. Le uniche occasioni in cui ci parlammo furono quando facevo rapporto. «Sono ancora sulla ottantatré... ma stanno per svoltare. Non vanno molto veloci. Non vogliono che la polizia li fermi.» Annuì, senza guardarmi. Lui invece andava a tutta velocità. Lanciandogli un'occhiata furtiva, ripercorsi gli eventi di quella notte. Nella mia mente rividi ogni cosa, come mi aveva guardato e baciato. Ma che cosa era stato? Un'illusione? Uno scherzo di pessimo gusto? Mentre andavamo alla macchina, mi aveva detto che dentro la collana c'era davvero un incantesimo compulsivo, un incantesimo di lussuria. Non avevo mai sentito parlare di una cosa simile, ma quando gli chiesi altri dettagli, si limitò a dirmi che si trattava di una magia che i conoscitori della terra praticavano un tempo, ma ora non più. «Stanno svoltando» dissi tutto a un tratto. «Non riesco a vedere il nome della strada, ma saprò riconoscerla quando ci arriveremo.» Dimitri mi fece segno di aver capito, e io sprofondai di nuovo nel sedile. Che cos'aveva significato? Aveva voluto dire qualcosa per lui? Per me aveva voluto dire molto. «Lì» dissi venti minuti più tardi, indicando la strada accidentata che l'auto di Victor aveva imboccato svoltando. Era di ghiaia, e il SUV ci dava un vantaggio sull'auto di lusso. Viaggiammo in silenzio, l'unico suono era il crocchiare della ghiaia sotto gli pneumatici. Fuori dai finestrini la polvere si sollevava turbinando al nostro passaggio. «Stanno svoltando ancora.» Si stavano allontanando sempre più dalle strade principali, e noi continuammo a seguirli, guidati dalle mie indicazioni. Finalmente, percepii che l'auto di Victor si era fermata. «Sono fuori da un piccolo bungalow di legno» dissi. «La stanno portando...» «Perché lo state facendo? Che succede?» Lissa. Che si ritraeva impaurita. Le sue emozioni mi avevano trascinato dentro di lei. «Avanti, bambina» disse Victor avvicinandosi al bungalow, incerto sul suo bastone. Uno dei suoi guardiani teneva aperta la porta. Un altro spinse avanti Lissa e la fece sedere su una sedia vicino a un tavolino, all'interno. Faceva freddo, soprattutto con addosso quel vestito rosa. Victor le sedeva di fronte. Quando lei accennò ad alzarsi, un guardiano le scoccò un'occhiata di avvertimento. «Non mi costringerai a farti male, vero?» «Cos'avete fatto a Christian?» disse con le lacrime agli occhi, ignorando la domanda. «È morto?» «Il ragazzo degli Ozera? Non era nelle mie intenzioni. Non ci aspettavamo di trovarlo lì. Avevamo sperato di trovarti da sola, in modo da convincere tutti che fossi scappata. Ci eravamo assicurati che circolassero già delle voci a proposito.» Ci? Ricordavo di come le voci fossero riprese quella settimana... a partire da Natalie. «E adesso?» Sospirò, allargando le mani in un gesto di impotenza. «Non so. Dubito che possano collegare l'accaduto a noi, anche se non crederanno che sei fuggita. Rose è l'inconveniente maggiore. Avevamo intenzione di... disfarci di lei, lasciando credere agli altri che anche lei fosse fuggita. Lo spettacolo che ha messo in scena al ballo ha reso la cosa impossibile, ma avevo un piano di riserva per assicurarmi che rimanesse occupata per un po'... probabilmente fino a domani. Dovremo occuparci di lei più tardi.»

Non aveva tenuto conto di Dimitri, che aveva scoperto l'incantesimo. Ci aveva immaginato troppo impegnati a spassarcela per tutta la nottata. «Perché?» chiese Lissa. «Perché stai facendo tutto questo?» Gli occhi verdi di Victor si spalancarono, ricordandole quelli di suo padre. Erano parenti alla lontana, ma quel verde giada era ricorrente nei Dragomir e nei Dashkov. «Mi sorprende che tu me lo chieda, cara. Ho bisogno che tu mi guarisca.»

«Guarirti?» Guarirlo? I miei pensieri facevano eco ai suoi. «Tu sei l'unico modo» disse lui, paziente, «l'unico modo per curare questa malattia. Ti ho osservato per anni, in attesa di esserne certo.» Lissa scosse la testa. «Non posso... no. Non sono in grado di fare una cosa del genere.» «I tuoi poteri di guarigione sono incredibili. Nessuno ha idea di quanto siano forti.» «Non so di cosa tu stia parlando.» «Avanti, Vasilisa. So del corvo... Natalie ti ha visto. Ti stava seguendo. E so di come hai guarito Rose.» Lissa si rese conto di quanto fosse inutile continuare a negare. «Quello... era una cosa diversa. Rose non era così malridotta. Tu... non posso fare nulla per la sindrome di Sandovsky.» «Non era così malridotta?» rise lui. «Non parlo della caviglia, che tuttavia è stato qualcosa di sbalorditivo. Sto parlando dell'incidente d'auto. Ma hai ragione, lo sai: Rose non era "così malridotta". Era morta.» Lasciò che le parole facessero il loro effetto. «È... no. Era viva» riuscì finalmente a dire Lissa. «No. Be', sì, è sopravvissuta. Ma ho letto i rapporti. Non ce l'avrebbe fatta, specialmente con così tante ferite. Tu l'hai guarita. L'hai riportata indietro.» Sospirò, per metà pensieroso, per metà affaticato. «A lungo ho sospettato che ne fossi capace, e ho cercato più volte di fare in modo che capitasse... per rendermi conto di quanto controllo avevi...» Lissa capì e rimase senza fiato. «Gli animali. Sei stato tu.» «Con l'aiuto di Natalie.» «Che motivo avevi per farlo? Come hai potuto?» «Perché dovevo sapere. Mi rimangono solo poche settimane, Vasilisa. Se davvero sei in grado di riportare indietro i morti, allora puoi curare di sicuro la Sandovsky. Dovevo sapere che potevi guarire a comando, e non solo se presa dal panico.» «Perché portarmi via?» Un barlume di rabbia avvampò dentro di lei. «Sei quasi mio zio. Se volevi che facessi una cosa simile... se pensi davvero che io sia in grado...» La sua voce e le sue sensazioni mi lasciavano capire che non era del tutto convinta di poterlo guarire. «Allora perché rapirmi? Perché non chiedermelo e basta?» «Perché non si tratta di una faccenda di una volta soltanto. Ci è voluto molto per capire cosa fossi, ma sono riuscito ad acquisire alcune vecchie cronache... pergamene conservate lontano dai musei dei Moroi. Quando ho letto di come si manifestava la capacità di padroneggiare lo spirito...» «Padroneggiare cosa?» «Lo spirito. Ciò in cui sei specializzata.»

«Io non mi sono ancora specializzata! Tu sei pazzo.» «Da dove credi vengano questi tuoi poteri? Lo spirito è un altro degli elementi, uno che oggi in pochi posseggono.» La mente di Lissa vacillava ancora al pensiero del rapimento e della possibilità che davvero mi avesse riportato indietro dalla morte. «Non ha senso. Anche se fosse qualcosa di non comune, avrei comunque sentito parlare di un altro elemento! O di qualcuno che lo possedeva.» «Nessuno sa più nulla dello spirito. È stato dimenticato. Quando le persone si specializzano in quello, nessuno se ne rende conto. Si pensa solo che quella persona non si sia specializzata affatto.» «Ascolta, se stai cercando di farmi sentire...» Si bloccò di colpo. Era spaventata e impaurita, ma al di là di queste emozioni, le sue capacità razionali stavano elaborando ciò che lui le aveva detto circa i conoscitori dello spirito e sulla specializzazione. Ci arrivò anche lei. «Oh mio Dio. Vladimir e la signora Karp.» Lui le lanciò un'occhiata d'intesa. «L'hai sempre saputo.» «No! Lo giuro. È solo una cosa che Rose stava approfondendo... Ha detto che erano come me...» Lissa cominciava a passare dall'essere un po' spaventata, all'esserlo completamente. La novità era troppo scioccante. «Loro sono come te. I libri dicono persino che Vladimir fosse "pieno di spirito". » Victor sembrava trovarlo divertente. La vista del suo sorriso mi fece venire voglia di prenderlo a ceffoni. «Pensavo...» Lissa voleva ancora che si sbagliasse. L'idea della non-specializzazione era più innocua di qualunque altro bizzarro elemento. «Pensavo che si riferisse allo Spirito Santo.» «È quello che credono tutti, ma non è così. Si tratta di un elemento presente in ciascuno di noi. Un elemento dominante che può garantire un controllo indiretto sugli altri.» A quanto pareva, con la mia teoria a proposito della specializzazione di Lissa in tutti gli elementi, non ero andata troppo lontana dalla verità. Lissa dovette sforzarsi per incassare la notizia e mantenere il proprio autocontrollo. «Questo non risponde alla mia domanda. Non importa se io possiedo questo spirito o che altro. Non c'era bisogno che tu mi rapissi.» «Lo spirito, come hai potuto constatare, può guarire traumi fisici; sfortunatamente, è efficace solo su lesioni critiche. Faccende da una volta soltanto. La caviglia di Rose. Le ferite dell'incidente. Per qualcosa di cronico - una malattia genetica come la Sandovsky, giusto per fare un esempio - sono richiesti interventi costanti. Altrimenti continuerebbe a ripresentarsi; questo è ciò che mi accadrebbe. Ho bisogno di te, Vasilisa., Ho bisogno che mi aiuti a combattere questa malattia e a tenerla lontano. Affinché io possa vivere.» «Questo ancora non spiega perché mi hai portato via» obiettò. «Se me lo avessi chiesto, ti avrei aiutato.» «Non ti avrebbero mai permesso di farlo. La scuola. Il consiglio. Una volta superato lo shock di trovarsi di fronte a una conoscitrice dello spirito, si sarebbero appellati all'etica. Dopotutto, chi decide a chi spetta essere guarito? Avrebbero detto che non era giusto. Che era come giocare a fare Dio. O forse si sarebbero preoccupati del prezzo che tu avresti dovuto pagare.» Lei trasalì, sapendo esattamente a quale prezzo si riferisse. Davanti alla sua espressione, Victor annuì. «Già. Non ti mentirò. Sarà dura. Ti consumerà, dal punto di vista mentale e fisico. Ma devo farlo. Mi dispiace. Per i tuoi servigi ti assicuro che ti verranno garantiti donatori e molte altre comodità.» Lei si alzò con un balzo dalla sedia. Ben si fece subito avanti e la ricacciò contro lo schienale. «E poi cosa? Mi terrai qui come una prigioniera? La tua infermiera privata?»

Fece ancora una volta quel fastidioso gesto aprendo le mani. «Mi dispiace. Non ho altra scelta.» Una rabbia incandescente spazzò via la paura dentro Lissa. Parlò a voce bassa. «Già. Tu non hai scelta, perché è di me che stiamo parlando.» «Per te è meglio così. Sai come sono finiti gli altri. Di come Vladimir abbia trascorso gli ultimi giorni completamente pazzo, furioso. Di come Sonya Karp sia stata portata via. Il trauma che hai vissuto dopo l'incidente non dipende solo dalla perdita della tua famiglia. È causato dall'uso dello spirito. L'incidente ha risvegliato in te lo spirito; la tua paura alla vista di Rose morta l'ha fatto esplodere, permettendoti di guarirla. Ha forgiato il vostro legame. E una volta venuto allo scoperto, non può essere ricacciato indietro. È un elemento assai potente, ma anche pericoloso. Chi si serve della terra trae il suo potere dalla terra, chi si serve dell'aria dall'aria. Ma lo spirito? Da dove pensi che provenga?» Lei rimase a fissarlo. «Proviene da te, dalla tua essenza. Per guarire un altro, devi dare parte di te. Più lo fai, più ti distruggi. Devi essertene già accorta. Ho visto come certe cose di turbano, quanto sei fragile.» «Io non sono fragile» sbottò Lissa. «E non finirò per impazzire. Smetterò di servirmi dello spirito prima che le cose peggiorino.» Lui sorrise. «Smettere di servirtene? Sarebbe come smettere di respirare. Lo spirito agisce per conto suo... Sentirai sempre l'impulso di aiutare e di guarire. Fa parte di te. Hai saputo resistere agli animali, ma non ci hai pensato due volte quando si è trattato di Rose. Non sai neppure fare a meno della compulsione, in cui lo spirito ti rende particolarmente efficace. E sarà sempre così. Non puoi sfuggire allo spirito. È meglio rimanere qui, in isolamento, lontana da altre fonti di stress. Altrimenti all'Accademia diventeresti sempre più instabile; o ti metterebbero sotto sedativi, che ti farebbero sentire meglio ma che ottunderebbero il tuo potere.» Una profonda e composta sicurezza di sé trovò posto in lei, qualcosa di molto diverso rispetto a ciò che avevo notato negli ultimi anni. «Ti voglio bene, zio Victor, ma sono io quella che dovrà affrontare questa situazione e decidere cosa fare. Non tu. Mi stai obbligando ad abbandonare la mia vita per la tua. Non è giusto.» «È questione di quale vita valga di più. Anch'io ti voglio bene. Molto bene. Ma i Moroi si avviano alla rovina. Mentre lasciamo che gli Strigoi ci depredino, le nostre fila si assottigliano. Una volta ci davamo da fare per stanarli. Adesso Tatiana e gli altri leader si nascondono. Tengono te e i tuoi simili isolati. Un tempo saresti stata addestrata per combattere al fianco dei guardiani! Ti avrebbero insegnato come usare la magia e le armi. Ora non più. Aspettiamo. Siamo prede!» Mentre volgeva lo sguardo altrove, sia Lissa che io potemmo accorgerci di quanto si stesse lasciando prendere dal proprio fervore. «Se fossi diventato re, avrei cambiato le cose. Avrei scatenato una rivoluzione che non avrebbe avuto eguali agli occhi di Moroi e Strigoi. Avrei dovuto essere io l'erede di Tatiana. Era sul punto di nominarmi quando hanno scoperto la malattia, e non volle più farlo. Se potessi curarmi... se potessi curarmi, allora riavrei il posto che mi spetta...» Le sue parole scatenarono qualcosa in Lissa, un'inattesa riflessione sulla condizione dei Moroi. Non le era mai capitato di meditare su ciò di cui Victor le aveva parlato, su quanto sarebbe potuto essere diverso se i Moroi e i loro guardiani avessero combattuto fianco a fianco per liberare il mondo dagli Strigoi e dalla loro malvagità. Questo le ricordò Christian e ciò che lui le aveva detto a proposito dell'usare la magia come un'arma. Tuttavia, benché apprezzasse le convinzioni di Victor, nessuna di noi due credeva che ciò che lui le stava chiedendo valesse un prezzo così alto. «Mi dispiace» sussurrò. «Mi dispiace per te. Ma ti prego, non costringermi a farlo.» «Devo.» Lei lo guardò diritto negli occhi. «Non lo farò.» Lui inclinò il capo, e qualcuno uscì da un angolo. Un altro Moroi. Nessuno che conoscessi. Girò

attorno a Lissa, le slegò le mani. «Questo è Kenneth.» Victor allungò le mani verso le sue. «Ti prego, Vasilisa. Prendi le mie mani. Infondi in me la tua magia, come hai fatto con Rose.» Lei scrollò il capo. «No.» Quando parlò di nuovo, la voce di Victor era meno cordiale. «Ti prego. In un modo o nell'altro, mi guarirai. Vorrei che fosse alle tue condizioni, e non alle nostre.» Lei scrollò ancora il capo. Lui fece un lieve cenno in direzione di Kenneth. E fu allora che cominciò il dolore. Lissa urlò. Io urlai. Nel SUV, per la sorpresa Dimitri diede uno strattone al volante, facendoci sterzare. Mi lanciò uno sguardo allarmato e iniziò a rallentare. «No, no! Vai avanti!» Mi premetti i palmi sulle tempie. «Dobbiamo raggiungerli!» Da dietro il mio sedile, Alberta allungò una mano e me la poggiò sulla spalla. «Rose, che succede?» Sbattei le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. «La stanno torturando... con l'aria. Questo tizio... Kenneth... sta facendo pressione su di lei... dentro la sua testa. La pressione è pazzesca. È come se il mio... il suo... cranio fosse sul punto di esplodere.» Scoppiai in singhiozzi. Dimitri mi guardò con la coda dell'occhio e schiacciò il pedale ancora più a fondo. Kenneth non si limitò alla forza fisica che poteva ricavare dall'aria. La utilizzò anche per influire sulla respirazione. A volte la soffocava, altre volte la lasciava ad annaspare dopo averle tolto ossigeno. Se avessi dovuto subire tutto questo in prima persona - e in seconda era già abbastanza terribile - ero sicura che avrei fatto tutto ciò che mi chiedevano. E alla fine, lei lo fece. Dolorante e con la vista annebbiata, Lissa afferrò le mani di Victor. Non ero mai stata nella sua mente mentre si serviva della magia e non sapevo che cosa aspettarmi. In principio, non avvertii nulla. Solo la concentrazione. Poi... fu come... non so nemmeno come descriverlo. Colori e luce e musica e vita e gioia e amore... così tante cose magnifiche, tutte le cose magnifiche che rendevano il mondo un posto degno di essere vissuto. Lissa richiamò a sé ciascuna di quelle cose, tante quante poté, e le trasmise a Victor. La magia fluì attraverso di noi, brillante e dolce. Era viva. Era la sua vita. E tanto più appariva meravigliosa, quanto più Lissa si indeboliva. E mentre questi elementi, uniti dal misterioso elemento spirituale, fluivano dentro Victor, lui rinvigoriva. Il cambiamento fu stupefacente. La sua pelle divenne più liscia, non più rugosa e butterata. I radi capelli grigi ricrebbero, tornando scuri e lucidi come un tempo. Gli occhi verdi, ancora color giada, tornarono a scintillare, vigili e allerta. Era tornato il Victor che Lissa ricordava dalla sua infanzia. Stremata, perse i sensi. Nel SUV, cercai di raccontare ciò che stava succedendo. L'espressione di Dimitri si fece sempre più cupa; proruppe in una sequela di imprecazioni in russo di cui non mi aveva ancora insegnato il significato. Quando arrivammo a mezzo chilometro dal bungalow, Alberta fece una telefonata con il cellulare, e il nostro convoglio si fermò. Tutti i guardiani, più di una dozzina, scesero e si radunarono per decidere una strategia. Qualcuno andò in avanscoperta e tornò riferendo il numero di persone all'interno e all'esterno del bungalow. Quando il gruppo fu pronto a sparpagliarsi, feci per

scendere dall'auto. Dimitri mi fermò. «No, Roza. Tu rimani qui.» «Non ci penso neanche. Devo venire ad aiutarla.» Mi prese il mento tra le mani, tenendo gli occhi fissi su di me. «Tu l'hai già aiutata. Il tuo lavoro è finito. Sei stata brava. Ma questo non è un posto per te. Lei e io abbiamo bisogno che tu rimanga al sicuro.» Soltanto la consapevolezza che mettermi a discutere avrebbe ritardato i soccorsi mi fece tacere. Ingoiando le proteste, annuii. Lui annuì di rimando e si unì agli altri. Si allontanarono nella foresta, mimetizzandosi fra gli alberi. Sospirando, reclinai il sedile del passeggero e mi stesi. Ero stanchissima. Nonostante il sole che faceva capolino dal parabrezza, per me era notte. Ero rimasta sveglia quasi tutta la notte, e in quel lasso di tempo erano successe un mucchio di cose. Tra l'adrenalina legata al compito che stavo svolgendo e il condividere il dolore di Lissa, avrei potuto perdere i sensi, proprio come lei. Solo che lei era sveglia, adesso. Piano piano, le sue sensazioni presero ancora una volta il sopravvento sulle mie. Era distesa su un divano all'interno del bungalow. Uno degli scagnozzi di Victor doveva averla portata lì quando era svenuta. Victor in persona - vivo e vegeto adesso, grazie a quello che le aveva fatto - era in cucina con gli altri; parlavano a bassa voce dei loro piani. Uno solo era vicino a Lissa, e la teneva d'occhio. Metterlo fuori gioco sarebbe stato facile, quando Dimitri e la Squadra di ragazzacci avrebbe fatto irruzione. Lissa studiò il guardiano solitario e poi diede un'occhiata a una finestra vicina al divano. Ancora stordita a causa della guarigione, si sforzò di mettersi a sedere. Il guardiano si voltò, scrutandola con diffidenza. Lei lo guardò negli occhi e sorrise. «Starai zitto, qualunque cosa io faccia» gli disse. «Non chiamerai aiuto né dirai a nessuno che sono scappata. Okay?» La compulsione prese il sopravvento su di lui. Annuì. Avvicinandosi alla finestra, Lissa fece scattare il fermo e la sollevò. Mentre lo faceva, una moltitudine di ragionamenti si rincorsero nella sua mente. Era debole. Non sapeva quanto distante fosse l'Accademia, quanto distante lei fosse da ogni cosa, in realtà. Non aveva idea di quanto lontano sarebbe potuta scappare, prima che qualcuno se ne accorgesse. Ma sapeva che forse non avrebbe avuto un'altra possibilità di fuga. Non aveva intenzione di passare il resto della sua vita in quel bungalow nella foresta. In qualunque altra occasione, avrei accolto con felicità la sua audacia, ma non quella volta. Non quando tutti quei guardiani stavano per salvarla. Non doveva muoversi. Sfortunatamente, non poteva sentire il mio consiglio. Scavalcò la finestra, e mi lasciai andare a un'imprecazione. «Cosa? Che hai visto?» chiese una voce alle mie spalle. Tirai su il sedile, picchiando la testa contro il tettuccio. Guardandomi indietro, scorsi Christian; faceva capolino dal vano di carico oltre l'ultima fila di sedili. «Che ci fai qui?» chiesi. «Tu che dici? Sono un clandestino.» «Ma non avevi una commozione cerebrale o qualcosa del genere?» Scrollò le spalle come se non gliene importasse. Che grande coppia, lui e Lissa. Non si facevano nessuno scrupolo a imbarcarsi in imprese folli mentre erano seriamente feriti. Tuttavia, se la Kirova

mi avesse costretto a rimanere a casa, adesso sarei stata anch'io accanto a lui, là dietro. «Che succede?» chiese. «Hai visto qualcosa di nuovo?» Glielo raccontai in fretta. Mentre parlavo scesi dall'auto. Lui mi seguì. «Non sa che i nostri stanno andando a recuperarla. Andrò a prenderla prima che si uccida di stanchezza con le sue stesse mani.» «Che mi dici dei guardiani? Quelli della scuola, voglio dire. Andrai a riferirgli che se n'è andata?» Scrollai il capo. «Probabilmente stanno già facendo irruzione nel bungalow. Andrò a cercarla.» Era da qualche parte sulla destra, a lato del bungalow. Avrei potuto andare in quella direzione, ma non sarei stata in grado di essere più precisa finché non mi fossi trovata nelle vicinanze di Lissa. Comunque, non aveva importanza. Dovevo trovarla. Alla vista dell'espressione di Christian, non riuscii a trattenermi dal rivolgergli un sorriso ironico. «E sì, lo so. Tu vieni con me.»

Non era mai stato così difficile restare fuori dalla mente di Lissa, ma non avevamo mai vissuto insieme qualcosa del genere. Mentre mi precipitavo nella foresta, l'intensità dei suoi pensieri e delle sue emozioni continuarono ad attirarmi dentro di lei. Correndo tra gli alberi e i cespugli, Christian e io ci allontanammo sempre più dal bungalow. Ragazzi, come avrei voluto che Lissa fosse rimasta là dentro. Ma ormai ce l'eravamo lasciata alle spalle, e mentre correvo raccolsi i frutti di tutta l'ostinazione di Dimitri riguardo a giri di campo e resistenza. Lissa non si muoveva molto veloce, e sentivo la distanza tra noi accorciarsi, facendomi un'idea più precisa della sua posizione. Nello stesso tempo, Christian non riusciva a tenere il mio passo. Iniziai a rallentare, ma presto mi resi conto dell'insensatezza della cosa. E se ne rese conto anche lui. «Vai» mi disse con il fiato corto, facendomi un cenno. Quando arrivai abbastanza vicino da credere che potesse sentirmi, la chiamai nella speranza di farla voltare. In tutta risposta ricevetti una serie di ululati, un sommesso abbaiare canino. Psico-segugi. Ma certo. Victor aveva detto di essere andato a caccia con loro; sapeva controllare quelle bestie. All'improvviso mi resi conto del perché nessuno a scuola ricordasse di aver spedito a Chicago psico-segugi sulle nostre tracce. Non l'aveva ordinato l'Accademia; era stato Victor. Un minuto più tardi raggiunsi la radura dove Lissa stava acquattata dietro a un albero. Dall'aspetto e dalle sensazioni che arrivavano attraverso il legame, avrebbe già dovuto perdere i sensi da un po'. Soltanto gli ultimi brandelli di forza di volontà la reggevano ancora in piedi. Pallida e con gli occhi sbarrati, fissava con orrore gli psico-segugi che l'avevano messa alle strette. Rendendomi conto solo in quel momento della luce del sole, mi venne in mente che lei e Christian avevano un altro ostacolo con cui vedersela, là fuori. «Ehi» gridai in direzione dei segugi, cercando di attirarli verso di me. Victor doveva averli mandati per intrappolare Lissa, ma io speravo che avrebbero comunque percepito e risposto a un'altra minaccia, soprattutto a un dhampir. Non piacevamo agli psico-segugi, proprio come non piacevamo agli altri animali. Come previsto, si volsero verso di me snudando le zanne e con la bava alla bocca. Somigliavano a lupi, ma con la pelliccia marrone e occhi che brillavano di un fuoco arancione. Con ogni probabilità Victor aveva ordinato loro di non farle del male, ma non avevano indicazioni simili riguardo a me. Lupi. Come nel corso di scienze. Cos'aveva detto la signora Meissner? Gran parte delle dispute dipendeva dalla forza di volontà? Tenendo questo a mente, cercai di assumere un atteggiamento alfa, ma non pensavo che avrebbero abboccato. Erano tutti più grossi di me. Ah, già: erano anche di più. No, non avevano nulla di cui avere paura. Provando a far finta che si trattasse solo di una zuffa con Dimitri, raccolsi da terra un ramo che aveva lo stesso peso e lo stesso ingombro di una mazza da baseball. L'avevo appena impugnato quando due segugi mi si avventarono contro. Gli artigli e le zanne mi ferirono, ma io mi mossi con abilità sorprendente mentre cercavo di ricordare quello che avevo imparato negli ultimi due mesi a proposito di combattimenti con avversari più grossi e più forti.

Non mi piaceva l'idea di far loro del male. Mi ricordavano troppo i cani. Ma dovevo scegliere tra me e loro, e il mio istinto di sopravvivenza ebbe la meglio. Riuscii a mandare al tappeto uno dei due, morto o incosciente non saprei. L'altro mi stava ancora addosso, si faceva sotto rapido e feroce. I suoi compari sembravano pronti a unirsi a lui, ma poi un nuovo concorrente irruppe sulla scena. Più o meno. Christian. «Vattene» gli gridai, scrollandomi di dosso il segugio mentre affondava gli artigli nella pelle nuda della mia gamba, facendomi quasi cadere. Avevo addosso ancora il vestito, ma mi ero liberata delle scarpe con il tacco da un po'. Christian però, come ogni malato d'amore, non mi diede ascolto. Raccolse anche lui un ramo e lo agitò contro uno dei segugi. Fiamme si levarono dal legno. Il segugio indietreggiò, ancora spinto a seguire gli ordini di Victor, ma anche visibilmente spaventato dal fuoco. Il suo compagno, il quarto segugio, ci girò attorno mantenendosi a distanza dal fuoco e sbucando alle spalle di Christian. Piccolo, scaltro bastardo. Balzò addosso a Christian colpendolo prima alla schiena. Il ramo gli volò di mano, il fuoco si spense subito. A quel punto tutti e due i segugi si avventarono sulla sagoma a terra. Io feci fuori il mio - sentendomi male per il modo in cui lo avevo domato - e mi scagliai contro gli altri due, chiedendomi se avevo la forza necessaria per competere anche con loro. Ma non ci fu bisogno di farlo. I rinforzi apparvero sotto forma di Alberta, da dietro gli alberi. Con la pistola in mano, sparò ai due segugi senza esitazione. Dannatamente pesanti, e del tutto inutili contro gli Strigoi, ma contro le altre creature? Le pistole erano affidabili e precise. I segugi smisero di muoversi e si accasciarono accanto al corpo di Christian. E il corpo di Christian... Tutte e tre ci facemmo strada verso di lui, Lissa e io praticamente strisciando. Quando lo vidi dovetti distogliere lo sguardo. Il mio stomaco vacillò, e dovetti sforzarmi di non vomitare. Non era ancora morto, ma pensai che non ci sarebbe voluto molto. Lissa lo guardò a occhi sbarrati. Con riluttanza, allungò una mano e poi la lasciò ricadere. «Non posso» riuscì a dire con voce flebile. «Non mi è rimasta abbastanza forza.» Alberta, con un'espressione dura e allo stesso tempo compassionevole, la tirò con gentilezza per il braccio. «Avanti, principessa. Dobbiamo andarcene di qui. Manderemo aiuto.» Tornando a Christian, mi sforzai di guardarlo e mi concessi di sentire quanto Lissa tenesse a lui. «Liss» dissi con esitazione. Lei mi guardò, come se si fosse quasi dimenticata che ero lì. Senza parole, mi scostai i capelli dal collo e glielo porsi. Lei rimase a guardare per un momento, priva di espressione. Poi la consapevolezza scintillò nel suo sguardo. Quei canini in agguato dietro il suo grazioso sorriso penetrarono in me, e un piccolo gemito mi sfuggì dalle labbra. Non mi ero resa conto di quanto mi fosse mancato quel dolce, meraviglioso dolore che faceva seguito alla meraviglia. L'estasi calò su di me. Vertiginosa. Gioiosa. Come essere in un sogno. Non ricordo bene quanto a lungo Lissa bevve da me. Probabilmente non così a lungo. Non avrebbe mai nemmeno preso in considerazione di berne abbastanza da uccidere una persona e tramutarla in uno Strigoi. Quando ebbe finito, Alberta mi sorresse mentre iniziavo a barcollare. Ancora in preda alle vertigini, vidi Lissa chinarsi su Christian e posare le mani su di lui. In lontananza, sentii gli altri guardiani farsi strada nella foresta.

Nessun bagliore né fuochi d'artificio circondavano la guarigione. Tra Lissa e Christian tutto restò invisibile. Malgrado le endorfine rilasciate da Lissa avessero offuscato il mio legame con lei, ricordavo la guarigione di Victor e i magnifici colori e la musica a cui stava probabilmente dando vita. Un miracolo si compì davanti ai miei occhi, e Alberta rimase senza fiato. Le ferite di Christian si rimarginavano. Il sangue si asciugò. Il colorito, perlomeno quel poco che avevano i Moroi, tornò sulle sue guance. Le ciglia si mossero, e gli occhi ripresero vita. Mettendo a fuoco Lissa, Christian sorrise. Era come guardare un film della Disney. Dopodiché devo essere crollata, perché non ricordo altro. Alla fine mi svegliai nella clinica dell'Accademia, dove mi iniettarono fluidi e zuccheri per due giorni. Lissa rimase al mio fianco per quasi tutto il tempo, e, lentamente, i fatti relativi al rapimento furono chiariti. Dovemmo mettere al corrente la Kirova e pochi prescelti dei poteri di Lissa, di come aveva guarito Victor e Christian e, be', anche me. La novità era per loro scioccante, ma la direzione decise di comune accordo di tenerla segreta al resto della scuola. Nessuno accarezzò neppure l'ipotesi di allontanare Lissa come avevano fatto con la signora Karp. Larga parte degli studenti sapeva che a rapire Lissa Dragomir era stato Victor Dashkov. Alcuni dei suoi guardiani erano morti quando la banda di Dimitri li aveva attaccati: un vero peccato, considerato che il numero di guardiani era già esiguo. Victor adesso era sorvegliato ventiquattro ore su ventiquattro in Accademia, in attesa che un reggimento reale di guardiani venisse a prelevarlo. Quello dei Moroi era un governo più che altro simbolico all'interno di un altro governo statale più esteso, ma avevano un proprio sistema giuridico, e avevo sentito parlare delle prigioni dei Moroi. Un posto dove non avrei voluto trovarmi, per nessuna ragione. Riguardo a Natalie... la questione era un po' più complicata. Era ancora minorenne, ma aveva cospirato con il padre. Aveva piazzato gli animali morti e aveva sorvegliato il comportamento di Lissa, persino da prima che partissimo. Essendo una conoscitrice della terra come Victor, poi, era stata lei a far marcire la panchina che mi aveva rotto la caviglia. Dopo avermi visto tenere Lissa alla larga dalla tortora, lei e Victor si erano resi conto di dover fare del male a me per arrivare a lei: la loro unica speranza era costringerla a guarirmi di nuovo. Natalie aveva aspettato l'occasione giusta, tutto qui. Non era stata rinchiusa o niente del genere, e in attesa di una disposizione reale, l'Accademia non sapeva ancora che farsene. Non riuscivo a sentirmi dispiaciuta per lei. Era così goffa e timida. Chiunque avrebbe potuto manipolarla, figuriamoci il padre, che lei amava e a cui chiedeva disperatamente attenzione. Avrebbe fatto di tutto. Secondo certe voci era rimasta a gridare fuori dal centro detentivo, pregando che glielo lasciassero vedere. Le avevano negato il permesso e l'avevano allontanata. Nel frattempo, Lissa e io riallacciammo la nostra amicizia come se non fosse successo nulla. Nel resto del suo mondo, invece, molto era successo. Dopo tutta quell'eccitazione e quel dramma, infatti, sembrò acquisire nuova coscienza di ciò che le importava. Ruppe con Aaron. Sono certa che lo fece con molto garbo, ma per lui doveva essere stata dura lo stesso. Adesso lei lo aveva scaricato due volte. E il fatto che la sua vecchia fidanzata lo avesse tradito non aiutava certo la sua autostima. E senza altri indugi, Lissa iniziò a uscire con Christian, senza preoccuparsi di quali conseguenze potesse avere per la sua reputazione. A vederli insieme in pubblico, che si tenevano per mano, rimasi a bocca aperta. Christian in persona stentava a crederci. Gli altri nostri compagni di classe erano troppo sbalorditi per riuscire ancora a rendersene conto; a malapena riuscivano a registrare la sua esistenza, figurarsi accettare che stesse insieme a qualcuno come lei. La mia situazione amorosa era meno rosea della sua, se mai la si poteva chiamare situazione amorosa. Dimitri non mi aveva fatto visita durante il periodo in clinica, e i nostri allenamenti erano

stati sospesi a tempo indeterminato. Non fu prima del quarto giorno dopo il rapimento di Lissa che mi imbattei in lui in palestra. Eravamo soli. Ero dovuta tornare per recuperare la mia sacca e al vederlo mi immobilizzai, incapace di parlare. Lui fece per andare via, ma poi si fermò. «Rose...» cominciò dopo qualche attimo di imbarazzo. «Devi fare rapporto su ciò che è successo. Tra noi.» Avevo atteso a lungo il momento per parlargli, ma questa non era la conversazione che avevo immaginato. «Non posso farlo. Ti licenzierebbero. O peggio.» «Dovrebbero licenziarmi. Ciò che ho fatto è sbagliato.» «Non puoi farci niente. È stata colpa dell'incantesimo...» «Non importa. Era sbagliato. E stupido.» Sbagliato? Stupido? Mi morsi il labbro, e le lacrime minacciarono di riempirmi gli occhi. Cercai di ritrovare il mio sangue freddo il più in fretta possibile. «Ascolta, non è poi questa gran cosa.» «Invece è una gran cosa! Ho approfittato di te.» «No» dissi con tono pacato. «Non l'hai fatto.» Nella mia voce doveva aver trovato posto qualcosa di molto eloquente perché Dimitri mi guardò negli occhi con estrema intensità. «Rose, ho sette anni più di te. Tra dieci anni non significherà molto. Ma adesso è un'enormità. Io sono un adulto. Tu una bambina.» Ahi. Trasalii. Se mi avesse preso a pugni sarebbe stato più semplice. «Non sembrava che mi considerassi una bambina quando ti sei dato da fare con me.» Adesso fu lui a incassare il colpo. «Solo perché il tuo corpo... be', questo non ti rende un'adulta. Siamo in posizioni molto diverse. Io sono stato là fuori, nel mondo. Ho dovuto fare affidamento solo su me stesso. Ho ucciso, Rose, persone, non animali. E tu... sei appena all'inizio. La tua vita è fatta di compiti, lezioni, vestiti e balli.» «Credi che mi importi solo di questo?» «No, certo che no. Non solo. Ma fa tutto parte del tuo mondo. Stai ancora crescendo, stai cercando di capire chi sei e quali sono le cose importanti per te. Devi continuare a farlo. Hai bisogno di stare con ragazzi della tua età.» 10 non volevo ragazzi della mia età. Ma non glielo dissi. Non dissi niente. «Anche se sceglierai di non dirlo, devi capire che è stato un errore. E che non succederà mai più.» «Perché sei più vecchio di me? Perché non è una cosa responsabile?» 11 suo viso non tradiva alcuna emozione. «No. Perché non mi interessi in quel senso.» Rimasi a fissarlo. Il messaggio, il rifiuto, era arrivato forte e chiaro. Tutto di quella notte, tutto ciò che avevo creduto così meraviglioso e pieno di significato, si trasformava in cenere davanti ai miei occhi. «È capitato soltanto per colpa dell'incantesimo. Lo capisci?» Umiliata e infuriata, mi impedii di rendermi ridicola mettendomi a discutere o a implorarlo. Mi limitai ad alzare le spalle. «Sì. Capito.»

Passai il resto della giornata a tenere il broncio, ignorando sia Lissa, sia i tentativi di Mason di stanarmi dalla mia camera. Che volessi rimanere chiusa là dentro, era ironico. La Kirova era rimasta così impressionata dalla mia performance nel salvataggio da aver messo fine ai miei arresti domiciliari. Prima di scuola, il giorno dopo, raggiunsi il posto dove era detenuto Victor. L'Accademia aveva celle vere e proprie, con tanto di sbarre, e c'erano due guardiani a sorvegliare il corridoio. Dovetti darmi un po' da fare per riuscire a convincerli a lasciarmi entrare per parlare con lui. Persino Natalie non aveva il permesso. Ma uno dei due guardiani era con me a bordo del SUV e mi aveva visto subire la tortura di Lissa. Gli spiegai che avevo bisogno di fare a Victor delle domande a proposito di ciò che le aveva fatto. Era una bugia, ma i guardiani la bevvero e si sentirono dispiaciuti per me. Mi concessero cinque minuti per parlargli, mantenendosi a una discreta distanza in corridoio, da dove poterono tenermi d'occhio senza ascoltare. In piedi all'esterno della cella di Victor, non riuscivo a credere di aver provato rammarico per lui. La vista di quel corpo nuovo e vigoroso mi faceva infuriare. Sedeva a gambe incrociate su una brandina, a leggere. Quando sentì che mi avvicinavo, levò lo sguardo. «Rose, ma guarda un po', che sorpresa. La tua ingegnosità non smette mai di stupirmi. Non pensavo che mi concedessero visite.» Incrociai le braccia, cercando di assumere un'aria da fiera guardiana. «Voglio che spezzi l'incantesimo. Interrompilo.» «Che vuoi dire?» «L'incantesimo che hai fatto a me e Dimitri.» «L'incantesimo è svanito. Si è consumato.» Scrollai la testa. «No. Continuo a pensare a lui. Continuo a desiderare...» Sorrise con aria astuta quando non terminai la frase. «Mia cara, quella c'era già, molto prima che io la scatenassi.» «Non era così. Non così forte.» «Forse non a livello conscio. Ma il resto... l'attrazione, fisica e mentale, era già dentro di te. E in lui. Altrimenti non avrebbe funzionato. L'incantesimo non ha aggiunto nulla, ha soltanto rimosso le inibizioni e rafforzato i sentimenti che ognuno di voi provava per l'altro.» «Stai mentendo. Lui ha detto che non prova niente del genere nei miei confronti.» «È lui a mentire. Te l'ho detto, l'incantesimo altrimenti non avrebbe potuto funzionare, e a dirla tutta, lui avrebbe dovuto dare una prova migliore di sé. Non aveva diritto di lasciarsi andare a quelle emozioni. A te può essere perdonata come la cotta di ima studentessa. Ma lui? Lui avrebbe dovuto dimostrare più autocontrollo nel mascherare i suoi sentimenti. Natalie se n'è accorta e mi ha avvertito. Dopo qualche sopralluogo di persona, è stato evidente anche a me. Mi ha offerto l'opportunità di distrarre tutti e due. Ho modellato l'incantesimo su ciascuno di voi, ma voi due avete fatto il resto.» «Sei uno schifoso bastardo, ad aver fatto una cosa del genere a me e a lui. E a Lissa.» «Non ho rimorsi per ciò che le ho fatto» dichiarò, appoggiandosi al muro. «Se potessi, lo rifarei. Credimi, io amo il mio popolo. Ciò che volevo fare era per il bene della mia gente. E ora? È difficile da dire. Non hanno un leader, nessun leader vero. Non c'è qualcuno davvero all'altezza.» Piegò il capo verso di me, riflettendo. «A dire il vero, Vasilisa potrebbe anche esserlo, se mai trovasse in se stessa ciò che le serve per credere in qualcosa e sopraffare l'influsso dello spirito. È ironico, davvero. Lo spirito può forgiare un leader, ma può anche distruggere la sua capacità di rimanere tale. La paura, la depressione, l'insicurezza prendono il controllo, e lasciano la sua vera forza sepolta dentro di lui, nel profondo. Tuttavia, Lissa ha il sangue dei Dragomir, che non è poco.

E senza dubbio ha te, il suo guardiano baciato dalla tenebra. Chi può dirlo? Potrebbe ancora stupirci.» «Baciato dalla tenebra?» Eccolo di nuovo, lo stesso modo in cui mi aveva chiamato la signora Karp. «Tu sei stata baciata dalla tenebra. Hai oltrepassato la soglia della Morte, sei arrivata dall'altra parte, e sei tornata. Pensi che una cosa del genere non lasci un segno nell'anima? Hai una consapevolezza maggiore della vita e del mondo, molto maggiore rispetto a quella che ho io, anche se non te ne rendi conto. Avresti dovuto rimanere morta. Vasilisa ha spazzato via la Morte per riportarti indietro e legarti a sé per sempre. Sei stata nel suo abbraccio, e una parte di te lo ricorderà sempre, combatterà sempre per rimanere aggrappata alla vita e fare esperienza di ogni cosa. È per questo che sei così avventata in quello che fai. Non trattieni le emozioni, la passione, la paura. Ciò ti rende straordinaria. Ti rende pericolosa.» Non sapevo che cosa rispondere. Ero senza parole, e lui sembrava apprezzarlo. «È anche ciò che ha originato il vostro legame. Le sue emozioni premono per uscire da lei, e ricadere sugli altri. Gran parte delle persone non sa raccoglierle, a meno che lei, grazie alla compulsione, non proietti i propri pensieri su di loro. Tu, invece, hai una mente sensibile alle forze extrasensoriali, le sue in particolare.» Sospirò, quasi con contentezza, e mi ricordai di aver letto di Vladimir, che aveva salvato Anna dalla morte. Questo doveva avere dato origine anche al loro legame. «Già, questa ridicola Accademia non ha idea di quello che ha per le mani, con te e Lissa. Se non avessi avuto bisogno di ucciderti, ti avrei preso nella mia guardia reale quando fossi cresciuta un po'.» «Non avresti mai potuto avere una guardia reale. Non pensi che una guarigione improvvisa come la tua avrebbe destato perplessità? Anche se nessuno fosse venuto a sapere di Lissa, Tatiana non ti avrebbe mai proclamato re.» «Potresti avere ragione, ma non importa. Ci sono altri modi per arrivare al potere. A volte bisogna muoversi al di fuori dei canali istituzionali. Pensi che Kenneth fosse l'unico Moroi a seguirmi? Le rivoluzioni più grandi e potenti spesso hanno origine nel silenzio, nascoste nell'ombra.» Mi scoccò un'occhiata. «Ricordalo.» Strani rumori si levarono dall'ingresso del centro di detenzione, e io volsi lo sguardo nella direzione da cui ero arrivata. I guardiani che mi avevano lasciato entrare erano spariti. Da dietro l'angolo, sentii qualche grugnito e qualche tonfo. Aggrottai le sopracciglia e allungai il collo per avere una visuale migliore. Victor si alzò. «Finalmente.» La paura mi irrigidì la spina dorsale, perlomeno finché non vidi Natalie fare capolino da dietro l'angolo. Un miscuglio di pietà e rabbia mi pervase, ma mi sforzai di sorridere con gentilezza. Probabilmente non avrebbe più rivisto suo padre, quando lo avrebbero portato via. Per quanto malvagi, avevano diritto a dirsi addio. «Ehi» dissi, vedendola venire a grandi passi verso di me. Nei suoi movimenti c'era una risolutezza insolita. «Non penso che ti lasceranno entrare.» Certo, non avrebbero dovuto lasciar entrare neanche me. Lei mi raggiunse e, non esagero, mi lanciò contro il muro. Il mio corpo si schiantò con violenza, e una miriade di punti neri danzò nel mio campo visivo. «Che...?» Portai una mano alla fronte e cercai di rialzarmi.

Senza più preoccuparsi di me, Natalie aprì la cella di Victor con un mazzo di chiavi che avevo visto appeso alla cintura di uno dei due guardiani. Incerta sui miei piedi, mi avvicinai a Natalie. «Che stai facendo?» Lei mi lanciò uno sguardo, ed ecco cosa vidi. Il tenue anello rosso attorno alle pupille. La pelle troppo pallida, persino per una Moroi. Il sangue che le imbrattava la bocca. E più eloquente di ogni altra cosa, l'espressione nei suoi occhi. Uno sguardo così freddo e malvagio che il mio cuore per poco non smise di battere. Era uno sguardo che diceva che Natalie non camminava più tra i vivi, uno sguardo che diceva che adesso era una degli Strigoi.

Malgrado l'addestramento ricevuto e tutte le lezioni sulle consuetudini degli Strigoi e su come difendermi da loro, non ne avevo mai visto uno dal vivo. Era più spaventoso del previsto. Questa volta, quando mi colpì di nuovo, ero pronta. Più o meno. Indietreggiai per schivare il colpo, uscendo dalla sua portata, e mi domandai che speranze avessi. Mi ricordavo dell'indovinello di Dimitri sul centro commerciale. Nessun paletto d'argento. Niente con cui decapitarla. Nessun modo di darle fuoco. Correre sembrava l'opzione migliore, dopotutto, ma lei mi bloccava la strada. Sentendomi impotente, mi limitai a indietreggiare lungo il corridoio mentre Natalie si faceva avanti, i movimenti assai più aggraziati di quanto non fossero stati in vita. Poi, allo stesso modo, con più rapidità di quanta non ne avesse mai avuta da viva, spiccò un salto, mi afferrò, e mi sbatté con violenza la testa contro la parete. Il dolore mi esplose nel cranio, ed ero abbastanza sicura che il sapore che sentivo in fondo al palato fosse sangue. Disperata, lottai contro di lei, cercai di pensare a una qualche difesa, ma era come lottare strafatta contro Dimitri. «Mia cara» mormorò Victor, «cerca di non ucciderla se non sei costretta a farlo. Potremmo avere bisogno di lei più tardi.» Natalie si concesse una pausa dall'assalto, lasciandomi un momento per retrocedere, ma non mi tolse gli occhi di dosso. «Ci proverò.» C'era una nota di scetticismo nella sua voce. «Esci di qui. Ci rivedremo quando avrò finito.» «Non posso crederci!» gli gridai dietro. «Hai costretto tua figlia a tramutarsi in una Strigoi?» «Una soluzione estrema. Un sacrifico necessario per un bene più grande. Natalie se ne rende conto.» Se ne andò. «Davvero?» Sperai di poter prendere tempo facendola parlare, proprio come nei film. Sperai anche che le mie domande potessero mascherare quanto fossi in preda al terrore più completo. «Te ne rendi conto? Dio, Natalie. Tu... tu ti sei convertita. Solo perché te lo ha chiesto?» «Mio padre è un grande uomo» mi rispose. «Salverà i Moroi dagli Strigoi.» «Sei impazzita?» gridai. Stavo indietreggiando ancora e d'improvviso mi scontrai con il muro. Le mie unghie ci si conficcarono, come se potessi scavarmi un passaggio. «Tu sei una Strigoi.» Scrollò le spalle, quasi ricordandomi la vecchia Natalie. «Ho dovuto farlo per tirarlo fuori di qui prima che arrivassero gli altri. Una Strigoi per salvare tutti i Moroi. Ne vale la pena, vale pena abbandonare il sole e la magia.» «Ma vorrai uccidere i Moroi! Non potrai farne a meno.» «Lui mi aiuterà a controllarmi. Altrimenti dovranno uccidermi.» Allungò le mani e mi afferrò per

le spalle, e io rabbrividii per il modo in cui aveva parlato della propria morte. La lasciava quasi indifferente come, senza dubbio, la lasciava indifferente il fatto di prendere in considerazione la mia morte. «Tu sei impazzita. Non puoi volergli bene fino a questo punto. Non puoi davvero...» Mi lanciò di nuovo contro il muro, e mentre il mio corpo si accartocciava a terra, ebbi la sensazione che non mi sarei più rialzata, questa volta. Victor le aveva detto di non uccidermi... ma nei suoi occhi c'era uno sguardo, uno sguardo che diceva che lo desiderava. Voleva cibarsi di me; la fame era là. Faceva parte del suo essere Strigoi. Mi resi conto che non avrei dovuto parlarle. Avevo esitato, proprio come Dimitri mi aveva messo in guardia dal fare. E poi, tutto a un tratto, lui era lì, che si lanciava come la Morte lungo il corridoio nel suo spolverino da cowboy. Natalie si voltò. Era veloce, molto veloce. Ma anche Dimitri era veloce e schivò il suo assalto, sul volto un'espressione di puro potere e forza. Come incantata, li guardai muoversi, girarsi attorno l'un l'altra come in una danza mortale. Lei era più forte di lui, ovviamente, ma era anche una Strigoi novella. Acquisire dei superpoteri non voleva dire saperli usare. Dimitri, invece, sapeva usare quelli che possedeva. Dopo aver dato e ricevuto qualche colpo feroce, mise in atto la sua mossa. Il paletto d'argento scintillò nella mano come un lampo, poi si proiettò in avanti, serpeggiando nel cuore di lei. Dimitri 10 estrasse con violenza e fece un passo indietro, il volto impassibile mentre lei gridava e cadeva a terra. Dopo qualche terribile momento, Natalie smise di muoversi. Con la stessa rapidità, Dimitri si chinò su di me, facendo scivolare le braccia sotto il mio corpo. Si alzò, trasportandomi come quando mi ero rotta la caviglia. «Ehi, compagno» gli mormorai, la mia voce mi sembrava assopita. «Avevi ragione sugli Strigoi.» Il mondo cominciò a offuscarsi, e le mie palpebre si chiusero. «Rose. Roza. Apri gli occhi.» Non avevo mai sentito la sua voce così tesa, disperata. «Non addormentarti adesso. Non ancora.» Tenni gli occhi socchiusi e lo guardai mentre mi portava fuori dall'edificio, correndo in direzione della clinica. «Aveva ragione?» «Chi?» «Victor... ha detto che non avrebbe funzionato. La collana.» Iniziai ad appisolarmi, persa nell'oscurità della mia mente, ma Dimitri mi richiamò alla coscienza. «Cosa vuoi dire?» «L'incantesimo. Victor ha detto che dovevi volermi. .. che doveva importarti di me... perché funzionasse.» Quando non disse nulla, cercai di aggrapparmi alla sua maglietta, ma le mie dita erano troppo deboli. «Lo volevi? Mi volevi?» Le sue parole uscirono smozzicate. «Sì, Roza. Ti volevo. Ti voglio ancora. Vorrei... che potessimo stare insieme.» «Allora perché mi hai mentito?» Raggiungemmo la clinica, e Dimitri riuscì ad aprire le porte continuando a tenermi in braccio. Non appena fummo dentro, cominciò a gridare in cerca di aiuto. «Perché mi hai mentito?» mormorai di nuovo. Reggendomi sempre tra le braccia, abbassò lo sguardo su di me. Riuscivo a sentire le voci e i

passi avvicinarsi. «Perché non possiamo stare insieme.» «Per via di quella stupida storia dell'età, vero?» chiesi. «Perché tu sei il mio mentore?» Con la punta delle dita mi asciugò con dolcezza una lacrima che era riuscita a fuggire, giù per la guancia. «In parte» disse. «Ma anche... be', un giorno io e te saremo i guardiani di Lissa. Ho bisogno di proteggerla a tutti i costi. Se un branco di Strigoi ci attaccasse, dovrò mettermi in mezzo tra loro e lei.» «Lo so. È quello che dovresti fare, senza dubbio.» Le scintille nere tornarono ad agitarsi davanti ai miei occhi. Stavo perdendo i sensi. «No. Se mi concedessi di amarti, non mi lancerei davanti a lei. Mi butterei davanti a te.» La squadra medica arrivò e mi portò via dalle sue braccia. E questo fu il modo in cui, due giorni dopo essere stata dimessa, finii per tornare in clinica. La terza volta in due mesi, da quando eravamo tornate all'Accademia. Doveva essere una specie di primato. Di sicuro avevo un trauma cranico e con ogni probabilità un'emorragia interna, ma non potemmo scoprirlo. Quando si ha come migliore amica una guaritrice provetta, in un certo senso non ci si deve preoccupare di queste cose. Dovetti rimanere lo stesso lì per qualche giorno, ma Lissa, e Christian, non lasciarono quasi mai il mio capezzale, tranne quando erano a lezione. Grazie a loro venni a sapere a spizzichi e bocconi del mondo là fuori. Dimitri aveva capito che doveva esserci uno Strigoi nel campus dopo aver trovato la vittima di Natalie morta e svuotata del sangue: tra tutti, Natalie aveva scelto il signor Nagy. Una scelta sorprendente, ma siccome era vecchio non doveva neppure averle dato molto filo da torcere. Niente più arte slava. I guardiani al centro di detenzione erano stati feriti, ma non uccisi. Li aveva solo sbattuti qui e là come aveva fatto con me. Victor era stato ritrovato e catturato mentre cercava di lasciare il campus. Ne ero felice, anche se ciò significava che il sacrificio di Natalie era stato inutile. Le voci dicevano che Victor non si era mostrato per nulla spaventato, quando le guardie reali erano arrivate per portarlo via. Non aveva fatto altro che sorridere per tutto il tempo, come se custodisse un segreto di cui nessuno di loro era a conoscenza. Dopodiché, per quanto possibile, la vita tornò alla normalità. Lissa non ricadde più nell'autolesionismo. La dottoressa le prescrisse qualcosa -un antidepressivo o un ansiolitico, non ricordavo quale dei due - che la fece sentire meglio. Non ci avevo mai capito nulla, di quel genere di pillole. Pensavo che rendessero le persone sciocche e felici. Ma era un medicinale come un altro, fatto per aggiustare qualcosa, e per lo più si limitò a mantenerla normale ed emotivamente stabile. Il che era una buona cosa, perché adesso aveva altre faccende con cui vedersela. Come Andre. Alla fine aveva creduto alla storia di Christian, ed era riuscita ad ammettere che Andre potesse non essere l'eroe che lei aveva sempre creduto. Fu difficile da digerire, ma alla fine prese una decisione serena: accettare che Andre, come tutti noi, potesse avere sia una parte buona che una cattiva. Ciò che aveva fatto a Mia la rattristava, ma non cambiava il fatto che si fosse dimostrato un buon fratello, che aveva saputo volerle bene. Ancora più importante, questo finalmente la liberò da quella sua pretesa di voler essere lui per rendere orgogliosa la sua famiglia. Poteva essere se stessa, cosa che dimostrò giorno dopo giorno nel rapporto con Christian. Tutta la scuola stentava ancora a crederci. A lei non importava. Ci rideva sopra, senza curarsi degli sguardi scioccati e dello sdegno dei reali, che non potevano accettare che lei si vedesse con qualcuno di una casata umiliata. Ma non tutti la pensavano così. Qualcuno di quelli che l'avevano conosciuta durante la sua fulminea ribalta sociale la apprezzava per chi era davvero, senza che lei dovesse usare per forza la compulsione. Apprezzavano la sua onestà e la franchezza, preferendole ai giochetti a cui la maggior parte dei reali si prestava.

Un mucchio di Moroi la ignorava, certo, e parlava con malignità alle sue spalle. Ma la cosa più sorprendente era che Mia, malgrado fosse stata umiliata, si desse da fare per tornare nelle grazie di qualcuno di questi reali. E infatti un giorno registrai le prime avvisaglie di vendetta agitarsi nell'ombra, passandole accanto mentre andavo in classe. Era con un gruppetto e parlava ad alta voce, con l'intenzione esplicita di farmi sentire quello che diceva. «... una coppia perfetta. Vengono tutti e due da famiglie disonorate e reiette.» Strinsi i denti e continuai a camminare, seguendo il suo sguardo, puntato su Lissa e Christian. Erano persi nel loro mondo e formavano un quadretto magnifico, lei bionda e limpida, e lui con i suoi occhi azzurri e i capelli scuri. Io stessa non potei evitare di attardarmi a fissarli. Mia aveva ragione. Tutte e due le loro famiglie erano cadute in disgrazia. Tatiana aveva biasimato Lissa pubblicamente, e benché nessuno "incolpasse" gli Ozera per ciò che era successo ai genitori di Christian, le altre famiglie di Moroi reali continuavano a tenersi a distanza. Ma Mia aveva ragione anche in un altro senso. In qualche modo, Lissa e Christian erano perfetti l'uno per l'altra. Forse erano dei reietti, ma i Dragomir e gli Ozera una volta erano stati tra i più potenti leader Moroi. E nel giro di pochissimo tempo, Lissa e Christian avevano cominciato a modellarsi a vicenda, in modo tale da non sfigurare con i propri antenati. Lui stava prendendo un po' della raffinatezza e della compostezza pubblica di lei; lei stava imparando a lottare per le proprie passioni. Più li guardavo, più riuscivo ad accorgermi dell'energia e della sicurezza che irraggiavano attorno a loro. Non si sarebbero più nascosti. E penso che fosse questo, unito alla gentilezza di Lissa, ciò che riusciva ad attrarre le persone verso di lei. La nostra cerchia cominciò ad allargarsi in maniera costante. Mason si unì a noi, com'era ovvio, e non fece segreto del suo interesse per me. Lissa mi prese parecchio in giro al riguardo, e io non sapevo ancora decidermi su che cosa fare con lui. Una parte di me pensava che fosse tempo di dargli un'opportunità, benché la restante parte di me volesse ancora Dimitri. Di solito, Dimitri mi trattava come chiunque poteva aspettarsi che venissi trattata da un mentore. Era efficiente. Affettuoso. Severo. Comprensivo. Non c'era nulla fuori dall'ordinario, nulla che potesse far sospettare a qualcuno quello che era successo tra noi, fatta eccezione per qualche sguardo. E una volta superata la mia reazione emotiva iniziale, capii che lui - tecnicamente - aveva ragione. L'età era un problema, soprattutto perché io ero ancora una studentessa dell'Accademia. Ma l'altra cosa a cui aveva fatto cenno... non mi si ficcò mai bene in testa. Ma avrebbe dovuto. Due guardiani con una relazione avrebbero potuto distrarsi a vicenda dal Moroi che erano chiamati a proteggere. Non potevamo permettere che ciò accadesse, non potevamo mettere a repentaglio la vita di Lissa per colpa delle nostre necessità. Altrimenti non saremmo stati migliori del guardiano dei Badica, che se n'era andato. Una volta avevo detto a Dimitri che i miei sentimenti non avevano importanza. Lei veniva prima. Speravo solo che avrei saputo darne prova. «Le guarigioni sono troppo deleterie» mi disse Lissa. «Uhm?» Eravamo sedute in camera sua e facevamo finta di studiare, ma la mia mente era persa dietro a Dimitri. Le avevo fatto una predica a proposito del custodire i segreti, ma non le avevo parlato di lui o di quanto fossi arrivata vicina a perdere la verginità. Per qualche ragione, non mi ero decisa a dirglielo. Lasciò cadere il libro di storia che aveva tra le mani. «Devo smetterla con le guarigioni. E la compulsione.» Un'ombra di contrarietà le attraversò il viso riguardo a quell'ultima parte. Le sue capacità di guarigione erano state salutate come un dono meraviglioso che necessitava di uno studio più approfondito; la compulsione invece aveva incontrato seri ammonimenti da parte della Kirova e della signora Carmack. «Voglio dire, adesso sono felice. Avrei dovuto cercare aiuto molto tempo fa, e tu su questo avevi ragione. Sono felice di essere in cura con i farmaci. Ma anche Victor aveva

ragione. Non posso più servirmi dello spirito. Riesco ancora a sentirlo, ma... Mi manca il riuscire a toccarlo.» Non avevo la minima idea di che cosa dire. Lei mi piaceva di più così. Aver perso quei sintomi di follia l'aveva fatta tornare sana, sicura di sé ed estroversa, proprio come la Lissa che avevo sempre conosciuto e a cui volevo bene. Vedendola adesso, mi veniva più facile credere a ciò che Victor mi aveva detto sulle sue possibilità di diventare una leader. Lissa mi ricordava i suoi genitori e Andre, il modo in cui riuscivano a inspirare devozione in quelli che conoscevano. «E c'è un'altra cosa» disse. «Lui ha detto che non avrei potuto lasciar perdere. E aveva ragione. Fa male non usare la magia. A volte lo desidero tantissimo.» «Lo so» dissi. Potevo percepire il suo dolore. I farmaci avevano indebolito le sue capacità magiche, ma non il nostro legame. «E continuo a pensare alle cose che potrei fare, alle persone che potrei aiutare.» Aveva lo sguardo pieno di rammarico. «Per prima cosa devi aiutare te stessa» le dissi, dura. «Non voglio che ti faccia male di nuovo. Non te lo permetterò.» «Lo so. Christian mi ripete la stessa cosa.» Fece quel sorriso tonto che faceva ogni volta che pensava a lui. Se avessi saputo che innamorarsi li avrebbe resi così stupidi, forse avrei evitato di darmi tanto tanto da fare perché tornassero a frequentarsi. «E penso che voi due abbiate ragione. È meglio desiderare la magia ed essere sana di mente che possederla ed essere fuori di testa. Non c'è via di mezzo.» «No» concordai. «Non in questo genere di cose.» Poi, dal nulla, un pensiero raggiunse doloroso il mio cervello. C'era una via di mezzo. Le parole di Natalie me lo ricordarono. Ne vale la pena, vale la pena abbandonare il sole e la magia. La magia. La signora Karp non si era trasformata in una Strigoi solo perché era impazzita. Si era trasformata in una Strigoi per rimanere sana. Diventare Strigoi faceva perdere alle persone ogni contatto con la magia. Nel farlo, lei non aveva più potuto servirsene. Non l'aveva più sentita. Non l'aveva più desiderata. Guardando Lissa, avvertii un nodo di inquietudine. E se anche lei ci avesse pensato? Avrebbe mai potuto desiderarlo anche lei? No, conclusi subito. Lissa non lo avrebbe mai fatto. Era una persona troppo forte, troppo integerrima. Fintanto che rimaneva in cura con quelle pillole, le sue capacità razionali le avrebbero impedito di fare qualcosa di così radicale. Tuttavia, l'intera faccenda mi spinse a voler sapere un'ultima cosa. La mattina dopo andai alla cappella e aspettai seduta in una delle panche finché il sacerdote non si fece vedere. «Ciao, Rosemarie» disse, evidentemente sorpreso. «Posso esserti d'aiuto?» Mi alzai. «Ho bisogno di sapere altro su san Vladimir. Ho letto il libro che mi ha dato e un altro paio.» Era meglio non dirgli del furto in soffitta. «Ma in nessuno si dice come è morto. Cos'è successo? Com'è finita la sua vita? Ha subiij un martirio, o qualcosa del genere?» Le sopracciglia cespugliose del sacerdote si sollevarono. «No. È morto di vecchiaia. In pace.» «Ne è sicuro? Non è diventato uno Strigoi, oppure si è ucciso?» «No, certo che no. Perché pensi una cosa del genere?» «Be'... era un sant'uomo e tutto il resto, ma era anche un po' pazzo, no? L'ho letto da qualche parte e ho pensato che, non so, si fosse arreso alla pazzia.» La sua espressione si fece grave. «È vero che ha combattuto i demoni, la pazzia, per tutta la vita.

È stato uno sforzo notevole, che a volte lo ha portato a desiderare la morte. Ma è riuscito ad avere la meglio. Non si è lasciato sconfiggere.» Lo guardavo stupefatta. Vladimir non aveva potuto servirsi dei farmaci, e di sicuro aveva continuato a far uso della magia. «Come? Come ha fatto?» «Forza di volontà, suppongo. Be'...» Fece una pausa. «Quella, e Anna.» «Anna baciata dalla tenebra» mormorai. «Il suo guardiano.» Il sacerdote annuì. «Lei è rimasta con lui. Quando si è fatto debole è stata lei a sorreggerlo. Lei lo ha spronato a essere forte e a non arrendersi alla pazzia.» Lasciai la cappella in preda allo stordimento. Anna c'era riuscita. Aveva fatto in modo che Vladimir percorresse la via di mezzo, aiutandolo a operare miracoli nel mondo senza lasciarlo andare incontro a una fine orribile. La signora Karp non era stata altrettanto fortunata. Non aveva un guardiano a cui era legata. Non aveva nessuno che potesse sorreggerla. Lissa sì. Sorridendo tagliai attraverso il cortile diretta alla mensa. Mi sentivo ben disposta nei confronti della vita, più di quanto non mi sentissi da tempo. Avremmo potuto farcela, Lissa e io. Potevamo riuscirci insieme. Proprio allora, scorsi con la coda dell'occhio una figura. Mi sfrecciò accanto e atterrò su un albero nelle vicinanze. Smisi di camminare. Era un corvo, grande e dall'aspetto fiero, con piume nere scintillanti. Un momento più tardi mi resi conto che non si trattava di un corvo; era il corvo imperiale. Quello che Lissa aveva guarito. Nessun altro uccello sarebbe atterrato così vicino a un dhampir. E nessun altro uccello sarebbe rimasto a fissarmi in una maniera tanto intelligente, familiare. Non riuscivo a credere che fosse ancora in giro. Un brivido mi corse lungo la spina dorsale, e iniziai a indietreggiare. Poi la verità mi si chiarì. «Anche tu sei legato a lei, non è "osi?» gli chiesi, perfettamente conscia del fatto che chiunque mi avesse visto in quel momento avrebbe pensato che fossi pazza. «Lei ti ha riportato indietro. Sei stato baciato dalla tenebra.» Era qualcosa di piuttosto grandioso, a dire il vero. Allungai il braccio offrendoglielo, in parte sperando che ci si posasse con una specie di gesto teatrale degno di un film. Tutto ciò che fece fu guardarmi come se fossi un'idiota, allargare le ali, e spiccare il volo. Rimasi a contemplarlo mentre volava via nel crepuscolo. Poi mi voltai e mi incamminai in cerca di Lissa. In lontananza sentii gracchiare, quasi fosse una risata.

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