A Kat Richardson, che è molto saggia.

Titolo originale: FROSTBITE © 2008 Richelle Mead Pubblicato per la prima volta nel 2008 negli Stati Uniti d'America da Razorbill, un marchio del gruppo Penguin Penguin Young Readers Group 345 Hudson Street, New York, New York 10014, USA © 2010 RCS Libri S.p A., Milano I edizione Rizzoli Narrativa marzo 2010 ISBN 978-88-17-04031-0

Come sempre, non avrei potuto scrivere questo libro senza l'aiuto e il sostegno dei miei amici e della mia famiglia. In particolare, devo ringraziare la mia squadra di consulenza-via-Instant Messaging: Caitlin, David, Jay, Jackie e Kat. Vi siete connessi a Internet così tante volte a tarda notte che non potrei neppure cominciare a contarle. Senza di voi non sarei arrivata in fondo a questo libro e a quest'anno assurdo. Grazie anche al mio agente, Jim McCarthy, che ha spostato mari, monti e scadenze per aiutarmi a portare a termine ciò che dovevo. Grazie per avermi coperto le spalle. E infine, tante grazie a Jessica Rothenberg e a Ben Schrank della Razorbill per il loro supporto costante e per il duro lavoro.

Gli esseri viventi muoiono. Ma non sempre restano morti. Credetemi, io lo so. A questo mondo esiste una razza di vampiri composta letteralmente da morti che camminano. Sono detti Strigoi, e se non popolano già i vostri incubi, dovrebbero farlo. Sono forti, rapidi, e uccidono senza pietà né esitazione. Inoltre sono immortali, per cui ucciderne uno non è impresa da poco. Esistono solo tre modi per farlo: affondargli un paletto d'argento nel cuore, decapitarlo, o dargli fuoco. Nessuno dei tre è semplice da mettere in pratica, ma è sempre meglio di niente. In giro ci sono anche vampiri buoni detti Moroi. Sono vivi, e ciascuno di loro sa dominare con la magia uno dei quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco. (Be', questo vale per la maggior parte dei Moroi, sulle eccezioni mi spiegherò meglio in seguito). A dire la verità ormai non si servono più molto della magia, il che è un po' triste. Sarebbe un'arma eccezionale, ma i Moroi credono fermamente che debba essere utilizzata solo per scopi pacifici. È una delle regole fondamentali della loro società. Aggiungo che di solito i Moroi sono alti e snelli, e sopportano la luce solare solo fino a un certo punto. In compenso, però, possiedono sensi sovrumani: vista, olfatto e udito. Entrambe le razze hanno bisogno di sangue. È per questo che sono vampiri, suppongo. Ma i Moroi non uccidono per procurarselo; al contrario, si circondano di esseri umani disposti a donarne piccole quantità. Queste persone si offrono spontaneamente perché il morso del vampiro trasmette endorfine che danno una sensazione unica, e provocano assuefazione. Parlo per esperienza personale. A questi umani viene dato il nome di donatori, e in sostanza sono drogati, dipendenti dal morso dei vampiri. Circondarsi di donatori è comunque preferibile rispetto a ciò che fanno gli Strigoi, i quali, come avrete intuito, si procurano il sangue uccidendo. Penso che provino piacere nel farlo. Un Moroi che uccide la propria vittima bevendone il sangue si tramuta in uno Strigoi. Certi Moroi lo fanno per scelta, rinunciando alla magia e ai propri valori in cambio dell'immortalità. Si può diventare Strigoi anche perché costretti con la forza, però: se uno Strigoi succhia il sangue a una preda e poi la obbliga a bere sangue di Strigoi, si ottiene un nuovo Strigoi. È una cosa che può capitare a chiunque: Moroi, esseri umani o... dhampir. Dhampir. Come me. I dhampir sono per metà umani e per metà Moroi. Mi piace pensare di aver ereditato le caratteristiche migliori di entrambe le razze. Sono forte e robusta come gli esseri umani. Posso rimanere al sole quanto mi pare e piace. Come i Moroi, però, possiedo sensi assai sviluppati e riflessi pronti. Al mondo non c'è guardia del corpo migliore di un dhampir, e infatti è questo che facciamo, perlopiù. Ci chiamano guardiani. Fin da piccola sono stata addestrata a proteggere i Moroi dagli Strigoi. Alla St. Vladimir's Academy, una scuola privata per Moroi e dhampir, seguo corsi e allenamenti specifici. Sono in grado di utilizzare qualunque tipo di arma e di assestare calci piuttosto fenomenali. Le ho suonate a ragazzi grossi il doppio di me, sia durante che al di fuori delle lezioni. A dire il vero, i ragazzi sono più o meno gli unici a cui le suono, visto che ci sono pochissime ragazze nei miei corsi. Infatti, pur ereditando abilità eccezionali, a noi dhampir manca una cosa. Non possiamo avere figli con altri dhampir. Non chiedetemi il perché. Non sono genetista o simili. Dall'accoppiamento

tra un essere umano e un Moroi si otterranno sempre dei dhampir; è così che siamo nati, in origine. Ma ormai non accade più molto spesso; i Moroi hanno la tendenza a tenersi alla larga dagli esseri umani. Grazie a un'altra fortunata coincidenza genetica, però, dall'unione tra Moroi e dhampir nascono dhampir. Lo so, lo so: è un'assurdità. Ci si aspetterebbe che il bambino sia per tre quarti vampiro, giusto? Nient'affatto. Metà umano, e metà Moroi. La maggior parte dei dhampir sono nati da uomini Moroi e donne dhampir. Le donne Moroi vogliono avere bambini Moroi. E questo di regola significa che gli uomini Moroi si concedono qualche scappatella con donne dhampir per poi svignarsela. Perciò ci sono un mucchio di madri dhampir single, ed è per questo che sono in poche a scegliere di diventare guardiani. Preferiscono crescere i propri figli. Perciò solo i ragazzi - e una manciata di ragazze - diventano guardiani. Chi sceglie di proteggere i Moroi, però, prende questo lavoro molto sul serio. I dhampir hanno bisogno dei Moroi per poter continuare ad avere figli. Noi dobbiamo proteggerli. E in più... be', è la cosa giusta da fare, tutto qui. Gli Strigoi sono malvagi e contro natura. Non è giusto predare gli innocenti. I dhampir addestrati per diventare guardiani lo imparano ancor prima di camminare. Gli Strigoi sono il male. I Moroi devono essere protetti. Questo è ciò in cui credono i guardiani. Questo è ciò in cui credo io. E c'è un Moroi che desidero proteggere più di chiunque altro al mondo: Lissa, la mia migliore amica, che è una principessa Moroi. I Moroi hanno dodici casate reali, e lei è l'unica rappresentante rimasta della sua: i Dragomir. Ma a parte il fatto che è la mia migliore amica, c'è qualcos'altro che rende Lissa speciale. Ricordate quando ho detto che ogni Moroi domina con la magia uno dei quattro elementi? Be', si è scoperto che Lissa è in grado di dominarne uno di cui nessuno era a conoscenza fino a poco tempo fa: lo spirito. Per anni abbiamo pensato che non avrebbe sviluppato le sue capacità magiche. Poi intorno a lei hanno cominciato ad accadere strani fatti. Per esempio: tutti i vampiri possiedono un'abilità detta compulsione che permette loro di imporre agli altri la propria volontà. Negli Strigoi quest'abilità è molto sviluppata. Nei Moroi lo è di meno, ed è loro vietato farne uso. Lissa, però, è in grado di servirsi della compulsione quasi quanto uno Strigoi. Non deve far altro che sbattere le ciglia e le persone fanno ciò che vuole. E non è neppure la cosa più straordinaria di cui è capace. Prima ho detto che chi muore non sempre resta morto. Be', a me è capitato. Niente paura, non sono come gli Strigoi. Ma una volta sono morta per davvero. (È un'esperienza che non vi raccomando). È successo quando l'auto su cui viaggiavo è finita fuori strada. Nell'incidente siamo rimasti uccisi io, i genitori di Lissa e suo fratello. Eppure, in tutta quella confusione - senza neppure rendersene conto - Lissa si è servita dello spirito per riportarmi indietro. Ci è voluto molto tempo perché lo scoprissimo. Al tempo non sapevamo nemmeno che lo spirito esistesse. Purtroppo, però, è saltato fuori che qualcuno ne era già a conoscenza: Victor Dashkov, un principe Moroi prossimo alla morte che, scoperti i poteri di Lissa, aveva deciso di segregarla e farne la propria guaritrice personale per il resto della sua vita. Quando mi sono resa conto che qualcuno le dava la caccia, ho deciso di prendere in mano la situazione. Sono riuscita a scappare insieme a lei dall'Accademia per andare a vivere tra gli esseri umani. È stato divertente - ma anche piuttosto snervante - continuare a fuggire. Abbiamo tirato avanti in questo modo per due anni, finché qualche mese fa alcuni incaricati della St. Vladimir's non ci hanno riacciuffate e riportate indietro. Allora Victor è passato all'azione: ha rapito Lissa e l'ha torturata finché non si è arresa alle sue richieste. Per raggiungere i suoi scopi Victor ha usato metodi piuttosto estremi, come scagliare contro me e Dimitri, il mio mentore, un incantesimo di lussuria. (Di lui parlerò a breve.) Ha anche approfittato del fatto che lo spirito cominciasse a rendere Lissa psicologicamente instabile; ma questo non è nulla in confronto a ciò che Victor ha fatto a sua figlia Natalie. È arrivato al punto di spingerla a tramutarsi in Strigoi perché gli fornisse un diversivo per la fuga. Lei è finita trafitta da un paletto. Victor non mi ha dato l'impressione di sentirsi in colpa, neppure dopo essere stato

catturato. Mi ha fatto pensare che non mi perdevo niente, a crescere senza un padre. Quindi, ora mi tocca proteggere Lissa dagli Strigoi e dai Moroi. Solo in pochi conoscono i suoi poteri, ma sono certa che là fuori ci siano altri Victor pronti ad approfittarsi di lei. Per fortuna, però, per proteggerla posso fare affidamento su un'arma in più. Chissà come, durante la mia guarigione dopo l'incidente d'auto, lo spirito ha plasmato un legame psichico tra lei e me. Sono in grado di vedere e percepire ciò che vive lei. (Funziona solo in un senso, però. Lei non può "percepire" me.) Il legame mi aiuta a tenerla d'occhio e a sapere quando è nei guai, anche se a volte è strano ritrovarsi nella testa di un'altra persona. Siamo piuttosto sicure che lo spirito sia in grado di fare un mucchio di altre cose, ma non sappiamo ancora quali. Nel frattempo cerco di dimostrarmi un ottimo guardiano. A causa della nostra fuga sono rimasta indietro nell'addestramento e così, per recuperare il tempo perduto, devo seguire lezioni in più. Proteggere Lissa è ciò che più desidero al mondo. Purtroppo ci sono due elementi che possono, di quando in quando, intralciare il mio addestramento. Uno di questi è che a volte agisco prima di pensare. Sto facendo progressi in merito, ma quando qualcosa mi dà sui nervi, ho la tendenza a sferrare subito un pugno senza nemmeno sapere chi sto colpendo. Quando le persone a cui tengo si trovano in pericolo... be', le regole diventano trascurabili. Il secondo problema nella mia vita è Dimitri. È lui ad aver ucciso Natalie, ed è un vero duro. Oltre a essere proprio un bel ragazzo. Okay, è molto più che bello. È sexy: quel genere di sexy capace di bloccarti in mezzo alla strada e farti finire sotto una macchina. Ma, come ho detto, è il mio istruttore. E ha ventiquattro anni. Sono due buone ragioni per non prendersi una cotta per lui. A essere onesti, però, la ragione più importante è che quando Lissa si sarà diplomata, lui e io diventeremo i suoi guardiani. Se noi due finissimo per preoccuparci l'uno dell'altra, non potremo badare a lei come si deve. Ho provato a togliermelo dalla testa ma non mi è andata molto bene, e sono abbastanza sicura che sia lo stesso per lui. Il tutto è complicato dal fatto che mentre eravamo sotto l'incantesimo di lussuria ci siamo dati parecchio da fare. A Victor serviva un modo per distrarci mentre rapiva Lissa, e l'ha trovato. Sono stata sul punto di rinunciare alla verginità, e Dimitri è stato a un passo dal prenderla. Abbiamo spezzato l'incantesimo all'ultimo minuto, ma porto sempre con me quei ricordi, cosa che a volte mi rende abbastanza difficile concentrarmi sulle mosse di combattimento. A proposito, mi chiamo Rose Hathaway. Ho diciassette anni, mi alleno a proteggere e uccidere vampiri, sono innamorata del ragazzo sbagliato, e ho un'amica del cuore che potrebbe impazzire per colpa dei suoi strani poteri magici. Ehi, nessuno ha mai detto che la scuola superiore sarebbe stata facile.

Pensavo che la giornata non potesse andare peggio di così, ma poi la mia migliore amica mi ha avvisato che forse stava per impazzire. Di nuovo. «Io... cos'hai detto?» Mi trovavo nell'atrio dell'edificio dove alloggiava lei, e in quel momento ero china a sistemarmi uno stivale. Alzai di scatto la testa e le scoccai un'occhiata attraverso il groviglio di capelli scuri che mi copriva metà del viso. Mi ero addormentata dopo le lezioni, e per uscire in tempo dalla mia camera non mi ero nemmeno pettinata. Naturalmente i capelli biondo platino di Lissa erano lisci e perfetti, adagiati sulle spalle come un velo da sposa, mentre lei mi guardava divertita. «Ho detto che secondo me le pillole non stanno più facendo effetto.» Mi raddrizzai e scrollai la testa per scostare i capelli dal viso. «Che cosa intendi?» chiesi. I Moroi attorno a noi camminavano di fretta, chi per andare a cena, chi per incontrare gli amici. «Ti stanno...» abbassai la voce. «Ti stanno tornando i poteri?» Scosse la testa, e nei suoi occhi scorsi un lampo di rammarico. «No... mi sento più vicina alla magia, però non riesco ancora a servirmene. In questo periodo più che altro mi rendo conto di altre cose, sai... a volte mi sento un po' più depressa del solito. Non come prima» si affrettò ad aggiungere, vedendo la mia espressione. Quando non aveva ancora iniziato a prendere le medicine, se il suo umore peggiorava poteva anche arrivare a ferirsi da sola. «È solo un po' più forte di quanto non fosse fino a poco tempo fa.» «E che mi dici del resto? Ansia? Allucinazioni?» Lissa scoppiò a ridere: non la stava prendendo sul serio quanto me. «Parli come se ti fossi messa a leggere dei manuali di psichiatria.» E infatti li avevo letti. «Sono solo preoccupata per te. Se pensi che le medicine non stiano più facendo effetto, dobbiamo dirlo a qualcuno.» «No, no» si affrettò a dire. «Sto bene, davvero. Continuano a fare effetto... solo, non così tanto. Non credo che sia il caso di farsi prendere dal panico. Soprattutto tu. Non oggi, almeno.» Cambiare argomento le fu d'aiuto. Un'ora prima avevo scoperto che quel giorno avrei dovuto sostenere la Qualificazione. Era un esame - o meglio, un colloquio - che tutti i guardiani novizi dovevano superare durante il terzo anno alla St. Vladimir 's Academy. Ma poiché l'anno passato ero stata via per tenere nascosta Lissa, io non l'avevo ancora superato. Quindi quel pomeriggio mi avrebbero portato fuori dal campus, dal guardiano con cui dovevo sostenere la prova. E grazie per il preavviso, ragazzi. «Non preoccuparti per me» ripeté Lissa sorridendo. «Se dovesse peggiorare te lo farò sapere.» «Okay» dissi con riluttanza. Tanto per andare sul sicuro, però, schiusi i miei sensi per percepirla attraverso il nostro legame psichico. Aveva detto la verità. Quella mattina era serena e felice, non c'era da preoccuparsi. In un recesso della sua mente, però, scovai un grumo di sensazioni cupe, inquiete. Non che la stessero divorando, ma ricordavo bene le emozioni legate agli attacchi di rabbia o ai momenti di depressione

di cui aveva sofferto. Non era niente di che, ma non mi piaceva. Non volevo che quel grumo ci fosse, tutto qui. Provai a spingermi ancora più a fondo per percepire meglio quelle emozioni, e d'improvviso provai una bizzarra sensazione di contatto fisico. Una specie di nausea mi pervase, e così mi ritrassi, uscendo di colpo dalla testa di Lissa. Fui percorsa da un leggero brivido. «Stai bene?» chiese Lissa rabbuiandosi. «Tutto a un tratto sembra che tu abbia la nausea.» «Sono solo... nervosa per la prova» mentii. Con qualche indugio tornai in lei servendomi del legame. L'oscurità era scomparsa. Non ne rimaneva traccia. Forse i suoi medicinali non avevano nulla che non andasse, dopotutto. «Sto bene.» Indicò l'orologio. «Ancora per poco, se non ti dai una mossa.» «Accidenti» imprecai. Aveva ragione. Le diedi un rapido abbraccio. «A dopo!» «Buona fortuna!» gridò. Mi precipitai attraverso il campus e trovai il mio mentore, Dimitri Belikov, che mi aspettava accanto a una Honda Pilot. Che noia. Non che mi fossi immaginata di percorrere le strade di montagna del Montana in Porsche, però sarebbe stato carino avere a disposizione qualcosa di più cool. «Lo so, lo so» dissi nel vedere la sua espressione. «Scusa il ritardo.» In quel momento mi tornò in mente che stavo per affrontare una delle prove più importanti della mia vita e così mi scordai di colpo di Lissa e delle medicine che forse non stavano più facendo effetto. Volevo proteggerla, ma questo avrebbe contato ben poco se non mi fossi diplomata e non fossi diventata davvero il suo guardiano. Dimitri era lì, bellissimo come sempre. L'imponente edificio di mattoni proiettava su di noi lunghe ombre, stagliandosi contro la prima, incerta luce dell'alba come una bestia gigantesca. Attorno a noi la neve aveva appena cominciato a cadere. Guardai i leggeri fiocchi cristallini che scendevano piano. Alcuni si posavano sui suoi capelli scuri per sciogliersi subito dopo. «Chi altro viene?» chiesi. Fece spallucce. «Solo tu e io.» Il mio umore schizzò all'istante da "allegro" a "estatico". Dimitri e io. Soli. In un'auto. Questo sì che valeva un esame a sorpresa. «Quant'è lontano?» Supplicai in silenzio che si trattasse di un lungo viaggio. Che durasse una settimana. E che comportasse una sosta notturna in un hotel di lusso. Forse saremmo rimasti bloccati sotto una montagna di neve e soltanto il calore dei nostri corpi avrebbe saputo tenerci in vita. «Cinque ore.» «Oh.» Un po' meno di quanto avessi sperato. Eppure cinque ore erano meglio di niente. E l'eventualità della montagna di neve non era ancora da escludere. Percorrere strade buie e innevate sarebbe stato difficile per degli esseri umani, ma grazie ai nostri occhi dhampir non era un problema. Io tenevo lo sguardo fisso davanti a me e cercavo di non pensare all'odore sobrio, intenso del dopobarba di Dimitri che saturava l'auto e mi faceva venire voglia di sciogliermi. Invece provai a concentrarmi sulla Qualificazione. Non è che ci si potesse preparare. O la si passava oppure no. Autorevoli guardiani facevano visita ai novizi del terzo anno e, nel corso di incontri individuali, discutevano dell'attitudine degli studenti a diventare guardiani. Non sapevo di preciso cosa venisse chiesto, ma circolavano delle voci. I guardiani più anziani valutavano carattere e dedizione, e alcuni novizi erano stati giudicati non

idonei a proseguire il percorso per diventare guardiani. «Di solito non vengono loro in Accademia?» chiesi a Dimitri. «Voglio dire, non che mi dispiaccia l'idea della scampagnata, ma perché stiamo andando noi da loro?» «In realtà, stai andando da un lui, non da dei loro.» Un lieve accento russo infiorettava le parole di Dimitri, unico indizio sul luogo in cui era cresciuto. A parte questo, ero certa che parlasse un inglese migliore del mio. «Siccome si tratta di un caso eccezionale e ci sta facendo un favore, il viaggio tocca a noi.» «Chi è?» «Arthur Schoenberg.» Di colpo volsi lo sguardo verso Dimitri. «Cosa?» squittii. Arthur Schoenberg era una leggenda. Era uno dei più grandi cacciatori di Strigoi della nostra storia recente ed era stato a capo del Consiglio dei Guardiani, il gruppo che assegnava i guardiani ai Moroi e che prendeva decisioni per tutti noi. Alla fine era andato in pensione ed era tornato a proteggere una delle casate reali, i Badica. Benché fosse in là con l'età, sapevo che era ancora letale. Le sue prodezze erano parte del mio programma scolastico. «Non... non c'era nessun altro disponibile?» chiesi con un filo di voce. Mi accorsi che Dimitri tratteneva un sorriso. «Andrai benissimo. Tra l'altro se dovessi fare una buona impressione ad Art, la sua sarebbe una raccomandazione coi fiocchi da inserire nel tuo curriculum.» Art. Dimitri chiamava per nome uno dei guardiani più tosti in circolazione. Ma considerato che anche Dimitri era un tipo assai tosto, la cosa non avrebbe dovuto sorprendermi. Nell'auto calò il silenzio. Mi chiesi tutto a un tratto se sarei stata all'altezza degli standard di Arthur Schoenberg, e mi morsi il labbro. I miei voti erano buoni, ma bravate come scappare dalla scuola e farsi coinvolgere in più di una rissa avrebbero potuto gettare un'ombra sulla serietà con cui mi avviavo alla mia futura carriera. «Andrai bene» ripeté Dimitri. «I punti a tuo favore sono più di quelli negativi.» A volte sembrava in grado di leggermi nel pensiero. Abbozzai un sorriso e gli diedi un'occhiata di sottecchi. Fu uno sbaglio. Un corpo alto e snello, qualità lampanti malgrado fosse seduto. Insondabili occhi scuri. Capelli castani lunghi fino alle spalle, legati dietro la nuca. Al tatto quei capelli erano come seta. Lo sapevo perché ci avevo passato le dita quando Victor Dashkov ci aveva intrappolati con l'incantesimo di lussuria. Dando prova di grande autocontrollo, mi costrinsi a respirare di nuovo e a distogliere lo sguardo. «Grazie, coach» lo punzecchiai mentre tornavo a rannicchiarmi nel sedile. «Sono qui per aiutarti» ribatté lui. La sua voce era allegra e rilassata, cosa rara in Dimitri. Di regola era teso, sempre pronto all'attacco. Con ogni probabilità pensava di essere al sicuro in una Honda - per quanto possibile, con me nei paraggi. Non ero l'unica ad avere qualche problema a fingere che non ci fosse attrazione tra di noi. «Sai cosa mi sarebbe d'aiuto?» chiesi senza guardarlo negli occhi. «Uhm?» «Che levassi questa musica penosa e mettessi su qualcosa che è uscito dopo la caduta del muro di Berlino.» Dimitri ridacchiò. «La materia in cui vai peggio è Storia, eppure sembri ferrata sull'Europa dell'Est.»

«Ehi, ho bisogno di materiale per le mie battute, Compagno.» Senza smettere di sorridere, trafficò col sintonizzatore della radio finché non trovò una stazione di musica country. «Ehi! Non è quello che avevo in mente» esclamai. Ero certa che stesse quasi per scoppiare a ridere di nuovo. «Scegli. O l'una o l'altra.» Sospirai. «Torna alla roba anni Ottanta.» Diede un colpetto al sintonizzatore. Incrociai le braccia sul petto mentre un gruppo dal sound vagamente europeo cantava di come la tivù avesse fatto fuori le star della radio. Speravo che qualcuno facesse fuori questa, di radio. Tutto a un tratto cinque ore non mi sembrarono più così brevi. Arthur e la famiglia che proteggeva vivevano in una cittadina lungo la 1-90, non lontano da Billings. I Moroi avevano pareri divergenti riguardo ai posti in cui vivere. Alcuni sostenevano che le grandi città fossero meglio perché permettevano ai vampiri di confondersi tra la folla e di non richiamare troppo l'attenzione con le loro attività notturne. Altri Moroi, come questa famiglia, preferivano città meno popolose, nella convinzione che dove c'erano meno occhi diminuissero le possibilità di essere notati. Avevo convinto Dimitri a fermarsi lungo la strada per mangiare qualcosa in un ristorante aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, e tra la sosta e il tempo di fare benzina arrivammo a destinazione verso mezzogiorno. La casa assomigliava a quelle dei ranch: fatta di legno verniciato di grigio, si sviluppava su un unico livello e aveva grandi finestre a bovindo; oscurate, com'era ovvio, in modo da schermare la luce del sole. Aveva l'aria di essere nuova di zecca e costosa, e benché si trovasse nel bel mezzo del nulla corrispondeva più o meno a ciò che mi aspettavo dall'abitazione di una famiglia reale. Quando saltai giù dalla Pilot, gli scarponi affondarono di qualche centimetro nel manto di neve immacolata per poi scricchiolare sulla ghiaia del viale d'accesso. Era una giornata tranquilla e silenziosa, a parte qualche sporadica folata di vento. Dimitri e io ci incamminammo verso la casa imboccando il vialetto di ciottoli di fiume che attraversava il cortile. Vidi Dimitri che si irrigidiva in un atteggiamento sempre più professionale, ma si mantenne comunque di buon umore, proprio come me. Il gradevole viaggio in automobile ci aveva donato una sorta di piacere colpevole. Il mio piede scivolò sul vialetto ghiacciato e Dimitri allungò prontamente una mano per aiutarmi a ritrovare l'equilibrio. Vissi un breve déjà vu, e di colpo tornai con la mente alla notte in cui ci eravamo conosciuti, quando mi aveva salvata da una caduta simile. Temperatura glaciale o meno, la mano sul mio braccio era calda, e la sentivo persino attraverso l'imbottitura del mio parka. «Stai bene?» Con mio sommo dispiacere lasciò la presa. «Sì» dissi mentre lanciavo uno sguardo accusatorio al vialetto ghiacciato. «Queste persone non hanno mai sentito parlare del sale?» Voleva essere una battuta, ma all'improvviso Dimitri smise di camminare. Mi fermai subito anch'io. La sua espressione si fece tesa e vigile. Voltò la testa e passò in rassegna le ampie distese bianche che ci circondavano; poi il suo sguardo tornò alla casa. Avrei voluto fargli qualche domanda, ma qualcosa nel suo modo di fare mi suggerì di tacere. Dimitri rimase a osservare l'edificio quasi per un minuto intero, abbassò lo sguardo sul vialetto ghiacciato, poi si volse a guardare per un istante il manto di neve che ricopriva il viale d'accesso, profanato solo dalle nostre impronte. Si avvicinò all'ingresso con circospezione e io lo seguii. Si fermò di nuovo, questa volta per esaminare la porta. Non era aperta, ma nemmeno chiusa bene. Era come se fosse stata richiusa in fretta, non del tutto. A un esame più approfondito, scoprimmo alcune scalfitture attorno alla

serratura, come se fosse stata forzata. Per aprirla sarebbe bastata la più leggera delle spinte. Dimitri fece scorrere con delicatezza le dita lungo lo stipite della porta; il suo fiato formava piccole nuvole nell'aria. Quando toccò la maniglia, la vidi tremolare leggermente, come se fosse stata spaccata. Alla fine Dimitri disse a bassa voce: «Rose, vai ad aspettarmi in macchina.» «Ma co...» «Vai.» Una sola parola, ma carica di autorità. Quella singola sillaba mi ricordò di quando aveva afferrato e scagliato lontano i suoi avversari, e trafitto con un paletto uno Strigoi davanti ai miei occhi. Indietreggiai, camminando sul prato ricoperto di neve piuttosto che arrischiarmi lungo il vialetto. Dimitri restò dov'era, e non si mosse finché non sgusciai nell'auto e richiusi la portiera con quanta più delicatezza possibile. Allora, col più lieve dei movimenti, lui spinse la porta socchiusa e scomparve all'interno. Morivo dalla curiosità, ma contai fino a dieci prima di scendere dall'auto. Avevo abbastanza buonsenso per non seguirlo, ma volevo sapere cosa stava succedendo là dentro. Il viale d'accesso e il vialetto mi dicevano che nell'ultimo paio di giorni in casa non c'era stato nessuno, ma potevano anche indicare che i Badica non erano usciti affatto. Forse erano stati vittime di un comune furto. Era anche possibile che qualcosa li avesse spaventati; qualcosa come gli Strigoi, tanto per dire. Sapevo che era questa eventualità ad aver incupito Dimitri, ma mi pareva assai improbabile con Arthur Schoenberg in servizio. Ero sul vialetto, e levai gli occhi al cielo. La luce era pallida e fredda, ma c'era. Mezzogiorno. Il sole aveva ormai raggiunto la sua massima altezza. Gli Strigoi non potevano esporsi alla luce del giorno. Non erano loro che dovevo temere, ma la collera di Dimitri. Aggirai il lato destro dell'abitazione camminando in uno strato di neve molto più spesso, suppergiù trenta centimetri. Nessun altro particolare della casa seppe attirare la mia attenzione. Dai cornicioni pendevano ghiaccioli, e le finestre oscurate non rivelavano segreti. All'improvviso urtai qualcosa col piede e abbassai lo sguardo. Lì, per metà sepolto nella neve, c'era un paletto d'argento. Era stato conficcato nel terreno. Lo raccolsi e lo ripulii dalla neve, corrugando la fronte. Cosa ci faceva lì fuori? I paletti d'argento erano preziosi. Erano le armi più letali dei guardiani, potevano uccidere uno Strigoi con un unico colpo al cuore. Nel forgiarli, quattro Moroi trasmettevano loro la magia dei quattro elementi. Non avevo ancora imparato a usarli, ma stringerne uno in mano mentre proseguivo la mia perlustrazione mi fece sentire tutto a un tratto più al sicuro. Sul retro della casa, l'ampia porta di una veranda dava su una terrazza di legno che doveva essere molto gradevole durante l'estate. Ma il vetro della veranda era stato infranto. Salii con cautela i gradini della terrazza, e feci attenzione al ghiaccio, ben sapendo che mi sarei cacciata in grossi guai se Dimitri avesse scoperto ciò che stavo facendo. Il sudore mi scendeva lungo il collo nonostante il freddo. La luce del giorno, la luce del giorno ricordavo a me stessa. Niente di cui preoccuparsi. Raggiunsi la veranda ed esaminai il vetro scuro. Non riuscivo a capire cosa avesse potuto romperlo. La neve si era spinta all'interno e aveva formato un mucchietto sulla moquette azzurrina. Tirai la maniglia della porta, ma era chiusa. Non che facesse qualche differenza, con quel buco così grande lì accanto. Prestando attenzione ai bordi taglienti allungai un braccio e feci scattare la serratura dall'interno. Ritirai la mano con la medesima cura e aprii la porta scorrevole. Sibilò appena scivolando lungo il binario, un suono sommesso che in quel silenzio sinistro mi parve troppo rumoroso. Varcai la soglia, ma restai nella chiazza di sole che si allungava attraverso la porta aperta. I miei occhi si abituarono all'oscurità. Il vento entrò turbinando da fuori, e mi danzò attorno in compagnia delle tende. Mi trovavo in un soggiorno. C'erano le cose che ci si poteva aspettare. Divani. Tivù.

Una sedia a dondolo. E un corpo. Era una donna. Giaceva sulla schiena davanti alla tivù, i capelli scuri sparsi sul pavimento. Gli occhi sbarrati erano puntati verso l'alto e privi di espressione, e il viso era pallido, troppo pallido persino per un Moroi. Per un attimo pensai che fossero i suoi lunghi capelli a nasconderle il collo, ma poi capii che la massa scura che le copriva la pelle era sangue: sangue rappreso. Le era stata squarciata la gola. L'orribile scena era talmente surreale che in un primo momento non mi resi conto di ciò che avevo davanti agli occhi. Considerata la sua postura, la donna avrebbe potuto benissimo essere addormentata. Poi notai l'altro corpo, un uomo disteso sul fianco, poco più in là; la moquette attorno a lui era ricoperta di sangue scuro. Accasciato accanto al divano c'era un altro corpo: piccolo, della grandezza di un bambino. Dall'altra parte della stanza ce n'era un altro. E un altro ancora. C'erano corpi ovunque. Corpi e sangue. D'improvviso mi resi conto di quanta morte avessi attorno, e il cuore iniziò a martellarmi. No, no. Non era possibile. Era giorno. Le cose brutte non potevano accadere alla luce del sole. Un urlo iniziò a risalirmi la gola, interrotto da una mano inguantata che mi tappò la bocca da dietro. Iniziai a divincolarmi; poi sentii l'odore del dopobarba di Dimitri. «Perché» chiese «non mi ascolti mai? Se loro fossero ancora qui, saresti morta.» Non riuscii a rispondere, sia per via della mano che per lo shock. Mi era già capitato di vedere morire qualcuno, ma non avevo mai visto una tale quantità di morti. Finalmente, dopo quasi un minuto, Dimitri levò la mano ma mi rimase accanto. Non volevo più guardare, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla scena che avevo davanti. Corpi dappertutto. Corpi e sangue. Alla fine mi voltai verso Dimitri. «È giorno» sussurrai. «Le cose brutte non succedono di giorno.» Avvertii la nota di disperazione nella mia voce: una ragazzina supplichevole in cerca di qualcuno che le dicesse che era solo un brutto sogno. «Le cose brutte possono succedere in ogni momento» disse lui. «Ma questo non è successo di giorno. Deve risalire a un paio di notti fa.» Trovai il coraggio di sbirciare i corpi, e sentii lo stomaco che mi si rivoltava. Due giorni. Morti da due giorni, fatti fuori, senza che nessuno al mondo sapesse che se n'erano andati. Lo sguardo mi cadde sul corpo di un uomo accanto alla soglia del corridoio. Era alto, con un fisico troppo prestante per essere un Moroi. Dimitri doveva essersi accorto di chi stavo guardando. «Arthur Schoenberg» disse. Fissai la gola insanguinata di Arthur. «È morto» dissi, benché fosse del tutto ovvio. «Come può essere morto? Come ha potuto, uno Strigoi, uccidere Arthur Schoenberg?» Sembrava impossibile. Non si può uccidere una leggenda. Dimitri non rispose. Invece allungò la mano verso il basso e la strinse attorno alla mia, quella in cui tenevo il paletto. Indietreggiai. «E questo dove l'hai trovato?» chiese. Allentai la stretta e gli permisi di prendere il paletto. «Fuori. Per terra.» Sollevò il paletto studiandone la superficie, che brillava alla luce del sole. «Ha infranto le difese.» Ci volle un momento perché la mia mente frastornata riuscisse ad elaborare quelle parole. Poi ci arrivai. Le difese erano cerchi magici creati dai Moroi. Come i paletti, venivano generate utilizzando la magia di tutti e quattro gli elementi. Le difese erano in grado di bloccare gli Strigoi perché quella magia era piena di vita; qualcosa di cui gli Strigoi erano privi. Ma le difese si affievolivano rapidamente, e richiedevano molta cura. Gran parte dei Moroi non vi faceva ricorso, ma alcuni luoghi ne erano provvisti. Attorno alla St. Vladimir's Academy ce n'erano diverse.

Questo posto ne aveva una, che era stata infranta dal paletto. Le rispettive cariche magiche erano in contrasto tra loro; il paletto aveva avuto la meglio. «Gli Strigoi non possono toccare i paletti» dissi. Mi resi conto che continuavo a fare affermazioni piene di non e non si può. Non è facile vedere le proprie certezze messe in discussione. «E nessun Moroi o dhampir l'avrebbe fatto.» «Potrebbe essere stato un umano.» Lo guardai negli occhi. «Gli esseri umani non aiutano gli Strigoi...» M'interruppi. Rieccoci. Non. Non riuscivo a farne a meno, però. L'unica cosa su cui potevamo fare affidamento nella lotta contro gli Strigoi erano i loro limiti: la luce del sole, le difese magiche, i paletti eccetera. Noi utilizzavamo le loro debolezze rivolgendogliele contro. Se qualcuno -gli umani - avesse dato loro una mano e non fossero più stati condizionati da questi limiti... Dimitri aveva il viso teso: era ancora pronto a tutto. Ma quando mi guardò, mentre combattevo la mia battaglia mentale, in fondo ai suoi occhi scuri intravvidi un barlume di indulgenza. «Questo cambia tutto, non è vero?» chiesi. «Sì» disse. «Tutto.»

Dimitri fece una telefonata, e subito dopo arrivò sul posto una vera e propria squadra speciale. Ci impiegarono un paio d'ore, però, e ogni minuto trascorso ad aspettare sembrò durare un anno. Alla fine non seppi resistere, e tornai in auto. Dimitri esaminò più a fondo l'abitazione e poi venne a sedersi con me. Mentre aspettavamo nessuno di noi disse una parola. Nella mia mente continuavano a succedersi le immagini dell'orribile spettacolo dentro la casa. Mi sentivo sola e spaventata, e sperai che Dimitri mi stringesse a sé o mi confortasse in qualche modo. Ma poi mi rimproverai per averlo desiderato. Mi ripetei per la millesima volta che era il mio istruttore e che abbracciarmi non era compito suo; non importava in che situazione ci trovassimo. Inoltre, volevo essere forte. Non avevo bisogno di precipitarmi tra le braccia di un ragazzo ogni volta che le cose si mettevano male. Quando il primo gruppo di guardiani ci raggiunse, Dimitri aprì la portiera dell'auto e lanciò un'occhiata nella mia direzione. «Dovresti venire a vedere come si procede in questi casi.» A dirla tutta non avevo nessuna voglia di rivedere la casa, eppure lo seguii. Non conoscevo questi guardiani, Dimitri sì. Lui dava sempre l'impressione di conoscere tutti. Furono sorpresi di trovare sul posto un novizio, però nessuno si lamentò della mia presenza. Rimasi con loro mentre ispezionavano la casa. Non toccarono niente, ma si chinarono sui corpi e studiarono le macchie di sangue e le finestre infrante. A quanto pareva gli Strigoi non erano entrati solo dalla porta d'ingresso e dalla veranda. I guardiani parlavano in tono brusco, senza lasciar trapelare neanche un po' del disgusto e della paura che provavo io. Erano come macchine. Una di loro, l'unica donna del gruppo, si accovacciò

accanto al cadavere di Arthur Schoenberg. I guardiani donna erano molto rari, per questo mi incuriosiva. Avevo sentito Dimitri chiamarla Tamara, e sembrava che avesse più o meno venticinque anni. I capelli neri le sfioravano appena le spalle, fatto comune tra le donne guardiano. Mentre esaminava il volto del guardiano morto, un lampo di tristezza le attraversò gli occhi grigi. «Oh, Arthur» sospirò. Proprio come Dimitri, riusciva a trasmettere un'infinità di cose con poche semplici parole. «Non avrei mai immaginato di vedere un giorno simile. È stato il mio mentore.» Con un altro sospiro, Tamara si rialzò. Le era tornata un'espressione professionale, come se colui che l'aveva addestrata non si trovasse lì, riverso davanti a lei. Stentavo a crederci. Era stato il suo mentore. Come riusciva a controllarsi così? Per un attimo immaginai che fosse Dimitri, quello morto sul pavimento. No. Nei suoi panni non sarei riuscita a rimanere calma. Sarei andata su tutte le furie. Avrei urlato e scalciato. Avrei aggredito chiunque avesse cercato di dirmi che tutto sarebbe andato bene. Per fortuna non credevo che esistesse qualcuno in grado di far fuori Dimitri. L'avevo visto uccidere uno Strigoi senza battere ciglio. Era invincibile. Uno tosto. Un dio. Certo, anche Arthur Schoenberg lo era stato. «Come hanno fatto?» sbottai. Sei paia d'occhi si volsero a me. Mi aspettavo un'occhiataccia da parte di Dimitri a causa di questo mio scatto impulsivo, ma lui non parve notarlo. «Come sono riusciti a uccidere uno come lui?» Tamara scrollò appena le spalle, il viso ancora serafico. «Nello stesso modo in cui uccidono chiunque altro. Era mortale, come tutti noi.» «Sì, ma lui era... insomma, Arthur Schoenberg.» «Diccelo tu, Rose» disse Dimitri. «Hai visto la casa. Dicci tu come hanno fatto.» Mentre gli altri mi tenevano gli occhi puntati addosso capii d'improvviso che quel giorno avrei dovuto affrontare una prova, dopotutto. Pensai a ciò che avevo avuto modo di osservare e udire. Deglutii mentre cercavo di capire come l'impossibile fosse diventato possibile. «C'erano quattro punti d'accesso, il che vuol dire almeno quattro Strigoi. I Moroi erano sette...» La famiglia aveva ospiti, quella sera, e questo aveva portato a un massacro ancora più esteso. Tre delle vittime erano bambini. «... e i guardiani erano tre. Troppi morti. Quattro Strigoi non potevano ucciderne così tanti. Se fossero stati in sei probabilmente avrebbero potuto farcela occupandosi prima dei guardiani e cogliendoli alla sprovvista. Così la famiglia si sarebbe fatta prendere dal panico e non avrebbe potuto difendersi.» «E come hanno fatto a cogliere di sorpresa i guardiani?» mi incalzò Dimitri. Ebbi un attimo di esitazione. Di regola i guardiani non si facevano cogliere di sorpresa. «Perché le difese magiche erano state infrante. Di notte, in una tenuta sprovvista di difese, con ogni probabilità ci sarebbe stato un guardiano di ronda in cortile. Ma qui non era previsto.» Attesi l'ovvia domanda sul modo in cui erano state infrante le difese. Ma Dimitri non me la pose. Non ce ne fu bisogno. Tutti sapevamo. Ciascuno di noi aveva visto il paletto. Un brivido mi percorse di nuovo la schiena. Esseri umani che lavoravano con gli Strigoi, un folto gruppo di Strigoi. Dimitri si limitò ad annuire in segno di approvazione, e il gruppo proseguì con l'indagine. Quando arrivammo a uno dei bagni, feci per distogliere lo sguardo. Avevo già visitato quella stanza insieme a Dimitri, e non desideravo ripetere l'esperienza. Là dentro c'era un uomo morto, e il sangue rappreso si stagliava sulle piastrelle bianche in netto contrasto. Inoltre, considerato che si trovava nella parte più interna dell'edificio, la stanza non era fredda quanto la zona adiacente alla veranda, quindi il cadavere non poteva conservarsi. Non che puzzasse, ma non aveva neppure un buon odore. Ero sul punto di distogliere lo sguardo quando intravvidi qualcosa di rosso scuro - di marrone, in

realtà - sullo specchio. Non me n'ero accorta prima perché il resto della scena aveva assorbito la mia attenzione. Sullo specchio c'era una scritta, tracciata col sangue. Poveri, poveri Badica. Ne sono rimasti così pochi. Una delle casate reali è quasi scomparsa. Le altre faranno la stessa fine. Tamara sbuffò disgustata e si allontanò dallo specchio per esaminare altri particolari. Quando lasciammo la stanza, quelle parole continuarono a risuonarmi in mente. Una delle casate reali è quasi scomparsa. Le altre faranno la stessa fine. Era vero, il clan reale dei Badica era uno dei più esigui. Ma era inverosimile pensare che quelli uccisi lì dentro ne fossero gli ultimi rappresentanti. Con ogni probabilità rimanevano ancora all'incirca duecento Badica. Non erano numerosi quanto gli Ivashkov, tanto per dire, i quali erano tanti e sparsi un po' ovunque. Però i Badica erano molti di più rispetto ad altre casate reali. Come i Dragomir. Lissa era l'unica rimasta. Se gli Strigoi avevano intenzione di sterminare le casate reali, non c'era opportunità migliore che dare la caccia a lei. Il sangue dei Moroi rendeva gli Strigoi più forti, quindi si capiva bene perché lo desiderassero tanto. Scegliere come prede proprio le famiglie reali doveva rientrare nella loro natura crudele e sadica, tutto qui. Era paradossale che gli Strigoi volessero distruggere la società Moroi, visto che molti di loro un tempo ne avevano fatto parte. Lo specchio e il suo avvertimento mi tormentarono per tutto il tempo che rimasi in quella casa, e piano piano mi resi conto che la paura e lo shock che provavo si stavano trasformando in rabbia. Come avevano potuto? Come poteva una creatura essere così perversa e malvagia da fare una cosa del genere a una famiglia e da voler eliminare un'intera discendenza di sangue? Come poteva una creatura agire così, quando un tempo era stata come me e Lissa? Pensare a Lissa - pensare che gli Strigoi volessero eliminare anche la sua casata - risvegliò in me una rabbia oscura. L'intensità di quell'emozione finì quasi per travolgermi. Si trattava di qualcosa di oscuro e malsano, che si espandeva e si faceva sempre più minaccioso. La nube di un temporale pronto a esplodere. D'improvviso avvertii la voglia di fare a pezzi qualunque Strigoi su cui fossi riuscita a mettere le mani. Quando alla fine salii in macchina per tornare alla St. Vladimir's con Dimitri, sbattei la portiera così forte che non si staccò solo per miracolo. Dimitri mi guardò con aria sorpresa. «Cosa c'è che non va?» «Stai scherzando?» esclamai, incredula. «Come fai a chiedermelo? C'eri anche tu. L'hai visto.» «Sì» disse lui. «Ma non ho intenzione di prendermela con la macchina.» Mi allacciai la cintura di sicurezza e lo guardai in cagnesco. «Li odio. Li odio tutti! Vorrei esserci stata. Li avrei sgozzati.» Stavo quasi urlando. Dimitri mi fissava con espressione calma, ma si capiva che era sorpreso da quel mio accesso d'ira. «Ne sei davvero convinta?» mi chiese. «Dopo aver visto di cosa sono capaci gli Strigoi, pensi che avresti potuto fare meglio di Art Schoenberg? Dopo aver visto cosa è riuscita a farti Natalie?» Non risposi. Mi ero azzuffata con la cugina di Lissa, Natalie, quando si era tramutata in Strigoi, poi Dimitri era arrivato e aveva deciso l'esito della battaglia. Malgrado fosse una Strigoi novella - e quindi debole e scoordinata - mi aveva scagliato da una parte all'altra della stanza. Chiusi gli occhi e trassi un profondo respiro. Tutto a un tratto mi sentii stupida. Avevo visto di cosa erano capaci gli Strigoi. Se mi fossi precipitata lì e avessi cercato di risolvere la situazione non avrei ottenuto altro che una morte repentina, tutto qui. Stavo diventando un guardiano tenace, ma

avevo ancora parecchio da imparare, e una ragazza di diciassette anni non sarebbe mai riuscita a spuntarla contro sei Strigoi. Aprii gli occhi. «Mi dispiace» dissi, ritrovando il controllo di me stessa. La rabbia che mi era esplosa dentro si dissolse. Non sapevo da dove provenisse. Sì, ero irascibile e spesso agivo d'impulso, ma in questo caso era stato eccessivo e spiacevole persino per me. Strano. «È tutto a posto» disse Dimitri. Allungò una mano e la tenne sulla mia per qualche istante. Poi la tolse e mise in moto l'auto. «È stata una giornata lunga. Per tutti.» Quando, verso mezzanotte, giungemmo alla St. Vladimir's Academy, tutti ormai sapevano del massacro. La giornata scolastica vampiresca era terminata da poco, ed erano più di ventiquattr'ore che non chiudevo occhio. Mi sentivo fiacca, avevo la mente annebbiata, e Dimitri mi ordinò di andare subito in camera mia e riposare un po'. Lui, ovviamente, sembrava vigile e pronto ad affrontare qualunque avversità. A volte non ero neppure sicura che dormisse. Si allontanò per raggiungere gli altri guardiani e discutere dell'attacco, e io gli promisi che sarei filata a letto. Invece, non appena si fu allontanato, andai in biblioteca. Avevo bisogno di vedere Lissa, e il legame mi diceva che si trovava là. Attorno a me era buio pesto e m'incamminai lungo il vialetto di pietra che, attraversando il cortile interno, conduceva dagli alloggi degli studenti all'edificio principale della scuola superiore. La neve ricopriva interamente l'erba, ma il vialetto era stato ben ripulito dal ghiaccio e dalla neve. Mi fece pensare alla tenuta dei Badica, triste e abbandonata. Il palazzo era grande e d'aspetto gotico, più adatto a un set cinematografico medioevale che a una scuola. Quell'aria di mistero e storia antica pervadeva anche gli ambienti interni: elaborate pareti di pietra e vecchi dipinti stridevano coi computer e le lampade al neon. La tecnologia moderna aveva ormai preso piede anche qui, ma non avrebbe mai avuto il sopravvento. Superati i tornelli elettronici all'ingresso della biblioteca, andai senza indugi verso un angolo in fondo alla sala, dove venivano custoditi i libri di geografia e le guide turistiche. Come previsto, trovai Lissa seduta sul pavimento, appoggiata contro uno scaffale. «Ehi» disse, alzando lo sguardo dal libro che teneva aperto su un ginocchio. Scostò dal viso qualche ciocca di capelli chiari. Il suo ragazzo, Christian, era disteso sul pavimento accanto a lei, la testa appoggiata sull'altro ginocchio. Mi salutò con un cenno del capo. Tenendo conto dell'ostilità che a volte scoppiava tra di noi, questo valeva quasi quanto un forte abbraccio, da parte sua. Nonostante il timido sorriso di Lissa, potevo percepire l'agitazione e il timore che provava; vibravano attraverso il legame. «L'hai saputo» dissi, mettendomi seduta a gambe incrociate. Il suo sorriso si spense, e il timore e il malessere mi giunsero più intensi. Mi piaceva il fatto che il nostro legame psichico mi aiutasse a proteggerla meglio, ma non avevo nessun bisogno che la mia inquietudine venisse amplificata. «È orrendo» disse con un fremito. Christian si spostò e intrecciò le proprie dita a quelle di lei. Le strinse la mano. Lei ricambiò la stretta. Quei due erano talmente innamorati e zuccherosi che, dopo essere stata vicino a loro, di solito mi veniva voglia di lavarmi i denti. In quel momento, a ogni modo, si stavano trattenendo, senza dubbio a causa della notizia del massacro. «Dicono... dicono che ci fossero sei o sette Strigoi. E che alcuni esseri umani li abbiano aiutati a infrangere le difese.» Appoggiai la testa contro uno scaffale dietro di me. Le notizie correvano quanto mai veloci. D'improvviso mi sentii frastornata. «È vero.» «Sul serio?» chiese Christian. «Pensavo che fossero solo paranoie.» «No...» mi resi conto che nessuno sapeva dove fossi stata quel giorno. «Io... c'ero.» Lissa sgranò gli occhi, e percepii lo shock affluire in me attraverso il legame. Persino Christian -

il prototipo del cinico - sembrava turbato. Se la situazione non fosse stata così terribile, sarei stata più che soddisfatta di coglierlo alla sprovvista. «Stai scherzando» disse con voce incerta. «Pensavo stessi passando la Qualificazione...» A Lissa le parole vennero meno. «In teoria» dissi. «Ma diciamo che mi sono trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il guardiano con cui avrei dovuto sostenere la prova viveva lì. Dimitri e io siamo entrati e...» Non riuscii a terminare la frase. Le immagini di sangue e morte che avevano invaso la casa dei Badica mi tornarono in mente. La preoccupazione attraversò sia il volto di Lissa che il nostro legame. «Stai bene, Rose?» mi chiese con dolcezza. Lissa era la mia migliore amica, ma non volevo che si rendesse conto di quanto l'intera faccenda mi avesse spaventato e sconvolto. Volevo dimostrarmi forte. «Bene» dissi a denti stretti. «Com'è stato?» chiese Christian. La curiosità traspariva dal tono di voce, ma si avvertiva anche un vago senso di colpa, come se sapesse che era sbagliato indagare su una cosa tanto tremenda. Eppure non riuscì a trattenersi dal chiedere. Era impulsivo, proprio come me. «È stato...» scossi la testa. «Non voglio parlarne.» Christian fece per protestare ma Lissa gli passò una mano tra i lisci capelli neri. Quel rimprovero gentile lo mise a tacere. Ci fu un momento di imbarazzo. Leggendo la mente di Lissa, percepii il suo disperato tentativo di trovare un nuovo argomento. «Dicono che questo manderà all'aria le visite natalizie» disse dopo un bel po'. «La zia di Christian verrà, ma per lo più gli altri preferiranno non viaggiare, e vorranno che i loro ragazzi rimangano qui, al sicuro. Avranno paura che questo gruppo di Strigoi possa spostarsi.» Non avevo pensato alle conseguenze di un simile assalto. Mancava poco più di una settimana a Natale. Di regola, in questo periodo dell'anno, molti Moroi si spostavano. Studenti che tornavano a casa dai genitori; genitori che venivano a soggiornare nel campus per far visita ai propri figli. «Questa faccenda terrà separate un sacco di famiglie» mormorai. «E manderà all'aria un sacco di rimpatriate reali» disse Christian. Non era rimasto serio a lungo; la sua aria sprezzante era tornata. «Si sa come si comportano durante questo periodo dell'anno, tutti a competere per chi dà la festa più grande. Non sapranno come fare.» Non era difficile da immaginare. La mia vita gravitava attorno ai combattimenti, ma di certo neppure i Moroi si facevano mancare i propri conflitti intestini, in particolare quando si trattava di nobili e reali. Combattevano le proprie battaglie a colpi di parole e di alleanze politiche, e in tutta onestà, io preferivo di gran lunga il metodo più diretto: colpire e prendersi a calci. In particolare Lissa e Christian navigavano in acque piuttosto agitate. Appartenevano entrambi a casate reali, perciò avevano tutti gli occhi puntati addosso, sia dentro che fuori dall'Accademia. La loro situazione era peggiore di quella in cui si trovava la maggioranza dei Moroi reali. La famiglia di Christian era segnata dalla macchia dei suoi genitori; erano diventati Strigoi di loro spontanea volontà, rinunciando ai propri poteri magici e alla propria moralità per tramutarsi in esseri immortali e vivere uccidendo gli altri. Adesso erano morti, ma ciò non impediva agli altri di non fidarsi di Christian. Sembravano convinti che potesse tramutarsi in uno Strigoi da un momento all'altro, trascinando con sé chiunque gli stesse accanto. E il suo sarcasmo, unito a quel suo macabro senso dell'umorismo, non era certo d'aiuto. L'attenzione nei confronti di Lissa dipendeva dal fatto che fosse l'unica sopravvissuta della sua casata. Nessun altro Moroi aveva nelle vene abbastanza sangue Dragomir per meritarsi quel nome.

Il suo futuro marito avrebbe dovuto possederne a sufficienza, da qualche parte nel suo albero genealogico, per garantire che i figli di Lissa fossero dei Dragomir; per ora essere l'unica la rendeva una specie di celebrità. A quel pensiero mi tornò in mente l'avvertimento scarabocchiato sullo specchio. La nausea riaffiorò; la rabbia oscura e la disperazione di prima si risvegliarono, ma le scacciai con una battuta. «Dovreste provare a risolvere i problemi alla nostra maniera. Una bella scazzottata ogni tanto potrebbe fare bene a dei reali come voi.» Lissa e Christian risero. Lui gettò un'occhiata in alto, verso di lei, con un sorrisetto furbo che mise in mostra i canini. «Che ne pensi? Scommetto che in uno scontro corpo a corpo riuscirei a metterti al tappeto.» «Ti piacerebbe» lo stuzzicò lei. Le sue inquietudini si placarono. «A dire il vero, sì» disse Christian sostenendo lo sguardo di lei. Nella sua voce c'era una nota sensuale, intensa, che diede il batticuore a Lissa. Avvertii un'ondata di gelosia. Lei e io eravamo sempre state migliori amiche. Ero in grado di leggerle la mente. Però ormai era un dato di fatto: Christian rappresentava una parte importante della sua vita, e aveva un ruolo che io non avrei mai potuto avere, proprio come lui non avrebbe potuto sovrapporsi al rapporto che esisteva tra lei e me. Benché non ci facesse piacere, in un certo senso entrambi accettavamo di spartirci le sue attenzioni, anche se a volte la tregua che osservavamo per il suo bene sembrava molto fragile. Lissa gli accarezzò la guancia. «Fai il bravo.» «Faccio il bravo» le disse lui con la voce ancora un po' roca. «A volte. A volte, però, non ti piace che...» Mi tirai in piedi con un lamento. «Dio. Meglio che vi lasci soli, adesso.» Lissa sbatté le palpebre e distolse gli occhi da Christian. D'un tratto aveva l'aria di sentirsi in imbarazzo. «Scusa» mormorò. Una vampa di un rosa languido le colorò le guance. Dato che era pallida come ogni altro Moroi, in qualche modo la cosa la fece sembrare più carina. Non che le servisse aiuto in merito. «Non c'è bisogno che tu...» «No, va bene così, sono distrutta» la rassicurai. Christian non parve troppo avvilito del fatto che me ne andassi. «Ci becchiamo domani.» Feci per allontanarmi, ma Lissa mi chiamò. «Rose? Sei... sei sicura di stare bene? Dopo tutto quello che è successo?» Guardai in quei suoi occhi verde giada. La sua apprensione era così vivida e profonda che mi fece male il petto. Potevo anche esserle intima come nessun altro al mondo, ma non volevo che stesse in pensiero per me. Il mio lavoro consisteva nel tenerla al sicuro. Lei non si sarebbe dovuta preoccupare di proteggere me, soprattutto se gli Strigoi avevano deciso all'improvviso di compilare una lista delle vittime reali più appetibili. Le rivolsi un ghigno sfacciato. «Sto bene. Non ho niente di cui preoccuparmi, a parte il fatto di riuscire a svignarmela prima che voi due iniziate a strapparvi i vestiti di dosso.» «Allora faresti meglio ad andartene adesso» disse Christian con ironia. Lei gli diede una gomitata, e io alzai gli occhi al cielo. «Buonanotte» dissi. Appena ebbi dato loro le spalle, il mio sorriso svanì. Tornai in camera mia col cuore pesante, sperando di non sognare i Badica.

Quando scesi di sotto in fretta e furia per andare all'allenamento prima delle lezioni, trovai l'ingresso in pieno fermento. Il trambusto non mi sorprese. Una buona nottata di sonno era riuscita a scacciare le immagini della sera prima, ma sapevo che né io né i miei compagni di classe avremmo dimenticato con facilità ciò che era successo nei pressi di Billings. Eppure, mentre osservavo i volti e i gruppetti degli altri novizi, notai un che di strano. Senza alcun dubbio, la paura e la tensione di ieri erano ancora nell'aria, ma c'era anche qualcosa di nuovo: fibrillazione. Un paio di ragazzi di prima stavano sprizzando gioia mentre parlottavano tra loro a bassa voce. Non lontano, un crocchio di ragazzi della mia età gesticolava in maniera incontrollata, con ghigni entusiastici sui volti. Dovevo essermi persa qualcosa, a meno che la giornata di ieri non fosse stata soltanto un sogno. Feci appello a ogni grammo del mio autocontrollo per impedirmi di andare a chiedere a qualcuno che cosa stesse succedendo. Se avessi perso tempo, sarei arrivata in ritardo all'allenamento. Però morivo dalla curiosità. Forse gli Strigoi e i loro umani erano già stati individuati e uccisi? Di certo sarebbe stata un'ottima notizia, ma qualcosa mi diceva che non si trattava di questo. Uscii spalancando la porta d'ingresso, e nel frattempo mi rammaricai di dover aspettare fino a colazione per scoprirlo. «Hath-away, fossi-in-te non-me-ne-andrei» disse una voce cantilenante. Mi lanciai un'occhiata alle spalle e sogghignai. Mason Ashford, novizio come me e mio caro amico, affrettò il passo e mi raggiunse. «Quanti anni hai, dodici?» chiesi, proseguendo in direzione della palestra. «Quasi» disse. «Il tuo bel faccino sorridente mi è mancato ieri. Dove sei stata?» A quanto pareva la notizia che fossi stata in casa dei Badica dopo il massacro non si era ancora diffusa. Non che fosse un segreto o roba del genere, ma non avevo intenzione di dilungarmi sui dettagli cruenti. «Avevo un allenamento con Dimitri.» «Dio» borbottò Mason. «Quel tizio non ti dà tregua. Non capisce che così ci priva della tua bella presenza e del tuo fascino?» «Faccino sorridente? Bella presenza e fascino? Stamattina hai deciso di buttarla sul lusinghiero, eh?» risi. «Ehi, dico solo come stanno le cose. Sul serio, sei fortunata ad avere uno gentile e brillante come me pronto a rivolgerti tutte queste attenzioni.» Continuai a sogghignare. Mason era un grandissimo cascamorto, e flirtare con me gli piaceva in modo particolare. In parte dipendeva dal fatto che anch'io ero piuttosto brava, e mi piaceva flirtare con lui a mia volta; però sapevo che i suoi sentimenti nei miei confronti andavano ben oltre l'amicizia, e dovevo ancora decidere come mi facesse sentire l'intera faccenda. Avevamo lo stesso, frivolo senso dell'umorismo e capitava di frequente che attirassimo su di noi l'attenzione degli altri, in classe e tra gli amici. Mason aveva dei magnifici occhi azzurri e capelli rossi spettinati che non volevano saperne di rimanere a posto. Era carino.

Tuttavia, cominciare una storia con qualcuno sarebbe stato piuttosto complicato, visto che continuavo a ripensare a quando mi ero ritrovata mezza nuda a letto con Dimitri. «Gentile e brillante, eh?» scossi la testa. «Ho l'impressione che tu non mi stia dedicando la stessa quantità di attenzioni che dedichi al tuo ego. C'è bisogno che qualcuno ti dia una regolata.» «Ah, sì?» chiese. «Be', allora dovrai fare del tuo meglio sulle piste da sci.» Smisi di camminare. «Le piste da sci?» Piegò la testa di lato. «Durante la gita sulla neve, hai presente?» «Quale gita sulla neve?» Era chiaro che mi fossi persa qualcosa di molto importante. «Ma stamattina dov'eri?» chiese guardandomi come se fossi pazza. «A letto! Mi sono alzata tipo cinque minuti fa. Quindi comincia dall'inizio e dimmi di cosa parli.» Rabbrividii per il freddo. «Ma continuiamo a camminare.» Ci avviammo. «Dunque, sai che tutti hanno paura che i propri figli tornino a casa per Natale, no? Bene, in Idaho c'è questo gigantesco rifugio usato solo da reali e Moroi facoltosi. I proprietari l'hanno messo a disposizione degli studenti dell'Accademia e delle loro famiglie, e in realtà di qualunque altro Moroi che abbia voglia di andarci. Riunendo tutti in un unico luogo, ci saranno un mucchio di guardiani a difesa del posto, e così saremo al sicuro.» «Mi prendi in giro» dissi. Raggiungemmo la palestra ed entrammo al caldo. Mason annuì con forza. «È la verità. Pare che il posto sia magnifico.» Mi rivolse quel ghigno che riusciva sempre a farmi sorridere. «Staremo come re, Rose. Almeno per una settimana. Si parte il giorno dopo Natale.» Rimasi lì, eccitata e stordita. Non me l'aspettavo. Era davvero un'idea brillante, che avrebbe permesso alle famiglie di riunirsi senza correre rischi. E che posto per ritrovarsi! Un rifugio da reali. Mi ero immaginata di dover trascorrere gran parte delle vacanze di Natale a poltrire qui in Accademia, guardando la tivù con Lissa e Christian. E invece me la sarei spassata in una sistemazione a cinque stelle. Cene a base di aragosta. Massaggi. Maestri di sci carini... L'entusiasmo di Mason era contagioso. Lo sentii crescere dentro di me, ma poi, d'improvviso, venne meno. Scrutandomi in volto, Mason si accorse subito del cambiamento. «Cosa c'è che non va? È favoloso.» «Sì» ammisi. «E posso anche capire perché siano tutti così su di giri; ma il motivo per cui andiamo in questo posto incredibile è, be'... che qualcuno è morto. L'intera faccenda non ti pare un po' assurda?» La felicità sul volto di Mason si smorzò. «Già, ma noi siamo vivi, Rose. Non possiamo smettere di vivere perché alcune persone sono morte. E dobbiamo fare in modo che non ne muoiano altre. Ecco perché questo posto è un'idea grandiosa. È sicuro.» Gli si infiammò lo sguardo. «Dio, non vedo l'ora di lavorare sul campo. Dopo aver sentito parlare di ciò che è successo, ho soltanto voglia di fare a pezzi qualche Strigoi. Vorrei che potessimo iniziare in questo momento, capisci? Cosa ce lo impedisce? Dei rinforzi potrebbero far comodo, e noi sappiamo già tutto quello che ci serve, più o meno.» La ferocia nella sua voce mi ricordò il mio scatto d'ira del giorno prima, anche se lui non era scosso quanto lo ero stata io. La sua smania di passare all'azione era incontenibile e ingenua, mentre la mia derivava da una sorta di irrazionalità oscura che ancora stentavo a comprendere. Siccome non gli rispondevo, Mason mi lanciò un'occhiata interrogativa. «Tu non vorresti?» «Non so, Mase.» Abbassai lo sguardo e mi studiai la punta delle scarpe per evitare i suoi occhi.

«Voglio dire, non mi piace l'idea che ci siano degli Strigoi là fuori, e neppure che attacchino qualcuno. In teoria vorrei fermarli... però, be', siamo ben lontani dall'essere pronti. Ho visto cosa sono in grado di fare... e non saprei. Agire in modo avventato non è la soluzione.» Scossi la testa e risollevai lo sguardo. Oddio. Avevo parlato in modo così razionale e prudente! Avevo parlato come Dimitri. «Comunque non ha importanza, visto che non faremo niente del genere. Dovremmo solo rallegrarci della vacanza, suppongo. No?» Mason sapeva cambiare d'umore molto in fretta, e infatti tornò allegro. «Già. E ti conviene ricordarti come si fa a sciare, perché ti toccherà dare una lezione al mio ego. Anche se non credo che ci riuscirai.» Sorrisi di nuovo. «Ragazzo mio, quanto sarà triste farti piangere. Quasi mi sento già in colpa.» Schiuse la bocca, senza dubbio per rispondermi a tono, ma poi si accorse di qualcosa - o meglio, di qualcuno - alle mie spalle. Diedi un'occhiata e vidi l'imponente sagoma di Dimitri avvicinarsi dal lato opposto della palestra. Mason fece un inchino galante. «Il tuo signore e padrone. Ci becchiamo dopo, Hathaway. Comincia a pianificare le tue strategie sciistiche.» Aprì la porta e scomparve nel buio gelido. Mi voltai e raggiunsi Dimitri. Come gli altri novizi dhampir, trascorrevo metà delle mie ore di lezione impegnata in questo o in quell'addestramento specifico per guardiani, che si trattasse di combattimento vero e proprio oppure di imparare ciò che c'era da sapere sugli Strigoi e su come difendersi da loro. A volte i novizi si allenavano anche dopo le lezioni. Io, a ogni modo, ero un caso a parte. Ero ancora convinta che la decisione di scappare dalla St. Vladimir's fosse stata quella giusta. Victor Dashkov si era rivelato un pericolo troppo grande per Lissa. Ma la nostra assenza prolungata non era stata priva di conseguenze. Visto che ero stata via per due anni, ero rimasta indietro col programma per gli aspiranti guardiani e così la direzione scolastica aveva stabilito che dovessi recuperare con sessioni supplementari di allenamento prima e dopo le lezioni. Insieme a Dimitri. Ciò di cui la direzione non si rendeva conto, era che così mi stavano impartendo lezioni anche su come resistere alle tentazioni. Al di là della mia attrazione per Dimitri, però, imparavo in fretta, e con il suo aiuto mi ero quasi messa al passo con gli altri studenti dell'ultimo anno. Siccome non indossava un giaccone, capii che quel giorno avremmo lavorato all'interno. Ottima notizia. Fuori si gelava. Ma più di questo mi rallegrò quello che Dimitri aveva preparato per me in una delle sale della palestra. Appoggiati contro la parete più lontana c'erano dei manichini, manichini dalle sembianze tremendamente reali. Altro che sacchi di tela imbottiti di paglia. C'erano uomini e donne con indosso abiti comuni, la pelle di gomma e i capelli e gli occhi di colori diversi. Le espressioni sui loro volti andavano dalla felicità, allo spavento, alla rabbia. Mi ero già esercitata con questo tipo di manichini, li avevo colpiti con pugni e calci durante altri allenamenti. Ma non li avevo mai utilizzati insieme a ciò che Dimitri teneva in mano: un paletto d'argento. «Favoloso» sussurrai. Era identico a quello che avevo trovato a casa dei Badica. In fondo aveva un manico, una sorta di elsa senza bracci laterali. E lì finivano le somiglianze con un pugnale. Al posto di una lama piatta, il paletto aveva un corpo spesso e arrotondato che a un certo punto si assottigliava, quasi come un punteruolo da ghiaccio. Il tutto non arrivava a misurare quanto il mio avambraccio. Dimitri si poggiò con naturalezza al muro, in quella posa disinvolta che gli riusciva sempre benissimo nonostante fosse alto più di due metri. Lanciò in aria il paletto, che piroettò un paio di volte e tornò giù. Dimitri lo afferrò per il manico.

«Per favore, dimmi che oggi mi insegnerai a fare lo stesso» dissi. Un guizzo di divertimento brillò nei suoi occhi scuri. Credo che a volte gli costasse molta fatica rimanere impassibile con me intorno. «Sarai fortunata se oggi te lo lascerò toccare» disse. Lanciò di nuovo in aria il paletto. I miei occhi lo seguirono bramosi. Feci per dire che ne avevo già preso uno, ma sapevo che non avei ottenuto un granché con quel tipo di osservazione. Così gettai lo zaino sul pavimento, mi liberai del giaccone e incrociai le braccia, impaziente. Indossavo un paio di pantaloni larghi con laccio in vita e un top smanicato col cappuccio. Portavo i capelli legati stretti in una coda di cavallo. Ero pronta a tutto. «Vuoi che ti parli di come si deve agire e del perché dovrei essere prudente con loro» dichiarai. Dimitri smise di lanciare in aria il paletto e mi fissò stupito. «Avanti» risi. «Pensi che ormai non sappia come lavori? Sono quasi tre mesi che facciamo così. Mi chiedi sempre di parlare di sicurezza e prudenza prima di lasciarmi fare qualcosa di divertente.» «Capisco» disse lui. «Bene, immagino che ormai ti sia tutto chiaro. Allora va' pure avanti, prosegui con la lezione. Io me ne starò qui ad aspettare finché non avrai bisogno di me.» Ripose il paletto in un fodero di pelle che teneva appeso alla cintura e si appoggiò più comodamente al muro, le mani in tasca. Restai in attesa, pensando che si trattasse di uno scherzo, ma visto che non aggiungeva altro capii che faceva sul serio. Con un'alzata di spalle, presi a sciorinare le mie conoscenze. «L'argento ha un effetto portentoso su qualunque creatura magica: sa fare del bene ma può anche ferire, se si impiega la forza necessaria. I paletti sono roba seria perché per crearli sono necessari quattro Moroi, che durante la forgiatura si servono di tutti gli elementi.» Mi accigliai, perché d'improvviso mi resi conto di una cosa. «Be', tutti a eccezione dello spirito. Questi affari possiedono una potentissima carica magica e sono pressappoco l'unico modo, se si esclude la decapitazione, per fare del male agli Strigoi; se si vuole ucciderli, però, si deve trapassare il cuore.» «Possono fare del male anche te?» Scossi la testa. «No. Voglio dire, se me ne pianti uno nel cuore sì, però non quanto ne farebbero a un Moroi. Per loro un solo graffio può essere parecchio doloroso, e peggio ancora per uno Strigoi. Ma non possono fare del male agli umani.» Feci una pausa, e fissai sovrappensiero la finestra alle spalle di Dimitri. La brina ricopriva il vetro di arabeschi luccicanti, cristallini, che però guardai con distrazione. L'aver parlato di esseri umani e paletti mi aveva riportato alla casa dei Badica. Sangue e morte riaffiorarono alla mente. Alla vista di Dimitri che mi guardava, scacciai i ricordi e proseguii con la lezione. Di tanto in tanto lui annuiva o mi chiedeva delucidazioni. Non smisi di sperare che mi dicesse che bastava così, e che potevo iniziare a colpire i manichini. Invece attese che mancassero dieci minuti al termine dell'allenamento per lasciarmi avvicinare a uno di essi: un uomo coi capelli biondi e il pizzetto. Dimitri estrasse il paletto dal fodero, ma non me lo porse. «Dove hai intenzione di piantarlo?» «Nel cuore» risposi seccata. «Te l'ho già ripetuto un centinaio di volte. Adesso me lo dai?» Si lasciò scappare un mezzo sorriso. «Dove si trova il cuore?» Gli scoccai un'occhiataccia del tipo dici-sul-serio? Lui scrollò appena le spalle. Con enfasi teatrale indicai il lato sinistro del petto del manichino. Dimitri scosse la testa. «Il cuore non si trova lì» disse. «Invece sì. La gente mette la mano sul cuore quando giura fedeltà alla bandiera o canta l'inno

nazionale.» Continuò a fissarmi, in attesa. Rivolsi nuovamente lo sguardo al manichino e lo esaminai. Mi tornò alla mente il lontano ricordo di quando ci avevano insegnato la rianimazione cardiopolmonare, e su dove ci avessero detto di posare le mani. Diedi un colpetto al centro della cassa toracica del manichino. «Qui?» Dimitri inarcò un sopracciglio. Di solito mi pareva cool. Ora lo trovavo solo irritante. «Non lo so» disse. «Si trova lì?» «È quello che ti sto chiedendo io!» «Non dovresti chiedermelo. Fate un corso di fisiologia, no?» «Sì, ma al terzo anno. Ero in vacanza, ricordi?» Indicai il paletto luccicante. «Adesso potresti darmelo, per piacere?» Dimitri lanciò di nuovo in aria il paletto, che risplendette alla luce, poi lo fece sparire nel fodero. «Quando ci rivedremo voglio che tu mi dica dov'è il cuore. Dov'è di preciso. E voglio anche sapere come ci si arriva.» Gli rivolsi il mio sguardo più truce, che però - a giudicare dalla sua espressione - non doveva essere stato poi così truce. Nove volte su dieci pensavo che Dimitri fosse la creatura più sexy della terra. Capitava, però, che ci fossero volte come questa... Mi avviai di cattivo umore alla lezione di lotta della prima ora. Non mi piaceva fare la figura dell'ignorante con Dimitri, e avrei tanto, tanto voluto usare uno di quei paletti. Così riversai tutta la mia rabbia su chiunque potessi prendere a calci o pugni. Alla fine dell'ora di lotta nessuno voleva più allenarsi con me. Per sbaglio, avevo colpito Meredith -una delle poche altre ragazze nel corso così forte che aveva sentito la botta attraverso i parastinchi imbottiti. Di sicuro le sarebbe venuto un brutto livido, e non la smetteva di guardarmi come se l'avessi fatto di proposito. Mi scusai senza risultati. Più tardi, Mason riuscì a scovarmi di nuovo. «Ehi» disse, scrutandomi in viso. «Chi ti ha fatto incazzare?» Mi lanciai a capofitto in una storia di paletti d'argento e ferite al cuore. Con mio grande fastidio lui scoppiò a ridere. «Com'è possibile che tu non sappia dove si trova il cuore? Soprattutto tenendo conto di quanti ne hai infranti?» Gli rivolsi lo stesso sguardo truce che avevo destinato a Dimitri. Questa volta funzionò. Mason impallidì. «Belikov è un uomo perverso, malefico. Per come si è comportato con te questa mattina dovrebbero gettarlo in una fossa stracolma di vipere idrofobe.» «Grazie» dissi con freddezza. Ma poi ci pensai su. «Le vipere possono avere la rabbia?» «Non vedo perché no. Tutto può essere. Penso.» Mi tenne aperta la porta del corridoio. «Le oche canadesi possono essere peggio delle vipere, comunque.» Lo guardai di traverso. «Le oche canadesi sono più letali delle vipere?» «Hai mai provato a dar da mangiare a quelle piccole bastarde?» chiese cercando di rimanere serio, ma con scarsi risultati. «Sono maligne. Se ti gettano tra le vipere muori di morte rapida. Ma con le oche? Potrebbero volerci dei mesi. Molte più sofferenze.» «Wow. Non so se sono più stupita o spaventata di sentire che ti sono venute in mente queste cose» notai. «Sto solo cercando dei metodi creativi per vendicare il tuo onore, tutto qui.»

«Non mi dai proprio l'impressione di essere un tipo creativo, Mase.» Eravamo fuori dall'aula dove si teneva la lezione della seconda ora. Mason aveva ancora sul viso un'espressione allegra e scherzosa, ma quando tornò a parlare nella sua voce c'era una nota allusiva. «Rose, quando sono con te mi vengono in mente tutta una serie di cose creative da fare.» Stavo ancora ridacchiando per via delle vipere e m'interruppi di colpo, fissandolo sbalordita. Avevo sempre pensato che Mason fosse carino, ma al vederlo con quello sguardo serio, tenebroso, l'idea che fosse piuttosto sexy fece per la prima volta capolino nella mia mente. «Ma guarda un po'» rise lui, accorgendosi di quanto mi avesse preso alla sprovvista. «E così Rose resta senza parole: Ashford 1, Hathaway 0.» «Ehi, non voglio farti piangere prima della gita. Se ti faccio a pezzi ancora prima di arrivare sulle piste, non sarà affatto divertente.» Scoppiò a ridere, ed entrammo in classe. Era una lezione di teoria del guardaspalle, e si svolgeva in un'aula vera e propria, invece che sul campo. Era un intermezzo piacevole in tutto quello sforzo fisico. Oggi, alla cattedra, c'erano tre guardiani che non facevano parte del gruppo della scuola. Ospiti in visita per le vacanze, dedussi. Al campus iniziavano già ad arrivare i primi genitori, che sarebbero ripartiti per il rifugio sciistico coi propri figli. La cosa accese subito la mia curiosità. Uno degli ospiti era un tizio alto, che pur dimostrando all'incirca cent'anni pareva in grado di suonarle di santa ragione anche ai più tosti. L'altro aveva più o meno l'età di Dimitri. Era molto abbronzato, e visto quanto era messo bene, sembrava che un paio delle ragazze presenti in aula fossero già sul punto di svenire. L'ultimo guardiano era una donna. Aveva i capelli ramati, corti e ricci, e gli occhi castani, dallo sguardo assorto. Come ho già avuto modo di dire, parecchie donne dhampir scelgono di avere figli anziché intraprendere la carriera di guardiano. Siccome ero una delle poche donne del mestiere, mi entusiasmava l'idea di conoscerne altre. Come Tamara. Solo che non si trattava di Tamara. Si trattava di qualcuno che conoscevo da anni, qualcuno che emanava fierezza ed entusiasmo. Per cui io provavo rancore, però. Rancore, rabbia e sdegno bruciante. La donna in piedi di fronte alla classe era mia madre.

Stentavo a crederci. Janine Hathaway. Mia madre. La mia genitrice assurdamente famosa e incredibilmente assente. Non era Arthur Schoenberg, ma godeva comunque di una fama straordinaria nel mondo dei guardiani. Erano anni che non la vedevo, perché era sempre lontana, impegnata in qualche folle missione. Eppure... in quel preciso istante si trovava all'Accademia - proprio di fronte a me - e non si era nemmeno presa il disturbo di farmi sapere che sarebbe arrivata. Quanto amore materno. E comunque, che diamine ci faceva lì? La risposta non si fece attendere. Ciascuno dei Moroi in visita al campus aveva i propri guardiani al seguito. Mia madre proteggeva un nobile del clan dei

Szelsky, e diversi membri di quella casata erano arrivati in occasione delle vacanze. Doveva essere venuta insieme a lui, era ovvio. Scivolai al mio posto e mi sentii avvizzire dentro. Avrebbe dovuto vedermi mentre entravo, non c'erano dubbi, ma la sua attenzione era altrove. Indossava un paio di jeans e una T-shirt beige, e a completare il tutto una banalissima giacca di jeans. Essendo alta un metro e cinquanta, gli altri guardiani la sovrastavano, eppure aveva una presenza e un modo di stare diritta che la facevano sembrare più alta. Stan, il nostro insegnante, ci presentò gli ospiti e ci spiegò che avrebbero condiviso con noi alcune delle proprie esperienze. Camminò su e giù per l'aula, le sopracciglia cespugliose aggrottate. «So che è strano» spiegò. «I guardiani in visita di solito non hanno tempo per le nostre lezioni. Alla luce degli avvenimenti più recenti, però, i nostri tre ospiti hanno fatto in modo di essere qui oggi per parlarvi.» S'interruppe per un istante, e non ci fu bisogno che qualcuno spiegasse a cosa alludeva. L'attacco ai Badica. Si schiarì la voce e proseguì. «Alla luce di quanto è accaduto, abbiamo ritenuto opportuno che cominciaste a imparare da chi lavora sul campo.» La classe s'irrigidì per l'emozione. Ascoltare dei racconti - in particolare se zeppi di sangue e azione - era molto più interessante che analizzare teorie da un libro di testo. A quanto pareva, anche altri guardiani del campus la pensavano allo stesso modo. Capitava spesso che assistessero alle nostre lezioni, ma quel giorno erano in numero maggiore rispetto al solito. Dimitri era con loro, in fondo all'aula. Iniziò il vecchio. Si lanciò a capofitto nel racconto, e io mi lasciai incantare. Narrò di quella volta in cui il figlio minore della famiglia che sorvegliava si era allontanato in un luogo pubblico, dove c'erano alcuni Strigoi in agguato. «Il sole stava per tramontare» disse con voce ro-ca. Descrisse con la mano una curva che scendeva verso il basso, come per mostrarci la traiettoria di un tramonto. «Eravamo soltanto in due, e dovemmo decidere lì per lì come procedere.» Mi sporsi avanti, i gomiti appoggiati sul banco. I guardiani lavoravano sempre in coppia. Uno - il guardiano prossimo - di regola rimaneva vicino alla persona da sorvegliare, mentre l'altro - il guardiano lontano - perlustrava i paraggi. Di solito il guardiano lontano si teneva in contatto visivo, quindi mi fu facile capire quale fosse il dilemma da risolvere in questo caso. Riflettendoci arrivai alla conclusione che se mi fossi trovata in quella situazione avrei fatto in modo che il guardiano prossimo portasse il resto della famiglia in un luogo sicuro e, nel frattempo, l'altro si mettesse alla ricerca del ragazzino. «Decidemmo di far rimanere la famiglia in un ristorante col mio collega mentre io setacciavo la zona» proseguì il vecchio guardiano. Allargò le braccia e spinse le mani all'infuori. Mi compiacqui per aver fatto la scelta giusta. La storia ebbe un lieto fine, col ragazzino ritrovato e nessun incontro con gli Strigoi. L'aneddoto del secondo guardiano riguardava la sua vittoria su uno Strigoi che dava la caccia a certi Moroi. «In teoria non ero neppure in servizio» disse. Era quello molto carino, e la ragazza seduta accanto a me lo fissava con gli occhi spalancati, adorante. «Ero andato a trovare un amico e la famiglia che sorvegliava. Mentre lasciavo il loro appartamento, ho avvistato uno Strigoi appostato nell'ombra. Non si aspettava di trovare un guardiano lì fuori. Feci il giro dell'isolato, gli arrivai alle spalle, e...» L'uomo mimò un colpo di paletto, con una mimica assai più teatrale rispetto al semplice gesticolare del vecchio. Imitò perfino l'atto di rigirare il paletto nel cuore dello Strigoi. E poi toccò a mia madre. Prima ancora che avesse detto una parola, un'espressione torva si disegnò sul mio viso e si fece più marcata con l'inizio del racconto. Giuro, se l'avessi creduta capace di una tale immaginazione - e le sue scelte banali in fatto di abbigliamento confermavano che era

realmente priva di immaginazione - avrei pensato che si stesse inventando tutto. Era più di un aneddoto. Era un racconto epico, quel genere di storie che diventano film e vincono gli Oscar. Ci disse di come il suo sorvegliato, lord Szelsky, e sua moglie avessero preso parte a un ballo indetto da un'altra insigne famiglia reale. Alcuni Strigoi erano là, pronti ad approfittarne. Mia madre ne scoprì uno, lo trafisse con prontezza e allertò gli altri guardiani presenti. Con il loro aiuto inseguì gli altri Strigoi che si aggiravano nei dintorni e li ammazzò quasi tutti. «Non fu un gioco da ragazzi» spiegò. Detto da chiunque altro sarebbe parsa una sbruffonata. Da lei, no. C'era una tale concitazione nel modo in cui parlava, una maniera così efficace di esporre i fatti da non lasciare spazio al vanto. Era cresciuta a Glasgow e certe sue parole conservavano ancora una cadenza scozzese. «Nei paraggi ce n'erano altri tre. All'epoca, tre Strigoi che lavoravano insieme erano considerati un gruppo insolitamente numeroso. Ora non è più così, tenendo conto del massacro dei Badica.» Qualcuno trasalì per la disinvoltura con cui aveva accennato all'attacco. Per l'ennesima volta rividi i cadaveri. «Dovevamo uccidere gli Strigoi restanti nella maniera più rapida e silenziosa possibile, così da non dare nell'occhio. Ora, se si dispone del fattore sorpresa, il modo migliore di affrontare gli Strigoi è aggirarli per sorprenderli alle spalle, spezzare loro il collo e trafiggerli con un paletto. Spezzare loro il collo, come ben sapete, non significa ucciderli ma tramortirli, in modo da trafiggerli prima che possano fare rumore. Considerato quant'è acuto il loro udito, l'aspetto più complicato, in realtà, è avvicinarsi di soppiatto. Ma siccome sono più minuta e leggera rispetto alla maggior parte dei guardiani, riesco a muovermi piuttosto silenziosamente. Così, alla fine sono stata io a compiere due delle tre uccisioni.» Usò di nuovo quel tono pragmatico quando parlò della sua maestria nell'essere furtiva. Era irritante, più di quanto lo sarebbe stata se si fosse data apertamente delle arie. I volti dei miei compagni di classe rilucevano di meraviglia; era chiaro che fossero più interessati all'idea di spezzare il collo a qualche Strigoi che non ad analizzare le capacità narrative di mia madre. Lei proseguì col racconto. Dopo aver eliminato gli Strigoi che rimanevano, i guardiani avevano scoperto che due Moroi erano stati portati via dalla festa. Non era un fatto insolito per gli Strigoi. A volte si conservavano qualche Moroi per uno "spuntino"; altre volte, invece, gli Strigoi di basso rango venivano mandati da altri più potenti per procacciare loro alcune prede. A ogni modo, due Moroi erano scomparsi dal ballo, e i loro guardiani erano stati feriti. «Era ovvio che non potevamo lasciare quei Moroi nelle grinfie degli Strigoi» disse mia madre. «Ci mettemmo sulle loro tracce e raggiungemmo il loro nascondiglio. Ne trovammo alcuni che vivevano insieme. Sono certa che vi rendete conto di quanto questo sia raro.» In effetti lo sapevamo. La natura maligna ed egoista degli Strigoi li portava ad aggredirsi l'un l'altro con la medesima facilità con cui aggredivano le proprie vittime. Organizzarsi per gli attacchi - quando avevano in mente un obiettivo immediato e sanguinoso - era quanto di meglio riuscissero a fare. Ma vivere insieme? No. Era quasi impossibile da immaginare. «Liberammo i due prigionieri, salvo poi scoprire che ne erano stati catturati altri» disse mia madre. «Però non potevamo lasciare che i Moroi liberati tornassero da soli, e così i guardiani che erano con me li scortarono lasciando che fossi io a occuparmi degli altri.» Sì, come no, pensai. Mia madre era entrata coraggiosamente da sola. Durante l'impresa era stata catturata ma era riuscita a scappare e salvare i prigionieri. Nel frattempo, uccidendo gli Strigoi in ciascuno dei tre modi, aveva messo a segno quella che doveva essere la tripletta del secolo: infilzare, decapitare e dare alle fiamme. «Avevo appena infilzato uno Strigoi con un paletto quando venni attaccata da altri due» spiegò. «Non avevo ancora estratto il paletto che si avventarono su di me. Per mia fortuna, nelle vicinanze c'era un caminetto acceso, e così ci spinsi dentro uno degli Strigoi. L'ultima m'inseguì all'esterno, fino a una vecchia baracca. All'interno c'era un'ascia e la usai per staccarle la testa. Poi presi una tanica di benzina e tornai in casa. Lo Strigoi che avevo gettato nel caminetto non era bruciato del

tutto, ma una volta che l'ebbi cosparso di benzina, si consumò molto in fretta.» L'aula era sgomenta. Le bocche spalancate. Gli occhi sgranati. Non si sentiva volare una mosca. Guardandomi attorno, ebbi l'impressione che il tempo si fosse fermato per tutti tranne che per me. Era come se fossi l'unica a non essere impressionata da quel racconto agghiacciante, e scorgere la soggezione sui visi degli altri mi mandò su tutte le furie. Alla fine, una decina di mani schizzarono in aria e la classe la tempestò di domande: di quali tecniche si era servita, se aveva avuto paura, eccetera. Dopo una decina di domande, ne ebbi abbastanza. Alzai la mano. Ci mise un po' per accorgersene e mi invitò a parlare. Sembrò leggermente stupita di trovarmi in classe. Mi parve una fortuna che mi avesse addirittura riconosciuta. «Quindi, guardiano Hathaway» iniziai. «Perché non vi siete limitati a mettere in sicurezza il posto?» Mia madre aggrottò le sopracciglia. Sospetto che si fosse messa sulla difensiva nell'istante in cui mi aveva dato la parola. «Cosa intendi?» Scrollai le spalle e mi appoggiai allo schienale della sedia, cercando di assumere un'aria disinvolta e rilassata. «Non lo so. Mi sembra che abbiate incasinato tutto. Per prima cosa, perché non avete perlustrato il sito per assicurarvi che fosse libero dagli Strigoi? A quanto pare avreste potuto evitarvi un sacco di rogne.» Tutti gli occhi in aula si voltarono verso di me. Per un attimo mia madre fu a corto di parole. «Se avessimo voluto evitare tutte quelle "rogne", adesso ci sarebbero sette Strigoi in più al mondo, e a quest'ora i Moroi catturati sarebbero morti o tramutati.» «Sì, sì, ho capito che avete risolto una situazione disperata e tutto il resto, ma io sto cercando di risalire alle cause. Voglio dire, questo è un corso di teoria, no?» Lanciai un'occhiata a Stan, che mi fissava con sguardo battagliero. Lui e io avevamo una lunga e spiacevole storia di battibecchi in classe, e sospettai che fossimo alle soglie dell'ennesima lite. «Quindi voglio solo capire cos'è andato storto all'inizio.» Dovetti darle atto di una cosa: in confronto a me, mia madre aveva molto più autocontrollo. Se fossi stata in lei, arrivate a questo punto mi sarei già presa a schiaffi. La sua espressione invece rimase serafica, e l'unico segnale del fatto che la stessi facendo incazzare fu un leggero serrarsi di labbra. «Non è così semplice» rispose. «Il luogo che accoglieva il ballo aveva una struttura interna assai complessa. All'inizio lo abbiamo perlustrato e non abbiamo trovato niente. Gli Strigoi devono essere penetrati solo dopo l'inizio della festa, o forse c'erano stanze e passaggi segreti di cui non eravamo a conoscenza.» Al pensiero di possibili passaggi segreti la classe proruppe in una serie di "oohh" e "aahh", ma io non mi lasciai impressionare. «Quindi ci sta dicendo che non li avevate stanati durante la prima ispezione, oppure che sono riusciti a fare breccia nel sistema di sicurezza che avevate predisposto per il ballo. Sembra che in entrambi i casi qualcuno abbia commesso degli errori.» Le sue labbra si strinsero ancora di più, e la sua voce diventò gelida. «Abbiamo fatto del nostro meglio in una situazione inusuale. Capisco che qualcuno con la tua preparazione non sia in grado di comprendere la complessità di ciò che sto descrivendo, ma quando avrai imparato quanto basta per andare oltre la teoria, allora potrai anche capire quanto le cose cambino nel momento in cui ci si trova là fuori, e quando si hanno delle vite nelle proprie mani.» «Senza dubbio» concordai. «Chi sono io per dubitare dei suoi metodi? Cioè, qualunque cosa pur di guadagnarsi qualche molnija, giusto?»

«Rose Hathaway.» La voce profonda di Stan rimbombò nell'aula. «Per favore, raccogli le tue cose e aspetta fuori fino alla fine della lezione.» Lo fissai esterrefatta. «Dice sul serio? Da quand'è che fare domande è sbagliato?» «È il tuo atteggiamento a essere sbagliato.» Indicò la porta. «Vai.» Sui presenti calò un silenzio ancora più pesante e più intenso di quello che aveva pervaso l'aula mentre mia madre raccontava la sua storia. Feci del mio meglio per non farmi troppo piccola sotto gli sguardi dei guardiani e dei novizi. Non era la prima volta che venivo cacciata da una lezione di Stan. Non era neppure la prima volta che venivo cacciata da una lezione di Stan in presenza di Dimitri. Gettandomi lo zaino in spalla percorsi la breve distanza che mi separava dalla porta - una distanza che mi sembrò lunga chilometri - rifiutandomi di guardare mia madre negli occhi mentre le passavo accanto. Circa cinque minuti prima della fine della lezione, lei scivolò fuori dall'aula e percorse il corridoio fino a dove me ne stavo seduta. Abbassando lo sguardo su di me appoggiò le mani sui fianchi in quel modo irritante che le permetteva di sembrare più alta. Che una persona più bassa di me di oltre trenta centimetri mi facesse sentire così piccola, non era per niente giusto. «Bene. Vedo che le tue maniere non sono affatto migliorate nel corso degli anni.» Scattai in piedi, consapevole della mia espressione minacciosa. «Anche per me è un piacere rivederti. Mi sorprende che tu mi abbia addirittura riconosciuto. A dire la verità pensavo che non ti ricordassi neppure di me, visto che non ti sei presa il disturbo di avvertirmi che eri a scuola.» Tolse le mani dai fianchi e incrociò le braccia sul petto, facendosi - se possibile - ancora più imperturbabile. «Non potevo trascurare i miei doveri per venire a coccolarti.» «Coccolarmi?» chiesi. Questa donna non mi aveva mai coccolata in tutta la sua vita. Stentavo a credere che conoscesse anche solo la parola. «Non mi aspetto che tu capisca. Da quello che ho sentito, non hai la minima idea di cosa sia un "dovere".» «So benissimo cos'è» replicai con deliberato disprezzo. «Meglio di molte altre persone.» I suoi occhi si spalancarono in un'espressione di finto stupore. Usavo lo stesso sguardo sarcastico con un mucchio di persone, e non mi piaceva vederlo rivolto contro di me. «Oh, davvero? E dove sei stata negli ultimi due anni?» «E tu dove sei stata negli ultimi cinque?» domandai. «Se non te l'avesse detto qualcuno, come faresti a sapere che me ne sono andata?» «Ora non tirare in ballo me. Io sono stata via perché dovevo. Tu te ne sei andata per poter fare shopping e stare alzata fino a tardi la sera.» Il mio sdegno e il mio disagio si trasformarono in collera pura. A quanto pareva, non avrei mai finito di scontare le conseguenze della mia fuga con Lissa. «Tu non hai idea del perché sono andata via» dissi mentre il mio tono di voce cresceva. «E non hai alcun diritto di fare illazioni sulla mia vita quando non ne sai niente.» «Ho letto i rapporti su ciò che è successo. Avevi tutte le ragioni di preoccuparti, ma hai agito in maniera scorretta.» Le sue parole erano formali e fredde. Come se fosse l'insegnante di uno dei corsi che seguivo. «Avresti dovuto chiedere aiuto agli altri.» «Non c'era nessuno da cui potessi andare, non senza prove certe. E poi qui abbiamo imparato che dobbiamo pensare con la nostra testa.» «Infatti» ribatté lei. «È proprio questo il punto: imparare, una cosa che hai tralasciato di fare per due anni. Non sei nella posizione di darmi lezioni riguardo al protocollo dei guardiani.»

Finivo sempre per litigare; qualcosa nella mia natura lo rendeva inevitabile. Per questo ero abituata a difendermi e a incassare insulti. Avevo la scorza dura. Ma in qualche modo, standole vicino - in tutte le brevi occasioni in cui le ero stata vicino - non potevo fare a meno di sentirmi come se avessi avuto tre anni. Il suo atteggiamento mi mortificava, e toccando il nervo scoperto dell'addestramento perduto - un argomento già spinoso di per sé - mi fece sentire ancora peggio. Incrociai le braccia in una discreta imitazione della sua posa e riuscii a ostentare uno sguardo compiaciuto. «Ah, sì? Non è quello che pensano i miei insegnanti. Pur avendo perso tutto quel tempo, ho già raggiunto quelli del mio anno.» Non rispose subito. Alla fine, con voce piatta, disse: «Se non te ne fossi andata, ora saresti più brava di loro.» Voltandosi con piglio militaresco si allontanò lungo il corridoio. Un minuto più tardi la campanella suonò, e il resto della classe di Stan si riversò fuori dall'aula. Nemmeno Mason riuscì a tirarmi su di morale dopo l'accaduto. Per il resto della giornata rimasi furiosa, certa che tutti stessero spettegolando di me e mia madre. Saltai il pranzo e andai in biblioteca a leggere un libro di fisiologia e anatomia. Quando venne l'ora dell'allenamento dopo le lezioni con Dimitri, mi avventai sul manichino. Gli colpii il petto con un pugno, un po' a sinistra, ma sostanzialmente al centro. «Qui» dissi. «Il cuore è qui, e ci si arriva attraversando lo sterno e le costole. Mi daresti il paletto adesso?» Mi misi a braccia conserte e piantai gli occhi su Dimitri con aria di trionfo, in attesa che mi ricoprisse di lodi. Invece si limitò ad annuire, come se avessi già dovuto saperlo. E aveva ragione, avrei dovuto. «E come passi attraverso lo sterno e le costole?» chiese. Sospirai. Avevo risposto bene a una domanda solo perché me ne venisse posta un'altra. Tipico. Passammo gran parte dell'allenamento parlando di questo, e mi mostrò diverse tecniche per causare una morte più rapida. Ogni suo movimento era allo stesso tempo aggraziato e letale. Lo faceva sembrare qualcosa di naturale, ma non me la dava a bere. Quando all'improvviso mi porse il paletto, non capii subito. «Me lo stai dando?» I suoi occhi scintillarono. «Non riesco a credere che ti stai tirando indietro. Giunti a questo punto, pensavo che l'avresti afferrato per poi dartela a gambe.» «Non sei tu quello che m'insegna ad andarci piano?» chiesi. «Non davanti a tutto.» «Ma davanti a certe cose, sì.» Mi accorsi della nota allusiva nella mia voce e mi domandai da dove fosse uscita. Da un po' di tempo mi ero rassegnata al fatto che ci fossero troppe buone ragioni per smettere di pensare a lui in chiave sentimentale. Di tanto in tanto, facevo un passo falso e mi ritrovavo a sperare timidamente che succedesse anche a lui. Sarebbe stato carino sapere che mi voleva ancora, che lo facevo ancora impazzire. Adesso, guardandolo con attenzione, capii che non avrebbe mai più ceduto, perché non lo facevo più impazzire. Era un pensiero deprimente. «Certo» disse come se non ci fosse altro da discutere fuorché la lezione. «È come per tutto il resto. Equilibrio. Sapere con quali cose perseverare. E quali lasciar perdere.» Mise molta enfasi sull'ultima affermazione. I nostri sguardi s'incontrarono per un istante, e mi sentii percorrere da una scossa elettrica.

Sapeva di cosa stavo parlando. E come sempre stava facendo finta di niente e si comportava da insegnante, che era esattamente quello che doveva fare. Con un sospiro scacciai dalla mente quei pensieri e cercai di ricordare a me stessa che ero quasi sul punto di mettere le mani sull'arma che avevo desiderato sin dalla mia infanzia. Il ricordo dell'abitazione dei Badica riaffiorò. Gli Strigoi erano là fuori. Dovevo concentrarmi. Con qualche esitazione, e quasi un senso di rispetto, allungai una mano e strinsi le dita attorno al manico. Il metallo era freddo e mi diede un brivido. Il manico aveva delle scanalature capaci di assicurare una presa migliore, ma facendovi correre sopra le dita mi accorsi che il resto della superficie era liscia come vetro. Lo sollevai dalla mano di Dimitri e me lo portai vicino, prendendomi il tempo di studiarlo e abituarmi al suo peso. Il mio lato impaziente mi spingeva a voltarmi e a trafiggere tutti i manichini, eppure levai lo sguardo su Dimitri e gli domandai: «Qual è la prima cosa che devo fare?» Com'era suo solito, cominciò dalle basi, correggendo il modo in cui reggevo il paletto e mi muovevo con esso. Poi mi permise finalmente di attaccare uno dei manichini, e a quel punto scoprii che non era affatto una cosa naturale. L'evoluzione aveva fatto davvero un buon lavoro nel proteggere il cuore con sterno e costole. Ciononostante, la premura e la pazienza di Dimitri non vennero mai meno; mi guidò passo dopo passo, attento ai minimi dettagli. «Fallo scivolare verso l'alto tra le costole» spiegò, guardandomi mentre provavo a inserire la punta del paletto in uno spazio tra le ossa. «Per te sarà più facile, visto che sei più piccola della maggior parte dei tuoi avversari. E puoi farlo scivolare lungo il margine della costola più bassa.» Quando l'allenamento terminò, riprese il paletto e annuì in segno di approvazione. «Bene. Molto bene.» Lo guardai sorpresa. Di solito non elargiva troppi complimenti. «Sul serio?» «Sembra che tu lo faccia da anni.» Lasciammo la sala degli allenamenti e avvertii un sorriso di felicità pura farsi largo sul mio viso. Mentre ci avvicinavamo all'uscita mi accorsi di un manichino coi capelli rossi e ricci. D'improvviso ciò che era accaduto durante la lezione di Stan tornò a crearmi scompiglio nella mente. Corrugai la fronte. «La prossima volta posso infilzare quello?» Dimitri prese il giaccone e lo indossò. Era lungo e marrone, di pelle délavé. Ricordava moltissimo uno spolverino da cowboy, anche se lui non l'avrebbe mai ammesso. Era segretamente affascinato dal vecchio West. Non riuscivo bene a spiegarmelo ma, insomma, non capivo neppure i suoi strambi gusti musicali. «Non credo che sarebbe salutare» disse. «Meglio che farlo su di lei per davvero» borbottai mentre mi gettavo lo zaino in spalla. Uscimmo dalla palestra. «La violenza non è la risposta ai tuoi problemi» disse con saggezza. «È lei quella che ha dei problemi. E pensavo che l'essenza di ciò che ci viene insegnato fosse che la violenza è la risposta.» «Solo con chi la usa contro di te per primo. Tua madre non ti sta aggredendo. Voi due siete soltanto troppo simili, tutto qui.» Smisi di camminare. «Io non le somiglio per niente! Cioè... abbiamo più o meno gli stessi occhi. Ma io sono molto più alta. E ho i capelli completamente diversi.» Feci un cenno alla mia coda di cavallo, nel caso in cui non si fosse accorto che i miei folti capelli neri non somigliavano ai ricci

ramati di mia madre. Aveva ancora un'espressione vagamente divertita, ma c'era un che di severo nei suoi occhi. «Non sto parlando del vostro aspetto, e lo sai.» Distolsi lo sguardo da quegli occhi che la sapevano lunga. La mia infatuazione per Dimitri era cominciata quasi subito, quando l'avevo conosciuto, e non dipendeva solo dal fatto che fosse così attraente. Avevo la sensazione che cogliesse certi lati della mia personalità che io non riuscivo a capire, e ogni tanto ero piuttosto sicura di cogliere alcuni lati di Dimitri che lui non capiva. L'unico problema era la sua fastidiosa tendenza a farmi notare i tratti di me che io non volevo comprendere a fondo. «Pensi che io sia gelosa?» «Lo sei?» chiese. Detestavo quando rispondeva alle domande con altre domande. «E se lo sei, di cosa sei gelosa per l'esattezza?» Gli scoccai un'occhiataccia. «Non so. Forse sono gelosa della sua reputazione. Forse sono gelosa perché dedica molto più tempo alla sua reputazione che a me. Non saprei.» «Non pensi che quello che ha fatto sia grandioso?» «Sì. No. Non lo so. Sembrava che... non so... che si vantasse e basta. Come se l'avesse fatto solo per la gloria.» Feci una smorfia. «Per i molnija.» I molnija erano tatuaggi che i guardiani si guadagnavano quando uccidevano degli Strigoi. Somigliavano a una piccola X formata da due fulmini. Venivano incisi sulla nuca e mostravano quanto abile fosse un guardiano. «Pensi che valga la pena di affrontare uno Strigoi per ottenere qualche molnija? Pensavo che a casa dei Badica avessi imparato qualcosa.» Mi sentii stupida. «Non era questo che...» «Vieni.» Smisi di camminare. «Cosa?» Ci eravamo avviati verso il mio alloggio, ma Dimitri fece un cenno con la testa nella direzione opposta. «Voglio mostrarti una cosa.» «Cosa?» «Che non tutti i simboli sono motivo di vanto.»

Non avevo idea di cosa intendesse dire Dimitri, ma gli rimasi accanto comunque con fare obbediente. Con mia grande sorpresa mi portò fuori dal campus, nelle foreste che lo circondavano. L'accademia possedeva molti appezzamenti di terreno, non tutti utilizzati a fini educativi. Ci trovavamo in una zona remota del Montana, e certe volte sembrava che la scuola faticasse a contenere l'avanzare delle terre selvagge.

Camminammo in silenzio per un po', coi piedi che scricchiolavano sullo spesso strato di neve immacolata. Alcuni uccelli ci passarono vicino svolazzando, e cinguettando il proprio ringraziamento al sole che sorgeva; a parte quelli, non vedevo altro che sempreverdi rinsecchiti e ricoperti di neve. Dovetti darmi da fare per rimanere al passo con le lunghe falcate di Dimitri, soprattutto perché la neve mi rallentava un po'. Ben presto, di fronte a noi intravvidi una grande sagoma scura. Una specie di costruzione. «Cos'è?» domandai. Prima che lui potesse rispondere, mi resi conto che si trattava di una casupola di legno, costruita con i tronchi e tutto il resto. Un esame più ravvicinato mi rivelò che in alcuni punti i tronchi parevano logori e marci. Il tetto era leggermente incurvato. «Un vecchio posto di guardia» disse lui. «Un tempo i guardiani vivevano al limitare del campus e restavano di guardia contro gli Strigoi.» «Perché non lo fanno più?» «Non ci sono abbastanza guardiani. Inoltre, i Moroi hanno difeso il campus con magie protettive tali che secondo i più non serve avere persone di guardia.» A patto che gli esseri umani non facessero saltare le difese magiche a colpi di paletto, pensai. Per qualche istante accarezzai l'ipotesi che Dimitri mi stesse rapendo per una qualche scappatella romantica. Poi avvertii delle voci che venivano da dietro la costruzione. Sensazioni familiari raggiunsero la mia mente. Lissa era lì. Dimitri e io svoltammo l'angolo e ci ritrovammo di fronte a una scena sorprendente. C'era un piccolo lago ghiacciato, e Christian e Lissa ci pattinavano sopra. Con loro c'era una donna di schiena che non riconobbi. Tutto ciò che potevo vedere di lei era una cascata di mossi capelli corvini, che le volteggiarono attorno quando eseguì un'elegante frenata sui pattini. Non appena mi avvistò, Lissa sorrise. «Rose!» A quelle parole Christian mi scoccò un'occhiata, e io ebbi la netta impressione che avvertisse la mia presenza come un'intrusione in quella loro parentesi romantica. Lissa si mosse con passi goffi verso il bordo del laghetto. Non era molto brava a pattinare. Io rimasi lì con lo sguardo fisso, sconcertata... e gelosa. «Grazie per avermi invitata alla festa.» «Pensavo fossi impegnata» disse. «E comunque è un segreto. Non dovremmo essere qui.» Questo lo avevo capito anch'io. Christian pattinò fino a lei, e ben presto li raggiunse anche la donna sconosciuta. «Dimka, hai portato qualcuno da imbucare alla festa?» chiese. Mi domandai con chi stesse parlando, finché non sentii Dimitri ridere. Non lo faceva spesso, e il mio stupore si fece ancora più grande. «È impossibile tenere Rose lontana dai posti in cui non dovrebbe essere. Finisce sempre per scovarli.» La donna sorrise e si voltò, gettando i lunghi capelli sopra una spalla, e così tutto a un tratto riuscii a vedere il suo volto. Per impedirmi di trasalire dovetti fare appello a ogni grammo di quell'autocontrollo che già gestivo a fatica. Quel viso a forma di cuore aveva occhi grandi della stessa tonalità di quelli di Christian, un pallido, gelido azzurro. Le labbra che mi stavano sorridendo erano morbide e graziose, con un velo di lucidalabbra rosa che metteva in risalto i tratti del viso. Sulla guancia sinistra, però, a fondersi con quella che altrimenti sarebbe stata una pelle liscia e candida, c'erano cicatrici sporgenti, violacee. A giudicare dal loro aspetto e dalla forma si sarebbe detto che qualcuno le avesse morso la guancia strappandone via una parte. Il che, mi resi conto, era esattamente ciò che era successo. Deglutii. D'un tratto intuii di chi si trattava. La zia di Christian. Quando i suoi genitori si erano tramutati in Strigoi erano andati a riprenderselo, nella speranza di portarlo via di nascosto per poi tramutarlo in Strigoi quando fosse cresciuto. Non conoscevo i dettagli, ma sapevo che sua zia lo

aveva difeso. Come avevo avuto modo di constatare, però, gli Strigoi erano micidiali. Lei si era dimostrata un diversivo efficace fino all'arrivo dei guardiani, ma non ne era uscita senza conseguenze. Allungò la mano inguantata verso di me. «Tasha Ozera» disse. «Ho sentito parlare molto di te, Rose.» Lanciai uno sguardo minaccioso a Christian, e Tasha scoppiò a ridere. «Non preoccuparti» disse. «Soltanto cose positive.» «Non lo erano affatto» ribatté lui. Lei scosse la testa in segno di esasperazione. «Non so proprio da chi abbia preso delle maniere così orribili. Da me non le ha imparate.» Era evidente, pensai. «Che ci fate qua fuori?» chiesi. «Volevo trascorrere un po' di tempo in compagnia di questi due.» Una timida alzata di sopracciglia le corrugò la fronte. «Senza contare che non mi piace tanto andarmene in giro per l'Accademia. Non sono sempre così ospitali...» Dapprima non riuscii a capire. Di solito la direzione scolastica si faceva in quattro quando i reali venivano in visita. Poi, compresi. «Per... per colpa di quello che è successo...» Considerato come tutti trattavano Christian a causa dei suoi genitori, scoprire che sua zia subiva la stessa discriminazione non avrebbe dovuto stupirmi. Tasha scrollò le spalle. «È così che funziona.» Si strofinò le mani ed espirò, e il suo alito formò nuvolette ghiacciate nell'aria. «Ma non restiamo qui fuori, non se dentro possiamo accendere un fuoco.» Lanciai un ultimo sguardo sconsolato al laghetto e seguii gli altri all'interno. Il rifugio era piuttosto spoglio, ricoperto di polvere e sporcizia. Si componeva di un'unica stanza. In un angolo c'era una branda senza coperte, e qualche mensola su cui, con ogni probabilità, una volta veniva stipato del cibo. C'era un caminetto, però, e ben presto il fuoco riscaldò il piccolo ambiente. Ci mettemmo tutti e cinque a sedere, stringendoci attorno al calore, e Tasha recuperò una busta di marshmallow da cuocere sul fuoco. Ci rimpinzammo di quelle bontà appiccicose, e nel frattempo Lissa e Christian si parlavano con quel loro modo disinvolto, tranquillo. Con mia sorpresa, anche Tasha e Dimitri chiacchieravano in modo familiare e spensierato. Era chiaro che si conoscevano da molto tempo. In realtà, prima d'ora, non lo avevo mai visto così vivace. Anche quando si dimostrava affettuoso con me, non perdeva mai la sua aria seria. Con Tasha scherzava e rideva. Più l'ascoltavo parlare, più Tasha mi piaceva. Alla fine non resistetti più al desiderio di inserirmi nella loro conversazione: «Quindi verrai alla gita sulla neve?» Lei annuì soffocando uno sbadiglio, e si stiracchiò come un gatto. «Sono anni che non scio. Non ne ho avuto il tempo. Per venirci ho messo da parte tutti i miei giorni di ferie.» «Ferie?» Le lanciai un'occhiata curiosa. «Hai... un lavoro?» «Purtroppo sì» disse Tasha, anche se non sembrava dispiaciuta sul serio. «Insegno arti marziali.» La fissai sgomenta. Se avesse detto che faceva l'astronauta o la sensitiva che offre consulti telefonici, non mi avrebbe lasciata così di stucco. Perlopiù i reali non lavoravano affatto, e nel caso qualcuno lo facesse, di solito si trattava di investimenti o altre attività assai redditizie capaci di accrescere le fortune di famiglia. E chi tra loro lavorava, di sicuro non praticava arti marziali né svolgeva lavori fisicamente impegnativi. I Moroi

possedevano parecchie qualità eccezionali: sensi fuori dal comune - olfatto, vista e udito - e poteri magici. Ma nel fisico erano alti ed esili, spesso di ossatura minuta. Inoltre, la luce del sole li fiaccava. Ora, tutto ciò non bastava a impedire a qualcuno di diventare un lottatore, ma rendeva la faccenda più complicata. Col passare del tempo tra i Moroi si era radicata la convinzione che il miglior attacco fosse una buona difesa, e la maggior parte di loro rifuggiva l'idea di uno scontro fisico. Si nascondevano in luoghi ben protetti come l'Accademia, facendo sempre affidamento sui dhampir più forti e tenaci affinché li proteggessero. «Che ne pensi, Rose?» Christian aveva l'aria di trovare molto divertente il mio sconcerto. «Credi di poterla mettere al tappeto?» «Difficile a dirsi» dissi. Tasha mi fece un sorriso. «Non fare la modesta. Ho visto di cosa siete capaci voialtri. Per me questo è soltanto un hobby.» Dimitri sogghignò. «Adesso sei tu quella che fa la modesta. Potresti insegnare in metà dei corsi che si tengono qui.» «Lo escludo» disse lei. «Sarebbe molto imbarazzante farsele suonare da una banda di adolescenti.» «Non credo che possa succedere» disse lui. «Mi pare di ricordare che hai conciato piuttosto male Neil Szelsky.» Tasha fece roteare gli occhi. «Non direi di averlo conciato così male: è stato solo un drink in faccia. A meno che tu non ti riferisca alle conseguenze sul suo completo. E sappiamo bene quanto ci tenga, ai suoi vestiti.» Entrambi scoppiarono a ridere alludendo a qualche aneddoto privato di cui il resto di noi non era a conoscenza. Io però non prestai loro molta attenzione. Il ruolo di Tasha in quella faccenda degli Strigoi continuava a intrigarmi. La riservatezza che mi ero imposta alla fine venne meno. «Hai deciso di imparare a combattere prima o dopo che ti capitasse quella cosa alla faccia?» «Rose!» sibilò Lissa. Ma Tasha non parve aversene a male. Neppure Christian se la prese, e lui di solito si sentiva a disagio quando si tirava in ballo l'attacco dei suoi genitori. Lei mi scrutò con sguardo sereno, intenso. Mi ricordò lo sguardo che a volte mi rivolgeva Dimitri quando facevo qualcosa di sorprendente e che si meritava la sua approvazione. «Dopo» disse. Non abbassò lo sguardo né mi diede l'impressione di sentirsi in imbarazzo, anche se mi accorsi della tristezza che provava. «Tu conosci l'intera storia?» Guardai Christian. «Il minimo indispensabile.» Lei annuì. «Mi ero resa... mi ero resa conto di cosa fossero diventati Lucas e Moira, ma comunque non ero preparata a niente di simile. Né dal punto di vista psicologico, né da quello fisico, e neppure da quello emotivo. Non credo che sarei pronta neanche adesso, se dovesse capitarmi di nuovo. Dopo quella notte, però, mi sono guardata allo specchio - in senso figurato - e mi sono resa conto di quanto fossi indifesa. Avevo passato tutta la vita dando per scontato che i guardiani mi avrebbero sempre difeso e si sarebbero presi cura di me. «E con questo non voglio dire che i guardiani non ne siano capaci. Come ho già detto, è probabile che in un combattimento tu possa sconfiggermi. Ma loro - Lucas e Moira - si sono sbarazzati dei nostri due guardiani ancora prima che noi potessimo accorgerci di ciò che accadeva. Sono riuscita a impedire loro di portare via Christian, per un soffio. Se gli altri non fossero arrivati in tempo sarei

morta, e lui sarebbe...» S'interruppe, corrugò la fronte, poi proseguì. «Ho preso una decisione: non sarei mai morta in quel modo, non senza aver lottato per davvero e aver fatto tutto il possibile per proteggere me e coloro che amo. Così ho imparato tutte le tecniche di difesa. E dopo un po' di tempo, be', non mi sono più trovata a mio agio qui, nell'alta società. Allora mi sono trasferita a Minneapolis e ho iniziato a guadagnarmi da vivere insegnando agli altri.» Non nutrivo il minimo dubbio sul fatto che a Minneapolis vivessero altri Moroi - anche se Dio solo sapeva perché - però riuscii a leggere tra le righe. Aveva detto di aver imparato "tutte le tecniche di difesa": a quanto pareva, non si trattava solo di arti marziali. Restando fedeli alle proprie convinzioni in merito alla questione attacco-difesa, i Moroi credevano che non ci si dovesse servire della magia come un'arma. Molto tempo fa veniva utilizzata, e certi Moroi lo fanno ancora oggi, di nascosto. Christian, lo sapevo, era tra quelli. D'un tratto capii da chi avesse imparato quel genere di cose. Calò il silenzio. Era doloroso raccontare fino in fondo una storia così triste. Ma capii che Tasha era una di quelle persone in grado di alleggerire sempre l'atmosfera e questo me la rese ancora più simpatica. Trascorse il resto del tempo a raccontarci storielle buffe. A differenza di tanti reali, non si dava arie e raccontava pettegolezzi su chiunque. Dimitri conosceva molte delle persone di cui Tasha ci parlava - ma com'era possibile che qualcuno di così asociale conoscesse tutti i Moroi e i guardiani della nostra società? - e di tanto in tanto aggiungeva perfino qualche particolare. Ci fecero ridere a crepapelle fino a quando Tasha non guardò l'orologio. «Qual è il posto migliore per una ragazza che vuole fare shopping da queste parti?» chiese. Lissa e io ci guardammo. «Missoula» rispondemmo in coro. Tasha sospirò. «È a un paio d'ore da qui, ma se parto subito faccio ancora in tempo ad arrivare prima che chiudano i negozi. Sono tremendamente in ritardo coi miei acquisti per Christian.» Mi lagnai: «Ucciderei per andare a fare un po' shopping.» «Anch'io» disse Lissa. «Magari potremmo svignarcela con te...» Lanciai un'occhiata speranzosa a Dimitri. «No» si affrettò a dire lui. Fu il mio turno di sospirare. Tasha sbadigliò di nuovo. «Dovrò bere un caffè, così non mi addormenterò se mi metto alla guida.» «Non può guidare uno dei tuoi guardiani al posto tuo?» Lei scosse la testa. «Non ne ho.» «Non ne...» Mi accigliai mentre ponderavo le sue parole. «Non hai nessun guardiano?» «No, no.» Mi alzai di scatto. «Ma non è possibile! Sei un membro reale. Dovresti averne almeno uno. Due, a dirla tutta.» I guardiani venivano ripartiti tra i Moroi in modo arcano e meticoloso dal Consiglio dei Guardiani. Era un sistema piuttosto iniquo, vista la sproporzione tra guardiani e Moroi. Chi non faceva parte di una casata reale cercava di ottenere un guardiano tramite una lotteria. I reali ne ricevevano in ogni caso. I reali di alto rango spesso ne avevano più d'uno, ma persino il membro reale più modesto non ne sarebbe stato sprovvisto. «Quando vengono assegnati i guardiani, gli Ozera non godono esattamente di un posto in prima fila» disse Christian con amarezza. «Da quando... i miei genitori sono morti... si è registrata una certa penuria.» La mia collera divampò. «Ma non è giusto. Non possono punire voi per ciò che hanno fatto i tuoi

genitori.» «Non è una punizione, Rose.» Tasha non sembrava affatto infuriata, e invece avrebbe dovuto esserlo parecchio, dal mio punto di vista. «È solo... una ridistribuzione delle priorità.» «Ti lasciano indifesa. Non puoi andare là fuori da sola!» «Non sono indifesa, Rose. Te l'ho detto. E se avessi davvero voluto un guardiano, avrei potuto insistere, ma è soltanto una seccatura. Per ora sto bene così.» Dimitri le scoccò uno sguardo. «Vuoi che venga con te?» «Per tenerti sveglio tutta la notte?» Tasha scosse la testa. «Non lo farei mai, Dimka.» «Per lui non c'è problema» mi sbrigai a dire io, esaltata al pensiero di questa soluzione. Il fatto che parlassi al posto suo sembrò divertire Dimitri, che non mi contraddisse. «No, davvero.» Lei esitò. «D'accordo. Ma dovremo metterci in viaggio al più presto.» Il nostro ritrovo illegale si sciolse. I Moroi andarono in una direzione; Dimitri e io in un'altra. Lui e Tasha si accordarono per rivedersi di lì a mezz'ora. «Allora, che ne pensi?» mi chiese una volta rimasti soli. «Mi piace. È una a posto.» Pensai a lei per un momento. «E ho capito cosa volevi dirmi a proposito dei simboli.» «Davvero?» Annuii, facendo attenzione a dove mettevo i piedi mentre percorrevo i vialetti. Nonostante fossero stati spalati e cosparsi di sale, c'era ancora il rischio che ci fosse qualche lastra di ghiaccio. «Tasha non ha fatto ciò che ha fatto per potersene vantare. L'ha fatto perché doveva. Proprio come... come mia mamma.» Detestavo doverlo ammettere, ma era così. Janine Hathaway poteva anche essere la peggior madre del mondo, ma era un guardiano eccezionale. «Qualunque simbolo non ha importanza. Che sia un molnija o una cicatrice.» «Impari in fretta» disse lui con approvazione. M'inorgoglii per il complimento. «Perché ti chiama Dimka?» Ridacchiò. Questa sera avevo avuto modo di sentire molte sue risate, ed ero giunta alla conclusione che mi sarebbe piaciuto sentirne altre. «È il diminutivo di Dimitri.» «Ma non ha senso. Non somiglia per niente a Dimitri. Dovrebbe essere qualcosa tipo, che ne so, Dimi o una cosa così.» «In russo non funziona in questo modo» disse. «Il russo è strano.» In russo il nomignolo di Vasilisa era Vasya, che secondo me non aveva alcun senso. «Anche l'inglese.» Gli lanciai un'occhiata furba. «Se mi insegnassi qualche parolaccia in russo, potrei apprezzarlo in modo molto diverso.» «Dici già abbastanza parolacce.» «Voglio solo potermi esprimere.» «Oh, Roza...» sospirò, e io mi sentii solleticare da un fremito. "Roza" era il mio nome in russo. Lo usava di rado. «Tu ti esprimi già più di chiunque altro che io conosca.»

Risi, e per un po' camminai senza aggiungere altro. Il mio cuore smise di battere per un momento, da tanto ero felice di essergli vicino. L'idea di noi due assieme aveva un che di caldo e giusto. Anche se camminavo sospesa da terra, il mio cervello si arrovellava su alcune cose che mi si erano impresse in mente. «Sai, le cicatrici di Tasha hanno qualcosa di curioso.» «Cosa?» chiese. «Le cicatrici... l'hanno sfigurata» presi a dire lentamente. Facevo un po' di fatica a tradurre i pensieri in parole. «Voglio dire, si capisce che era molto carina. Eppure, adesso che ha quelle cicatrici... non so. È carina in modo diverso. È come... è come se fossero parte di lei. La completano.» Sembrava sciocco, ma era vero. Dimitri rimase in silenzio, ma mi guardò di sbieco. Io ricambiai il suo sguardo, e quando i nostri occhi si incontrarono avvertii una scintilla della vecchia attrazione. Era qualcosa di effimero e svanì troppo presto, ma lo colsi. Fu sostituito da orgoglio e stima, che erano quasi belli allo stesso modo. Quando mi parlò, fu solo per ribadire la sua osservazione di prima. «Impari in fretta, Roza.»

Il giorno dopo, diretta all'allenamento prima delle lezioni, mi sentivo bendisposta nei confronti della vita. L'incontro segreto della notte prima era stato divertentissimo, ed ero orgogliosa di aver contestato il sistema e incoraggiato Dimitri ad andare con Tasha. E soprattutto avevo fatto per la prima volta pratica con un paletto d'argento e avevo dimostrato di saperlo maneggiare. Ero proprio soddisfatta di me stessa e non vedevo l'ora di allenarmi ancora. Una volta indossata la mia solita tenuta, corsi in palestra. Quando feci capolino nella sala esercizi del giorno prima, però, la trovai buia e silenziosa. Diedi un colpetto all'interruttore della luce per assicurarmi che Dimitri non fosse segretamente impegnato in qualche esercizio bizzarro. No. Vuota. Niente paletto, oggi. «Merda» mugugnai. «Lui non c'è.» Strillai, e per poco non feci un balzo di tre metri. Voltandomi, mi ritrovai a guardare diritto negli occhi stretti e castani di mia madre. «Che ci fai qui?» Mi accorsi di com'era vestita soltanto quando le parole mi erano ormai sfuggite di bocca. Una maglietta elasticizzata a maniche corte. Larghi pantaloni sportivi con laccio in vita simili ai miei. «Merda» ripetei. «Bada a come parli» sbottò lei. «Comportati pure come se non conoscessi le buone maniere, ma almeno quando parli cerca di non dare la stessa impressione.» «Dov'è Dimitri?» «Il guardiano Belikov è a letto. È tornato solo un paio d'ore fa e aveva bisogno di dormire.» Avevo un'altra parolaccia sulla punta della lingua ma la ricacciai indietro. Era ovvio che Dimitri stesse dormendo. Nelle ore diurne aveva dovuto guidare fino a Missoula con Tasha per poterci arrivare durante l'orario di shopping degli umani. Era rimasto in piedi per tutta quella che all'Accademia veniva considerata notte, e con ogni probabilità era tornato da poco. Ahi. Ci avrei

pensato su due volte prima di spingerlo ad aiutare Tasha, se avessi saputo quale sarebbe stato il risultato. «Be'» mi affrettai a dire. «Immagino che questo voglia dire che l'allenamento è cancellato...» «Fa' silenzio e metti questi.» Mi porse un paio di guantoni. Ricordavano i guantoni da boxe ma non erano altrettanto grossi e ingombranti. A ogni modo servivano allo stesso scopo: proteggere le mani e impedire che le proprie unghie sfregiassero l'avversario. «Ci stavamo esercitando coi paletti d'argento» dissi con piglio scontroso, affondando le mani nei guantoni. «Be', oggi ci occuperemo d'altro. Vieni.» La seguii al centro della sala, rimpiangendo di non essere stata investita da un autobus mentre andavo lì. I suoi capelli ricci erano legati in alto per non darle fastidio, e le lasciavano scoperta la nuca. Lì dietro, la pelle del collo era ricoperta di tatuaggi. Li sormontava una linea serpeggiante: il marchio della promessa, che veniva fatto quando i guardiani si diplomavano in accademie come la St. Vladimir's e accettavano di prestare servizio. Sotto c'erano i molnija, che un guardiano si guadagnava ogniqualvolta uccideva uno Strigoi. Avevano la stessa forma dei fulmini da cui prendevano il nome. Non fui in grado di calcolarne il numero esatto, ma comunque mi pareva un miracolo che mia madre avesse ancora un collo con qualche centimetro libero da tatuare. Durante la sua vita aveva avuto a che fare con parecchi morti. Una volta raggiunto il punto prescelto della sala, si voltò e assunse una posizione di attacco. Credendo che fosse sul punto di avventarsi su di me, la imitai subito. «Che facciamo?» chiesi. «Tecniche d'attacco base e qualche parata. Usa le linee rosse.» «Tutto qui?» chiesi. Si lanciò verso di me. Schivai l'assalto - appena in tempo - ma nel farlo inciampai nei miei piedi. Mi rimisi diritta in un lampo. «Bene» disse in un tono che pareva quasi sarcastico. «Come ti piace ricordarmi in ogni occasione, non ti vedo da cinque anni; quindi non ho idea di cosa sai fare.» Si fece avanti ancora una volta, e ancora una volta io faticai a respingere i suoi assalti e a rimanere all'interno delle linee. E presto questa divenne la prassi. Non mi concedeva mai una vera occasione di passare all'attacco; o forse io non possedevo l'abilità necessaria per poter contrattaccare, tutto qui. Non feci altro che difendermi, perlomeno da un punto di vista fisico. A malincuore, infatti, dovetti riconoscere che era brava. Molto brava. Ma non avevo intenzione di dirglielo. «E quindi?» chiesi. «È così che pensi di riscattarti per la tua negligenza materna?» «È così che penso di liberarti dal rancore che ti porti dentro. Dal mio arrivo hai avuto sempre un atteggiamento ostile nei miei confronti. Vuoi litigare?» Il suo pugno balenò verso di me e impattò sul mio braccio. «Allora litighiamo. Colpita.» «Colpita» ammisi ritraendomi. «Io non voglio litigare. Volevo solo parlare con te.» «Attaccarmi in classe non è quello che definirei parlare. Colpita.» Il colpo mi fece grugnire. Quando avevo iniziato ad allenarmi con Dimitri mi ero lamentata perché ritenevo fosse ingiusto dover combattere con qualcuno di trenta centimetri più alto. Lui mi aveva fatto notare che avrei dovuto combattere contro una marea di Strigoi molto più alti di me, e che il vecchio adagio diceva il vero: le dimensioni non contano. A volte pensavo che volesse darmi delle false speranze, ma a giudicare dalla performance di mia madre iniziavo a credergli.

Fino a quel momento non avevo mai dovuto vedermela con qualcuno più piccolo di me. Essendo una delle poche ragazze a seguire il programma dei novizi, mi ero rassegnata ad essere quasi sempre più bassa e magra dei miei avversari. Mia madre, però, era ancora più bassa di me, e in quel suo corpo minuto non c'erano altro che muscoli. «Ho uno stile di comunicazione alternativo, tutto qui» dissi. «Tu hai l'insulsa fissazione adolescenziale che qualcuno ti abbia trattato ingiustamente negli ultimi diciassette anni.» Mi colpì il femore col piede. «Colpita. Quando invece sei stata trattata come qualunque altro dhampir. Anzi meglio, a dirla tutta. Avrei potuto mandarti a vivere con le mie cugine. Ti piacerebbe essere una sgualdrina di sangue? È questo quello che vuoi?» L'espressione "sgualdrina di sangue" mi faceva trasalire ogni volta. Era un modo di dire con cui ci si riferiva spesso alle madri dhampir che decidevano di crescere i propri figli da sole invece che diventare guardiani. Queste donne avevano spesso brevi relazioni con uomini Moroi, e per questo venivano giudicate male; anche se in realtà non avevano molte alternative, visto che di regola gli uomini Moroi finivano per sposare donne Moroi. L'espressione "sgualdrine di sangue" derivava dal fatto che certe donne dhampir lasciavano bere il proprio sangue agli uomini durante il rapporto sessuale. Nel nostro mondo, solo gli esseri umani donavano il proprio sangue. Se era un dhampir a farlo, l'atto veniva considerato osceno e perverso, soprattutto se avveniva durante un rapporto sessuale. Avevo il sospetto che poche dhampir lo facessero per davvero, ma si tendeva a generalizzare erroneamente. Io avevo lasciato che Lissa bevesse il mio sangue quando eravamo scappate, e per quanto fosse stato un atto necessario, ne portavo ancora lo stigma. «No. Certo che non voglio essere una sgualdrina di sangue.» Iniziavo ad avere il fiatone. «E non sono tutte così. In realtà, sono in poche a farlo.» «Sono loro a essersi create questa reputazione» ringhiò lei. Schivai il suo affondo. «Dovrebbero compiere il proprio dovere di guardiani, invece di continuare a perdere tempo e spassarsela coi Moroi.» «Crescono i loro figli» grugnii. Avrei voluto urlare, ma non dovevo sprecare ossigeno. «Una cosa di cui tu non sai niente. E comunque, non sei anche tu come loro? Non ti vedo un anello al dito. Mio padre non è stato solo una scappatella, per te?» Il suo viso si indurì, il che è tutto dire per una che sta già picchiando sua figlia. «Di questo» disse con risolutezza «tu non sai niente. Colpita.» Indietreggiai a causa del colpo, ma fui felice di vedere che avevo toccato un nervo scoperto. Non avevo idea di chi fosse mio padre. Sapevo soltanto che era turco. Da mia madre avevo ereditato la figura formosa e il viso grazioso - anche se potevo dire con mia grande soddisfazione che il mio fosse molto più grazioso ormai - ma senza dubbio il resto dei miei colori, lo avevo preso da lui. Una carnagione leggermente ambrata, capelli e occhi scuri. «Com'è successo?» chiesi. «Avevi un incarico in Turchia? L'hai conosciuto in un bazar del posto? O è stato ancora più squallido? Hai optato per Darwin e selezionato l'esemplare che aveva più probabilità di trasmettere alla tua prole i suoi geni da guerriero? So bene che hai deciso di avermi perché era tuo dovere, quindi immagino che tu abbia voluto assicurare ai guardiani un campione della specie.» «Rosemarie» mi ammonì serrando i denti, «per una volta in vita tua, taci.» «Perché? Sto forse infangando la tua preziosa reputazione? È proprio come dicevo io: non sei diversa da qualunque altra dhampir. L'hai solo sfruttato e...» Se si dice che "Prima della rovina viene l'orgoglio", c'è un motivo. Mi ero lasciata così prendere da quel tripudio di arroganza che avevo smesso di prestare attenzione ai piedi. Ero troppo vicina alla linea rossa. Oltrepassarla avrebbe voluto dire un altro punto per mia madre, così mi mossi di scatto per rimanere dentro il perimetro e al contempo schivare il suo colpo. Per mia sfortuna, solo

una delle due azioni poteva andare a buon fine. Il suo pugno si avvicinò rapido e violento e, cosa forse più importante, un po' troppo alto rispetto a quanto consentito in questo tipo di esercitazioni. Mi centrò il viso con la forza di un camion in miniatura, e io volai all'indietro, atterrando sul duro pavimento della palestra prima con la schiena, poi con la testa. Ed ero finita oltre la linea rossa. Maledizione. Una fitta di dolore si allargò da un punto sopra la mia nuca, e la vista mi si offuscò. Qualche secondo più tardi, mia madre era china su di me. «Rose? Rose? Stai bene?» Aveva la voce rauca e concitata. Il mondo girava vorticosamente. A un certo punto arrivarono altre persone e, non so come, mi ritrovai nell'infermeria dell'Accademia, dove qualcuno mi puntò una luce negli occhi e iniziò a pormi delle domande incredibilmente stupide. «Come ti chiami?» «Cosa?» domandai strizzando gli occhi per via della luce. «Il tuo nome.» Riconobbi la dottoressa Olendzki; mi guardava dall'alto. «Lo sa come mi chiamo.» «Voglio che me lo dica tu.» «Rose. Rose Hathaway.» «Ti ricordi quando sei nata?» «Certo che lo so. Perché mi sta chiedendo delle cose così stupide? Avete perso i miei dati?» La dottoressa Olendzki sospirò esasperata e si allontanò, portando via con sé quella luce fastidiosa. «Penso che stia bene» la sentii dire a qualcuno. «Voglio che resti qui per oggi, giusto per essere sicura che non abbia avuto una commozione cerebrale. La voglio lontana dagli allenamenti.» Trascorsi la giornata a scivolare dentro e fuori dal sonno perché la dottoressa Olendzki continuava a svegliarmi per fare i suoi accertamenti. Mi diede anche una borsa del ghiaccio e mi disse di tenerla premuta sul viso. Alla fine delle lezioni, la dottoressa dichiarò che stavo abbastanza bene da poter essere dimessa. «Dico sul serio, Rose, dovresti avere una tessera simile a quelle che si danno ai pazienti abituali.» Sul viso aveva un sorrisetto. «Di quelle per chi ha problemi cronici, come asma e allergie. Non penso di aver mai visto uno studente finire qui dentro tanto spesso in così poco tempo.» «Tante grazie» dissi, convinta di non volere quell'onore. «Quindi nessuna commozione cerebrale?» Scosse il capo. «No. Avrai un po' di mal di testa, però. Prima che tu vada ti darò qualcosa per il dolore.» Il suo sorriso si spense e d'improvviso sembrò farsi nervosa. «Se devo essere onesta, Rose, credo che sia il viso ad aver subito il danno maggiore.» Mi alzai di scatto dal letto. «In che senso crede "che sia il viso ad aver subito il danno maggiore"?» Mi indicò lo specchio sul lavandino dall'altro lato della stanza. Ci andai di corsa e mi guardai riflessa. «Maledetta stronza!» Chiazze di un rosso violaceo ricoprivano il lato sinistro del mio viso, in alto, soprattutto vicino all'occhio. In preda alla disperazione mi voltai. «Andrà via presto, non è vero? Se ci tengo su il ghiaccio?» Scosse di nuovo la testa. «Il ghiaccio sarà d'aiuto... ma temo che ti ritroverai con un brutto occhio

nero. È probabile che domani peggiori, ma dovrebbe migliorare nel giro di una settimana. Tornerà a posto molto presto.» Lasciai l'infermeria in uno stato di intontimento che non aveva niente a che fare con il trauma alla testa. Sarebbe migliorato in una settimana? Come faceva la dottoressa Olendzki a parlarne con tanta leggerezza? Non si rendeva conto di ciò che era successo? Per Natale e gran parte della gita sulla neve avrei avuto l'aspetto di un mutante. Avevo un occhio nero. Un orrendo occhio nero. E me l'aveva fatto mia madre.

Spinsi con rabbia i battenti della porta che conduceva agli alloggi dei Moroi. La neve turbinò alle mie spalle seguendomi all'interno, e i pochi studenti che tiravano tardi al piano terra sollevarono lo sguardo al mio ingresso. Come previsto, alcuni trasalirono. Deglutendo mi sforzai di non reagire. Andava tutto bene. Non c'era motivo di dare i numeri. I novizi si procuravano spesso qualche ammaccatura. In realtà, era difficile non procurarsene. Certo, questa era molto più visibile di ogni altra, ma avrei potuto conviverci finché non fosse guarita, giusto? E poi non tutti sapevano come me l'ero procurata. «Ehi Rose, è vero che tua madre ti ha preso a pugni?» Mi paralizzai. Avrei riconosciuto quella beffarda voce da soprano tra mille. Voltandomi con lentezza mi ritrovai a scrutare gli occhi turchini di Mia Rinaldi. I riccioli biondi incorniciavano un viso che avrebbe anche potuto essere carino, se non fosse stato per quel sorrisetto maligno. Mia, un anno più piccola di noi, aveva trascinato Lissa (e quindi me) in una guerra a chi distruggeva la vita dell'altra in minor tempo; una guerra, devo aggiungere, a cui lei aveva dato inizio. E durante la quale Mia aveva rubato a Lissa il suo ex ragazzo - per quanto Lissa, alla fine, avesse deciso di non volerlo più - e aveva diffuso pettegolezzi d'ogni genere. Certo, l'ostilità di Mia non era stata del tutto immotivata. Quando era ancora al primo anno, il fratello maggiore di Lissa, Andre - rimasto ucciso nello stesso incidente d'auto che aveva "ucciso" anche me - si era approfittato di lei in malo modo. Se non si fosse dimostrata una stronza di tali proporzioni, avrei potuto persino provare compassione nei suoi confronti. Lui aveva sbagliato, ma pur comprendendo la rabbia di Mia, non mi pareva giusto che avesse cercato di rivalersi su Lissa. Tecnicamente, Lissa e io avevamo finito per vincere la guerra, ma Mia si era chissà come risollevata. Non frequentava più i gruppetti esclusivi con cui se la faceva un tempo, ma aveva ricomposto un'esigua truppa di amici. Che siano malvagi o meno, i leader carismatici sanno sempre attrarre seguaci. Avevo avuto modo di scoprire che nel novanta percento dei casi la reazione più efficace con lei era far finta che non esistesse. Però ci eravamo appena addentrate nell'altro dieci percento, perché non si può ignorare chi annuncia al mondo che tua madre ti ha appena preso a pugni, anche se è vero. Smisi di camminare e mi voltai. Mia era vicino a un distributore automatico, e sapeva bene di avermi provocato. Non mi presi il disturbo di chiederle come avesse scoperto che a farmi l'occhio pesto fosse stata mia madre. Da quelle parti era raro che qualcosa rimanesse segreto. Quando riuscì a vedere il mio viso per intero, sgranò gli occhi, mostrando tutta la sua felicità. «Wow. Bella di mamma.»

Ah. Carina. Se si fosse trattato di chiunque altro, avrei applaudito la battuta. «Be', sei tu l'esperta degli ematomi in faccia» dissi. «Il tuo naso come sta?» Il gelido sorriso di Mia vacillò, eppure non batté in ritirata. All'incirca un mese prima - di tutte le occasioni possibili, proprio durante il ballo scolastico - le avevo rotto il naso, e benché le fosse guarito era rimasto lievemente storto. «Va meglio» ribatté con freddezza. «Per fortuna a rompermelo è stata soltanto una stronza psicopatica. Nessuno con cui fossi imparentata.» Le rivolsi il mio miglior sorriso da psicopatica. «Peccato. I familiari ti colpiscono per sbaglio. Le stronze psicopatiche invece hanno la tendenza a ripetersi.» Di regola, minacciarla di violenza fisica era una tattica piuttosto efficace, ma in quel momento attorno a noi c'erano troppe persone perché la minaccia fosse concreta. E Mia lo sapeva. Non che avessi remore ad aggredire qualcuno in una situazione come quella - diavolo, l'avevo fatto un mucchio di volte - ma negli ultimi tempi stavo lavorando sul controllo dell'impulsività. «Non mi pare che sia successo per errore» disse lei. «Voialtri non avete un regolamento a proposito dei pugni in faccia? Voglio dire, mi sembra che quello di tua madre abbia davvero oltrepassato il limite.» Aprii la bocca per risponderle a tono, ma non ne uscì niente. Aveva ragione. Il mio ematoma era ben oltre il limite; in un combattimento del genere non si sarebbe dovuto colpire al di sopra del collo. E questo era molto al di sopra di quella linea proibita. Mia si accorse della mia titubanza, e per lei fu come se la mattina di Natale fosse arrivata una settimana prima. Fino a quel momento non credo che le fosse mai capitato di lasciarmi senza parole. «Signorine» risuonò una severa voce femminile. La Moroi alla reception si stava sporgendo oltre il bancone e ci fissava con uno sguardo affilato. «Questa è una hall, non un salotto. O andate di sopra, oppure fuori.» Per un attimo mi parve che quella di rompere di nuovo il naso a Mia fosse l'idea migliore del mondo, al diavolo le punizioni o le sospensioni. Dopo aver preso un profondo respiro, però, decisi che al momento l'atto più dignitoso sarebbe stato la ritirata. Raggiunsi a grandi passi le scale che portavano alle camere delle ragazze. Dietro di me sentii Mia gridare: «Non ti preoccupare, Rose. Andrà via. Tanto non è la tua faccia che interessa ai ragazzi.» Trenta secondi più tardi bussavo alla porta di Lissa così forte che fu un miracolo se non attraversai il legno con il pugno. Lei aprì lentamente e diede un'occhiata in giro. «Ci sei solo tu? Pensavo ci fosse un esercito... oh mio Dio.» Quando notò il lato sinistro del mio viso le sue sopracciglia si sollevarono. «Cos'è successo?» «Non l'hai ancora sentito? Devi essere l'unica in tutta la scuola» sbottai. «Fammi entrare e basta.» Sdraiata sul suo letto, le raccontai gli avvenimenti della giornata. A ragione, Lissa inorridì. «Ho sentito dire che ti eri fatta male, ma pensavo che non fosse niente di speciale» disse. Guardai il soffitto stuccato, sentendomi miserabile. «La cosa peggiore è che Mia ha ragione. Non è stato un incidente.» «Aspetta, stai forse dicendo che tua madre l'ha fatto apposta?» Non le risposi e la sua voce si fece scettica. «Avanti, non lo farebbe mai. Non esiste.» «E perché no? Forse perché stiamo parlando dell'ineccepibile Janine Hathaway, maestra nell'arte di saper gestire la propria collera? Il punto è che lei è anche Janine Hathaway, maestra nell'arte del combattimento e nel perfetto controllo dei propri movimenti. In un modo o nell'altro, ha commesso un errore.»

«Sì, be'» disse Lissa, «è più probabile che sia inciampata e abbia sbagliato un colpo, piuttosto che averlo fatto di proposito. Avrebbe dovuto essere fuori di sé dalla rabbia.» «Be', stava parlando con me. Basta quello per far perdere le staffe a chiunque. E io l'ho accusata di essere andata a letto con mio padre perché era la scelta migliore dal punto di vista dell'evoluzione della specie.» «Rose» gemette Lissa. «Diciamo che nel tuo riassunto, avevi omesso questa parte. Perché le hai detto una cosa del genere?» «Perché è probabile che sia andata così.» «Ma sapevi che l'avrebbe fatta infuriare. Perché continui a provocarla? Perché non puoi fare pace con lei e basta?» Mi misi seduta. «Fare pace con lei? Mi ha fatto un occhio nero. E probabilmente apposta. Come posso fare pace con una persona del genere?» Lissa scosse la testa e andò allo specchio per controllarsi il trucco. Le emozioni che giungevano attraverso il legame erano di frustrazione ed esasperazione. Un po' più a fondo, percepii dell'impazienza. Ora che mi ero sfogata, avevo la serenità necessaria per osservarla con più attenzione. Indossava una camicetta di seta color lavanda e una gonna nera lunga fino al ginocchio. I suoi lunghi capelli avevano quel genere di liscia perfezione che si ottiene solo passando un'ora della propria vita con in mano asciugacapelli e piastra. «Sei carina. Che succede?» Le sue sensazioni mutarono lievemente; la sua irritazione nei miei confronti si stava attenuando. «Tra un po' mi vedo con Christian.» Per qualche minuto era stato come ai vecchi tempi. Noi due soltanto, a chiacchierare. Il fatto che avesse nominato Christian, e il pensiero che presto avrebbe dovuto lasciarmi a causa sua, risvegliò in me cupe sensazioni... sensazioni che avevano a che fare con la gelosia, come dovetti ammettere mio malgrado. Naturalmente non lo diedi a vedere. «Wow. Cos'ha fatto per meritarsi una cosa del genere? Ha tratto in salvo degli orfanelli da un edificio in fiamme? In quel caso, magari dovresti assicurarti che non sia stato lui ad appiccare il fuoco.» L'elemento di Christian era il fuoco. Era molto appropriato, visto che era il più distruttivo. Scoppiando a ridere, Lissa smise di guardarsi allo specchio e si accorse che mi stavo toccando il gonfiore sul viso con molta cautela. Il suo sorriso si ingentilì. «Non è messo poi così male.» «Sì, come no. Me ne accorgo, se mi racconti una balla, lo sai. E la dottoressa Olendzki ha detto che domani sarà ancora peggio.» Tornai a distendermi sul letto. «È probabile che a questo mondo non esista un correttore capace di nascondere una cosa simile, no? Forse Tasha e io dovremmo iniziare a pensare a qualche maschera stile Fantasma dell'Opera.» Lissa sospirò e si sedette accanto a me sul letto. «È un peccato che non possa guarirlo io.» Sorrisi. «Sarebbe bello.» La compulsione e il carisma originati dallo spirito erano grandiosi, ma la sua capacità di guarire era la sua dote più cool. Quello che poteva fare lasciava a bocca aperta. Anche Lissa stava pensando ai poteri dello spirito. «Vorrei che ci fosse un altro modo per tenere a bada lo spirito... qualcosa che mi consentisse di utilizzare ancora la magia...» «Già» dissi. Comprendevo quel suo desiderio bruciante di compiere grandi cose e aiutare gli altri. Emanava da lei. Diamine, anche a me sarebbe piaciuto farmi sistemare quest'occhio in un baleno, invece che aspettare parecchi giorni. «Lo vorrei anch'io.» Lei sospirò ancora. «E non si tratta solo dell'impulso di guarire e di fare qualcos'altro grazie allo spirito. Insomma, mi manca la magia in sé. È ancora qui; è soltanto bloccata dai farmaci. La sento

bruciarmi dentro. Mi vuole, e io voglio lei. Ma tra di noi c'è un muro. Non puoi capire.» «Sì che posso.» Era la verità. Oltre a percepire i suoi sentimenti, a volte mi capitava di "scivolare" dentro di lei. Era difficile da spiegare, e ancor più difficile era conviverci. Quando accadeva, potevo vedere attraverso i suoi occhi, nel vero senso della parola, e provavo ciò che provava lei. Quando succedeva, ero lei. Più volte mi era capitato di trovarmi nella sua mente mentre moriva dalla voglia di servirsi della magia, e così avevo provato il bisogno ardente di cui parlava. Spesso si svegliava di notte con la smania di usare quel potere che non riusciva a ritrovare. «Ah, già» disse in tono mesto. «A volte me ne dimentico.» Fu invasa da un senso di amarezza. Non nei miei confronti, ma per il fatto di trovarsi in una situazione senza vie d'uscita. In lei si accese la rabbia. Quella sensazione di impotenza non le piaceva, tanto quanto non piaceva a me. La rabbia e la frustrazione crebbero fino a tramutarsi in qualcosa di più cupo e malvagio, che non mi piaceva. «Ehi» le dissi toccandole il braccio. «Stai bene?» Chiuse gli occhi per un attimo, poi li riaprì. «Lo detesto, tutto qui.» L'intensità delle sue sensazioni mi ricordò una nostra conversazione, quella che avevamo avuto subito prima che andassi dai Badica. «Pensi ancora che i farmaci non stiano più facendo effetto?» «Non so. Un po' meno.» «Senti un peggioramento?» Scosse la testa. «No. Non sono ancora in grado di usare la magia. La sento più vicina, ma è ancora irraggiungibile.» «Il tuo malumore... però...» «Sì... si sta risvegliando. Ma non ti preoccupare» disse, notando l'espressione sul mio viso. «Non ho allucinazioni né sto cercando di farmi del male.» «Bene.» Ero felice di sentirglielo dire, ma restavo comunque preoccupata. Non poteva ancora entrare in contatto con la magia, ma l'eventualità che la sua salute mentale l'abbandonasse di nuovo non mi piaceva affatto. Sperai con tutta me stessa che la situazione si aggiustasse da sola. «Io sono qui» le dissi piano, guardandola negli occhi. «Se dovesse succedere qualcosa di strano, me lo dirai, d'accordo?» Detto questo, le sue sensazioni cupe svanirono. Ma proprio in quel momento, avvertii una vibrazione anomala percorrere il legame. Non so dire di cosa si trattasse, ma la sua intensità mi diede un brivido. Lissa non se ne accorse. Il suo buonumore era tornato, e mi sorrise. «Grazie» disse. «Lo farò.» Sorrisi, contenta di vederla di nuovo serena. Rimanemmo zitte, e per un fugace attimo provai la voglia di aprirle il mio cuore. Di recente avevo avuto così tanti pensieri per la testa: mia madre, Dimitri e la casa dei Badica. Mi ero tenuta tutto dentro, e le emozioni mi stavano logorando. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo così a mio agio con Lissa che avvertii finalmente il desiderio che fosse lei, per una volta, a condividere i miei sentimenti. Ancora prima di aprire la bocca, però, mi accorsi che i suoi pensieri erano mutati all'improvviso. Si erano fatti impazienti e nervosi. C'era qualcosa che voleva dirmi, qualcosa su cui aveva riflettuto con attenzione. Dissi addio all'ipotesi di aprirle il mio cuore. Se aveva bisogno di dirmi qualcosa non le avrei riversato addosso i miei problemi. Li misi da parte e aspettai che parlasse. «Durante le mie ricerche con la signora Carmack, mi sono imbattuta in una cosa. Qualcosa di

strano...» «Di che cosa si tratta?» chiesi, incuriosita. Di solito i Moroi, durante l'adolescenza, si specializzavano in un particolare elemento. Dopodiché venivano inseriti nel corso più adatto a loro. Ma poiché era l'unica conoscitrice dello spirito nei paraggi, Lissa non aveva un corso da seguire. La maggioranza delle persone credeva che non si fosse specializzata affatto, ma lei e la signora Carmack - l'insegnante di pratiche magiche alla St. Vladimir's - si vedevano per conto loro, con lo scopo di imparare quanto più possibile sull'argomento. E ora che avevano capito quali fossero i tratti distintivi di un conoscitore dello spirito - incapacità di specializzarsi, instabilità mentale... - stavano passando in rassegna cronache antiche e recenti, in cerca di qualunque indizio potesse condurle ad altri Moroi come Lissa. «Non ho scovato altri conoscitori, ma mi sono imbattuta in... alcuni rapporti su, uhm, fenomeni inspiegabili.» Sbattei le palpebre, sorpresa. «Cosa intendi?» le chiesi, domandandomi quali fossero i fenomeni che un vampiro poteva ritenere "inspiegabili". All'epoca in cui avevamo vissuto tra gli umani, lei e io saremmo state considerate fenomeni inspiegabili. «Si tratta di rapporti frammentari... però, ecco, ho letto di un ragazzo che riusciva a far vedere agli altri cose che non c'erano. Poteva indurli a credere di trovarsi in presenza di mostri o altre persone, o qualunque altra cosa.» «Potrebbe trattarsi di compulsione.» «Una compulsione molto potente. Io non saprei fare niente di simile, e in questo campo sono io o meglio, ero io - la più potente tra quelli che conosciamo. Quel potere viene dello spirito...» «Quindi» dissi io tirando le somme, «tu credi che anche il tizio delle apparizioni sia un conoscitore dello spirito.» Lei annuì. «Perché non ti metti in contatto con lui e non lo scopri?» «Perché non so niente di lui! E una cosa top-se-cret. E ci sono altri casi altrettanto sospetti. Per esempio, c'è un tizio in grado di esaurire fisicamente gli altri: le persone che gli stanno vicino si indeboliscono. Fino a perdere i sensi. E un altro capace di fermare le cose a mezz'aria se qualcuno gliele lancia contro.» Era sempre più infervorata. «Potrebbe trattarsi di un conoscitore dell'aria» le feci notare. «Forse» disse. Percepivo la curiosità e l'entusiasmo che la animavano. Aveva disperatamente bisogno di credere che là fuori ci fossero altri come lei. Sorrisi. «Chi l'avrebbe mai detto? Anche i Moroi hanno qualcosa tipo Roswell, o l'Area 51. È un miracolo che non mi abbiano già portata via e analizzata per capire come funziona il nostro legame.» L'atteggiamento meditabondo di Lissa lasciò il posto a un tono canzonatorio. «A volte vorrei essere io, quella capace di leggere nella mente dell'altra. Vorrei sapere cosa provi per Mason.» «È un amico» dissi con fermezza, presa in contropiede dal brusco cambio di argomento. «E basta.» Mi liquidò con uno tz. «Una volta flirtavi - e facevi ben altro - con tutti i ragazzi che ti capitavano a tiro.» «Ehi!» dissi offesa. «Non ero mica una ragazzaccia.» «Okay... forse no. Però sembra che i ragazzi non ti interessino più.» A me i ragazzi interessavano. Be', un ragazzo. «Mason è molto carino» continuò lei. «Ed è pazzo di te.» «Vero» concordai. Pensai a Mason, a quel breve istante in cui fuori dall'aula di Stan avevo

pensato che fosse sexy. E poi era proprio simpatico, andavamo molto d'accordo. Non era una brutta prospettiva, rispetto alla media dei ragazzi. «Voi due vi somigliate un sacco. Fate tutti e due cose che non dovreste fare.» Ridacchiai. Anche questo era vero. Pensai che Mason moriva dalla voglia di affrontare tutti gli Strigoi del mondo. Forse io non sarei mai arrivata a tanto - nonostante il mio scatto d'ira in auto con Dimitri - ma condividevo un po' della sua avventatezza. Pensai che magari fosse giunto il momento di dargli una possibilità. Stuzzicarci a vicenda era piacevole, ed era trascorso un mucchio di tempo dall'ultima volta che avevo baciato qualcuno. Il mio cuore soffriva ancora per Dimitri, però insomma, non è che su quel fronte si stesse smuovendo qualcosa. Lissa mi scrutò, come se si fosse resa conto di ciò che mi passava per la testa; be', a parte la questione Dimitri. «Ho sentito dire a Meredith che sei un'idiota a non uscire con Mason. Dice che fai così perché pensi di essere troppo, per lui.» «Cosa? Non è vero!» «Ehi, non sono stata io a dirlo. Comunque, dice di volerci fare un pensierino lei.» «Mason e Meredith?» Scoppiai a ridere. «Sarebbero un disastro. Non hanno niente in comune.» Anche se era una cosa meschina, mi ero abituata ad avere Mason che stravedeva per me. Tutto a un tratto il pensiero che qualcun altro potesse prenderselo m'infastidì. «Sei possessiva» disse Lissa, indovinando di nuovo i miei pensieri. Non mi meravigliava affatto che le desse fastidio che io potessi leggerle nella mente. «Solo un pochino.» Rise. «Rose, anche se non sarà Mason, dovresti comunque tornare a vederti con qualcuno. Ci sono un sacco di ragazzi disposti a uccidere, pur di uscire con te. Ragazzi molto carini.» In fatto di uomini, non avevo sempre fatto le scelte migliori. Ancora una volta fui assalita dal desiderio di raccontarle tutte le mie preoccupazioni. Non mi ero mai decisa a parlarle di Dimitri, per quanto il segreto mi consumasse. Stare lì, seduta in sua compagnia, mi ricordò che Lissa era la mia migliore amica. Potevo dirle qualunque cosa, e lei non mi avrebbe mai giudicata. Tuttavia, proprio com'era successo un attimo prima, persi l'occasione di raccontarle ciò a cui stavo pensando. Gettò uno sguardo alla sveglia e d'improvviso saltò giù dal letto. «Sono in ritardo! Devo vedermi con Christian!» La gioia s'impadronì di lei, mescolata a un pizzico di impazienza. L'amore. Che cosa volete farci? Repressi la gelosia che tornava a farsi sentire. Per l'ennesima volta, Christian me la portava via. Stasera non avrei potuto sfogarmi. Lissa e io uscimmo, e lei schizzò via con la promessa che l'indomani ci saremmo riviste per parlare. Mi avviai a passo lento verso il mio alloggio. Arrivata in camera passai davanti allo specchio e, alla vista della mia faccia, mi lasciai sfuggire un gemito. Una macchia violacea mi circondava l'occhio. Mentre chiacchieravo con Lissa mi ero quasi dimenticata dell'incidente con mia madre. Mi soffermai davanti allo specchio per studiare il mio viso. Forse era egocentrismo, ma sapevo di avere un bell'aspetto. Portavo una coppa C, e in una scuola in cui la maggior parte delle ragazze erano magre come top model, sapevo di avere un corpo molto invitante. Come ho già detto, poi, anche il mio viso era carino. Da quelle parti, in una giornata qualunque, io meritavo un nove. In una giornata molto buona anche un dieci. Ma quel giorno? Be', in pratica ero scesa sotto lo zero. Per la gita sulla neve sarei stata proprio un incanto. «Mia mamma mi ha picchiata» feci sapere al mio riflesso. Lui mi guardò con aria compassionevole.

Con un sospiro decisi di prepararmi per andare a letto. Non c'era nient'altro che volessi fare stanotte, e forse un po' di sonno in più avrebbe velocizzato la guarigione. Raggiunsi i bagni in fondo al corridoio per lavarmi faccia e denti. Quando tornai in camera, m'infilai il mio pigiama preferito, e la sensazione della flanella soffice sulla pelle mi rincuorò un po'. Stavo preparando lo zaino per il giorno dopo quando d'improvviso il legame eruttò un'esplosione di emozioni. Mi colse alla sprovvista, e non mi diede la possibilità di opporre resistenza. Fu come essere buttati a gambe all'aria dalle raffiche di un uragano. Tutto a un tratto non guardavo più il mio zaino; ero "dentro" Lissa, e vivevo il suo mondo in prima persona. Fu allora che le cose si fecero imbarazzanti. Perché Lissa era con Christian. E la situazione si stava facendo... bollente.

Christian la stava baciando, e wow, che bacio. Non stava affatto perdendo tempo. Era quel genere di bacio a cui i bambini non dovrebbero assistere. Diamine, era quel genere di bacio a cui nessuno avrebbe dovuto poter assistere, per non parlare del fatto di viverlo attraverso un legame psichico. Come ho già spiegato, questo fenomeno - il fatto di ritrovarmi nella sua testa - poteva essere innescato dalle intense emozioni di Lissa. Però succedeva sempre, sempre, in seguito a emozioni negative. Se era turbata o arrabbiata o depressa, la cosa si estendeva a me. Ma in questo caso? Non era affatto turbata. Era felice. Molto, molto felice. Oh, Dio. Dovevo uscire di lì. Lei e Christian si trovavano nella soffitta della cappella dell'Accademia o, come mi piaceva chiamarla, il loro nido d'amore. Nel periodo in cui si sentivano asociali tutti e due e volevano rimanersene per conto proprio, quel luogo era stato il loro ritrovo abituale. Alla fine avevano deciso di fare gli asociali insieme, e poi da cosa era nata cosa. Da quando avevano iniziato a frequentarsi in pubblico, però, non mi sembrava che trascorressero più molto tempo in quel posto. Forse erano tornati lassù in memoria dei vecchi tempi. E infatti sembrava che fosse in corso un festeggiamento. Nel vecchio sottotetto polveroso erano state disposte candele profumate, che riempivano l'aria di una fragranza di lillà. Il pensiero di tutte quelle candele in uno spazio ristretto, colmo di libri e scatole infiammabili, mi avrebbe resa un po' nervosa, ma Christian doveva aver pensato di poter domare un qualunque principio d'incendio. Finalmente interruppero quel bacio snervante e si staccarono. Erano sdraiati a terra, sul fianco. Sotto di loro erano state distese alcune coperte. Christian guardò Lissa con un'espressione candida e amorevole, gli occhi azzurro chiaro accesi da un'emozione profonda. Era diverso dal modo in cui Mason guardava me. Di sicuro anche in

Christian c'era adorazione, ma quella di Mason somigliava molto più a quel genere di adorazione che ti spinge in chiesa e ti fa crollare in ginocchio per la soggezione e il timore nei confronti di qualcosa che veneri e che non comprendi appieno. Era chiaro che anche Christian a modo suo stravedesse per Lissa, ma nei suoi occhi c'era un luccichio di consapevolezza; dava la sensazione che loro due condividessero un'intesa reciproca così perfetta e forte da non aver bisogno di parole. «Non credi che finiremo all'inferno per questo?» chiese Lissa. Lui allungò una mano e le toccò il viso, facendole correre le dita sulla guancia, sul collo, e poi giù fino all'orlo della camicetta di seta. Il respiro di Lissa si fece pesante a quel tocco, che sapeva essere gentile e delicato, eppure provocava in lei una passione dirompente. «Per questo?» Lui giocherellò con l'orlo della camicetta, lasciando che le sue dita sfiorassero appena ciò che nascondeva. «No» scoppiò a ridere lei. «Per questo.» Indicò la soffitta con un gesto ampio. «Siamo in chiesa. Non dovremmo fare questo genere di cose, quassù.» «Ti sbagli» disse lui. La fece distendere sulla schiena con dolcezza e si adagiò sopra di lei. «La chiesa è al piano di sotto. Questo è solo un ripostiglio. Dio non se la prenderà.» «Tu non credi in Dio» lo rimproverò lei. Poi fece scivolare le mani verso il basso, sul petto di lui. I suoi gesti furono delicati e lenti come quelli di Christian, ma seppero scatenare la stessa, potente reazione. Quando le mani di lei s'infilarono sotto la camicia e iniziarono a risalire lungo la pancia, Christian sospirò felice. «Magari potremmo trovare un accordo.» «In questo momento diresti qualsiasi cosa» l'accusò lei. Le sue dita afferrarono l'orlo della camicia e lo tirarono verso l'alto. Lui cambiò posizione in modo che Lissa riuscisse a sfilarla, e poi tornò a chinarsi sopra di lei, a torso nudo. «Hai ragione» disse lui. Le slacciò un bottone della camicetta con delicatezza. Uno soltanto. Poi si chinò di nuovo e le diede un altro di quei baci profondi e appassionati. Quando si sollevò per riprendere fiato, proseguì come se non fosse successo nulla. «Dimmi cos'hai bisogno di sentirti dire, e io lo dirò.» Slacciò un altro bottone. «Non ho bisogno di sentirmi dire niente» rise lei. Un altro bottone scivolò fuori dall'asola. «Puoi dirmi quello che vuoi... ma sarebbe carino se fosse vero.» «La verità, quindi? Nessuno vuole sentirsi dire la verità. La verità non è mai sexy. Tu invece...» Slacciato l'ultimo bottone, Christian aprì la camicetta. «Sei davvero troppo sexy per essere vera.» In quelle parole echeggiò il solito tono beffardo, ma i suoi occhi diedero un messaggio assai diverso. Assistevo a questo spettacolo attraverso gli occhi di Lissa, eppure potevo immaginare cosa vedesse lui. La pelle di lei, candida e vellutata. Vita e fianchi sottili. Un reggiseno di pizzo bianco. Sentivo che il pizzo le dava un po' di prurito, ma che non le importava. Il volto di Christian si caricò di emozioni dense di dolcezza e avidità. Sentii il cuore di Lissa accelerare il battito e il suo respiro farsi più veloce. Emozioni simili a quelle di Christian annebbiarono ogni altro pensiero razionale. Abbassandosi, lui le si distese sopra, premendo il corpo contro quello di lei. La sua bocca cercò di nuovo quella di Lissa, e quando le loro labbra e le loro lingue entrarono in contatto, decisi che dovevo uscire da lì. Perché ormai avevo capito. Avevo capito perché Lissa si era vestita bene e perché il nido d'amore era stato agghindato come uno showroom della Yankee Candle. C'eravamo. Il momento era arrivato. Uscivano insieme da un mese, e adesso stavano per fare sesso. Sapevo che Lissa l'aveva già fatto col suo ex. Non conoscevo i trascorsi di Christian, ma in tutta sincerità non credevo che fossero molte, le ragazze cadute preda del suo fascino caustico. Potendo provare ciò che provava Lissa, però, sapevo che non le importava. Non in quel

momento. In quel momento esistevano loro due soltanto, e ciò che sentivano l'uno per l'altra. E avendo molte più preoccupazioni di quante avrebbero dovuto averne una ragazza della sua età, Lissa si sentiva assolutamente certa di ciò che stava facendo. Era ciò che voleva. Ciò che aveva desiderato a lungo. E io non avevo alcun diritto di assistere. Chi volevo prendere in giro? Io non volevo assistere. Non provavo piacere nel guardare le altre persone che ci davano dentro, e senz'ombra di dubbio non volevo sperimentare il sesso con Christian. In pratica sarebbe stato come perdere la verginità. Ma santo Dio, Lissa non mi stava affatto rendendo le cose semplici. Non aveva alcun desiderio di frenare sentimenti ed emozioni, e quanto più questi crescevano, tanto più mi trattenevano in lei. Per prendere le distanze da Lissa mi sforzai di tornare in me stessa, concentrandomi con tutte le mie forze. Altri vestiti sparirono... Forza, forza, mi dissi con risolutezza. Saltò fuori un preservativo... accidenti. Sii te stessa, Rose. Torna nella tua mente. Le loro gambe si intrecciarono mentre i loro corpi si muovevano all'unisono... Porca... Mi strappai via da Lissa e tornai in me. Ero di nuovo in camera mia, ma non avevo più alcuna voglia di preparare lo zaino. Il mio mondo era a soqquadro. Avevo una strana sensazione e mi sentivo come violata, quasi che non sapessi bene se ero Rose o Lissa. Mi era anche tornato quel rancore nei confronti di Christian. Di certo non volevo essere io a fare sesso con Lissa, ma avvertivo quel tarlo: la frustrazione di non essere più io il centro del suo mondo. Lasciai lo zaino così com'era e andai dritta a letto, stringendomi tra le braccia e raggomitolandomi nel tentativo di soffocare il malessere che mi bruciava nel petto. Mi addormentai piuttosto in fretta, e mi svegliai presto. Di solito per incontrarmi con Dimitri dovevo trascinarmi fuori dal letto con la forza, ma quel giorno arrivai in palestra prima di lui, tanto ero in anticipo. Mentre lo aspettavo avvistai Mason; stava prendendo una scorciatoia per raggiungere una delle costruzioni in cui si trovavano le aule. «Ehi, tu» gridai. «Da quand'è che ti alzi così presto?» «Da quando ho da rifare un test di matematica» disse avvicinandosi. Mi fece uno dei suoi sorrisi maliziosi. «Però potrebbe valere la pena di bigiare, per stare con te.» Scoppiai a ridere, ripensando alla conversazione avuta con Lissa. Sì, flirtare e iniziare una storiella con Mason non era il peggio che potesse capitarmi. «Potresti metterti nei guai, e così mi ritroverei senza un degno avversario sulle piste.» Fece roteare gli occhi, continuando a sorridere. «Sono io quello senza un degno avversario, ricordi?» «Sei pronto a scommetterci? O hai troppa paura?» «Vacci piano» mi avvertì, «altrimenti potrei decidere di tenermi il tuo regalo di Natale.» «Mi hai fatto un regalo?» Questo non me lo aspettavo. «Già. Ma se continui a fare l'impertinente, lo darò a qualcun altro.» «Tipo a Meredith?» lo stuzzicai. «Meredith non è al tuo livello, e lo sai.»

«Anche se ho un occhio nero?» chiesi con una smorfia. «Anche se ne avessi due, di occhi neri.» Lo sguardo che mi rivolse a quel punto non fu di scherno, e neppure sfrontato. Fu dolce e basta. Dolce, gentile, e pieno di riguardo. Come se ci tenesse davvero. Considerato lo stress subito nell'ultimo periodo, decisi che mi piaceva l'idea di avere qualcuno che teneva a me. E dato il disinteresse che cominciavo ad avvertire da parte di Lissa, mi resi conto che era gradevole avere qualcuno disposto a dedicarmi tutte queste attenzioni. «Che fai per Natale?» chiesi. Scrollò le spalle. «Niente. Doveva venire mia mamma, ma all'ultimo ha dovuto annullare... sai, dopo quello che è successo.» La madre di Mason non era un guardiano. Era una dhampir che aveva deciso di restare a casa e avere figli, perciò lui la vedeva abbastanza spesso. Ironia della sorte, mia madre era qui ma, per quel che era venuta a fare, avrebbe anche potuto benissimo essere altrove. «Passalo con me» dissi d'impulso. «Starò con Lissa e Christian e sua zia. Sarà divertente.» «Davvero?» «Molto divertente.» «Non ti stavo chiedendo quello.» Sogghignai. «Lo so. Vieni e basta, okay?» Mi fece uno di quegli inchini eleganti che gli piaceva fare. «Senz'altro.» Mason si allontanò proprio quando arrivò Dimitri per l'allenamento. Parlare con Mason mi aveva fatta sentire spensierata e felice; in sua compagnia non avevo pensato alla mia faccia. Con Dimitri, però, mi sentii di nuovo a disagio. Davanti a lui volevo essere perfetta, e mentre camminavamo, mi tenni a distanza e non gli rivolsi neppure uno sguardo, così da evitare che vedesse il mio viso per intero. La mia preoccupazione influì sul mio umore, che presto s'incupì. E gli altri pensieri che mi avevano turbata tornarono alla carica. Andammo nella sala coi manichini, e Dimitri mi disse che voleva che riprovassi le mosse di due giorni prima. Contenta del fatto che non mi avesse proposto un combattimento, mi misi al lavoro con dedizione, e feci vedere ai manichini come finiva chi si metteva contro Rose Hathaway. Sapevo che il mio furore non era alimentato solo dal semplice desiderio di far bene. Dopo lo scontro con mia madre, e dopo ciò a cui avevo assistito la notte passata con Lissa e Christian, le mie emozioni quella mattina erano fuori controllo, ruvide e intense. Dimitri si mise seduto a guardarmi, e di quando in quando criticò la mia tecnica e mi offrì qualche suggerimento per nuove tattiche. «Hai i capelli davanti al viso» disse a un certo punto. «Non solo ostruisci la tua visione periferica, ma rischi anche di offrire una presa al nemico.» «Quando dovrò sostenere uno scontro vero me li legherò» borbottai mentre affondavo con precisione il paletto tra le costole del manichino. Non sapevo di cosa fossero fatte quelle ossa artificiali, ma trapassarle era una faticaccia. Mi feci venire in mente mia mamma e aggiunsi un po' di forza all'affondo. «Oggi li porto sciolti, ecco tutto.» «Rose» mi ammonì lui. Facendo finta di non averlo sentito affondai di nuovo il paletto. Quando Dimitri tornò a parlare, la sua voce suonò più affilata. «Rose. Fermati.» Mi allontanai dal manichino, e scoprii con sorpresa di avere l'affanno. Non mi ero accorta di aver lavorato con tanta intensità. Finii con la schiena contro il muro. Senza vie di fuga, distolsi gli occhi da Dimitri, volgendoli al pavimento.

«Guardami» ordinò. «Dimitri...» «Guardami.» Non importava quali fossero i nostri trascorsi recenti; Dimitri restava il mio istruttore. Non potevo ignorare un suo ordine. Con lentezza, e riluttanza, mi voltai verso di lui, tenendo un po' piegata la testa affinché i capelli mi ricadessero lungo i lati del viso. Lui si alzò dalla sedia, si avvicinò e mi si parò davanti. Evitai il suo sguardo, ma vidi la sua mano allungarsi per scostarmi i capelli. Poi si fermò. Come il mio respiro. La nostra fugace attrazione era stata carica di dubbi e riserve, ma di una cosa ero certa: Dimitri aveva sempre amato i miei capelli. Forse li amava ancora. Erano molto belli, devo ammetterlo. Lunghi e setosi e scuri. Al tempo, cercava sempre delle scuse per toccarli e mi aveva sconsigliato di tagliarli, cosa che facevano molti guardiani donna. La sua mano esitò, e mentre io aspettavo di capire cosa avrebbe fatto, il mondo si fermò. Dopo quella che mi parve un'eternità, Dimitri lasciò ricadere la mano lungo il fianco. Una delusione bruciante mi travolse, ma mi resi conto di una cosa. Aveva esitato. Aveva avuto paura di toccarmi. Il che forse - forse - significava che sentiva ancora il desiderio di farlo. Aveva dovuto trattenersi. Sollevai lentamente la testa, in modo che potessimo guardarci negli occhi. I capelli scivolarono via dal viso; non tutti, però. La sua mano accennò un movimento, e io sperai che stesse per allungarla di nuovo. Ma restò ferma. La mia eccitazione si placò. «Fa male?» chiese. Mi giunse il profumo del dopobarba, mescolato all'odore del suo sudore. Dio, quanto avrei voluto che mi toccasse. «No» mentii. «Non sembra messo così male» disse. «Guarirà.» «La odio» dissi, sconcertata per la quantità di veleno contenuta in quelle due parole. Anche se d'improvviso mi sentivo su di giri e desideravo Dimitri, non riuscivo a liberarmi del rancore che provavo nei confronti di mia madre. «No, non è vero» disse lui con gentilezza. «Sì.» «Tu non hai il tempo per odiare qualcuno» dichiarò. La sua voce era ancora gentile. «Non col tuo lavoro. Dovresti fare pace con lei.» Lissa aveva detto la stessa, identica cosa. Alle emozioni che già provavo andò ad aggiungersi il risentimento. Le tenebre racchiuse in me iniziarono a espandersi. «Fare pace con lei? Dopo che mi ha fatto un occhio nero? Come mai sono l'unica ad accorgersi di quanto è assurdo tutto questo?» «Non l'ha fatto apposta» disse lui con severità. «Non importa quanto tu ce l'abbia con lei. Devi crederci. Non l'avrebbe mai fatto di sua volontà, e comunque quel giorno ci siamo visti, dopo che era successo. Era preoccupata per te.» «Magari era preoccupata che qualcuno l'accusasse di maltrattamento su un minore» borbottai. «Non credi che questo sia un periodo dell'anno adatto al perdono?» Feci un gran sospiro. «Questo non è l'episodio di Natale di una serie tivù! Questa è la mia vita. Nel mondo reale i miracoli e le buone azioni non esistono, punto.» Continuava a fissarmi con tranquillità. «Nel mondo reale, puoi realizzare i tuoi, di miracoli.» La mia frustrazione raggiunse il punto di non ritorno, e così non cercai più di mantenere il controllo. Ne avevo abbastanza di sentirmi dire cose sensate, realistiche, ogni volta che qualcosa nella mia vita andava storto. Una parte di me sapeva che Dimitri voleva soltanto essermi d'aiuto, ma non ero affatto propensa ai discorsi pieni di buoni sentimenti. Avevo bisogno di conforto. Non

avevo voglia di pensare a ciò che avrebbe potuto rendermi una persona migliore. Avrei voluto che mi abbracciasse e mi dicesse di non preoccuparmi, tutto qui. «Okay, vuoi finirla una volta tanto?» domandai, le mani sui fianchi. «Finirla?» «Con tutte queste balle zen. Parli come se non fossi una persona in carne e ossa. Non fai altro che dispensare assurde lezioni di vita. Come se fossi in un film di Natale.» Sapevo che non era del tutto giusto riversare su di lui la mia rabbia, ma finii per urlare. «Giuro, a volte dai l'impressione di parlare solo per il gusto di starti a sentire! E so anche che non ti comporti sempre così. Quando parli con Tasha sei perfettamente normale. Con me, invece? Ci riesci a stento. Non t'importa niente di me. Sei incastrato nel tuo stupido ruolo di mentore.» Mi guardò con tanto d'occhi, insolitamente sorpreso. «Non mi importa niente di te?» «No.» Mi stavo comportando in maniera meschina. Molto, molto meschina. E conoscevo la verità, e cioè che a lui importava di me e che era molto più che un semplice mentore. Eppure non riuscivo a fermarmi. Le cattiverie continuavano a uscirmi di bocca. Gli conficcai un dito nel petto. «Per te sono solo una studentessa come tante. Non fai altro che ripetermi le tue stupide perle di saggezza in modo che...» Tutto a un tratto, la mano che avevo sperato mi toccasse i capelli mi afferrò il dito che gli puntavo contro. Mi inchiodò la mano al muro, e fui sorpresa di scorgere una vampata di emozione nei suoi occhi. Non si trattava di rabbia, non proprio, si trattava di un altro genere di frustrazione. «Non dirmi cosa provo» ringhiò. Solo allora mi accorsi di come la metà di ciò che avevo detto fosse vero. Dimitri rimaneva quasi sempre calmo e padrone di sé, anche in combattimento. Però mi aveva anche raccontato di come, in un'occasione, si fosse lasciato prendere dalla rabbia e avesse picchiato suo padre, un Moroi. Un tempo era proprio come me: sempre pronto ad agire senza riflettere, a fare cose che sapeva di non dover fare. «È così, non è vero?» «Cosa?» «Devi sempre lottare contro te stesso per riuscire a dominarti. Sei come me.» «No» disse, ancora palesemente accalorato. «Ho imparato a controllarmi.» Questa nuova consapevolezza mi infuse coraggio. «No» lo informai. «Non l'hai fatto. Fai buon viso a cattivo gioco, e riesci a dominarti nella maggior parte dei casi. Ma a volte non ci riesci. Altre volte, invece...» Mi sporsi in avanti, abbassando la voce. «Altre volte non hai voglia di farlo.» «Rose...» Mi accorsi che il suo respiro si era fatto pesante e sapevo che il suo cuore stava battendo forte quanto il mio. E non si stava ritraendo. Sapevo quanto fosse sbagliato: conoscevo già tutte le ragioni che avrebbero dovuto tenerci lontani. In quel momento, però, non contavano. Non volevo dominarmi. Non volevo fare la brava. Prima che Dimitri si rendesse conto di ciò che stava succedendo, lo baciai. Le nostre labbra s'incontrarono, e quando lo sentii ricambiare il bacio seppi che avevo ragione. Premette il suo corpo contro il mio, immobilizzandomi con le spalle al muro. Continuò a tenermi bloccata la mano, ma con l'altra s'insinuò dietro la mia testa, facendola scivolare tra i capelli. Il bacio era così intenso: racchiudeva rabbia, passione, sollievo... Fu lui a interromperlo. Si ritrasse e indietreggiò di qualche passo; aveva l'aria scossa. «Non farlo mai più» disse con freddezza.

«E allora tu non ricambiare» ribattei. Mi fissò per quella che mi sembrò un'eternità. «Io non do "lezioni zen" per il gusto di starmi a sentire. E neppure perché sei una studentessa come gli altri. Lo faccio per insegnarti l'autocontrollo.» «Stai facendo un gran bel lavoro» dissi aspramente. Lui tenne chiusi gli occhi per mezzo secondo, espirò, e mormorò qualcosa in russo. Senza degnarmi di un altro sguardo, si voltò e uscì dalla stanza.

Non rividi Dimitri per un po'. Quello stesso giorno mi mandò un messaggio nel quale diceva che era meglio annullare i due allenamenti successivi, in vista dell'imminente partenza dal campus. Le lezioni stavano comunque per terminare, aggiunse; prenderci una pausa sembrava la cosa più sensata. Era una scusa che non stava in piedi, e sapevo bene che non era questo il motivo per cui aveva annullato le lezioni. Se proprio voleva evitarmi, avrei preferito che si fosse inventato qualcos'altro: che doveva aumentare la vigilanza insieme agli altri guardiani o provare qualche segretissima mossa ninja. Al di là della scusa, comunque, sapevo bene che voleva evitarmi a causa del bacio. Quel maledetto bacio. Non me ne pentivo, non proprio. Dio solo sapeva quanto avessi desiderato baciarlo. Però l'avevo fatto per le ragioni sbagliate. L'avevo fatto perché ero sconvolta e frustrata, e perché avevo voluto dimostrare che potevo farlo. Ne avevo abbastanza di fare ciò che era giusto e ragionevole. Negli ultimi tempi stavo cercando di dominarmi, ma avevo l'impressione di peggiorare. Non avevo dimenticato l'ammonimento di Dimitri: non era solo un problema d'età a impedirci di stare insieme. Una relazione avrebbe interferito col nostro lavoro. Costringendolo a baciarmi, be', avevo aggravato una situazione già di per sé problematica, che avrebbe potuto nuocere a Lissa. Non avrei dovuto farlo. Ma non avevo saputo trattenermi. Ora vedevo le cose con maggiore chiarezza e non mi capacitavo dell'accaduto. La mattina di Natale mi incontrai con Mason, e insieme raggiungemmo gli altri. Era una buona occasione per levarmi Dimitri dalla testa. Mason mi piaceva parecchio. E comunque non dovevo per forza fuggire con lui o sposarlo, no? Come diceva Lissa, mi avrebbe fatto bene ricominciare a uscire con qualcuno. Tasha aveva allestito il brunch natalizio in un elegante salone dell'Accademia, nell'area riservata agli ospiti. In tutta la scuola si erano tenute parecchie festicciole e attività di gruppo, ma mi ero accorta ben presto che la presenza di Tasha suscitava sempre turbamento. Le persone la fissavano di sottecchi, oppure si scansavano al suo passaggio. Certe volte Tasha li sfidava; certe altre cercava solo di non dare nell'occhio. Quel giorno aveva deciso di tenersi alla larga dagli altri reali e di godersi questa piccola festa privata in compagnia di chi non la fuggiva. Dimitri era stato invitato, e al vederlo i miei fermi propositi vacillarono un po'. Si era messo in ghingheri per l'occasione. Okay, forse "in ghingheri" è un'esagerazione, ma non l'avevo mai visto

vestito così. Di solito aveva un'aria un po' rozza, come se stesse sempre per lanciarsi in una battaglia. Quel giorno aveva legato i capelli scuri sulla nuca, e dava l'impressione di essersi dato molto da fare per sistemarli alla perfezione. Indossava i soliti jeans e gli stivali di pelle, ma invece di una T-shirt o di una maglia termica, portava un favoloso maglione nero. Era un normalissimo maglione, ma gli regalava un tocco di raffinatezza a cui non ero abituata, e accidenti, se gli stava bene. Dimitri non fu sgarbato né altro, ma non si sforzò neppure di fare conversazione con me. Parlò con Tasha, e io restai a guardarli affascinata mentre chiacchieravano in quel loro modo tranquillo. Dall'ultima volta, ero venuta a sapere che un caro amico di lui era un lontano cugino della famiglia di Tasha: era per questo che si conoscevano. «Cinque?» chiese Dimitri sorpreso. Stavano parlando dei figli di quest'amico. «Non lo sapevo.» Tasha annuì. «È una follia. Giuro, credo che non abbia concesso a sua moglie più di sei mesi tra una gravidanza e l'altra. E lei è anche bassa, quindi diventa sempre più larga.» «Quando l'ho conosciuto giurava che non avrebbe mai avuto figli.» Gli occhi di lei si spalancarono elettrizzati. «Lo so! Non riesco a crederci. Dovresti vederlo adesso. È un amore, con loro. Metà delle volte non riesco neanche a capirlo. Giuro, parla più bambinese che altro.» Dimitri sorrise con quel suo raro sorriso. «Be', è questo l'effetto che fanno i bambini alle persone.» «Non riesco a immaginare che una cosa simile possa capitare a te» disse lei ridendo. «Tu sei sempre così imperturbabile. Certo, se tu avessi dei bambini, suppongo che gli parleresti in russo, quindi nessuno potrebbe capirvi.» Scoppiarono a ridere, e io mi voltai, contenta che ci fosse Mason con cui parlare. Era una buona distrazione da tutto il resto, visto che non soltanto Dimitri mi ignorava, ma Lissa e Christian chiacchieravano rinchiusi nel loro piccolo mondo. Sembrava che il sesso li avesse fatti innamorare ancora di più, e mi chiesi se sarei riuscita a trascorrere del tempo con lei durante la gita sulla neve. Alla fine lei riuscì a sfuggirgli per darmi il regalo di Natale. Aprii la scatola e diedi un'occhiata. Vidi un filo di perline marroni, e dall'interno si sollevò un profumo di rose. «Cosa dia...» Tirai fuori le perline, e una croce d'oro massiccio fece la sua apparizione, penzolando dal filo. Mi aveva regalato un chotki. Somigliava a un rosario, era solo più piccolo. Grande quanto un braccialetto. «Stai cercando di convertirmi?» chiesi sarcastica. Lissa non era una fanatica, ma credeva in Dio e andava regolarmente in chiesa. Come molte famiglie provenienti dalla Russia e dall'Europa dell'est, era una cristiana ortodossa. Io? Io ero un'agnostica ortodossa, più o meno. Ritenevo probabile che Dio esistesse, ma non avevo né il tempo né le energie per andare più a fondo nella questione. Lissa rispettava questo mio pensiero e non aveva mai cercato di inculcarmi il suo credo, il che rendeva il suo regalo ancora più singolare. «Girala» disse, palesemente compiaciuta del mio stupore. Lo feci. Sul retro della croce era stato inciso nell'oro un drago avvolto dai fiori. L'emblema dei Dragomir. La guardai, perplessa. «È un cimelio di famiglia» disse. «Un caro amico di papà ha messo via parecchie scatole di cose sue. L'ho trovato là dentro. Apparteneva al guardiano della mia bisnonna.»

«Liss...» dissi. Il chotki assunse un significato del tutto nuovo. «Non posso... non puoi regalarmi una cosa simile.» «Be', di sicuro non posso tenerlo io. È fatto per un guardiano. Il mio guardiano.» Infilai i grani attorno al polso. La croce era fredda contro la pelle. «Tu lo sai, vero» scherzai, «che ci sono buone probabilità che io venga cacciata da scuola prima di diventare il tuo guardiano?» Sorrise. «Be', in quel caso puoi sempre restituirmelo.» Scoppiarono tutti a ridere. Tasha fece per dire qualcosa, poi lanciò un'occhiata in direzione della porta e s'interruppe. «Janine!» Mia madre era là, rigida e impassibile come sempre. «Scusate il ritardo» disse. «Avevo delle faccende di lavoro da sbrigare.» Lavoro. Come al solito. Persino a Natale. Il ricordo del nostro litigio mi tornò subito alla mente, e avvertii lo stomaco rivoltarsi e le guance avvampare. Da quando era capitato, due giorni prima, non aveva mai tentato di mettersi in contatto con me; neanche quando ero andata in infermeria. Non aveva neppure provato a scusarsi. Niente. Serrai i denti. Si sedette con noi e ben presto si unì alla conversazione. Avevo scoperto ormai da tempo che c'era un solo argomento di cui fosse in grado di parlare: affari da guardiani. Mi chiedevo se avesse degli hobby. L'attacco ai Badica era tra i pensieri di ognuno di noi, e questo la indusse a raccontare di scontri simili in cui si era ritrovata coinvolta. Con mio orrore, Mason pendeva dalle sue labbra. «Be', le decapitazioni non sono facili come sembrano» disse con quel suo piglio pragmatico. Io non credevo che fossero semplici, ma il suo tono sottintendeva che ogni altra persona le considerasse una passeggiata. «Bisogna trapassare il midollo spinale e i tendini.» Il legame mi disse che a Lissa stava venendo la nausea. Non era il tipo da conversazioni raccapriccianti. Gli occhi di Mason si illuminarono. «Qual è l'arma migliore per farlo?» Mia madre ci pensò su. «Un'ascia. Puoi imprimerle una forza maggiore.» Ruotò un braccio in modo da chiarire il concetto. «Fico» disse lui. «Spero che mi lascino portare un'ascia.» Era un'idea buffa e ridicola, visto che le asce non erano armi tanto comode da portarsi in giro. Per mezzo secondo il pensiero di Mason che scendeva lungo una strada con un'ascia in spalla migliorò il mio umore. Quell'attimo svanì in fretta. A essere onesta, stentavo a credere che stessimo parlando di queste cose il giorno di Natale. La presenza di mia madre aveva rovinato tutto. Per fortuna, la riunione presto si sciolse. Christian e Lissa scapparono a fare le proprie cosucce, e a quanto pareva Dimitri e Tasha avevano altre novità da raccontarsi. Mason e io ci eravamo già incamminati verso gli alloggi dei dhampir, quando mia madre si unì a noi. Nessuno dei tre disse una parola. Le stelle, nitide e luminose, riempivano il cielo scuro, e il loro scintillio si sposava col ghiaccio e la neve attorno a noi. Indossavo il mio parka color avorio bordato di pelliccia sintetica. Era perfetto per tenermi al caldo, anche se non poteva nulla contro le folate fredde che mi seccavano la pelle del viso. Lungo tutto il tragitto, mi limitai ad aspettare che mia madre svoltasse, per avviarsi alla zona riservata ai guardiani, invece entrò con noi nell'alloggio per studenti. «Vorrei parlarti» disse infine. Mi allarmai. Cosa avevo fatto adesso?

Non aggiunse altro, ma Mason capì. Non era né stupido né incapace di recepire quel genere di segnali, anche se in quel momento avrei voluto che lo fosse. Inoltre, trovavo divertente il fatto che volesse combattere tutti gli Strigoi del mondo, ma avesse una gran paura di mia madre. Mi lanciò un'occhiata per scusarsi, fece spallucce e disse: «Ehi, devo andare, ehm, in un posto. Ci vediamo dopo.» Rimasi a guardarlo dispiaciuta mentre si allontanava, col desiderio di potergli correre dietro. Con ogni probabilità, se avessi tentato di scappare, mia madre mi sarebbe saltata addosso e mi avrebbe preso a pugni l'altro occhio. Meglio fare le cose a modo suo e togliersi il pensiero. Cominciavo a sentirmi a disagio, e nell'attesa che iniziasse a parlare posai lo sguardo ovunque, tranne che su di lei. Con la coda dell'occhio mi accorsi di alcune persone che guardavano nella nostra direzione. D'improvviso, al pensiero che tutti sapessero che era stata lei a farmi un occhio nero, decisi che non volevo testimoni, qualunque fosse la ramanzina che mia madre stava per scatenarmi contro. «Vuoi, uhm, che andiamo in camera mia?» Mi parve sorpresa, quasi esitante. «Certo.» Le feci strada fino al piano di sopra, tenendomi a distanza di sicurezza. Una tensione sgradevole s'innescò tra di noi. Quando arrivammo in camera lei non disse nulla, ma la vidi esaminare con attenzione ogni particolare, come se lì dentro potesse esserci uno Strigoi in agguato. Mentre passeggiava avanti e indietro, io mi sedetti sul letto e aspettai, incerta sul da farsi. Fece scorrere le dita su una pila di libri che trattavano di etologia ed evoluzione della specie. «Servono per un compito?» chiese. «No. Mi interessano e basta.» Sollevò un sopracciglio. Non lo sapeva. Ma come avrebbe potuto? Ignorava tutto di me. Proseguì con l'ispezione, soffermandosi sui dettagli che a quanto pareva la sorprendevano. Una foto di me e Lissa vestite da fatine per Halloween. Un pacchetto di SweeTarts. Era come se mia madre mi incontrasse per la prima volta. Tutto a un tratto si voltò e tese una mano nella mia direzione. «Tieni.» Allibita, mi sporsi e misi il palmo sotto il suo. Qualcosa di piccolo e freddo cadde nella mia mano. Era un piccolo ciondolo rotondo, non più grande di una monetina da dieci cent. Su una base d'argento era posato un disco piatto, composto di cerchi di vetro colorato. Corrugai la fronte e feci correre il pollice sulla superficie. Era curioso, i cerchi lo facevano somigliare quasi a un occhio. Il cerchio più interno era minuscolo, proprio come una pupilla. Era di un blu talmente profondo da sembrare nero. Attorno a esso c'era un cerchio più grande, azzurro chiaro, che a sua volta era circondato da un cerchio bianco. Un anello sottilissimo del medesimo blu scuro delimitava l'esterno. «Grazie» dissi. Non mi aspettavo di ricevere qualcosa da lei. Il regalo era bizzarro - perché diavolo avrebbe dovuto regalarmi un occhio? - ma era comunque un regalo. «Io... io non ti ho preso niente.» Mia madre fece un cenno col capo; il suo viso era tornato indifferente e privo di espressione. «Va bene così. Non mi serve niente.» Si voltò e iniziò a girare per la stanza. Non c'era molto spazio, ma la bassa statura le permetteva di fare passi piccoli. Ogni volta che passava davanti alla finestra sopra il mio letto, la luce le lambiva i capelli ramati, accendendoli di colore. La osservai incuriosita e mi resi conto che era nervosa quanto me. Smise di fare avanti e indietro e si voltò per guardarmi. «Come sta il tuo occhio?» «Migliora.» «Bene.» Schiuse le labbra, ed ebbi la sensazione che fosse sul punto di scusarsi. Ma non lo fece.

Quando riprese a camminare, non riuscii più a tollerare di starmene con le mani in mano. Iniziai a mettere via i regali. Avevo racimolato un gran bel bottino, quella mattina. C'era l'abito di seta che mi aveva dato Tasha, rosso e con un ricamo a fiori. Mia madre rimase a osservarmi mentre lo riponevo nella minuscola cabina armadio della camera. «È stato molto gentile da parte di Tasha.» «Già» dissi. «Non sapevo che mi avrebbe fatto un regalo. Tasha mi piace molto.» «Anche a me.» Presa alla sprovvista, mi voltai e guardai mia mamma. Il suo stupore rifletteva il mio. Magari avevo frainteso, ma a quanto pare ci eravamo appena trovate d'accordo su qualcosa. Forse i miracoli natalizi accadevano davvero. «Per lei il guardiano Belikov sarà un buon partito.» «Io...» Sbattei le palpebre, non del tutto certa di aver capito bene il senso delle sue parole. «Dimitri?» «Il guardiano Belikov» mi corresse con piglio severo, ancora in disaccordo sulla maniera informale con cui mi riferivo a lui. «Che... che genere di partito?» chiesi. Sollevò un sopracciglio. «Non l'hai saputo? Lei gli ha chiesto di farle da guardiano, visto che non ne ha uno.» Mi sentii come se mi avessero preso a pugni di nuovo. «Ma lui... è assegnato all'Accademia. E a Lissa.» «Si troverà un accordo. E nonostante la reputazione degli Ozera, lei resta un membro reale. Può farsi valere, con le dovute pressioni.» Fissai nel vuoto. «Be', immagino che siano amici e quindi...» «Più che amici, o comunque potrebbero diventarlo.» Bam! Un altro pugno. «Cosa?» «Uhm? Oh. Lei ha... un certo interesse per lui.» A giudicare dal tono della sua voce, era chiaro che le questioni romantiche non la sfiorassero neppure. «Desidera avere un figlio dhampir e così, se lui diventasse il suo guardiano, in futuro potrebbero fare un, ehm, accordo.» O. Mio. Dio. Il tempo si fermò. Il mio cuore smise di battere. Mi accorsi che mia madre si aspettava un mio commento. Era appoggiata alla scrivania, e mi fissava. Poteva anche essere un asso nel dare la caccia agli Strigoi, ma dei miei sentimenti non sapeva nulla. «E lui lo farà? Diventerà il suo guardiano?» chiesi con un filo di voce. Mia madre fece spallucce. «Non credo che abbia già accettato, ma lo farà di sicuro. È una grande occasione.» «Certo» le feci eco. Perché mai Dimitri avrebbe dovuto rifiutare l'opportunità di fare da guardiano a una sua amica e di avere un figlio? Credo che mia madre abbia detto qualcos'altro, subito dopo, ma io non lo sentii. Non sentii più nulla. Pensai e ripensai a Dimitri che lasciava l'Accademia, che mi lasciava. Pensai a quanto

andavano d'accordo, lui e Tasha. E poi, dopo i ricordi, la mia fantasia iniziò a improvvisare scenari futuri. Tasha e Dimitri insieme. Che si toccavano. E baciavano. Nudi. E altro ancora... Chiusi gli occhi, strizzandoli per mezzo secondo, poi li riaprii. «Sono molto stanca.» Mia madre troncò a metà la frase. Non avevo la minima idea di cosa stesse dicendo prima che la interrompessi. «Sono molto stanca» ripetei. Mi resi conto della nota cupa nella mia voce. Svuotata. Priva di ogni emozione. «Grazie per l'occhio... uhm, per quell'affare, ma se non ti dispiace...» Mia madre mi fissò sconcertata, l'espressione vulnerabile e confusa. Poi, come se niente fosse, tornò a opporre il solito muro di fredda professionalità. Fino a quel momento non mi ero accorta di quanto si fosse lasciata andare. Ma l'aveva fatto. Per un solo istante, si era mostrata vulnerabile con me. Poi, tutt'a un tratto, quella vulnerabilità era svanita. «Certo» disse con freddezza. «Non voglio disturbarti.» Avrei voluto dirle che il motivo non era quello. Avrei voluto dirle che non la stavo cacciando fuori perché ce l'avevo con lei. E avrei voluto dirle che mi sarebbe piaciuto che fosse quel genere di madre amorevole e comprensiva di cui si sente sempre parlare, qualcuno con cui potersi confidare. Forse addirittura una madre con cui discutere della mia travagliata vita sentimentale. Dio. Desideravo poterne parlare con chiunque, in realtà. Soprattutto in quel momento. Ma ero troppo presa dal mio dramma personale per dire una parola. Avevo la sensazione che qualcuno mi avesse strappato il cuore e l'avesse gettato dall'altra parte della stanza. Provavo un dolore cocente, lacerante al petto, e non avevo idea di come placarlo. Un conto era accettare di non poter avere Dimitri. Ma sapere che qualcun altro poteva averlo era tutt'altra questione. Non le dissi altro, perché non riuscivo più a parlare. Gli occhi le luccicarono di rabbia, e le sue labbra si serrarono in quella tesa smorfia di malcontento che spesso aveva sul viso. Senza aggiungere altro si voltò e andò via, sbattendosi la porta alle spalle. Quella di sbattere la porta era una cosa che avrei fatto anch'io, in realtà. Senza dubbio avevamo qualche gene in comune. Mi scordai di lei quasi subito, però. Me ne rimasi seduta a riflettere. Riflettere e lavorare di fantasia. Trascorsi il resto della giornata facendo poco altro. Saltai la cena. Versai qualche lacrima. Ma soprattutto rimasi seduta sul letto a pensare e a deprimermi sempre di più. Scoprii anche che c'era una sola cosa peggiore rispetto all'immaginare Dimitri e Tasha insieme: ricordare i momenti in cui lui e io eravamo stati insieme. Non mi avrebbe mai più toccata in quel modo, non mi avrebbe mai più baciata... Fu il peggior Natale in assoluto.

La gita sulla neve non sarebbe potuta arrivare in un momento migliore. Era impossibile togliermi Dimitri e Tasha dalla testa, ma finché mi occupavo delle valigie e dei preparativi fui in grado di non dedicare loro il cento percento delle mie energie mentali. Diciamo qualcosa come il novantacinque percento. E per distrarmi potevo fare affidamento anche su altre cose. L'Accademia era davvero iperprotettiva nei nostri confronti - a ragione, certo - e a volte questo si traduceva in vere meraviglie. Un esempio: l'Accademia aveva a disposizione un paio di jet privati. Questo voleva dire che nessuno Strigoi avrebbe mai potuto attaccarci in un aeroporto, e voleva anche dire che avremmo viaggiato con classe. I jet erano più piccoli degli aerei di linea, ma avevano sedili comodi e un sacco di spazio per le gambe. Gli schienali si reclinavano così tanto che ci si poteva distendere e dormire. Durante i voli lunghi, avevamo a disposizione una selezione di film grazie a un piccolo quadro comandi installato nei sedili. A volte ci servivano anche raffinate leccornie. A ogni modo, ero pronta a scommettere che questo volo si sarebbe rivelato troppo breve per qualunque film o per un pasto sostanzioso. Partimmo il ventisei in tarda serata. Quando salii a bordo del jet, mi guardai attorno in cerca di Lissa con l'intenzione di parlarle. Era dal brunch di Natale che non riuscivamo a dirci più di due parole. Non rimasi sorpresa nel vederla seduta in compagnia di Christian; non avevano l'aria di voler essere disturbati. Non riuscivo a sentire che cosa si dicessero, ma lui l'aveva circondata con un braccio e sul viso aveva quell'espressione rilassata, amoreggiante, che solo lei riusciva a tirargli fuori. Rimanevo del tutto convinta che Christian non avrebbe saputo prendersi cura di lei bene quanto me, ma che sapesse renderla felice era lampante. Sfoderai un sorriso e, quando passai loro accanto, li salutai con un cenno del capo. Proseguii lungo il corridoio, fin dove Mason si sbracciava per me. Così facendo, passai anche accanto a Dimitri e Tasha, che sedevano vicini. Li ignorai apertamente. «Ehi» dissi lasciandomi scivolare nel sedile accanto a Mason. Mi sorrise. «Ehi. Sei pronta per la nostra sfida sugli sci?» «Mai stata così pronta.» «Non ti preoccupare» disse. «Ci andrò piano.» Gli rivolsi una smorfia e posai la testa contro il sedile. «Tu soffri di allucinazioni.» «I ragazzi sani di mente sono noiosi.» Con mia grande sorpresa Mason fece scivolare la mano sulla mia. La sua pelle era calda, e avvertii un formicolio nel punto in cui mi aveva toccato. Fui percorsa da un brivido. Mi ero convinta che Dimitri fosse ormai l'unico ragazzo capace di suscitare in me una qualche reazione. È arrivato il momento di voltare pagina, pensai. È ovvio che Dimitri l'ha fatto. Tu avresti dovuto farlo molto tempo fa. Intrecciai le dita con quelle di Mason, prendendolo alla sprovvista. «Sì. Sarà divertente.» E lo fu. Cercai di non dimenticare che ci trovavamo lì in seguito a una tragedia, e che fuori c'erano Strigoi ed esseri umani che avrebbero potuto colpire di nuovo. Nessun altro pareva ricordarsene,

però, e devo ammettere che anch'io stavo incontrando qualche seria difficoltà. La struttura era magnifica. Era stata progettata in modo da somigliare a un rifugio di legno, ma nessun vecchio rifugio avrebbe mai potuto ospitare centinaia di persone o avere alloggi tanto lussuosi. Tre piani di un legno lucente, dorato, si adagiavano tra pini slanciati. C'erano grandi finestre, con una graziosa forma ad arco, oscurate per andare incontro alle necessità dei Moroi. A ciascun ingresso erano appese lanterne di cristallo - elettriche, ma con lampadine sagomate come fiammelle - che conferivano all'intero edificio un aspetto scintillante, quasi prezioso. Attorno a noi non c'erano altro che montagne, e i miei occhi da dhampir riuscivano a scorgerle a malapena, nella notte. Però ero pronta a scommettere che alla luce del sole il panorama sarebbe stato mozzafiato. Un lato del rifugio dava direttamente sulle piste da sci, che contavano discese ripidissime e gobbe di neve fresca, seggiovie e skilift. Un altro lato del rifugio si affacciava su una pista da pattinaggio sul ghiaccio, e l'idea di pattinare non mi dava tregua da quando ne avevo perso l'occasione quel giorno alla casupola nella foresta. Accanto alla pista c'erano delle montagnole riservate agli slittini. E questo solo per ciò che riguardava l'esterno. All'interno era stata previsto ogni genere di comodità al fine di soddisfare qualunque esigenza dei Moroi. I donatori erano a portata di mano, pronti a fare il loro dovere ventiquattr'ore su ventiquattro. Le piste funzionavano secondo un orario notturno. Difese magiche e guardiani attorniavano l'intero comprensorio. Tutto ciò che un vampiro avrebbe potuto desiderare nella vita. L'atrio principale aveva un alto soffitto di travi a vista da cui pendeva un mastodontico lampadario a corona. Il pavimento era piastrellato di marmi che formavano motivi complicati, e la reception rimaneva sempre aperta, per rispondere a qualunque nostro bisogno. Le parti restanti del rifugio, corridoi e saloni, erano decorate in accostamenti di rosso, nero e oro. Un'ampia varietà di rossi dominava sulle altre tonalità, e mi chiesi se la somiglianza col sangue fosse solo una coincidenza. Le pareti erano decorate di specchi e opere d'arte, e qui e là erano stati sistemati tavolini ornamentali. Sostenevano vasi di un verde pastello carichi di orchidee punteggiate di viola, che saturavano l'aria di una fragranza speziata. La camera che condividevo con Lissa era più grande delle nostre due stanze all'Accademia messe assieme, e aveva le stesse tinte cariche del resto del rifugio. La moquette era così folta e spessa che sulla porta mi sfilai subito le scarpe ed entrai scalza, godendomi la morbidezza in cui sprofondavano i miei piedi. Avevamo letti king-size, ricoperti di piumini d'oca sopra cui erano stati adagiati così tanti cuscini che - ne ero certa - una persona avrebbe potuto perdersi là dentro e scomparire per sempre. Le portefinestre si aprivano su un'ampia terrazza, il che era grandioso, visto che ci trovavamo all'ultimo piano. Peccato che fuori si gelasse. Avevo il sospetto che la vasca da bagno a due posti in fondo alla terrazza sarebbe bastata per consolarci del freddo. Già sopraffatta da tutto quel lusso, sentii che gli altri comfort mi davano alla testa. La vasca idromassaggio di marmo in bagno. Il televisore al plasma. La cesta di cioccolatini e altri snack. Quando alla fine decidemmo di andare a fare una sciata, dovetti trascinarmi letteralmente fuori dalla camera. Con ogni probabilità avrei potuto trascorrere il resto della vacanza a oziare lì dentro ed essere perfettamente felice. Ci avventurammo fuori, e quando fui in grado di sgombrare la mente dal pensiero di Dimitri e mia madre, iniziai a divertirmi. Il fatto che il rifugio fosse così grande era d'aiuto; avevo poche possibilità d'imbattermi in loro. Per la prima volta dopo settimane riuscii finalmente a concentrarmi su Mason, e capii quanto fosse simpatico. Ebbi anche l'occasione di trascorrere più tempo in compagnia di Lissa rispetto all'ultimo periodo, cosa che aumentò il mio buonumore. Lissa e Christian, Mason e io organizzammo una sorta di uscita a quattro. Sciammo insieme quasi tutto il primo giorno, malgrado i due Moroi avessero qualche problema a starci dietro.

Considerato quello che dovevamo affrontare durante le lezioni, Mason e io non avevamo paura di cimentarci in audaci acrobazie. La nostra natura competitiva ci rendeva ansiosi di superarci l'un l'altra. «State cercando di suicidarvi» ci fece notare Christian a un certo punto. Fuori era buio, e i lunghi pali della luce gli illuminavano il viso sconcertato. Lui e Lissa ci avevano aspettato in fondo alla discesa piena di gobbe, ed erano rimasti a guardare me e Mason scendere. Noi due ci eravamo lanciati a velocità folle. La parte di me che aveva cercato di imparare un po' di autodisciplina e di buonsenso da Dimitri si rendeva conto di quanto fosse pericoloso, ma alla restante parte di me accettare l'azzardo piaceva. L'attitudine all'insubordinazione non mi aveva ancora abbandonato. Mason ghignò mentre derapavamo nel tentativo di frenare, sollevando uno spruzzo di neve. «Tranquillo, questo è solo il riscaldamento. Cioè, Rose è riuscita a starmi dietro tutto il tempo. Roba da ragazzi.» Lissa scosse la testa. «Non credete di esagerare, voi due?» Mason e io ci guardammo. «No.» Lei scosse la testa. «Bene, noi rientriamo. Cercate di non ammazzarvi.» Lei e Christian si allontanarono tenendosi a braccetto. Li guardai andare via, poi mi girai verso Mason. «Ho ancora un po' di benzina. Tu?» «Assolutamente sì.» Tornammo in cima con la seggiovia. Quando fummo sul punto di lanciarci nella discesa, Mason puntò l'indice. «Okay, sfammi a sentire: dobbiamo fiondarci su quelle gobbe laggiù, poi saltare oltre il crinale, affrontare il tornante, passare tra quegli alberi e andare a finire là.» Seguii il dito mentre Mason mi indicava il percorso accidentato che si snodava lungo uno dei canaloni più grandi. Corrugai la fronte. «È una follia, Mase.» «Ah» disse lui, trionfante. «E alla fine gettò la spugna.» Mi sentii avvampare. «No che non lo fa.» Dopo aver dato un'altra occhiata a quel percorso assurdo, mi arresi. «D'accordo. Facciamolo.» Lui mi fece un cenno. «Prima tu.» Presi un profondo respiro e saltai. Gli sci filavano veloci sulla neve, e un vento pungente mi sferzava il viso. Eseguii il primo salto in modo accurato e preciso, ma via via che scendevo, mi resi conto di quanto fosse pericoloso. In una frazione di secondo dovetti prendere una decisione. Se non fossi giunta alla fine del percorso, Mason non mi avrebbe dato più tregua, e io desideravo tanto dargli una lezione; se ce l'avessi fatta, invece, avrei messo bene in chiaro la mia statura. Ma nel caso ci avessi provato e poi avessi fatto un casino, avrei potuto rompermi il collo. In qualche recesso della mia mente, una voce che somigliava in modo assai sospetto a quella di Dimitri iniziò a parlarmi di scelte sagge e di imparare quand'è il momento di imporsi dei limiti. Decisi di ignorare la voce e tirare dritto. Il percorso era difficile come avevo temuto, ma lo portai a termine in maniera impeccabile, di acrobazia in acrobazia. La neve si sollevava attorno a me mentre eseguivo le strette, spericolate curve. Quando giunsi in fondo sana e salva, sollevai lo sguardo e vidi Mason gesticolare con furia. Non riuscivo a cogliere la sua espressione o le sue parole, ma immaginavo le sue ovazioni. Ricambiai il cenno e aspettai che seguisse il mio esempio. Ma non lo fece, perché arrivato a metà discesa non riuscì a superare uno dei salti. Gli sci si

impigliarono, le gambe gli si torsero. E cadde. Lo raggiunsi più o meno nel momento in cui arrivava anche il personale della struttura. Con sollievo di tutti, Mason non si era rotto il collo né altro. Tuttavia pareva aver preso una brutta storta alla caviglia, imprevisto che con ogni probabilità avrebbe limitato la sua attività sciistica per il resto della vacanza. Una dei maestri di sci che controllavano le piste arrivò di corsa, il viso infuriato. «Cosa vi siete messi in testa voi due?» esclamò. Se la prese con me. «Non riuscivo a credere che ti fossi messa a fare quelle acrobazie assurde!» Il suo sguardo andò a piantarsi su Mason. «E tu hai dovuto imitarla!» Avrei voluto risponderle che era stata tutta una idea di Mason, ma a quel punto non importava di chi fosse la colpa. Mentre rientravamo, però, il senso di colpa iniziò a tormentarmi. Mi ero comportata in modo irresponsabile. E se si fosse fatto male sul serio? La mia mente fu attraversata da orribili visioni. Mason con una gamba spezzata... col collo spezzato... Cosa mi era passato per la testa? Nessuno mi aveva costretta ad affrontare quel percorso. Mason me l'aveva suggerito, certo, ma io non mi ero opposta. Avrei dovuto farlo, santo cielo! Mi sarei dovuta sorbire un po' di sfottò, ma Mason era pazzo di me quanto bastava perché qualche astuzia femminile mettesse fine a quella follia. Mi ero lasciata prendere dall'esaltazione e dal piacere del pericolo - proprio come quando avevo baciato Dimitri -e non avevo valutato le conseguenze perché, dentro di me, era ancora in agguato quella voglia impulsiva di comportarmi in modo sconsiderato. Anche Mason la possedeva; era la sua voglia, ad avermi attratto. La voce mentale di Dimitri mi criticò con asprezza per l'ennesima volta. Dopo che Mason fu trasportato sano e salvo al rifugio e che gli ebbero applicato del ghiaccio sulla caviglia, riportai il nostro equipaggiamento nel deposito. Di ritorno andai verso un'entrata differente rispetto a quella che usavo di solito. Quest'altro ingresso era posto in fondo a un enorme portico con ringhiere di legno finemente lavorato. Era costruito nel fianco della montagna e da lì si godeva il panorama mozzafiato delle cime e delle vallate che ci circondavano. A patto di rimanere esposti a una temperatura da assideramento il tempo necessario per ammirarlo, impresa che non andava a genio alla maggior parte delle persone. Salii i gradini del portico sbattendo i piedi per scrollare la neve dagli scarponi. Nell'aria c'era un odore denso, speziato e allo stesso tempo dolce. Aveva qualcosa di familiare, ma prima che riuscissi a identificarlo, d'improvviso una voce mi parlò dall'ombra. «Ehi, piccola dhampir.» Allarmata, capii che nel portico c'era qualcuno. Un ragazzo - un Moroi - se ne stava appoggiato al muro, non lontano dall'ingresso. Si portò una sigaretta alle labbra, prese una lunga boccata, e poi la gettò sul pavimento. Spense il mozzicone con il piede e accennò un sorriso. Ecco cos'era quell'odore. Sigarette ai chiodi di garofano. Mi fermai, incrociai le braccia con fare circospetto e lo squadrai. Era un po' più basso di Dimitri, ma non allampanato come finivano per sembrarmi un mucchio di Moroi. Il lungo cappotto color antracite - con ogni probabilità intessuto di una qualche costosissima varietà di cachemire - gli calzava a pennello, e le scarpe eleganti di pelle che aveva ai piedi erano indice di una ricchezza ancor più grande. Aveva capelli castani acconciati in modo da sembrare un po' spettinati, e poteva avere gli occhi tanto blu quanto verdi; non c'era luce sufficiente per dirlo con certezza. Doveva avere un viso carino, immaginai, e stimai che dovesse essere un paio d'anni più grande di me. Aveva l'aria di uno che se l'era appena svignata da una cena formale. «Sì?» chiesi. Il suo sguardo corse rapidamente lungo il mio corpo. Ero abituata alle attenzioni dei Moroi. Soltanto che di solito non erano così sfacciati. E io, di solito, non ero infagottata in abiti invernali e

non avevo un occhio nero. Lui scrollò le spalle. «Giusto un saluto, tutto qui.» Attesi nel caso ci fosse dell'altro, ma lui si limitò ad affondare le mani nelle tasche del cappotto. Feci spallucce a mia volta e avanzai di un paio di passi. «Hai un buon odore, lo sai?» disse lui. Smisi di nuovo di camminare e gli rivolsi un'occhiata interrogativa, che ebbe l'unico risultato di allargare ancora di più quel suo sorrisetto furbo. «Io... uhm, cosa?» «Hai un buon odore» ripeté. «Stai scherzando? È tutto il giorno che sudo; faccio schifo.» Avrei voluto andarmene, ma c'era qualcosa di irresistibile e arcano in quel ragazzo. Come nel caso di un disastro ferroviario: non si poteva fare a meno di guardare. Non lo trovavo affascinante di per sé; solo che d'improvviso avevo interesse a parlare con lui. «Il sudore non è una brutta cosa» disse, appoggiando la testa al muro e guardando in alto con fare pensieroso. «Alcune delle cose migliori della vita accadono mentre si suda. Certo, se il sudore è troppo e si fa vecchio e rancido, diventa disgustoso. Ma su una bella donna? Inebriante. Se tu potessi fiutare le cose come un vampiro, sapresti di che parlo. La maggior parte delle persone manda tutto all'aria annegandosi nel profumo. Il profumo può essere buono, soprattutto se se ne sceglie uno che si sposa con le proprie caratteristiche chimiche. Ma ne serve soltanto una goccia. Se ne deve unire un venti percento all'ottanta percento dato dalla sudorazione... mmh.» Piegò la testa e mi guardò. «Sexy da morire.» D'improvviso mi vennero in mente Dimitri e il suo dopobarba. Già. Quello sì che era sexy da morire, ma di certo non sarei andata a raccontarlo a questo tizio. «Be', grazie per la lezione di igiene» dissi. «Ma non possiedo profumi, e sto per lavarmi via con una doccia quest'eccitante fragranza di sudore. Mi dispiace.» Lui tirò fuori un pacchetto di sigarette e me lo porse. Si avvicinò solo di un passo, ma mi bastò per sentire che addosso aveva un altro odore. Alcol. Scrollai la testa per le sigarette, e lui ne picchiettò fuori una per sé. «Una pessima abitudine» dissi, osservandolo mentre l'accendeva. «Una delle tante» rispose. Aspirò a fondo. «Sei qui con la St. Vladimir's?» «Già.» «Quindi da grande diventerai un guardiano.» «Ovvio.» Soffiò una nuvola di fumo, che guardai disperdersi nella notte. Sensi acuiti da vampiro o meno, era un miracolo che riuscisse a sentire un odore qualunque con tutta questa puzza di chiodi di garofano. «E quanto ti manca per diventare grande?» chiese. «Potrebbe servirmi un guardiano.» «Mi diplomo in primavera. Ma sono già impegnata con qualcuno. Mi dispiace.» Lo stupore balenò nei suoi occhi. «Ah, sì? E chi sarebbe questo lui?» «Lei è Vasilisa Dragomir.» «Ah.» Un largo ghigno gli attraversò il viso. «Ho capito che portavi guai non appena ti ho visto. Sei la figlia di Janine Hathaway.» «Sono Rose Hathaway» lo corressi, visto che non gradivo di essere associata a mia madre.

«Piacere di conoscerti, Rose Hathaway.» Mi allungò una mano inguantata che strinsi con esitazione. «Adrian Ivashkov.» «E poi dici a me che porto guai» borbottai. Gli Ivashkov erano una casata reale, una delle più ricche e potenti. Appartenevano a quel genere di persone che credono di potersi prendere tutto ciò che vogliono e calpestare chiunque si metta sulla loro strada. Non era strano che fosse così borioso. Scoppiò a ridere. Aveva una bella risata, profonda e quasi melodiosa. Mi fece venire in mente del caramello caldo, che sgocciolava da un cucchiaio. «Comodo, eh? La nostra reputazione precede entrambi.» Scossi la testa. «Tu non sai niente di me. E io conosco solo la tua casata. Di te non so nulla.» «Vorresti?» chiese, sarcastico. «Spiacente. Non mi piacciono i ragazzi più vecchi.» «Ho ventun'anni. Non sono molto più grande di te.» «Ho già un ragazzo.» Era una minuscola bugia. Di sicuro Mason non era ancora il mio ragazzo, ma speravo che Adrian mi avrebbe lasciata in pace se avesse saputo che ero occupata. «È buffo che tu non l'abbia detto subito» rifletté Adrian. «L'occhio nero non te l'ha fatto lui, vero?» Nonostante il freddo mi sentii arrossire. Avevo sperato che non si accorgesse dell'occhio, ma era stato stupido. Con la sua vista da vampiro doveva averlo notato appena avevo messo piede nel portico. «Se l'avesse fatto, adesso non sarebbe più in vita. Me lo sono procurata mentre... mi allenavo. Voglio dire, mi alleno per diventare guardiano. I nostri corsi sono piuttosto irruenti.» «È molto eccitante» disse. Gettò a terra la sua seconda sigaretta e la spense col piede. «Darmi un pugno nell'occhio?» «Be', no. Certo che no. Volevo dire che è eccitante l'idea di un po' di irruenza in tua compagnia. Sono un grande fan degli sport di contatto.» «Sì, non ho dubbi» dissi sarcastica. Era arrogante e presuntuoso, e nonostante questo non riuscivo ancora a costringermi ad andar via. Un rumore di passi alle mie spalle mi fece voltare. Lei ci vide, e si fermò di colpo. «Ehi, Mia.» Ci lanciò un'occhiata. «Un altro ragazzo?» chiese. A giudicare dal suo tono, si sarebbe detto che possedevo un harem di uomini. Adrian mi guardò con piglio interrogativo, divertito. Serrai i denti e decisi di non degnare Mia di una risposta. Optai per un'insolita buona educazione. «Mia, lui è Adrian Ivashkov.» Adrian sfoderò lo stesso charme che aveva utilizzato con me. Le strinse la mano. «È sempre un piacere conoscere un'amica di Rose, soprattutto se è carina.» Parlava come se lui e io ci conoscessimo sin dall'infanzia. «Non siamo amiche» dissi. La mia buona educazione era già finita. «Rose va in giro solo con i ragazzi e gli psicopatici» disse Mia. La sua voce era carica del solito risentimento nei miei confronti, ma dallo sguardo si capiva che Adrian aveva catturato la sua attenzione.

«Be'» disse lui di buon grado, «visto che sono uno psicopatico e anche un ragazzo, questo spiega il perché siamo così amici.» «Nemmeno tu e io siamo amici» gli dissi. Lui scoppiò a ridere. «Reciti sempre la parte di quella irraggiungibile, eh?» «Non è così irraggiungibile» disse Mia, chiaramente seccata che Adrian rivolgesse le sue attenzioni più a me che a lei. «Ti basta chiedere a metà dei ragazzi a scuola.» «Già» ribattei, «e puoi chiedere di Mia all'altra metà. Se saprai farle un favore, allora lei ti farà un sacco di favori.» Quando aveva dichiarato guerra a Lissa e me, Mia era riuscita a convincere un paio di ragazzi della scuola a raccontare che avevo fatto delle cosacce davvero oscene in loro compagnia. La cosa paradossale era che Mia li aveva convinti a mentire andando a letto con loro. Un barlume di imbarazzo le attraversò il viso, ma lei non arretrò di un passo. «Be'» disse, «almeno io non lo faccio gratis.» Adrian fece un verso simile a quello di un gatto. «Vuoi farla finita?» chiesi. «L'ora di andare a nanna è già passata da un pezzo; adesso i grandi vorrebbero parlare un po'.» Il fatto che sembrasse più giovane della sua età era un suo punto debole, di cui spesso mi piaceva approfittare. «Bene» disse acida. Le guance le si fecero rosa, accentuando il suo aspetto da bambola di porcellana. «Ho comunque di meglio da fare.» Si voltò verso la porta e si arrestò dopo avervi appoggiato la mano. Lanciò uno sguardo in direzione di Adrian. «Sai, l'occhio nero gliel'ha fatto sua mamma.» Entrò. La porta a vetri colorati si richiuse alle sue spalle. Adrian e io rimanemmo in silenzio. Alla fine, lui tirò di nuovo fuori le sigarette e ne accese una. «Tua mamma?» «Taci.» «Tu sei il tipo di ragazza che ha solo anime gemelle o nemici mortali, non è vero? Niente vie di mezzo. Con ogni probabilità tu e Vasilisa siete come sorelle, eh?» «Immagino di sì.» «Lei com'è?» «Uh? Che vuoi dire?» Scrollò le spalle, e se non l'avevo frainteso, avrei detto che stesse esagerando un po' con la spontaneità. «Non so. Cioè, voi due siete scappate... e poi è capitata quella faccenda della sua famiglia e Victor Dashkov...» Sentendo nominare Victor mi irrigidii. «E allora?» «Niente. Stavo solo pensando che per lei dev'essere stata dura far fronte a tutto quanto.» Lo studiai con attenzione, chiedendomi dove volesse arrivare. C'era stata una piccola fuga di notizie in merito alla cagionevole salute mentale di Lissa, ma era stata arginata per bene. Gran parte delle persone l'aveva dimenticata o si era convinta che si trattasse di una menzogna. «Devo andare.» Giunsi alla conclusione che, in quel momento, fuggire era la tattica migliore. «Sicura?» Dava l'impressione di essere un po' deluso, ma continuava a sembrarmi più che altro impudente e divertito. Qualcosa di lui mi intrigava; eppure, di qualunque cosa si trattasse, non era abbastanza forte da contrastare tutte le altre emozioni né da farmi correre il rischio di parlare di Lissa. «Ma questa non era l'ora in cui parlano i grandi? Ci sono parecchie cose da grandi di cui mi piacerebbe parlare.»

«È tardi, sono stanca, e le tue sigarette mi stanno facendo venire il mal di testa» borbottai. «Ci può stare.» Fece un tiro e lasciò uscire il fumo. «Certe donne sostengono che mi diano un'aria sexy.» «Secondo me fumi per avere qualcosa da fare mentre pensi alla prossima battuta da dire.» Si strozzò col fumo, a metà strada tra l'aspirare e il ridere. «Rose Hathaway, non vedo l'ora di rivederti. Se sei così affascinante quando sei stanca e scocciata, e così splendida coi lividi e la tuta da sci, allora devi essere uno schianto quando sei in forma.» «Se con "schianto" alludi a qualcosa che dovresti temere per la tua incolumità, allora sì. Hai ragione.» Aprii la porta di colpo. «Buonanotte, Adrian.» «Ci vediamo presto.» «Poco probabile. Te l'ho detto, non mi piacciono i ragazzi più grandi.» Entrai nel rifugio. Mentre la porta si richiudeva alle mie spalle, lo sentii ribattere di sfuggita: «Sì, come no.»

Il mattino dopo Lissa si era svegliata ed era uscita ancora prima che io mi fossi alzata dal letto, il che significava che avevo il bagno tutto per me. Adoravo quel bagno. Era smisurato. Il mio letto king-size ci sarebbe entrato senza difficoltà. Una doccia bollente a tre getti diversi mi risvegliò, ma i muscoli mi dolevano ancora dal giorno prima. Ero davanti allo specchio e mi pettinavo quando notai con disappunto che l'ematoma c'era ancora. Si era schiarito molto, però, e si era fatto giallastro. Un po' di correttore e di cipria lo nascosero quasi del tutto. Scesi al piano di sotto in cerca di cibo. Nella sala da pranzo avevano appena finito di servire la colazione, ma una delle cameriere mi diede un paio di pasticcini di marzapane a forma di pesca da portar via. Ne sgranocchiai uno mentre camminavo, e intanto dischiusi i miei sensi per capire dove si trovasse Lissa. Dopo qualche attimo, percepii che si trovava dall'altro lato del rifugio, lontano dalle stanze degli studenti. Seguii le sue tracce finché non arrivai davanti a una camera al terzo piano. Bussai. Christian aprì la porta. «È arrivata la Bella Addormentata. Benvenuta.» Mi fece strada all'interno. Lissa se ne stava a gambe incrociate sul letto, e vedendomi sorrise. La stanza era sontuosa quanto la mia, ma gran parte dei mobili erano stati spinti di lato per creare spazio. E nella zona sgombra c'era Tasha. «Buongiorno» disse. «Ehi» dissi. E così avevo finito di evitarla. Lissa diede un colpetto sulle coperte accanto a sé. «Questo devi vederlo.» «Che succede?» mi sedetti sul letto e finii l'ultimo pasticcino. «Cosacce» disse maliziosa. «Approverai.»

Christian attraversò la stanza e si mise di fronte a Tasha. Si scrutarono a vicenda, dimenticandosi di Lissa e me. A quanto pareva avevo interrotto qualcosa. «Allora perché mai non posso usare l'incantesimo della fiamma che consuma e basta?» chiese Christian. «Perché richiede un sacco di energie» gli disse lei. Persino in jeans e con la coda di cavallo - e la cicatrice - riusciva ad essere assurdamente bella. «Inoltre, è molto probabile che finisca per uccidere il tuo avversario.» Lui la schernì. «Perché non dovrei voler uccidere uno Strigoi?» «Potresti trovarti ad affrontarne più d'uno. O magari potrebbero essere in possesso di informazioni che ti servono. In ogni caso, dovresti essere pronto per entrambe le evenienze.» Capii che si stavano esercitando con la magia d'offesa. Entusiasmo e curiosità presero il posto della cupezza che si era impossessata di me alla vista di Tasha. Quando aveva detto che stavano facendo delle "cosacce", Lissa non aveva scherzato affatto. Avevo sempre sospettato che facessero pratica con la magia d'offesa, ma... wow. Un conto era pensarlo e un conto era vederlo. Usare la magia come arma era proibito. Una trasgressione perseguibile. Forse uno studente che la sperimentava avrebbe potuto cavarsela con una punizione, nient'altro, ma un adulto che aveva deciso di insegnarla a un minorenne... Questo sì che avrebbe potuto mettere Tasha in guai seri. Per mezzo secondo mi trastullai con l'idea di denunciarla. Accantonai subito quella fantasia. Potevo anche odiarla perché ci provava con Dimitri, ma una parte di me credeva in ciò che lei e Christian stavano facendo. E poi era proprio cool. «Un incantesimo diversivo è quasi altrettanto utile» proseguì lei. I suoi occhi azzurri assunsero quella intensità che mi capitava spesso di vedere nei Moroi mentre facevano ricorso alla magia. Il polso le scattò in avanti, e una scia di fuoco serpeggiò accanto al viso di Christian. Non lo lambì, ma dal modo in cui lui trasalì, sospettai che il fuoco fosse giunto vicino quanto bastava affinché Christian ne avvertisse il calore. «Prova» gli disse lei. Christian esitò un solo istante e poi eseguì con la mano lo stesso movimento. Il fuoco scaturì, ma non aveva nulla della controllata precisione di quello materializzato da Tasha. Né lui possedeva la sua mira. Il fuoco andò diritto verso il viso di Tasha, ma prima di toccarla si divise e le passò accanto, quasi come se si fosse infranto su uno scudo invisibile. Lei lo aveva deviato con la sua magia. «Non male, se tralasciamo il fatto che mi avresti dato fuoco alla faccia.» Persino io non avrei voluto che le prendesse fuoco la faccia. Ma i capelli... ah, sì. Allora avremmo potuto vedere quanto era carina senza quella chioma corvina. Lei e Christian si allenarono ancora per un po'. Con il passare del tempo lui fece qualche progresso, anche se era lampante che aveva ancora molta strada da fare prima di acquisire l'abilità di Tasha. Mentre proseguivano, il mio interesse crebbe, e mi ritrovai a valutare le possibilità che questo tipo di magia poteva offrire. Conclusero la lezione quando Tasha disse che doveva andare. Christian sospirò, chiaramente frustrato per non essere arrivato a padroneggiare l'incantesimo in un'ora. Era competitivo quasi quanto me. «Continuo a pensare che sarebbe più semplice ridurli in cenere» affermò. Tasha sorrise, impegnata a sistemarsi i capelli in una coda di cavallo più stretta. Sì. Mi sarebbe proprio piaciuto che quella chioma sparisse, soprattutto tenendo conto di quanto piacessero i capelli lunghi a Dimitri.

«L'incantesimo della fiamma che consuma è più semplice perché richiede meno concentrazione. Ed è più impreciso. Alla lunga le tue capacità magiche saranno più potenti, se riuscirai a imparare l'altro incantesimo. Che, come ho detto, ha i suoi vantaggi.» Non volevo darle ragione, ma non potei farne a meno. «Potrebbe essere molto efficace se combatti insieme a un guardiano» saltai su entusiasta. «Soprattutto se ridurre in cenere uno Strigoi richiede così tanta energia. In questo modo, invece, ti sarà sufficiente un piccolo sforzo. E stai sicuro che lo distrarrà, visto quanto odiano il fuoco gli Strigoi. Il guardiano avrà tutto il tempo per trapassarlo col paletto. Se ne potrebbero eliminare un gran numero, in questo modo.» Tasha mi fece un largo sorriso. Certi Moroi -come Lissa e Adrian - sorridevano senza mostrare i denti. Tasha mostrava sempre i suoi, canini inclusi. «Esatto. Un giorno di questi dobbiamo andare a caccia di Strigoi insieme, tu e io» mi stuzzicò. «Non credo proprio» risposi. Le parole in sé non erano brutte, ma il tono con cui le pronunciai lo fu di certo. Freddo. Ostile. Sul momento Tasha parve sorpresa del mio repentino cambio di umore, ma non gli diede peso. Attraverso il legame, invece, lo stupore di Lissa si fece strada verso di me. Comunque Tasha non aveva l'aria di essersela presa. Chiacchierò con noi ancora un po' e si accordò con Christian per vedersi a cena. Lissa mi lanciò uno sguardo tagliente mentre scendeva con me e Christian la fastosa scalinata a chiocciola che portava alla hall. «E quello cos'era?» chiese. «Cos'era cosa?» chiesi con fare innocente. «Rose» disse lei in modo assai eloquente. Non è semplice rimanere sul vago, se la tua amica sa che puoi leggerle nella mente. Sapevo benissimo a cosa si riferiva. «Con Tasha, sei stata proprio una stronza.» «Non sono stata poi così stronza.» «Sei stata maleducata» esclamò, lasciando passare un gruppetto di bambini Moroi che stava attraversando di corsa la hall. Erano infagottati nei giacconi, ed erano seguiti da un istruttore Moroi che pareva seccato. Appoggiai le mani sui fianchi. «Senti, sono solo scontrosa, va bene? Ho dormito poco. E in ogni caso io non sono come te. Non devo fare sempre quella educata.» Come spesso capitava in quest'ultimo periodo, mi riusciva difficile credere a ciò che avevo appena detto. Lissa mi fissò con tanto d'occhi, più sbalordita che ferita. Christian mi guardò in cagnesco, e stava per rispondermi per le rime quando, grazie al cielo, si avvicinò Mason. «Ehilà, Gamba di Legno» dissi, facendo scivolare la mano nella sua. Christian mise da parte la rabbia nei miei confronti e si rivolse a Mason. «È vero che le tue manovre suicide alla fine hanno avuto la meglio? E ti si sono rivoltate contro?» Lo sguardo di Mason era incollato a me. «È vero che ti sei vista con Adrian Ivashkov?» «Io... cosa?» «Ho sentito dire che ieri sera vi siete ubriacati insieme.» «È vero?» chiese Lissa, sbigottita. Guardai prima l'uno poi l'altra. «No, certo che no! Lo conosco a malapena.» «Però lo conosci» insistette Mason.

«A malapena.» «Ha una pessima reputazione» mi avvertì Lissa. «Già» disse Christian. «Passa da una ragazza all'altra.» Stentavo a crederci. «Volete piantarla? Ci ho parlato qualcosa come cinque minuti! E solo perché mi si è messo tra i piedi mentre rientravo. Chi ti ha raccontato tutte queste storie?» Mi risposi da sola. «Mia.» Mason annuì ed ebbe la cortesia di sembrare imbarazzato. «Da quand'è che parli con lei?» chiesi. «L'ho incontrata per caso, tutto qui.» «E le hai creduto? Metà delle volte mente, lo sai.» «Sì, ma di solito nelle bugie c'è un fondo di verità. E tu hai parlato davvero con lui.» «Sì. Parlato. E basta.» Stavo seriamente prendendo in considerazione l'ipotesi di mettermi con Mason, quindi il fatto che non mi credesse non mi fece piacere. All'inizio dell'anno scolastico mi aveva aiutato a smontare le bugie di Mia, quindi ero sorpresa che facesse il paranoico, adesso. Ma forse i suoi sentimenti nei miei confronti erano davvero cresciuti, e quindi era più suscettibile alla gelosia. Con mia grande sorpresa fu Christian a venirmi in soccorso, cambiando argomento. «Niente sci per oggi, suppongo?» Indicò la caviglia di Mason, provocando un'immediata risposta di sdegno. «Che cosa? Credi che possa fermarmi?» chiese Mason. La rabbia diminuì, e fu rimpiazzata dall'impellente necessità di dimostrare quanto valeva; necessità che lui e io condividevamo. Lissa e Christian lo guardarono come se fosse pazzo, ma sapevo che niente di ciò che avremmo detto poteva fermarlo. «Volete venire con noi?» domandai a Lissa e Christian. Lissa scosse la testa. «Non possiamo. Dobbiamo andare al pranzo di gala organizzato dai Conta.» Christian si lamentò. «Be', ci devi andare tu.» Lissa gli diede una gomitata. «E anche tu. L'invito dice che posso portare un ospite. E tra l'altro questo è solo l'inizio. Poi ci sarà il grande evento.» «E quale sarebbe?» chiese Mason. «La mastodontica cena di Priscilla Voda» sospirò Christian. Vederlo così afflitto mi fece sorridere. «La migliore amica della regina. Ci saranno tutti i reali più snob, e dovrò vestirmi elegante.» Mason mi fece un sorriso. L'ostilità di qualche attimo prima era scomparsa. «Una bella sciata suona molto meglio, non trovi? Meno costrizioni nell'abbigliamento.» Salutammo i Moroi e uscimmo. Mason non avrebbe potuto competere con me come aveva fatto ieri; i suoi movimenti erano lenti e impacciati. Eppure se la cavò benissimo. L'infortunio non era serio come avevamo temuto, però Mason ebbe il buonsenso di limitarsi alle piste più semplici. La luna piena se ne stava sospesa nel cielo: una sfera brillante di un bianco argenteo. A terra l'illuminazione elettrica ne soverchiava i raggi, ma qui e là tra le tenebre irradiava il suo splendore. Avrei voluto che la luce fosse sufficiente a rischiarare le montagne che ci accerchiavano, ma le cime erano avvolte dalle tenebre. Avevo dimenticato di guardarle, prima, quando c'era il sole. Le piste erano elementari per me, ma rimasi accanto a Mason e solo in qualche occasione lo derisi, dicendogli che rischiavo di addormentarmi al suo ritmo da convalescente. Discese noiose o

meno, era bello stare all'aperto con gli amici, e il movimento mi riattivò la circolazione del sangue quanto bastava per riscaldarmi nell'aria gelida. I lampioni illuminavano la neve, tramutandola in un vasto oceano bianco, e i cristalli di neve luccicavano tenui. E se mi voltavo e riuscivo a riparare gli occhi dalla luce dei lampioni, sollevando lo sguardo potevo vedere le stelle punteggiare il cielo. Si stagliavano nette e cristalline nell'aria gelida, tersa. Restammo fuori per quasi tutto il giorno, ma questa volta mi fermai prima; finsi di essere stanca, affinché Mason potesse concedersi una pausa. Con la caviglia indolenzita poteva affrontare le piste meno impegnative, ma avevo l'impressione che cominciasse a fargli male. Mason e io ci incamminano verso il rifugio stando molto vicini. Ridevamo di qualcosa che avevamo visto, quando d'improvviso, con la coda dell'occhio, intravvidi un lampo bianco, e una palla di neve andò a schiantarsi in faccia a Mason. Mi misi subito sulla difensiva, voltandomi di scatto e guardandomi attorno. Urla e strepiti si levarono da una folta macchia di pini, dove si trovavano alcuni capannoni usati come depositi. «Troppo lento, Ashford» gridò qualcuno. «L'amore non paga.» Altre risate. Il miglior amico di Mason, Eddie Castile, e qualche altro novizio si materializzarono da dietro gli alberi. Alle loro spalle, sentii risuonare altre urla. «Possiamo comunque prenderti in squadra con noi, se ti va» disse Eddie. «Anche se schivi come una femminuccia.» «Squadra?» domandai, eccitata. All'Accademia era rigorosamente proibito tirare palle di neve. Chissà perché la direzione della scuola era preoccupata che potessimo tirarci palle di neve con dentro frammenti di vetro o lamette da barba, ma non si capiva come potessero pensare che avevamo roba simile, tanto per cominciare. Non che una battaglia a palle di neve fosse poi così trasgressivo, ma d'un tratto, dopo tutto lo stress accumulato di recente, quella di gettare qualcosa addosso ad altre persone mi parve l'idea migliore che avessi sentito da un po' di tempo a quella parte. Mason e io ci precipitammo dagli altri; la prospettiva di un combattimento proibito gli diede nuova linfa e gli fece dimenticare il dolore alla caviglia. C'impegnammo nello scontro con zelo irriducibile. La battaglia presto si ridusse a centrare quanta più gente possibile mentre si schivavano i proiettili degli altri. Io eccellevo in entrambe le cose, e contribuii all'immaturità dell'intera faccenda con fischi e insulti sciocchi diretti alle mie vittime. Quando qualcuno si accorse di ciò che stavamo combinando e ci sbraitò contro, ormai eravamo ricoperti di neve e sghignazzavamo come pazzi. Mason e io facemmo di nuovo rotta verso il rifugio, ed eravamo talmente di buonumore che mi resi conto che la storia di Adrian era stata superata. Anzi, poco prima di entrare Mason mi guardò. «Scusa se, uhm, se prima ti ho aggredito per la faccenda di Adrian.» Gli strinsi la mano. «È tutto a posto. Lo so che Mia è capace di raccontare storielle molto convincenti.» «Già... ma anche se tu fossi stata con lui... non è che io abbia il diritto di...» Lo fissai, sorpresa di vedere la sua solita spavalderia trasformarsi in insicurezza. «No?» chiesi. Un sorriso gli affiorò sulle labbra. «Ce l'ho?» Ricambiando il suo sorriso feci un passo avanti e lo baciai. Nell'aria gelida le sue labbra mi parvero incredibilmente calde. Non fu come il bacio che c'era stato tra me e Dimitri prima della gita, ma fu dolce e piacevole; una sorta di bacio amichevole che forse avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di più. O perlomeno fu così che lo avvertii io. Dall'espressione di Mason, invece, mi parve che il suo mondo fosse appena stato mandato a gambe all'aria.

«Wow» disse, con gli occhi spalancati. La luce della luna faceva rilucere i suoi occhi di un blu argentato. «Visto?» dissi. «Niente di cui preoccuparsi. Né di Adrian, né di chiunque altro.» Ci baciammo di nuovo - questa volta un po' più a lungo - e poi ci salutammo. Mason era senza dubbio di umore migliore, proprio come avrebbe dovuto, e io crollai sul letto con un sorriso stampato sulla faccia. Non ero certa che Mason e io adesso formassimo una coppia, ma c'eravamo molto vicini. Quando mi addormentai, però, sognai Adrian Ivashkov. Mi trovavo di nuovo sotto il portico in sua compagnia, solo che era estate. L'aria era mite e gradevole, e il sole luminoso e alto nel cielo, e inondava ogni cosa di una strana luce dorata. Era da quando vivevo tra gli umani che non mi esponevo così tanto al sole. Tutto attorno le montagne e le valli erano verdi e piene di vita. Gli uccelli cantavano da ogni parte. Adrian era appoggiato alla ringhiera del portico; gettò uno sguardo verso di me e nel vedermi trasalì. «Oh. Non mi aspettavo di trovarti qui.» Sorrise. «Avevo ragione. Quando sei in forma, sei davvero devastante.» D'istinto mi accarezzai la pelle attorno all'occhio. «È andato via» disse. Anche se non potevo vedere, mi resi conto che in qualche modo aveva ragione. «Non stai fumando.» «Pessima abitudine» disse. Mi fece un cenno con la testa. «Hai paura? Ti porti appresso un bel po' di protezioni.» Aggrottai le sopracciglia, poi abbassai lo sguardo. Non avevo notato il mio abbigliamento. Indossavo un paio di costosi jeans ricamati che avevo addocchiato ma che non mi ero potuta permettere. La t-shirt mi lasciava la pancia scoperta, e avevo un piercing all'ombelico. Era sempre stato un mio desiderio, ma non mi ero mai concessa il lusso di farmelo. L'anellino che portavo adesso era piccolo, d'argento, e vi era appeso il curioso occhio blu regalatomi da mia madre. Attorno al polso portavo il chotki di Lissa. Tornai a guardare Adrian, e notai il modo in cui il sole gli faceva risplendere i capelli castani. Ora, in piena luce, potevo vedere che in realtà aveva gli occhi verdi: un intenso verde smeraldo, diverso dal tenue verde giada di quelli di Lissa. D'improvviso mi venne in mente qualcosa di sbalorditivo. «Tutto questo sole non ti dà fastidio?» Lui fece una pigra scrollata di spalle. «No. È il mio sogno.» «No, è il mio sogno.» «Ne sei sicura?» Il suo sorriso fece di nuovo capolino. Ridacchiò, ma un momento più tardi la risata si spense. Per la prima volta da quando lo conoscevo mi parve serio. «Perché attorno a te hai quest'oscurità?» Mi accigliai. «Cosa?» «Sei circondata dalle tenebre.» I suoi occhi mi studiarono a fondo, ma senza squadrarmi in modo sfrontato. «Non ho mai visto nessuno come te. Tenebre dappertutto. Non l'avrei mai detto. Persino adesso mentre te ne stai qui, le tenebre non fanno altro che aumentare.» Mi guardai le mani, ma non vidi nulla fuori dell'ordinario. Rialzai lo sguardo. «Sono stata baciata dalla tenebra...»

«Che significa?» «Una volta sono morta.» Non ne avevo mai parlato con nessuno, eccetto Lissa e Victor Dashkov, ma questo era un sogno. Non aveva importanza. «E sono tornata.» La meraviglia gli illuminò il volto. «Ah, interessante...» Mi svegliai. Qualcuno mi stava scrollando. Era Lissa. Percorrendo il legame, le sue emozioni giunsero a me con un forza tale che per un breve istante mi ritrovai nella sua testa, e mi guardai. Dire che fosse "assurdo" non rende neppure lontanamente l'idea. Mi costrinsi a tornare in me stessa, cercando di aprirmi un varco tra il terrore e l'inquietudine che provenivano da Lissa. «Cos'è successo?» «C'è stato un altro attacco di Strigoi.»

Balzai fuori dal letto in un lampo. Trovammo l'intero rifugio in subbuglio. Le persone si erano radunate a gruppetti nella hall. I membri di ciascuna famiglia si cercavano. Certe conversazioni erano fatte di sussurri terrorizzati, altre invece si tenevano a voce alta. Queste ultime erano facili da origliare. Fermai qualcuno per farmi raccontare che cosa era successo. Purtroppo, ciascuno aveva una versione differente dell'accaduto, e alcune persone non vollero neppure fermarsi a parlare. Mi sfilarono accanto di fretta, intenzionate a scovare i propri cari e a prepararsi per abbandonare il rifugio, convinti di poter trovare un posto più sicuro. Delusa dalle versioni contrastanti, alla fine -seppur controvoglia - capii di dover ricorrere a una delle due uniche fonti in grado di fornirmi informazioni attendibili. Mia madre o Dimitri. Era come lanciare una monetina. Al momento nessuno dei due mi entusiasmava. Ci pensai su un istante, e alla fine optai per mia madre, visto che lei non se la stava facendo con Tasha Ozera. La porta della sua camera era socchiusa, e quando Lissa e io entrammo scoprii che all'interno era stato installato una sorta di quartier generale improvvisato; brulicava di guardiani che entravano e uscivano, e discutevano sul da farsi. Un paio di loro ci rivolse qualche sguardo incuriosito, ma nessuno ci fermò o ci chiese spiegazioni. Lissa e io ci lasciammo scivolare su un divanetto per poter ascoltare la conversazione in cui mia madre era impegnata. Era in compagnia di un manipolo di guardiani. Tra loro c'era anche Dimitri, e così dissi addio al mio proposito di evitarlo. I suoi occhi castani mi lanciarono un'occhiata, e io distolsi lo sguardo. Al momento non avevo intenzione di occuparmi dei sentimenti burrascosi che provavo per lui. Ben presto Lissa e io riuscimmo a carpire qualche dettaglio. Otto Moroi erano stati uccisi, e anche i loro cinque guardiani. Tre Moroi erano scomparsi, morti o tramutati in Strigoi, ancora non si sapeva. L'aggressione non aveva avuto luogo nelle vicinanze; era successo da qualche parte nella California del Nord. Ma una tragedia di simile portata non poteva che riecheggiare in tutto il mondo Moroi; per alcuni, poi, i due Stati erano troppo vicini. La gente era terrorizzata, e presto venni a sapere cosa, nello specifico, aveva reso un attacco del genere così rilevante.

«Dovevano essere più numerosi dell'altra volta» disse mia madre. «Più numerosi?» esclamò uno degli altri guardiani. «L'altro branco era già senza precedenti. Stento ancora a credere che nove Strigoi siano in grado di lavorare assieme, e tu mi vuoi dare a bere che siano riusciti a organizzare un gruppo ancora più numeroso?» «Sì» sbottò mia madre. «E c'era traccia di umani?» chiese qualcun altro. Mia madre tentennò, poi: «Sì. Altre difese magiche infrante. E il modo in cui è stato condotto l'attacco... è identico a quello dei Badica.» La sua voce era ferma, eppure in essa c'era una nota di stanchezza. Non si trattava di spossatezza fisica, però. Capii che si trattava di affaticamento psicologico. Di una tensione e di una pena che avevano a che fare con ciò di cui stava parlando. Avevo sempre pensato che mia madre fosse una specie di macchina da guerra priva di sentimenti, ma quanto accaduto era difficile da affrontare anche per lei. Era faticoso e sgradevole parlarne, eppure stava affrontando la questione senza esitazioni. Com'era suo dovere. Mi si formò un groppo in gola che ricacciai giù in tutta fretta. Esseri umani. Proprio come nell'attacco ai Badica. Era dal giorno del massacro che ci stavamo interrogando sull'eccezionalità di un gruppo così numeroso di Strigoi, che per di più reclutava esseri umani. Tutti si erano detti, in termini vaghi: "Se una cosa del genere dovesse accadere di nuovo..." Ma nessuno aveva preso in considerazione la possibilità che questo branco -quello che aveva ucciso i Badica - potesse davvero rifare una cosa simile. Se fosse successo una volta soltanto, avremmo potuto considerarlo un evento fortuito: un branco di Strigoi che si erano uniti senza un progetto preciso e avevano agito d'impulso. Sarebbe rimasto comunque un fatto orribile, ma avremmo potuto dimenticare la faccenda. Adesso però... adesso pareva proprio che quel branco di Strigoi non fosse un evento fortuito. Si erano raggruppati con un fine, si servivano strategicamente degli esseri umani, e avevano attaccato di nuovo. Ci trovavamo di fronte a quello che avrebbe anche potuto essere un disegno criminoso: Strigoi che davano attivamente la caccia a gruppi di prede. Omicidi seriali. Non potevamo più fare affidamento sulla magia protettiva delle difese né sulla luce del sole. Gli esseri umani erano in grado di muoversi durante il giorno, per perlustrare e sabotare. La luce non era più garanzia di sicurezza. Mi ricordai di ciò che avevo detto a Dimitri, a casa dei Badica: Questo cambia tutto, non è vero? Mia madre diede una scorsa ai fogli di una cartelletta. «Non ci sono ancora i risultati della scientifica, ma di certo non può trattarsi dello stesso numero di Strigoi. Non si è salvato nessuno, né tra i Dorzdov né tra i membri del loro staff. In presenza di cinque guardiani, sette Strigoi avrebbero potuto temere che qualcuno sfuggisse. Direi che stiamo cercando nove o dieci Strigoi.» «Janine ha ragione» disse Dimitri. «Prendete in considerazione la scena del crimine... è troppo estesa. In sette non sarebbero riusciti a coprirla.» I Drozdov erano una delle dodici casate reali. Erano prosperi e numerosi, non come il clan di Lissa, ormai in estinzione. In circolazione rimanevano ancora parecchi membri della casata ma, com'era ovvio, un simile attacco era comunque un fatto orribile. Inoltre, pensando a loro, qualcosa mi solleticava il cervello. C'era un particolare di cui avrei dovuto ricordarmi... un fatto che avrei dovuto sapere sui Drozdov. Una parte della mia mente cercò di sondare di cosa si trattasse, e nel frattempo rimasi incantata a osservare mia madre. L'avevo sentita raccontare le sue storie. L'avevo vista lottare, e l'avevo provata sulla mia pelle. Ma in realtà non l'avevo mai vista in azione durante una crisi. Dava prova della stessa, severa padronanza di sé che aveva sfoggiato con me, ma in quel momento iniziai a capire quanto fosse necessaria in una situazione del genere. Una situazione del genere creava il panico. Mi resi conto che persino qualche guardiano era così nervoso da provare l'impulso di un

gesto drastico. Mia madre era la voce della ragione, e rammentava loro che dovevano restare concentrati e valutare la situazione a fondo. La sua compostezza sapeva calmare tutti; le sue maniere decise infondevano coraggio. Era così, capii, che si comportava un leader. Dimitri era altrettanto padrone di sé, ma si rimetteva a lei per la gestione della faccenda. A volte dovevo ricordare a me stessa di quanto fosse giovane, rispetto a molti altri guardiani. Continuarono a discutere dell'attacco, di come i Drozdov fossero stati assaliti in una sala dei banchetti durante una festa di Natale organizzata in ritardo. «Prima i Badica, adesso i Drozdov» borbottò un guardiano. «Stanno dando la caccia ai reali.» «Stanno dando la caccia ai Moroi» disse Dimitri in tono piatto. «Reali. Non reali. Non fa differenza.» Reali. Non reali. D'improvviso capii perché i Drozdov erano importanti. L'istinto avrebbe voluto che saltassi in piedi e facessi subito una domanda, ma non ero così stupida. Questa era una cosa seria. Non era il momento di comportarsi in modo irrazionale. Volevo dimostrarmi forte come mia madre e Dimitri, e così aspettai che la discussione finisse. Quando il gruppo iniziò a disperdersi, mi alzai dal divano e mi avviai verso mia madre. «Rose» disse lei, sorpresa. Proprio come durante la lezione di Stan, non si era accorta che fossi nella stanza. «Che ci fai qui?» Era una domanda talmente stupida che non provai nemmeno a rispondere. Cosa pensava che ci facessi, lì? Era uno degli avvenimenti più importanti capitati ai Moroi. Indicai la sua cartellina. «Chi altro è stato ucciso?» L'irritazione le increspò la fronte. «I Drozdov.» «Sì, ma chi altro?» «Rose, non abbiamo tempo da...» «Avevano uno staff, giusto? Dimitri ha parlato di reali e non. Chi erano?» Di nuovo, notai in lei quella stanchezza. Aveva preso male queste uccisioni. «Non conosco tutti i nomi.» Dopo aver sfogliato qualche pagina, girò la cartelletta verso di me. «Ecco.» Scorsi la lista. L'angoscia mi assalì. «Okay» le dissi. «Grazie.» Lissa e io li lasciammo a occuparsi dei loro affari. Avrei voluto dare il mio aiuto, ma i guardiani procedevano già spediti ed efficienti; non avevano certo bisogno di un novizio tra i piedi. «Di che si trattava?» chiese Lissa mentre tornavamo alla zona principale del rifugio. «Lo staff dei Drozdov» dissi. «La mamma di Mia lavorava per loro...» Lissa restò senza fiato. «E?» Sospirai. «E il suo nome era nella lista.» «Oh, Dio.» Lissa smise di camminare. Rimase a fissare il vuoto, sbattendo le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. «Oh, Dio» ripeté. Mi misi di fronte a lei e le posai le mani sulle spalle. Tremava. «Va tutto bene» dissi. La sua paura mi giunse a ondate, e si trattava di una paura capace di stordire. Shock. «Andrà tutto bene.» «Li hai sentiti» disse. «Un branco di Strigoi organizzati! Quanti sono? Stanno venendo qui?» «No» dissi con fermezza, benché non ne avessi alcuna prova. «Qui siamo al sicuro.»

«Povera Mia...» A questo proposito non c'era nulla che potessi dire. Ritenevo Mia una vera stronza, ma non avrei augurato una cosa del genere a nessuno, neppure al mio peggior nemico, il quale di fatto era lei. Corressi subito quel pensiero. Mia non era il mio peggior nemico. Non me la sentii di abbandonare Lissa per il resto della giornata. Sapevo bene che non c'erano Strigoi appostati nel rifugio, ma il mio istinto protettivo aveva preso il sopravvento. I guardiani proteggevano i propri Moroi. Come al solito, mi preoccupava anche il fatto che fosse inquieta e sconvolta, così feci del mio meglio per stemperare quegli stati d'animo. Anche gli altri guardiani rassicurarono in qualche modo i Moroi. Non rimasero con loro, ma rinforzarono le difese del rifugio e si tennero in contatto costante coi guardiani che si trovavano sul luogo dell'attacco. Per tutto il giorno continuarono a giungerci nuovi macabri particolari, e con essi anche supposizioni in merito a dove potesse trovarsi il branco di Strigoi. Com'era ovvio, ben poche di queste informazioni vennero condivise coi novizi. Mentre i guardiani facevano ciò che riusciva loro meglio, anche i Moroi fecero ciò che - per sfortuna - sapevano fare meglio: parlare. Visto che al rifugio c'erano così tanti membri reali e Moroi influenti, quella notte fu indetta un'assemblea per discutere dell'accaduto e di ciò che si dovesse fare in futuro. Nessuna decisione ufficiale avrebbe potuto essere presa; altrove, i Moroi avevano una regina e un organo di governo preposti a questo genere di decisioni. Eppure tutti sapevano che le risoluzioni prese sarebbero giunte fino ai vertici di comando. La nostra sicurezza futura poteva dipendere da quanto discusso in quella riunione. L'assemblea si sarebbe tenuta in una gigantesca sala banchetti del rifugio, dotata di un palco e di una gran quantità di posti a sedere. Nonostante l'atmosfera seriosa, era evidente che la sala fosse stata progettata per discutere questioni ben diverse da massacri e strategie di difesa. La moquette aveva la consistenza del velluto e una fantasia floreale nera e argento. Le sedie erano di lucido legno nero e avevano schienali alti, chiaramente destinati a cene di gala. Alle pareti erano appesi ritratti di Moroi di famiglia reale morti da tempo. Per un istante rimasi a guardarne uno di una regina di cui ignoravo il nome. Indossava un vestito antiquato -troppi merletti per i miei gusti - e aveva capelli chiarissimi, come Lissa. Un uomo che non conoscevo stava sul palco col compito di moderare il dibattito. La maggior parte dei reali presenti erano raccolti nelle prime file. Gli altri, studenti inclusi, avevano preso posto dove capitava. Io e Lissa avevamo incontrato Christian e Mason, ma quando facemmo per sederci in fondo alla sala, Lissa scosse la testa. «Io mi siedo davanti.» Noi tre la fissammo sbalorditi. Io ero troppo sorpresa per sondare la sua mente. «Guardate.» Indicò. «I reali sono seduti là davanti, divisi per casata.» Era vero. I membri dello stesso clan erano raggruppati: Badica, Ivashkov, Zeklos... Anche Tasha era seduta lì, ma era sola. Christian era l'unico altro Ozera presente. «Il mio posto è là» disse Lissa. «Nessuno si aspetta che tu ci vada» le dissi. «Devo rappresentare i Dragomir.» Christian la derise. «Sono un mucchio di stronzate reali.» Il volto di Lissa assunse un'espressione determinata. «Il mio posto è là.» Mi aprii alle sue sensazioni, e ciò che trovai mi piacque molto. Per tutto il giorno Lissa era rimasta in silenzio e in preda alla paura, quasi quanto dopo aver scoperto della mamma di Mia. La

paura era ancora in lei, ma era stata sopraffatta dalla risolutezza e dalla sicurezza di sé. Lissa si era resa conto di far parte dei Moroi regnanti, e benché l'idea di branchi di Strigoi erranti la atterrisse, voleva dare il suo contributo. «Devi farlo» le dissi con dolcezza. Mi piaceva anche l'idea che non desse ascolto a Christian. Lissa mi guardò negli occhi e sorrise. Sapeva bene quello che avevo percepito. Un attimo più tardi si rivolse a Christian. «Dovresti andare da tua zia.» Christian fece per protestare. Se le circostanze fossero state diverse, avrei trovato divertente vedere Lissa comandarlo a bacchetta. Lui era testardo e scontroso; chi provava a fargli pressioni non otteneva grandi risultati. Guardandolo in volto mi accorsi però che cominciava ad accorgersi della consapevolezza che avevo percepito in Lissa. Anche a lui piaceva vederla forte. Serrò le labbra facendo una smorfia. «Okay.» La prese per mano, e insieme andarono verso le prime file. Mason e io ci sedemmo. Poco prima dell'inizio Dimitri si sistemò accanto a me, dall'altro lato, i capelli legati dietro la nuca; il giaccone di pelle gli si drappeggiò attorno mentre scivolava nella sedia. Lo guardai sorpresa, ma non dissi niente. All'assemblea partecipavano pochi guardiani; la maggioranza era troppo impegnata a tenere sotto controllo la situazione. Avrei dovuto aspettarmelo. Eccomi lì, incastrata tra i miei due uomini. L'assemblea ebbe inizio poco dopo. Smaniavano tutti di esporre il proprio pensiero su ciò che doveva essere fatto per salvare i Moroi, ma emersero soprattutto due posizioni. «La risposta è attorno a noi» disse un membro reale quando gli fu concessa la parola. Era in piedi accanto alla sua sedia e percorreva la stanza con gli occhi. «Qui. In luoghi come questo rifugio. E alla St. Vladimir's. Mandiamo i nostri figli in posti sicuri, posti con un'adeguata sorveglianza e dove possano essere protetti facilmente. E guardate in quanti siamo, ragazzi e adulti. Perché non continuare a vivere così?» «Molti di noi già lo fanno» gridò qualcuno di rimando. L'uomo respinse la risposta con un gesto della mano. «Un paio di famiglie qui e là. Oppure una cittadina ad alta concentrazione di Moroi. Che, tuttavia, rimangono isolati. La maggioranza non unisce le proprie risorse: i propri guardiani, la propria magia. Se potessimo imitare questo modello...» Allargò le braccia. «... non dovremmo mai più preoccuparci degli Strigoi.» «E i Moroi non avrebbero più contatti col resto del mondo» mormorai. «Be', perlomeno fino a quando gli esseri umani non scopriranno le città segrete dei vampiri. Allora sì che potremo avere un mucchio di interazioni.» L'altra teoria su come proteggere i Moroi comportava meno problemi logistici, ma aveva un grande impatto sul piano personale, in particolare sul mio. «L'unico problema è che non abbiamo abbastanza guardiani.» Sostenitrice di questa linea di pensiero era una rappresentante del clan dei Szelsky. «E quindi la risposta è semplice: dobbiamo prenderne di più. I Drozdov avevano cinque guardiani, e non sono bastati. Erano solo in sei per proteggere più di dieci Moroi! È inaccettabile. Non c'è da stupirsi se si ripetono sciagure simili.» «E dove proponi di prendere altri guardiani?» chiese l'uomo che sosteneva l'idea di un'allargata convivenza tra Moroi. «Sono una risorsa piuttosto limitata.» La donna puntò il dito verso le file di posti dove eravamo seduti io e qualche altro novizio. «Ne abbiamo già in grande quantità. Li ho visti allenarsi. Sono letali. Perché aspettare che abbiano compiuto diciotto anni? Se acceleriamo il programma di addestramento e li facciamo combattere invece che stare chini sui libri, avremo nuovi guardiani due anni prima. A sedici anni.» Dimitri produsse un profondo suono gutturale; non sembrava un segno di approvazione. Sporgendosi in avanti appoggiò i gomiti sulle ginocchia e adagiò il mento sulle mani; gli occhi

stretti, attenti. «E non è tutto. Ci sono moltissimi potenziali guardiani che vanno sprecati. Dove sono le donne dhampir? Le nostre razze sono legate a doppio filo. I Moroi stanno facendo la loro parte per aiutare i dhampir a sopravvivere. Perché queste donne non fanno la loro? Perché non sono qui?» In risposta si levò una lunga risata allusiva. Tutti gli sguardi si voltarono verso Tasha Ozera. Al contrario degli altri membri reali, che indossavano abiti eleganti, lei vestiva comoda e casual. Portava i soliti jeans, una canotta bianca che le lasciava scoperta un po' di pancia, e un cardigan traforato di lana blu lungo fino alle ginocchia. Rivolta al moderatore, chiese: «Posso?» Lui annuì. La rappresentante degli Szelsky si sedette; Tasha si alzò. A differenza degli altri oratori, lei andò diritta al palco affinché tutti potessero vederla. Aveva i lucidi capelli neri tirati all'indietro in una coda di cavallo, e questo lasciava del tutto scoperta la cicatrice; sospettavo che l'avesse fatto di proposito. Il suo viso aveva un'espressione spavalda e provocatoria. Era bello. «Quelle donne non sono qui, Monica, perché sono troppo occupate a crescere i loro figli; sai, quelli che tu vorresti mandare in guerra non appena imparano a camminare. E per favore non offendere la nostra intelligenza sostenendo che i Moroi fanno un grande favore ai dhampir perché li aiutano a riprodursi. Magari nella tua famiglia è diverso, ma la maggior parte di noi trova il sesso piacevole. Per i Moroi non è questo gran sacrificio, farlo coi dhampir.» Dimitri si era raddrizzato, e non aveva più l'espressione arrabbiata. Con ogni probabilità il fatto che la sua nuova ragazza avesse parlato di sesso lo eccitava. Mi sentii invadere dalla rabbia e sperai, nel caso avessi assunto un'espressione omicida, che gli altri la credessero rivolta agli Strigoi, e non alla donna che stava parlando. D'improvviso notai che oltre Dimitri, qualche posto più in là lungo la nostra fila, Mia sedeva da sola. Non mi ero accorta di lei. Sedeva scomposta. Aveva gli occhi cerchiati di rosso, il viso più pallido del solito. Avvertii uno strano dolore bruciarmi in mezzo al petto, un dolore che non avrei mai pensato di provare per lei. «E il motivo per cui aspettiamo che questi guardiani compiano diciotto anni è che così possono godersi una parvenza di vita, prima di esporsi al pericolo. Hanno bisogno di questi anni aggiuntivi per portare a termine il loro sviluppo, tanto dal punto di vista psicologico quanto da quello fisico. Fateli uscire prima che siano pronti, trattateli come se fossero parte di una catena di montaggio, e non otterrete altro risultato che creare foraggio per Strigoi.» Alla durezza delle parole scelte da Tasha qualcuno rimase sconcertato, ma questo le permise di mantenere su di sé l'attenzione di tutti. «E se cercherete di trasformare le donne dhampir in guardiani, otterrete solo altro foraggio. Non potete costringerle a vivere una vita del genere, se non sono loro a volerlo. La tua idea di avere più guardiani si basa sul principio di mettere in pericolo di vita bambini e persone che non sono disposte a farlo, e questo solo per poter rimanere - a malapena - un passo più avanti del nemico. L'avrei anche considerato il piano più stupido che mi sia mai capitato di ascoltare, se prima non avessi dovuto sentire il suo.» Indicò il primo oratore, quello che avrebbe voluto riunire i Moroi. L'uomo si rabbuiò. «Allora illuminaci tu, Natasha» disse. «Dicci qual è la tua idea, visto che hai così tanta esperienza con gli Strigoi.» Un ghigno leggero increspò appena le labbra di Tasha, che non raccolse la provocazione. «La mia idea?» Si diresse a grandi passi verso il proscenio, facendo correre lo sguardo su tutti noi mentre rispondeva alla domanda. «La mia idea è che non dovremmo più affidarci a qualcuno o qualcosa affinché ci difenda. Ritenete che ci siano pochi guardiani? Non è questo il punto. Il punto è che ci sono troppi Strigoi. E siamo noi ad aver permesso loro di moltiplicarsi e diventare più forti, visto

che tutto ciò che ci limitiamo a fare è organizzare stupidi dibattiti come questo. Scappiamo e ci nascondiamo dietro i dhampir, e lasciamo che gli Strigoi se ne vadano in giro indisturbati. La colpa è nostra. Siamo noi la ragione per cui alcuni Drozdov sono morti. Volete un esercito? Bene, eccoci. I dhampir non sono gli unici che possono imparare a combattere. La domanda, Monica, non dovrebbe essere dove siano le donne dhampir in questa lotta. La domanda è: noi dove siamo?» Ormai Tasha gridava, e lo sforzo le arrossava le guance. I suoi occhi scintillavano per il fervore dei sentimenti che provava, e questo, sommato ai suoi bei lineamenti - e nonostante la cicatrice - la rendeva travolgente. La maggior parte di noi non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Lissa guardava Tasha con meraviglia, ispirata dalle sue parole. Mason era come ipnotizzato. Dimitri sembrava colpito. E più in là c'era... Al di là di Dimitri c'era Mia. Mia, che tutt'a un tratto non sedeva più scomposta nella sedia. Era diritta, diritta come un bastone, gli occhi sgranati. Fissava Tasha come se possedesse lei sola tutte le risposte della vita. Monica Szelsky pareva sentirsi meno in soggezione, e piantò gli occhi in quelli di Tasha. «Di certo non ci starai suggerendo che i Moroi debbano combattere al fianco dei guardiani, nel caso in cui arrivassero degli Strigoi, vero?» Tasha la guardò calma. «No. Sto suggerendo che Moroi e guardiani vadano a combattere gli Strigoi prima che siano loro ad arrivare da noi.» Un ragazzo sulla ventina che pareva un testimonial di Ralph Lauren scattò in piedi. Avrei potuto scommetterci: doveva essere un membro reale. Nessun altro poteva permettersi dei colpi di sole biondi così perfetti. Slacciò il costoso maglione che portava legato in vita e lo appoggiò sullo schienale della sedia. «Oh» si intromise in tono derisorio. «E così vorresti darci qualche bastone e dei paletti d'argento e mandarci in battaglia?» Tasha fece spallucce. «Se dovesse esserci d'aiuto, Andrew, sì.» Un sorrisetto furbo le si disegnò sulle labbra graziose. «Ma ci sono altre armi che possiamo imparare a usare. Armi che i guardiani non saranno mai in grado di maneggiare.» L'espressione del ragazzo lasciava intendere quanto ritenesse assurda quell'idea. Fece roteare gli occhi. «Ah, sì? Tipo?» Il sorriso di Tasha si trasformò in un ghigno vero e proprio. «Tipo questo.» Mosse la mano, e il maglione che il ragazzo aveva appoggiato sullo schienale della sedia prese fuoco. Lui cacciò un urlo per la sorpresa e lo gettò sul pavimento, pestando i piedi fino a estinguere le fiamme. Nella sala, tutti trattennero per un breve attimo il respiro. E poi... scoppiò il finimondo.

La gente scattò in piedi e prese a gridare. Tutti volevano far sentire la propria voce. Anche se molti la vedevano allo stesso modo: Tasha si sbagliava. La consideravano pazza. Le dissero che mandare Moroi e dhampir a combattere gli

Strigoi avrebbe portato entrambe le razze a una rapida estinzione. Ebbero addirittura il coraggio di insinuare che fosse tutto un suo piano, che Tasha stesse in qualche modo collaborando con gli Strigoi. Dimitri si alzò, osservando quel trambusto con un'espressione di sdegno. «Fareste meglio ad andarvene. Ormai non succederà niente di utile.» Mason e io ci alzammo, ma quando mi accinsi a seguire Dimitri fuori dalla sala, lui mi fece cenno di no con la testa. «Tu vai» disse Mason. «Voglio restare a dare un'occhiata.» Guardai le persone in piedi che litigavano. Scrollai le spalle. «Buona fortuna.» Non riuscivo a credere che fosse trascorso soltanto qualche giorno dall'ultima volta che avevo parlato con Dimitri. Uscendo in corridoio in sua compagnia, ebbi l'impressione che fossero passati degli anni. Trascorrere l'ultimo paio di giorni con Mason era stato fantastico, ma alla vista di Dimitri i miei sentimenti per lui si ridestarono di colpo. Tutto a un tratto Mason non mi sembrava più così carino. E tornò anche l'afflizione per la questione di Tasha, e prima che potessi impedirlo, quelle stupide parole mi sfuggirono di bocca. «Non dovresti restare là dentro a proteggere Tasha?» chiesi. «Prima che la folla la aggredisca? Dopo aver utilizzato la magia in quel modo passerà di sicuro qualche grosso guaio.» Lui sollevò un sopracciglio. «Sa prendersi cura di sé.» «Sì, già, perché è una karateka con le palle e sa anche usare la magia. Questo lo so. Però ho pensato che visto che stai per diventare il suo guardiano e...» «Chi te l'ha detto?» «Ho i miei informatori.» Dirgli che l'avevo saputo da mia madre sarebbe sembrato meno cool, in un certo senso. «Hai deciso di accettare, non è vero? Voglio dire, ha l'aria di essere un buon affare, visto che lei ha intenzione di offrirti anche un compenso in natura...» Mi rivolse un'occhiata calma. «Quello che succede tra lei e me non ti riguarda» tagliò corto. Le parole "tra lei e me" mi fecero male. Sembrava che fosse cosa fatta. E come spesso capitava quando mi sentivo ferita, il mio caratteraccio prese il sopravvento. «Be', sono sicura che sarete felici insieme. Tra l'altro è proprio il tuo tipo; so bene quanto ti piacciono le donne che non hanno la tua età. Cioè, quanti anni avrà, sei più di te? Sette? Io ne ho sette meno di te.» «Già» disse dopo qualche attimo di silenzio. «È così. E più questa conversazione va avanti, più dimostri quanto sei piccola.» Ahi. Spalancai la bocca, sorpresa. Neppure il pugno di mia madre mi aveva fatto così male. Per un istante pensai di scorgere del rimorso nei suoi occhi, come se si fosse reso conto di tutta la durezza delle sue parole. Ma quell'istante trascorse in un baleno, e la sua espressione tornò a farsi grave. «Piccola dhampir» disse d'improvviso una voce nelle vicinanze. Con lentezza, ancora stordita, mi voltai verso Adrian Ivashkov. Lui mi sorrise e fece un lieve cenno di saluto a Dimitri. Sospettavo di avere il viso in fiamme. Quanto era riuscito a sentire, Adrian? Alzò le mani come a chiedere scusa. «Non avevo intenzione di interrompere né altro. Ho solo bisogno di parlarti, quando hai un momento.» Volevo dire ad Adrian che non avevo tempo per giocare a qualunque gioco stesse giocando, ma le parole di Dimitri bruciavano ancora. Adesso guardava Adrian con uno sguardo di disapprovazione.

Immaginai che anche lui, come chiunque altro, sapesse della cattiva reputazione di Adrian. Bene, pensai. D'un tratto desiderai di farlo ingelosire. Volevo fargli del male, tanto quanto me ne aveva fatto lui nell'ultimo periodo. Ingoiando la mia pena, sfoderai un sorriso da mangiatrice di uomini, quello che da un po' di tempo non usavo al massimo delle sue potenzialità. Mi avvicinai ad Adrian e gli posai la mano sulla spalla. «Ho tempo adesso.» Feci anch'io un cenno col capo a Dimitri e portai via Adrian, camminandogli accanto. «Ci vediamo, guardiano Belikov.» Gli occhi scuri di Dimitri ci seguivano impassibili. Dopodiché mi voltai, e non mi guardai più alle spalle. «I ragazzi più vecchi non ti piacciono, eh?» chiese Adrian quando restammo soli. «Tu hai le allucinazioni» dissi. «È ovvio che la mia sconvolgente bellezza ti ha annebbiato il cervello.» Scoppiò in quella sua bella risata. «Possibilissimo.» Feci per allontanarmi, ma lui mi cinse con un braccio. «Eh no, hai voluto fare la grande amica, e adesso ti tocca andare fino in fondo.» Roteai gli occhi e lasciai il braccio dov'era. Riuscivo a fiutargli addosso l'odore di alcol, e la solita puzza di chiodi di garofano. Mi chiesi se fosse alticcio, anche se in realtà avevo il sospetto che ci fosse poca differenza tra il suo atteggiamento da ubriaco e quello da sobrio. «Che vuoi?» chiesi. Si prese un momento per osservarmi. «Voglio che trovi Vasilisa e che veniate con me. Ce la spasseremo un po'. È probabile che vi serva anche un costume da bagno.» Parve deluso da questa ipotesi. «A meno che tu non voglia restare nuda.» «Cosa? È appena stato massacrato un gruppo di Moroi e dhampir, e tu vuoi andare a fare un bagno e a "spassartela un po'"?» «Non faremo solo il bagno» disse con pazienza. «E inoltre il massacro è appunto la ragione per cui dovresti venire.» Prima che potessi controbattere vidi i miei amici svoltare l'angolo e avvicinarsi: Lissa, Mason e Christian. Insieme a loro c'erano Eddie Castile, il che non mi sorprese, ma anche Mia, cosa che senza dubbio mi stupì. Erano immersi in una conversazione, ma alla mia vista smisero di parlare. «Eccoti qui» disse Lissa, un'espressione perplessa sul volto. Mi ricordai che Adrian mi cingeva ancora col braccio. Me ne liberai. «Ehi, ragazzi» dissi. Ci fu un momento di imbarazzo, e fui abbastanza sicura di sentire una risatina soffocata che proveniva da Adrian. Feci un sorriso smagliante a lui e poi ai miei amici. «Adrian ci ha invitati a fare il bagno.» Mi fissarono con tanto d'occhi per la sorpresa; riuscivo quasi a scorgere gli ingranaggi dei loro cervelli che fabbricavano supposizioni. Il viso di Mason si rabbuiò un po', ma come gli altri non disse nulla. Soffocai un gemito. Adrian prese piuttosto bene il fatto che avessi esteso l'invito agli altri. Considerato il suo atteggiamento disinvolto, c'era da aspettarselo. Una volta presi i costumi da bagno, seguimmo le sue indicazioni fino a una porta in una delle parti più remote del rifugio. Dava accesso a una scalinata a chiocciola che portava al piano di sotto, e ancora più giù. I gradini continuarono ad avvolgersi su se stessi, tanto che mi vennero quasi le vertigini. Alle pareti c'erano lampade elettriche, e mentre ci spingevamo sempre più in basso, le pareti tinteggiate lasciarono spazio alla roccia sbozzata. Quando arrivammo a destinazione scoprimmo che Adrian aveva ragione: non si trattava soltanto

di fare il bagno. Ci trovavamo in un'area del rifugio adibita a centro termale, un posto frequentato solo da una ristretta cerchia di Moroi. Al momento era riservata a un gruppo di reali; amici di Adrian, pensai. C'erano all'incirca una trentina persone, della sua età o più grandi, tutti chiaramente parte di un élite. Il centro si componeva di una serie di piscine di acque termali calde. Un tempo, forse, queste si trovavano all'interno di una semplice caverna, ma i progettisti del rifugio avevano trasformato l'ambiente eliminando ogni elemento grezzo. Le pareti e il soffitto di pietra nera erano lustri e stupendi come tutto ciò che si trovava all'interno del rifugio. Si aveva l'impressione di attraversare una caverna spettacolare, progettata ad arte. Rastrelliere di asciugamani correvano lungo le pareti, e con loro tavoli stracarichi di cibi esotici. Allo stile della sala si accordavano a meraviglia le piscine termali: vasche di pietra colme d'acqua calda proveniente da qualche sorgente sotterranea. Il vapore saturava l'ambiente, e nell'aria si percepiva un lieve sentore metallico. Tutto attorno a noi riecheggiavano le risate e i tuffi dei festaioli. «Perché Mia è con voi?» chiesi a Lissa in un sussurro. Ci aggiravamo per la sala in cerca di una vasca libera. «Stava parlando con Mason quando abbiamo deciso di andare via» rispose. Tenne anche lei la voce bassa. «Ci sembrava brutto... non so... lasciarla sola.» Persino io mi dissi d'accordo. Aveva il dolore dipinto sul volto; al momento, però, Mia sembrava distratta da ciò che le stava dicendo Mason. «Credevo che non conoscessi Adrian» aggiunse Lissa. Nella sua voce e attraverso il legame percepii una nota di disapprovazione. Alla fine scovammo un'ampia vasca, un po' defilata. Dalla parte opposta c'erano un ragazzo e una ragazza che si stavano dando da fare, ma rimaneva comunque un mucchio di posto per noi. Non fu difficile far finta che non ci fossero. Infilai un piede nell'acqua e lo ritrassi. «Infatti non lo conosco» le dissi. Tornai a immergere il piede un centimetro alla volta, con cautela, facendolo seguire lentamente dal resto del corpo. Quando arrivai all'altezza dello stomaco feci una smorfia. Indossavo un bikini bordeaux, e l'acqua caldissima aveva colto di sorpresa la mia pancia. «Devi conoscerlo almeno un po'. Ti ha invitato a una festa.» «Già, ma ora lo vedi qui con noi?» Lissa seguì il mio sguardo. Adrian si intratteneva dall'altra parte della sala con un gruppo di ragazze che indossavano dei bikini più ridotti del mio; uno era un costume di Betsey Johnson che avevo desiderato con tutta me stessa dopo averlo visto su una rivista. Sospirai e distolsi lo sguardo. Ormai eravamo entrati tutti in acqua. Era così calda che mi pareva di stare in un pentolone di minestra. Visto che Lissa sembrava essersi convinta della mia innocenza a proposito di Adrian, mi sintonizzai sulla conversazione degli altri. «Di cosa state parlando?» chiesi. Era più semplice che rimanere ad ascoltarli e dedurlo da sola. «Dell'assemblea» disse Mason, eccitato. A quanto pareva si era ripreso senza troppa fatica dall'avermi vista in compagnia di Adrian. Christian si era sistemato in una minuscola ansa della vasca. Lissa gli si accoccolò accanto. Lui la cinse con un braccio in un gesto possessivo, e poi inarcò la schiena in modo da appoggiarla contro il bordo. «Il tuo fidanzato vuole guidare un esercito contro gli Strigoi» disse, con il chiaro intento di punzecchiarmi. Guardai Mason con aria interrogativa. Non valeva la pena di rispondere alla provocazione del

"fidanzato". «Ehi, è stata tua zia a consigliarcelo» ricordò Mason a Christian. «Lei ha detto solo che dovremmo trovare gli Strigoi prima che siano loro a trovare noi» ribatté Christian. «Non voleva spingere dei novizi a combattere. Quella era l'idea di Monica Szelsky.» In quel momento arrivò una cameriera con un vassoio di cocktail rosa. Venivano serviti in eleganti bicchieri di cristallo a stelo lungo coi bordi ricoperti di zucchero. Avevo il forte sospetto che si trattasse di bevande alcoliche, ma dubitavo che qualcuno ammesso alla festa corresse il rischio di vedersi chiedere un documento d'identità. La mia esperienza in fatto di alcolici si limitava alla birra economica. Perciò presi un bicchiere senza capire bene di che cosa si trattasse, e tornai a parlare con Mason. «Pensi che sia una buona idea?» gli chiesi. Bevvi un sorso dal bicchiere, con cautela. Nella mia veste di guardiano in addestramento, sentivo di dover rimanere sempre allerta, ma stanotte avvertivo ancora l'impulso di fare la ribelle. Il cocktail sapeva di punch. Succo di pompelmo. Qualcosa di dolce, fragole forse. Comunque ero sicura che ci fosse anche dell'alcol, ma non pareva così forte da doversene preoccupare. Ben presto fece la sua comparsa una seconda cameriera con un vassoio di cibo. Lanciai un'occhiata e ne riconobbi ben poco. C'era alcune vivande che somigliavano vagamente a funghi ripieni di formaggio, e altre che avevano l'aspetto di polpettine o salsicce. Da buona carnivora, mi allungai per prenderne una con l'idea che non dovessero essere niente male. «È foie gras» disse Christian. Sul volto aveva un sorrisetto che non mi piaceva affatto. Lo squadrai con circospezione. «Cos'è?» «Non lo sai?» Il tono della sua voce era impertinente, e per una volta nella vita, mi diede l'impressione di essere un vero reale, che dispensava le sue conoscenze elitarie a noi subalterni. Scrollò le spalle. «Provalo.» Lissa sospirò, esasperata. «È fegato d'oca.» Ritrassi la mano di scatto. La cameriera passò oltre, e Christian rise. Lo fulminai con lo sguardo. Nel frattempo Mason aveva continuato a pensare alla mia domanda sull'idea di mandare in battaglia i novizi prima del diploma. «Che altro stiamo facendo?» chiese, sdegnato. «Tu che cosa stai facendo? Fai giri di pista tutte le mattine con Belikov. A cosa ti serve? È utile ai Moroi?» A cosa mi serviva? A farmi battere il cuore all'impazzata e a farmi avere pensieri sconci. «Non siamo pronti» dissi invece. «Mancano solo sei mesi» s'intromise Eddie. Mason annuì. «Già. Quanto possiamo ancora imparare?» «Parecchio» dissi, riflettendo su quanto avessi appreso durante gli allentamenti privati con Dimitri. Finii il mio cocktail. «E comunque come andrebbe a finire? Ammettiamo che ci facciano finire la scuola sei mesi prima, e che ci mandino là fuori. E poi? Decideranno di spingersi ancora più in là e di eliminare tutto l'ultimo anno? O il terzo?» Lui si strinse nelle spalle. «Non ho paura di combattere. Avrei potuto affrontare gli Strigoi quando ero al secondo anno.» «Sì, come no» dissi sarcastica. «Proprio come te la sei cavata con gli sci giù da quel canalone.» Il volto di Mason, già rosso per il caldo, si fece paonazzo. Mi pentii subito delle mie parole, soprattutto perché Christian scoppiò a ridere.

«Non pensavo di poter vivere così a lungo da trovarmi d'accordo con te, Rose. Purtroppo è successo.» La cameriera coi cocktail tornò e sia Christian che io prendemmo di nuovo da bere. «I Moroi devono cominciare a darci una mano a difenderli» dissi. «Con la magia?» chiese Mia d'improvviso. Era la prima volta che parlava da quando eravamo arrivati. Andò incontro al silenzio. Sono convinta che Mason ed Eddie non le abbiano risposto perché non sapevano nulla di combattimenti con la magia. Lissa, Christian e io ne sapevamo qualcosa, ma cercavamo disperatamente di far finta di non saperlo. Negli occhi di Mia era spuntata una curiosa speranza, e potevo soltanto immaginare che cosa avesse passato quel giorno. Si era svegliata ed era venuta a sapere che sua madre era morta, e poi aveva dovuto sorbirsi ore e ore di carnevalate politiche e piani di battaglia. Il solo fatto che fosse seduta lì e sembrasse quasi del tutto calma era un miracolo. Immaginavo che una persona a cui piacesse la propria madre avrebbe fatto fatica a respirare, in una situazione del genere. Quando intuii che nessuno le avrebbe risposto, dissi: «Immagino di sì. Ma... non ne so molto.» Finii il mio cocktail e volsi altrove lo sguardo, nella speranza che qualcun altro riavviasse la conversazione. Ma nessuno lo fece. Mia ne parve delusa, ma quando Mason tornò a discutere degli Strigoi non aggiunse altro. Misi le mani sul terzo cocktail e sprofondai in acqua quanto più possibile continuando a reggere il bicchiere. Questo drink era diverso. Pareva al cioccolato, ed era ricoperto di panna montata. Lo assaggiai e riconobbi senz'ombra di dubbio il gusto dell'alcol. Però pensai che il cioccolato avrebbe saputo diluirlo. Quando fui pronta per un quarto cocktail, non riuscii a scorgere la cameriera da nessuna parte. Tutto a un tratto Mason mi sembrava molto, molto carino. Mi sarebbe piaciuto ricevere un po' di attenzioni romantiche da parte sua, ma stava ancora parlando di Strigoi e degli aspetti logistici di un attacco sferrato in pieno giorno. Mia ed Eddie annuivano con fare diligente, ed ebbi la sensazione che se Mason avesse deciso di andare a caccia di Strigoi in quel preciso istante, quei due l'avrebbero seguito. Christian prendeva parte alla conversazione, ma soltanto per fare l'avvocato del diavolo. Tipico. Secondo lui, per un attacco preventivo, servivano guardiani e Moroi, grossomodo come aveva detto Tasha. Mason, Mia ed Eddie sostenevano che se i Moroi non lo accettavano, allora i guardiani avrebbero dovuto prendere in mano la situazione. Confesso che il loro entusiasmo era quasi contagioso. Mi piaceva abbastanza l'idea di avere la meglio sugli Strigoi. Però durante gli attacchi ai Badica e ai Drozdov tutti i guardiani erano rimasti uccisi. Era chiaro che gli Strigoi si erano organizzati in grandi gruppi e che avevano potuto contare su alcuni alleati, il che confermava che dovevamo procedere con estrema cautela. Mason era carino, però non avevo più voglia di sentirlo parlare delle sue capacità in battaglia. Avevo voglia di un altro drink. Mi alzai e mi arrampicai oltre il bordo della vasca. Con mia grande sorpresa, il mondo iniziò a vorticare. Mi era già capitato in passato, quando ero uscita troppo in fretta dalla vasca da bagno o dall'idromassaggio, ma le cose non si stabilizzarono e mi resi conto che quei cocktail erano più forti di quanto pensassi. Decisi anche che un quarto bicchiere non sarebbe stata una buona idea, però non volevo tornare in acqua e rivelare agli altri che ero ubriaca. Mi diressi verso una delle stanzette laterali dentro cui avevo visto scomparire una cameriera. Speravo che da qualche parte ci fosse una riserva segreta di dolci: mousse al cioccolato al posto di fegato d'oca. Camminai facendo molta attenzione al pavimento scivoloso, e nel frattempo riflettei sul fatto che cadere in una delle vasche e fracassarmi il cranio sarebbe di certo costato qualche punto alla mia reputazione. Ero così concentrata sui miei piedi nel tentativo di non barcollare che andai a sbattere contro qualcuno. A mia difesa, devo dire che la colpa fu sua; indietreggiando mi era venuto addosso. «Ehi, stai attento» dissi, riuscendo a restare in piedi.

Ma lui non si curava affatto di me. I suoi occhi erano puntati su un altro tizio, un ragazzo col naso che sanguinava. Ero finita nel bel mezzo di una rissa.

Due ragazzi che non avevo mai incontrato prima si stavano fronteggiando. Dovevano essere sulla ventina, e nessuno dei due si era accorto di me. Il tizio che mi era venuto addosso diede uno spintone all'altro, che indietreggiò barcollando. «Hai paura!» gridò il ragazzo vicino a me. Indossava un costume verde e l'acqua aveva pettinato all'indietro i suoi capelli neri. «Avete tutti paura. Volete soltanto nascondervi nei vostri palazzi e lasciare che i guardiani facciano il lavoro sporco per voi. Cosa farete quando saranno tutti morti? Chi vi proteggerà allora?» L'altro ragazzo si ripulì il sangue dal viso col dorso della mano. D'improvviso lo riconobbi, grazie ai colpi di sole. Era quello che se l'era presa con Tasha per la sua proposta di mandare i Moroi in battaglia. Lei l'aveva chiamato Andrew. Cercò di sferrare un colpo, ma il tentativo fallì; la sua tecnica era del tutto sbagliata. «È questo il modo più sicuro. Dando ascolto a una che se la fa con gli Strigoi ci ritroveremo tutti morti. Sta cercando di sterminare la nostra razza!» «Sta cercando di salvarci!» «Sta cercando di farci usare la magia nera!» Quella "che se la faceva con gli Strigoi" doveva essere Tasha. Al di fuori della mia ristrettissima cerchia, era la prima volta che sentivo parlare in suo favore. Mi chiesi quanti altri, là fuori, condividessero il suo punto di vista. Sferrò un nuovo colpo a Andrew, e il mio istinto - o forse quel pugno - mi fece entrare in azione. Scattai in avanti e mi frapposi trai i due. Ero ancora intontita e un po' traballante. Se non fossero stati così vicini, con ogni probabilità avrei finito per cadere. Esitarono entrambi, presi alla sprovvista. «Levati di mezzo» ringhiò Andrew. Erano maschi e Moroi, e quindi erano più alti di me oltre che più pesanti, ma era probabile che io fossi più forte sia dell'uno che dell'altro, presi singolarmente. Con la speranza di sfruttare al meglio questa possibilità, afferrai entrambi per un braccio, li strattonai verso di me e poi li spinsi con tutta la forza di cui ero capace. Avendomi sottovalutato, i due vacillarono. Vacillai un po' anch'io. Il tizio che non apparteneva a nessuna delle casate reali mi fulminò con lo sguardo. Ero convinta che fosse all'antica, e che non avrebbe mai colpito una ragazza. «Che stai facendo?» esclamò. Si erano raccolte un po' di persone, che guardavano elettrizzate. Ricambiai la sua occhiataccia. «Sto facendo in modo che non sembriate più stupidi di quanto già non date l'impressione di essere! Volete rendervi utili? Allora smettetela di farvi la guerra! Spaccarvi la faccia a vicenda non salverà i Moroi, a meno che il vostro intento non sia di ripulire il patrimonio genetico della vostra razza dal gene dell'idiozia.» Mi rivolsi ad Andrew. «Tasha Ozera non sta cercando di sterminarvi... sta cercando di impedirvi di continuare a comportarvi da prede.»

Mi girai verso l'altro ragazzo. «E per quanto riguarda te, hai ancora molta strada da fare, se pensi che sia questo il modo per far valere il tuo punto di vista. La magia - soprattutto la magia d'offesa richiede parecchia padronanza di sé, e per adesso non è che la tua mi abbia fatto una grande impressione. Pare che io ne possieda più di te, e se mi conoscessi soltanto un po', sapresti quanto questo possa suonare assurdo.» I due ragazzi mi fissavano con tanto d'occhi, frastornati. A quanto pareva ero più efficace di un teaser. Be', almeno riuscii a esserlo per svariati secondi. Perché una volta superato lo shock causato dalle mie parole, i due tornarono a darsi addosso. Io mi ritrovai in mezzo al fuoco incrociato e mi feci da parte, e ci mancò poco che nel farlo non cadessi a terra. Tutto a un tratto Mason accorse in mia difesa. Diede un pugno al primo che gli capitò a tiro, ovvero quello che non aveva sangue reale. Il ragazzo venne proiettato all'indietro, e ricadde in una delle vasche con un gran levarsi di spruzzi. Io strillai, ricordando la paura di fracassarmi il cranio che avevo avuto qualche attimo prima. Pochi secondi più tardi, però, il ragazzo si rimise in piedi e si strofinò gli occhi per liberarli dall'acqua. Afferrai Mason per un braccio nel tentativo di tirarlo indietro, ma lui mi scrollò via e diede la caccia ad Andrew. Lo spintonò con forza, spedendolo tra alcuni Moroi - suoi amici, sospettavo - che sembravano a loro volta voler sedare la rissa. Il tizio finito in piscina si arrampicò sul bordo, la collera dipinta sul viso, e si diresse verso Andrew. Questa volta, sia Mason che io gli bloccammo la strada. Ci scoccò un'occhiataccia. «Non lo fare» lo misi in guardia. Il ragazzo serrò i pugni e sembrò valutare l'ipotesi di scagliarsi contro di noi. Io e Mason però incutevamo timore e per di più lui non aveva amici vicini su cui contare, a differenza di Andrew, che intanto gridava oscenità mentre lo trascinavano via. Borbottando qualche minaccia, il ragazzo batté in ritirata. Non appena se ne fu andato, me la presi con Mason. «Ma sei impazzito?» «Eh?» chiese lui. «Intrometterti così!» «Anche tu ti sei intromessa» disse. Feci per controbattere, poi capii che aveva ragione. «È diverso» mugugnai. Lui si sporse in avanti. «Sei ubriaca?» «No. Certo che no. Stavo solo cercando di impedirti di fare una stupidaggine. Il fatto che ti sia illuso di poter uccidere uno Strigoi, non significa che devi sfogarti con chiunque.» «Mi sono illuso?» chiese con freddezza. Proprio in quel momento cominciai ad avvertire un po' di nausea. Con la testa che mi girava continuai a camminare in direzione della stanzetta laterale, sperando di non inciampare. Quando la raggiunsi, però, vidi che non si trattava affatto di una dispensa per dolci e bevande. Be', almeno non nel senso in cui la intendevo io. Era un locale per donatori. Alcuni esseri umani giacevano distesi su chaise lounge foderate di seta, e accanto a loro c'erano i Moroi. Nell'aria bruciava incenso al gelsomino. Stordita, guardai con misterioso incanto un Moroi biondo che si chinava in avanti e mordeva il collo di una ragazza molto carina dai capelli rossi. In quel momento mi accorsi che tutte le donatrici presenti erano molto belle. Come attrici o modelle. Solo il meglio, per i reali. Il ragazzo bevve a lungo e a fondo, e la ragazza chiuse gli occhi e schiuse le labbra, sul volto un'espressione di estasi pura mentre le endorfine Moroi entravano in circolo. Fui scossa da un brivido, al ricordo di quando anch'io aveva provato lo stesso tipo di euforia. Di colpo nella mia

mente annebbiata dall'alcol l'intera faccenda assunse una connotazione sorprendentemente erotica. Mi sentii quasi un'intrusa, come se stessi guardando qualcuno che faceva sesso. Quando il Moroi ebbe finito e leccato via il sangue rimasto, sfiorò con le labbra il collo della ragazza con un bacio delicato. «Vuoi offrirti volontaria?» Dei polpastrelli leggeri mi sfiorarono il collo, e io trasalii. Mi voltai, e mi ritrovai davanti gli occhi verdi e il sorrisetto scaltro di Adrian. «Non provarci» gli dissi, spingendogli via la mano. «E allora che ci fai qui?» chiese. Gesticolai indicando il locale. «Mi sono persa.» Mi scrutò. «Sei ubriaca?» «No. Certo che no... ma...» La nausea si era affievolita un po', però non mi sentivo ancora in piena forma. «Penso che dovrei sedermi.» Mi afferrò per il braccio. «Be', non qui. Qualcuno potrebbe farsi l'idea sbagliata. Andiamo in un posto più tranquillo.» Mi guidò in un'altra stanza, e io mi guardai attorno con interesse. Era una zona riservata ai massaggi. Alcuni Moroi giacevano distesi sui lettini e si facevano massaggiare la schiena e i piedi dal personale dell'albergo. Utilizzavano un olio che profumava di lavanda e rosmarino. In altre circostanze, l'idea di un massaggio mi sarebbe parsa grandiosa, ma in quel momento mettermi distesa sullo stomaco mi sembrava la peggiore delle idee. Mi sedetti sulla moquette che ricopriva il pavimento, e appoggiai la schiena alla parete. Adrian si allontanò e tornò con un bicchiere d'acqua. Sedendosi, me lo porse. «Bevi. Ti farà bene.» «Te l'ho detto, non sono ubriaca» bofonchiai. Ma mandai giù l'acqua comunque. «A-ah.» Mi sorrise. «Hai fatto un ottimo lavoro, con quella rissa. Chi è il tizio che ti ha aiutata?» «Il mio ragazzo» dissi. «Una specie.» «Mia aveva ragione. Ci sono davvero un sacco di ragazzi nella tua vita.» «Non è così.» «Okay.» Stava ancora sorridendo. «Dov'è Vasi-lisa? Pensavo che ti sarebbe rimasta incollata.» «È col suo ragazzo.» Lo scrutai in volto. «Perché questo tono? Sei gelosa? Lo vorresti tu?» «Dio, no. Solo che non mi piace, tutto qui.» «La tratta male?» chiese. «No» ammisi. «La adora. È soltanto un idiota.» Era chiaro che Adrian si stava divertendo. «Ah, allora sei gelosa. Lei passa più tempo con lui che con te?» Feci finta di non aver sentito. «Perché continui a chiedere di lei? Ti interessa?» Lui scoppiò a ridere. «Stai tranquilla, verso di lei non provo lo stesso genere di interesse che provo per te.» «Però ti interessa.» «Vorrei solo parlarle.»

Se ne andò per prendermi dell'altra acqua. «Stai meglio?» chiese porgendomi il bicchiere. Era di cristallo, con intricate incisioni. Sembrava oltremodo elegante per della semplice acqua. «Sì... non pensavo che quei cocktail fossero così forti.» «È questo il bello» ridacchiò. «E a proposito di bellezza... questo colore ti sta benissimo.» Cambiai posizione. Forse non mettevo in mostra tanta pelle quanto le altre ragazze, ma comunque stavo mostrando ad Adrian più di quanto volessi. O forse era quello che volevo? Aveva un che di strano. Quelle sue maniere spocchiose mi davano i nervi... ma stargli vicino continuava a piacermi. Forse la mia parte sbruffona aveva riconosciuto uno spirito affine. In un recesso della mia mente ubriaca si accese una lampadina. Ma non riuscivo ancora a capire di cosa si trattasse. Bevvi altra acqua. «Non fumi una sigaretta da qualcosa come dieci minuti» gli feci notare nel tentativo di cambiare argomento. Fece una smorfia. «Qui dentro non si fuma.» «Sono certa che avrai compensato con il punch.» Il suo sorriso fece di nuovo capolino. «Be', alcuni di noi sanno reggerli, i superalcolici. Non starai mica per vomitare, vero?» Mi sentivo ancora alticcia ma non avevo più la nausea. «No.» «Bene.» Tornai con la mente a quando l'avevo sognato. Era stato soltanto un sogno, ma mi era rimasto impresso, soprattutto per la conversazione a proposito delle tenebre che mi circondavano. Avrei voluto chiederglielo... però sapevo che era un'assurdità. Era stato un sogno mio, non suo. «Adrian...» Volse gli occhi verso di me. «Sì, tesoro?» Non ebbi il coraggio di chiederglielo. «Lascia stare.» Fece per ribattere, poi inclinò la testa verso la porta. «Ah, eccola che arriva.» «Chi...?» Lissa entrò nella stanza guardandosi attorno. Quando ci individuò, sul suo viso comparve un'espressione sollevata. Tuttavia non fui in grado di percepire davvero ciò che sentiva. Le sostanze intossicanti come l'alcol ottundevano il legame. Un'altra ragione per cui non avrei dovuto bere così tanto, quella notte. «Eccoti» disse inginocchiandosi accanto a me. Lanciò un'occhiata ad Adrian, gli fece un cenno col capo. «Ehi.» «Ehi, cugina» rispose lui, nel lessico familiare che a volte i reali usavano tra di loro. «Stai bene?» mi chiese Lissa. «Quando ho visto quant'eri ubriaca, ho pensato che saresti potuta cadere in qualche vasca e annegare.» «Non sono...» Smisi di negarlo. «Sto bene.» Mentre Adrian osservava Lissa, la sua solita espressione si tramutò in qualcosa di più serio. La cosa mi rammentò per l'ennesima volta il sogno. «Come hai fatto a trovarla?» Lissa lo guardò con aria imbarazzata. «Ho, uhm, ho setacciato tutte le stanze.» «Oh.» Ne parve deluso. «Pensavo che ti fossi servita del vostro legame.» Lo fissammo tutte e due a occhi sgranati. «Come fai a saperlo?» domandai. A scuola solo in pochi ne erano a conoscenza. Adrian ne aveva

parlato con assoluta disinvoltura, come se stesse commentando il colore dei miei capelli. «Ehi, non posso mica svelarti tutti i miei segreti, no?» disse, facendo il misterioso. «Ma quando siete insieme voi due vi comportate in un modo molto particolare... non so bene come spiegarlo. È una cosa eccezionale... A quanto pare le vecchie leggende sono vere.» Lissa lo guardò con circospezione. «Il legame funziona a senso unico. Rose può sentire ciò che provo e penso, ma io non posso fare altrettanto con lei.» «Ah.» Restammo seduti in silenzio per qualche istante, e io bevvi altra acqua. Adrian tornò a parlare. «A ogni modo, in cosa ti sei specializzata, cugina?» Lissa diede l'impressione di sentirsi a disagio. Sapevamo tutte e due quanto fosse importante tenere segreti i suoi poteri dello spirito, visto che gli altri avrebbero potuto abusare delle sue capacità guaritrici, ma fingere che non si fosse ancora specializzata la infastidiva. «Non mi sono ancora specializzata» disse. «Pensano che lo farai? Sboccerai tardi?» «No.» «Però probabilmente sei brava in tutti gli elementi, non è così? Solo non abbastanza per dominarne uno in particolare?» Si chinò in avanti per darle una lieve pacca sulla spalla, in modo un po' esagerato, come per consolarla. «Già, come fai...» Nell'istante in cui le dita di Adrian la toccarono, Lissa rimase senza fiato. Fu come se fosse stata colpita da un fulmine. Un'espressione stranissima le attraversò il viso. Seppur ubriaca, percepii un'ondata di gioia attraverso il legame. Lissa fissava Adrian ammirata. Anche gli occhi di lui erano fissi nei suoi. Non capivo perché si stessero guardando in quel modo, ma mi diede fastidio. «Ehi» dissi. «Basta così. Te l'ho detto, ha già un ragazzo.» «Lo so» disse lui senza smettere di guardarla. Un sorriso singolare gli affiorò sulle labbra. «Un giorno di questi dobbiamo farci una chiacchierata, cugina.» «Sì» disse lei. «Ehi.» Ero più confusa che mai. «Tu hai un ragazzo. Eccolo lì.» Sbatté le palpebre tornando alla realtà. Tutti e tre ci voltammo in direzione della porta. Christian e gli altri erano sulla soglia. D'improvviso rivissi il momento in cui mi avevano trovata con Adrian che mi cingeva con un braccio. Questa volta era molto meglio, però. Lissa e io gli sedevamo accanto, una a destra e l'altra a sinistra, vicinissime. Lei scattò in piedi, con l'espressione un po' colpevole. Christian la guardò con interesse. «Stavamo per andarcene» le disse. «Okay» replicò lei. Abbassò lo sguardo su di me. «Pronta?» Annuii e feci per alzarmi, anche se con qualche difficoltà. Adrian mi afferrò per il braccio e mi diede una mano. Sorrise a Lissa. «È stato un piacere parlare con te.» A me sussurrò: «Non preoccuparti. Te l'ho detto, per lei non ho quel tipo di interesse. Non sta così bene in costume. Probabilmente nemmeno senza.» Ritrassi il braccio. «Be', non lo scoprirai mai.» «Poco male» disse. «Ho molta immaginazione.» Mi unii agli altri e insieme ci dirigemmo verso il piano terra del rifugio. Mason mi lanciò un'occhiata strana, simile a quella che Christian aveva scoccato a Lissa, e si tenne lontano, camminando davanti con Eddie. Con mia sorpresa, e un po' a disagio, mi ritrovai a camminare

accanto a Mia. Aveva un aspetto orribile. «Io... mi dispiace molto per quello che è successo» dissi alla fine. «Non devi fingere che t'importi, Rose.» «No, no, davvero. È tremendo... mi dispiace molto.» Non mi guardava. «E... tuo padre lo rivedrai presto?» «Alla commemorazione, se ne faranno una» disse con freddezza. «Oh.» Non sapevo cos'altro aggiungere e mi diedi per vinta. Mentre salivamo al piano terra, rivolsi le mie attenzioni alla scalinata. A sorpresa, fu Mia a riprendere la conversazione. «Ti ho vista metterti in mezzo in quella rissa...» disse lentamente. «Hai parlato di magia d'offesa. Come se ne sapessi qualcosa.» Oh. Grandioso. Era sul punto di ricattarmi... oppure no? Al momento mi dava quasi l'impressione di essere cortese. «Ho solo tirato a indovinare» dissi. Non avevo la minima intenzione di mettere Tasha e Christian nei guai. «Non ne so un granché. Giusto qualche storiella che mi è capitato di sentire.» «Oh.» Ci rimase male. «Che genere di storielle?» «Uhm, be'...» Cercai di pensare a qualcosa di non troppo vago ma nemmeno troppo specifico. «Come ho ripetuto a quei ragazzi... la faccenda della concentrazione è importante. Perché se stai lottando con uno Strigoi, qualunque cosa può fartela perdere. Quindi devi essere in grado di mantenere il controllo.» In realtà questa era una regola base per i guardiani, ma a Mia doveva sembrare una novità. Dall'entusiasmo le si spalancarono gli occhi. «Cos'altro? Che genere di incantesimi si possono utilizzare?» Scossi la testa. «Non so. In realtà non so nemmeno come funzionino gli incantesimi. E come ti ho già detto, sono solo... storielle che ho sentito in giro. Credo che sia compito tuo trovare il modo di servirti del tuo elemento come un'arma. I conoscitori del fuoco hanno un gran vantaggio perché il fuoco uccide gli Strigoi, quindi per loro è più semplice. E i conoscitori dell'aria possono soffocare le persone.» Avevo avuto modo di sperimentare questa abilità sul campo anche se in modo indiretto, attraverso Lissa. Era stato orribile. Mia sgranò ancora di più gli occhi. «E che mi dici dei conoscitori dell'acqua?» chiese. «In che modo si può usare l'acqua contro gli Strigoi?» Esitai un istante. «Io, uhm, non ho mai sentito niente sui conoscitori dell'acqua. Mi dispiace.» «Ma non hai qualche idea? Dei modi in cui, diciamo, qualcuno come me possa imparare a combattere?» Ah. Allora era questo il punto. Non era poi così strano. Mi ricordai di quanto mi fosse parsa esaltata quando Tasha, durante l'assemblea, aveva suggerito di attaccare gli Strigoi. Mia voleva vendicarsi della morte di sua madre. Non mi meravigliava affatto che lei e Mason andassero così d'accordo. «Mia» le dissi con gentilezza, tenendole aperta la porta per farla passare. Eravamo quasi arrivati nella hall. «So quanto desideri... fare qualcosa. Ma penso che sarebbe meglio se ti concedessi il tempo di, uhm, piangere la perdita di tua madre.» Lei arrossì, e di colpo mi ritrovai di fronte la solita e collerica Mia. «Non trattarmi con sufficienza» disse. «Ehi, non lo sto facendo. Davvero. Voglio solo dire che non dovresti fare qualcosa di avventato mentre sei ancora sconvolta. Per di più...» Mi morsi la lingua per non parlare.

Strinse gli occhi. «Cosa?» Al diavolo. Doveva saperlo. «Be', non so proprio quale utilità potrebbe mai avere un conoscitore dell'acqua contro uno Strigoi. Probabilmente è l'elemento meno adatto da utilizzare contro di loro.» Contrasse il volto per la rabbia. «Sei davvero una stronza, lo sai?» «Ti sto solo dicendo la verità.» «Be', lascia che anch'io ti dica la verità. Quando si tratta di ragazzi, sei davvero un'idiota.» Pensai a Dimitri. Non si sbagliava del tutto. «Mason è straordinario» continuò. «Uno dei ragazzi più carini che conosca, e tu non ti accorgi neppure di lui! Per te sarebbe disposto a fare qualunque cosa, e invece tu te ne stavi lì, tra le braccia di Adrian Ivashkov.» Le sue parole mi colsero di sorpresa. Era possibile che Mia avesse una cotta per Mason? E benché sapessi di non essermi gettata tra le braccia di Adrian, mi rendevo perfettamente conto di aver dato quell'impressione. E anche se non era vero, ciò non avrebbe impedito a Mason di sentirsi ferito e tradito. «Hai ragione» dissi. Mia mi fissò, tanto sconvolta dal fatto che le stessi dando ragione da non riuscire a dire neppure una parola per il resto del tragitto. Arrivammo nel punto in cui il rifugio si divideva in due ali, una per i ragazzi e una per le ragazze. Mentre gli altri si allontanavano afferrai Mason per un braccio. «Aspetta» gli dissi. Avevo l'urgente bisogno di rassicurarlo a proposito di Adrian, ma una piccolissima parte di me si chiedeva se lo stessi facendo perché volevo davvero Mason oppure soltanto perché mi piaceva l'idea che lui mi desiderasse, ed egoisticamente non sapevo rinunciarvi. Mason arrestò il passo e mi guardò. Aveva un'espressione diffidente. «Volevo dirti che mi dispiace. Non avrei dovuto prendermela con te dopo la scazzottata, so che volevi soltanto darmi una mano. E con Adrian... non è successo niente. Sul serio.» «Non sembrava così» disse Mason. Ma l'arrabbiatura sul suo viso era svanita. «Lo so, ma credimi, fa tutto lui. Si è preso una specie di stupida cotta per me.» Il mio tono doveva essere stato convincente, perché Mason scoppiò a ridere. «Be'. È difficile non prendersela.» «Non mi interessa né lui né nessun altro» proseguii. Era una piccola bugia, ma pensai che in quel momento non avesse importanza. Ben presto mi sarei dimenticata di Dimitri, e Mia aveva ragione su Mason. Era meraviglioso e dolce e carino. Se non mi fossi buttata in quest'avventura mi sarei dimostrata una sciocca... giusto? Avevo ancora la mano sul suo braccio, e lo attirai verso di me. Non gli servì altro segnale. Si chinò in avanti e mi baciò. Mi ritrovai appoggiata alla parete, più o meno com'era andata con Dimitri in palestra. Naturalmente, non mi diede le stesse emozioni che avevo provato con Dimitri, ma a modo suo fu comunque bello. Abbracciai Mason e iniziai a tirarlo più vicino. «Potremmo andare... da qualche parte» dissi. Lui indietreggiò e rise. «Non se sei ubriaca.» «Non sono più... tanto... ubriaca» dissi cercando di attirarlo di nuovo a me. Con un bacetto sulle labbra si allontanò. «Ubriaca quanto basta. Senti, non è facile, credimi. Ma se domani - quando sarai sobria - mi vorrai ancora, allora ne riparleremo.» Si chinò e mi baciò di nuovo. Cercai di stringerlo tra le braccia, ma si divincolò di nuovo.

«Vacci piano, ragazza» mi prese in giro, indietreggiando verso il suo corridoio. Lo fulminai con lo sguardo, ma lui scoppiò a ridere e si voltò. Mentre si allontanava la mia occhiataccia si spense, e raggiunsi la mia camera con un sorriso sul volto.

Il mattino dopo stavo cercando di mettermi lo smalto sulle unghie dei piedi - cosa per niente semplice, visti i tremendi postumi da sbornia -quando sentii bussare alla porta. Lissa era uscita quando mi ero alzata, così attraversai la camera saltellando, nel tentativo di non rovinare lo smalto ancora umido. Quando aprii, vidi un garzone dell'albergo fuori dalla porta con una grossa scatola tra le braccia. La spostò leggermente di lato per poter vedere e mi guardò. «Sto cercando Rose Hathaway.» «Sono io.» Presi la scatola. Era grande, ma non molto pesante. Dopo un frettoloso ringraziamento richiusi la porta, chiedendomi se avrei dovuto dargli la mancia. Va be', ormai. Mi sedetti sul pavimento in compagnia della scatola. Non aveva contrassegni ed era chiusa con del nastro adesivo da pacchi. Trovai una penna e bucai il nastro adesivo. Una volta che lo ebbi tagliato quanto bastava, aprii la scatola e sbirciai all'interno. Era piena di profumi. Nella scatola dovevano essere state stipate almeno trenta boccette. Di alcuni profumi avevo sentito parlare, di altri no. Spaziavano da quelli che avevano un costo pazzesco, da star del cinema, a quelli economici da supermercato. Eternity. Angel. Vanilla Fields. Jade Blossom. Michael Kors. Poison. Hypnotic Poison. Pure Poison. Happy. Light Blue. Jovan Musk. Pink Sugar. Vera Wang. Presi le confezioni una alla volta, ne lessi la descrizione e tirai fuori la boccetta per dare un'annusata. Ero arrivata a metà quando dovetti scontrarmi con la realtà dei fatti. Doveva essere stato Adrian a mandarmeli. Non sapevo come fosse riuscito a farseli consegnare all'hotel in così poco tempo, ma con i soldi tutto si può ottenere. A ogni modo non avevo bisogno delle attenzioni di un ricco Moroi viziato; a quanto pareva non aveva saputo cogliere i miei segnali. Iniziai con rammarico a riporre i profumi nella scatola. Poi mi fermai. Li avrei restituiti di certo... ma non c'era niente di male ad annusare quelli che ancora rimanevano, prima di farlo. Ancora una volta iniziai a estrarre boccetta dopo boccetta. Di certi profumi mi limitai ad annusare il tappo; altri invece li spruzzai nell'aria. Serendipity. Dolce & Gabbana. Shalimar. Daisy. Fui colpita da una fragranza dopo l'altra: rosa, violetta, sandalo, arancia, vaniglia, orchidea... Quando ebbi finito, il mio naso era insensibile agli odori. Quei profumi erano stati creati per gli esseri umani, che avevano un olfatto meno sviluppato rispetto ai vampiri e persino ai dhampir. Per questo le fragranze mi risultavano oltremodo forti. Ciò che Adrian aveva inteso dicendo che era sufficiente un solo spruzzo di profumo mi apparve sotto una nuova luce. Se tutte queste boccette stordivano me, potevo solo immaginare ciò che avrebbe sentito un Moroi. Il sovraccarico sensoriale

non fu di grande aiuto neppure al mal di testa con cui mi ero svegliata. Riposi nella scatola i profumi, questa volta per davvero, fermandomi solo quando ne trovai uno che mi piaceva tantissimo. Esitai tenendone in mano la confezione. Poi tirai fuori la boccetta rossa e lo annusai di nuovo. Era una fragranza fresca, dolce. Un po' fruttata, ma non un odore di frutta candita o zuccherosa. Mi sforzai di ricordare una nota di profumo che mi era capito di sentire addosso a una ragazza che aveva la camera non lontano dalla mia. Mi aveva detto il nome. Qualcosa di simile alla ciliegia... ma più intenso. Ribes, ecco cos'era. Ed era lì, in quel profumo, insieme ad alcuni fiori: mughetto e altre specie che non riuscivo a identificare. Qualunque fosse la miscela, in essa c'era qualcosa capace di catturarmi. Dolce, ma non troppo dolce. Lessi la confezione, in cerca del nome. Amor Amor. «Appropriato» mormorai, al pensiero dei molti problemi d'amore che sembravano affliggermi in questo periodo. A ogni modo mi tenni il profumo, e riposi gli altri. Con la scatola in braccio scesi al banco della reception e mi procurai del nastro adesivo per sigillarla. Chiesi anche indicazioni per la camera di Adrian. A quanto pareva gli Ivashkov avevano un'ala del rifugio tutta per sé. Non troppo lontana dalla camera di Tasha. Con la sensazione di essere una fattorina percorsi il corridoio e giunsi davanti alla porta. Si aprì prima che riuscissi a bussare, e mi ritrovai Adrian di fronte. Sembrava sorpreso quanto me. «Piccola dhampir» disse cordialmente. «Non mi aspettavo di vederti qui.» «Devo restituirti questi.» Gli porsi la scatola prima che potesse protestare. Lui la afferrò goffamente, barcollando un po' per la sorpresa. Quando ebbe una buona presa, indietreggiò di qualche passo e appoggiò la scatola sul pavimento. «Non te n'è piaciuto neanche uno?» chiese. «Vuoi che te ne regali degli altri?» «Non mandarmi più regali.» «Non è un regalo. È un servizio pubblico. Quale donna non possiede un profumo?» «Non farlo più» dissi con fermezza. Dietro di lui, una voce chiese d'improvviso: «Rose? Sei tu?» Sbirciai alle sue spalle. Lissa. «Che ci fai qui?» Tra il mal di testa e il pensiero che Lissa si fosse assentata per un interludio romantico con Christian, quella mattina avevo fatto del mio meglio per tenerla fuori dalla mia mente. Di regola mi sarei accorta che si trovava in camera di Adrian mentre mi avvicinavo. Mi schiusi a lei, lasciando che la sua sorpresa affluisse in me. Non si aspettava che arrivassi. «Che ci fai tu qui?» chiese. «Signorine, signorine» disse Adrian in tono ironico. «Non c'è bisogno di litigare per me.» Lo fulminai con lo sguardo. «Non è quello che stiamo facendo. Voglio solo sapere cosa succede qui dentro.» Una folata di dopobarba mi raggiunse, dopodiché sentii una voce alle mie spalle: «Anch'io.» Trasalii. Voltandomi vidi che nel corridoio c'era Dimitri. Non avevo la minima idea di cosa ci facesse nell'ala degli Ivashkov. Sta andando in camera di Tasha, mi suggerì una vocina dentro di me. Senza dubbio, da me Dimitri si aspettava che mi cacciassi sempre nei guai, ma credo che la vista di Lissa lo avesse colto alla sprovvista. Mi superò ed entrò nella camera, per poi guardarci tutti e tre. «Studenti e studentesse non dovrebbero trovarsi gli uni nelle stanze delle altre.»

Far notare che tecnicamente Adrian non era uno studente non ci avrebbe tolto dai guai, e lo sapevo. Non avremmo dovuto trovarci nella camera di un ragazzo. «Com'è che ci riesci sempre?» chiesi ad Adrian, frustrata. «A fare cosa?» «A farci passare per cattive ragazze!» Lui ridacchiò. «Siete voi che siete venute qui.» «Tu non avresti dovuto farle entrare» lo rimproverò Dimitri. «Sono certo che conosci il regolamento della St. Vladimir's.» Adrian fece spallucce. «Già, ma io non devo attenermi a qualche stupido regolamento scolastico.» «Forse no» disse Dimitri gelido. «Ma credevo che avresti comunque rispettato il regolamento.» Adrian fece roteare gli occhi. «Mi lascia piuttosto stupito il fatto che sia proprio tu a darmi lezioni a proposito di ragazze minorenni.» Vidi la collera scintillare negli occhi di Dimitri, e per un attimo pensai di aver intravvisto quella difficoltà a dominarsi per cui l'avevo preso in giro. Dimitri però non si scompose, e soltanto i pugni serrati lasciarono intendere quanto fosse infuriato. «Tra l'altro» proseguì Adrian, «qui non sta succedendo nulla. Ci stavamo solo facendo compagnia.» «Se vuoi "stare in compagnia" di qualche ragazzina, fallo in una delle zone comuni.» Non mi piacque per niente come Dimitri ci aveva chiamato, quel "ragazzine", e per i miei gusti stava reagendo in modo sproporzionato. Avevo il sospetto che buona parte della sua reazione fosse dovuta alla mia presenza. Allora Adrian scoppiò a ridere, una risata strana, che mi fece accapponare la pelle. «Ragazzine? Ragazzine? Certo. Giovani eppure vecchie al tempo stesso. Non hanno visto quasi nulla della vita, eppure hanno già visto anche troppo. Una è stata marchiata dalla vita, l'altra marchiata dalla morte... e tu ti preoccupi per loro? Dovresti preoccuparti per te stesso, dhampir. Preoccupati per te stesso, e preoccupati per me. Siamo noi a essere giovani.» Noi tre rimanemmo a fissarlo. Credo che nessuno di noi si aspettasse che Adrian decidesse tutto a un tratto di farsi una gita nel Paese dei Pazzi. Adrian era tornato calmo e sembrava perfettamente normale. Si voltò e si avvicinò alla finestra. Mentre estraeva le sigarette ci lanciò un'occhiata indifferente. «Signorine, forse dovreste andarvene. Ha ragione lui. Sono una cattiva compagnia.» Scambiai uno sguardo con Lissa. Ci allontanammo in tutta fretta e seguimmo Dimitri lungo il corridoio, dirette alla hall. «È stato... strano» dissi qualche minuto più tardi. Era una cosa del tutto ovvia, però, insomma, qualcuno doveva pur dirla. «Molto» disse Dimitri. Più che arrabbiato aveva l'aria di essere perplesso. Quando raggiungemmo la hall feci per seguire Lissa e tornare in camera nostra, ma Dimitri mi chiamò. «Rose» disse. «Posso parlarti?» Percepii un flusso di sentimenti solidali provenire da Lissa. Mi voltai verso Dimitri e mi spostai dal centro dell'atrio, per non intralciare le persone di passaggio. Un gruppo di Moroi in pellicce e

diamanti ci sfilò velocemente accanto, sguardi preoccupati sui volti. Erano seguiti da fattorini carichi di bagagli. Le persone partivano in cerca di luoghi più sicuri. L'ossessione per gli Strigoi era ben lontana dallo svanire. La voce di Dimitri richiamò d'improvviso la mia attenzione: «Era Adrian Ivashkov.» Pronunciò il suo nome come facevano tutti gli altri. «Sì, lo so.» «È la seconda volta che ti vedo con lui.» «Già» ribattei con fare disinvolto. «A volte ci vediamo.» Dimitri inarcò un sopracciglio, poi fece cenno con la testa nella direzione da cui eravamo arrivati. «In camera sua?» Mi vennero in mente un discreto numero di risposte a tono, ma poi quella più adatta si guadagnò il diritto di precedenza. «Ciò che succede tra lui e me non ti riguarda.» Riuscii a servirmi di un'intonazione molto simile a quella utilizzata da lui con me, quando avevo fatto un'osservazione analoga riguardo a lui e Tasha. «In realtà, finché sei all'Accademia, ciò che fai mi riguarda.» «Non la mia vita privata. Su quello non hai voce in capitolo.» «Non sei ancora adulta.» «Ci sono vicina. E comunque non è che diventerò adulta per magia il giorno del mio diciottesimo compleanno.» «Mi pare ovvio» disse. Arrossii. «Non volevo dire questo. Volevo dire...» «Lo so cosa volevi dire. E in questo momento non sono certo i dettagli tecnici che contano. Tu sei una studentessa dell'Accademia. Io sono il tuo istruttore. È mio compito aiutarti e fare in modo che tu sia al sicuro. Stare nella camera di qualcuno come lui... be', non è affatto una cosa sicura.» «Sono in grado di gestire Adrian Ivashkov» borbottai. «È un tipo bizzarro - molto bizzarro, a quanto pare - ma è innocuo.» In segreto mi chiesi se il problema di Dimitri non potesse essere la gelosia. Non aveva chiamato da parte Lissa per dirgliene quattro. Il pensiero mi rendeva leggermente felice. Poi, però, mi tornò in mente perché Dimitri stesse passando di là. «A proposito di vite private... immagino che stessi andando a trovare Tasha, no?» Era una meschinità, e mi aspettavo una risposta del tipo "non sono fatti tuoi". Invece lui rispose. «A dire il vero ero andato a trovare tua madre.» «Hai intenzione di spassartela anche con lei?» Sapevo bene che non l'avrebbe mai fatto, ma la frecciatina mi parve troppo azzeccata per lasciarmela scappare. Anche lui sembrò rendersene conto, e si limitò a darmi un'occhiataccia stanca. «No, abbiamo esaminato alcuni nuovi elementi sugli Strigoi che hanno attaccato i Drozdov.» La mia rabbia e la mia acidità si esaurirono. I Drozdov. I Badica. D'improvviso ciò che era successo quella mattina mi parve incredibilmente banale. Come avevo fatto a starmene lì a litigare con Dimitri su presunte relazioni amorose quando lui e gli altri guardiani stavano facendo di tutto per proteggerci? «Cosa avete scoperto?» chiesi cambiando tono. «Siamo riusciti a rintracciare alcuni degli Strigoi» disse. «O perlomeno gli umani che erano con loro. Qualche vicino ha visto le auto di cui si è servito il branco. Le targhe erano di stati differenti;

sembra che il branco si sia diviso, forse per renderci il lavoro più difficile. Uno dei testimoni, però, è riuscito a prendere il numero di una targa. È intestata a un indirizzo di Spokane.» «Spokane?» chiesi, incredula. «Spokane, nello stato di Washington? Chi può scegliere Spokane come nascondiglio?» Una volta c'ero stata. Era noiosa più o meno come ogni altra isolata città del Nordovest. «Gli Strigoi, a quanto pare» disse lui, impassibile. «L'indirizzo era falso, ma ci sono prove che dimostrano che si trovano lì per davvero. C'è questo centro commerciale dotato di cunicoli sotterranei. Nei paraggi sono stati avvistai degli Strigoi.» «Allora...» mi accigliai. «Andrai a dargli la caccia? Verranno anche altri? Cioè, è quello che Tasha ha sostenuto fin dall'inizio... se sappiamo dove sono...» Scosse la testa. «I guardiani non possono fare nulla senza un'autorizzazione dall'alto. Nell'immediato non succederà granché.» Sospirai. «Perché i Moroi parlano troppo.» «Stanno cercando di agire con cautela» disse. Sentii che mi stavo innervosendo di nuovo. «Avanti, in una situazione del genere neppure a te può star bene la prudenza. Avete un'idea precisa di dove si nascondono gli Strigoi. Strigoi che hanno ammazzato dei bambini. Non vuoi andare a stanarli mentre loro non se l'aspettano?» Adesso sembravo Mason. «Non è così semplice» disse. «Rispondiamo al Consiglio dei Guardiani e al governo dei Moroi. Non possiamo precipitarci e agire d'impulso. E comunque, non ne sappiamo ancora abbastanza. Non si dovrebbe mai affrontare una situazione senza prima conoscerne tutti i dettagli.» «Un'altra lezione di vita zen» sospirai. Mi passai una mano tra i capelli, sistemandoli dietro le orecchie. «E comunque, perché me l'hai detto? Questa è roba da guardiani. Non è il genere di cose di cui si mettono a parte i novizi.» Ponderò le proprie parole, e la sua espressione si addolcì. Il suo aspetto era sempre incantevole, ma mi piaceva ancora di più quand'era così. «Ho detto delle cose... l'altro giorno e oggi... che non avrei dovuto dire. Qualcosa che ha offeso la tua età. Hai diciassette anni... ma sei in grado di gestire ed elaborare le cose meglio di quanto non sappiano fare persone molto più grandi di te.» Sentii il petto farsi leggero e andare in fibrillazione. «Davvero?» Annuì. «Sotto tanti punti di vista sei ancora molto giovane - e ti comporti da bambina - ma l'unico modo per cambiare questa situazione è trattarti da adulta. Devo farlo più spesso. So che hai recepito queste informazioni e che hai capito quanto siano importanti, e che le terrai per te.» Non mi piacque sentirmi dire che mi comportavo come una bambina, ma mi piacque l'idea che d'ora in poi mi avrebbe parlato da pari. «Dimka» chiamò una voce. Tasha Ozera si avvicinava. Alla mia vista sorrise. «Ciao, Rose.» Ecco tornare il mio caratteraccio. «Ehi» dissi con tono piatto. Posò una mano sull'avambraccio di Dimitri, facendo scivolare le dita sulla pelle del giaccone. Guardai con rabbia quelle dita. Come osavano toccarlo? «Hai quell'aria» gli disse. «Quale aria?» chiese lui. L'atteggiamento inflessibile che aveva tenuto con me era scomparso. Sulle labbra aveva un sorrisetto astuto, quasi giocoso. «Quell'aria che mi dice che resterai in servizio per tutto il giorno.» «Sul serio? Ho quell'aria?» La sua voce aveva un'inflessione canzonatoria.

Lei annuì. «Di preciso quando dovrebbe finire il tuo turno?» Dimitri mi dava l'impressione di essere - giuro - ammansito. «Un'ora fa.» «Non puoi andare avanti così» si lamentò lei. «Hai bisogno di una pausa.» «Be'... se tieni conto che sono ancora il guardiano di Lissa...» «Per ora» disse lei col tono di chi la sapeva lunga. Mi sentii ancora più nauseata di quanto non mi fossi sentita la notte precedente. «Al piano di sopra stanno giocando un gran torneo di biliardo.» «Non posso» disse lui, ma aveva ancora quel sorriso sulle labbra. «Anche se è da un sacco di tempo che non gioco...» Cosa diavolo...? Dimitri giocava a biliardo? D'un tratto, che avessimo appena avuto una conversazione sul fatto che mi avrebbe trattato da adulta non contava più. Una piccola parte di me sapeva quale complimento fosse, ma la restante parte desiderava che Dimitri si comportasse con me come si comportava con Tasha. Allegro. Scherzoso. Spontaneo. Erano così intimi, così a proprio agio. «Coraggio, allora» lo supplicò lei. «Solo una partita! Possiamo battere tutti.» «Non posso» ripeté lui. Ne parve rammaricato. «Non con tutto quello che sta succedendo.» Lei si fece un po' più seria. «No. Immagino di no.» Lanciando uno sguardo verso di me, disse scherzosa: «Voglio sperare che tu ti renda conto di quale campione di dedizione ti trovi davanti. È sempre in servizio.» «Be'» dissi, imitando quel tono disinvolto che aveva utilizzato poco prima, «per adesso, almeno.» Tasha sembrò perplessa. Non credo che avesse pensato che la stessi prendendo in giro. Lo sguardo cupo di Dimitri, invece, mi disse che lui se n'era reso perfettamente conto. Compresi subito di aver appena azzerato qualunque progresso compiuto nei miei panni da adulta. «Abbiamo finito, Rose. Ricorda quello che ti ho detto.» «Sì» dissi allontanandomi. D'improvviso avevo voglia di tornare in camera e vegetare per un po'. Quella giornata mi aveva già stancata. «Senz'altro.» Non avevo fatto molta strada quando m'imbattei in Mason. Oddio. Uomini dappertutto. «Sei arrabbiata» disse appena mi vide. Aveva la capacità di accorgersi dei miei stati d'animo. «Cos'è successo?» «Ho avuto qualche... problema con l'autorità. È stata una mattinata singolare.» Sospirai, incapace di togliermi Dimitri dalla testa. Alla vista di Mason, d'improvviso mi ricordai che la notte passata mi ero sentita sicura di voler fare sul serio con lui. Ero proprio un caso disperato. Non riuscivo a decidermi. Ma alla fine, arrivai alla conclusione che il modo migliore di scacciare un ragazzo dalla mente fosse prestare attenzione a un altro, e così afferrai la mano di Mason e gli feci strada. «Coraggio. Non eravamo d'accordo di trovare un posticino più... riservato, oggi?» «Credevo che la sbronza ti fosse passata» scherzò lui. I suoi occhi però avevano uno sguardo molto, molto serio. E interessato. «Davo per scontato che fosse tutto finito.» «Ehi, tengo fede alle mie parole io, sempre e comunque.» Schiudendo la mente cercai Lissa. Non era più in camera nostra. Stava prendendo parte a qualche evento reale, senza dubbio in preparazione alla grande cena di Priscilla Voda. «Dai» dissi a Mason. «Andiamo in camera mia.» A eccezione di Dimitri, che si era trovato a passare nel momento sbagliato davanti alla camera di Adrian, non c'era nessuno che facesse rispettare davvero il divieto di mescolare i sessi. In pratica era come essere tornata in Accademia. Mentre salivamo, riferii a Mason ciò che Dimitri mi aveva

raccontato a proposito degli Strigoi a Spokane. Dimitri mi aveva detto di tenerlo per me, ma ero di nuovo infuriata con lui, e non ci vedevo nulla di male nel dirlo a Mason. Sapevo che la cosa l'avrebbe interessato. Avevo ragione. Mason si eccitò parecchio. «Cosa?» esclamò quando entrammo in camera mia. «Non faranno niente?» Scrollai le spalle e mi sedetti sul mio letto. «Dimitri dice...» «Lo so, lo so... ti ho sentito. Essere prudenti e tutto il resto.» Mason iniziò a camminare su e giù per la stanza con piglio rabbioso. «Ma se questi Strigoi assalgono un altro Moroi... un'altra famiglia... maledizione! Allora sì che rimpiangeranno di essere stati così cauti.» «Lascia perdere» dissi. Ero piuttosto seccata dal fatto che avermi su un letto non bastasse a distrarlo dai suoi folli piani di battaglia. «Non c'è niente che possiamo fare.» Smise di camminare. «Potremmo andarci noi.» «Andare dove?» chiesi scioccamente. «A Spokane. In città si possono prendere degli autobus.» «Io... aspetta. Vuoi che andiamo a Spokane e affrontiamo gli Strigoi?» «Certo. Anche Eddie ci starebbe... potremmo andare in quel centro commerciale. Non se l'aspetterebbero affatto. Potremmo appostarci e levarli di mezzo uno per uno...» Tutto ciò che riuscivo a fare era fissarlo. «Da quando sei diventato così stupido?» «Oh, afferrato. Grazie per la fiducia.» «Non è una questione di fiducia» ribattei, alzandomi in piedi e avvicinandomi. «Tu sei un duro. Ti ho visto. Ma... non è questo il modo. Non possiamo prendere Eddie e andare ad affrontare gli Strigoi. Ci servono altre persone. Più strategia. Più informazioni.» Gli posai le mani sul petto. Lui posò le sue sulle mie e sorrise. Aveva ancora negli occhi l'ardore della battaglia, ma mi accorsi che la sua mente si stava spostando verso preoccupazioni più immediate. Tipo me. «Non volevo chiamarti stupido» gli dissi. «Scusa.» «Adesso lo dici solo perché vuoi che ti porti a letto.» «Esatto» risi, felice di vederlo rilassarsi. La natura di questa conversazione mi ricordò un po' quella che Christian e Lissa avevano avuto nella cappella. «Be'» dissi, «credo che non ti sarà troppo difficile approfittare di me.» «Bene. Perché ci sono un sacco di cose che voglio fare.» Feci scivolare le mani verso l'alto, attorno al suo collo. Sentii la sua pelle calda sotto le mie dita, e mi ricordai quanto mi era piaciuto baciarlo la notte prima. Tutto a un tratto, senza preavviso lui disse: «Certo che sei proprio la sua allieva.» «Di chi?» «Di Belikov. Ci stavo giusto pensando quando hai detto che servono più informazioni e roba del genere. Ti comporti proprio come lui. Sei diventata serissima da quando lo frequenti.» «Non è vero.» Mason mi aveva tirata a sé, ma non mi sentivo più così in vena di romanticherie. Io volevo soltanto spassarmela e dimenticare Dimitri per un po', non avere una conversazione su di lui. Da dove era saltato fuori? Il compito di Mason avrebbe dovuto essere quello di distrarmi.

Lui non si rese conto che qualcosa non stava andando per il verso giusto. «Sei cambiata, ecco tutto. Non c'è niente di male... sei solo diversa.» Qualcosa in quelle parole mi fece infuriare, ma prima che potessi rispondergli per le rime le sue labbra incontrarono le mie in un bacio. Qualunque battibecco fu zittito. Un pizzico di quello stato d'animo cupo iniziò a montarmi dentro, ma quando Mason e io ci lasciammo cadere l'uno sopra l'altra, non feci altro che incanalare quella spinta in fisicità. Lo tirai con forza sul letto, e fui in grado di farlo senza interrompere il bacio. Ero proprio un'esperta di multitasking. Le sue mani raggiunsero la mia nuca e sciolsero la coda di cavallo che avevo fatto qualche minuto prima, e nel frattempo io gli solleticai la schiena con le unghie. Passando le dita tra i capelli sciolti, Mason fece scivolare in basso le labbra e mi baciò il collo. «Sei... stupenda» mi disse. E sapevo che lo pensava davvero. Il suo volto scottava da quanto desiderio provava per me. Mi inarcai verso l'alto, lasciando che le sue labbra premessero più forte contro la mia pelle e che le sue mani scivolassero sotto la maglietta. Si fecero strada sulla mia pancia, e sfiorarono appena l'orlo del reggiseno. Considerato che solo un minuto prima stavamo litigando, ero stupita che la faccenda si stesse evolvendo tanto rapidamente. A dirla tutta, però... non m'importava affatto. Era così che vivevo la mia vita. Con me tutto era sempre rapido e intenso. Anche la notte in cui Dimitri e io eravamo caduti vittime dell'incantesimo di lussuria di Victor Dashkov, si era accesa una passione piuttosto travolgente. Dimitri però aveva saputo controllarla, quindi in alcuni istanti avevamo rallentato... e anche quello, a suo modo, era stato magnifico. Ma per gran parte del tempo non avevamo saputo frenarci. Potevo ancora sentirlo. Il modo in cui le sue mani correvano sul mio corpo. I baci profondi, possenti. Fu allora che mi resi conto di una cosa. Stavo baciando Mason, ma nella mia mente io ero con Dimitri. E non mi limitavo a ricordarlo. Fantasticavo di essere con Dimitri - adesso - e di rivivere quella notte. A occhi chiusi era facile fingere. Ma quando li riaprii e trovai gli occhi di Mason, seppi che lui era con me. Mi adorava e mi desiderava da molto tempo. Da parte mia, fargli questo... stare con lui e far finta di stare con qualcun altro... Non era giusto. Mi liberai dalla sua presa. «No... non...» Mason si fermò subito, perché era quel tipo di ragazzo. «Troppo?» chiese. Io annuii. «Va bene. Non siamo obbligati a farlo.» Si allungò di nuovo verso di me, e io mi ritrassi ancora. «No, è solo che non... non lo so. Fermiamoci qui, okay?» «Io...» Per un attimo restò senza parole. «Che ne è stato di quel "sacco di cose" che volevi fare un momento fa?» Già... non era carino da parte mia, ma che altro avrei potuto dire? Non possiamo darci dentro perché mentre lo facciamo io mi ritrovo a pensare a un altro ragazzo, quello che in realtà mi piace. Tu sei solo un rimpiazzo. Deglutii, sentendomi stupida. «Scusa, Mase. Non posso.» Lui si mise seduto, una mano tra i capelli. «Okay. Va bene.» Mi accorsi della durezza nella sua voce. «Sei arrabbiato.»

Mi lanciò un'occhiataccia. Sul viso aveva un'espressione burrascosa. «Solo confuso. Non riesco a interpretare i segnali che mi mandi. Un momento sei passionale, quello dopo sei fredda. Mi dici che mi vuoi, poi dici che non mi vuoi. Se scegliessi una delle due andrebbe bene, ma continui a farmi credere che sia in un modo per poi andare nella direzione opposta. Non si tratta solo di adesso, lo fai in continuazione.» Era vero. Con lui avevo fatto un bel tira e molla. A volte flirtavo, altre volte quasi facevo finta che non esistesse. «C'è qualcosa che posso fare?» chiese quando rimasi in silenzio. «Qualcosa che... non so. Che ti faccia sentire più a tuo agio con me?» «Non lo so» dissi piano. Sospirò. «E allora che cosa vuoi, in generale?» Dimitri, pensai. Invece ripetei: «Non lo so.» Mason si alzò con un grugnito e si diresse alla porta. «Rose, per essere qualcuno che sostiene di voler raccogliere quante più informazioni possibili, ti restano ancora un mucchio di cose da capire di te stessa.» La porta sbatté alle sue spalle. Il rumore mi fece trasalire, e mentre fissavo il punto in cui fino a un attimo prima c'era Mason, capii che aveva ragione. Avevo davvero un mucchio di cose da imparare.

Lissa tornò qualche ora più tardi. Dopo che Mason se n'era andato mi ero addormentata, troppo abbattuta per scendere dal letto. Mi svegliai di soprassalto quando la sentii sbattere la porta. Ero felice di vederla. Avevo bisogno di raccontarle di come avevo mandato a monte la faccenda con Mason, ma prima di farlo lessi i suoi sentimenti. Era scombussolata quanto me. Quindi, come al solito, diedi a lei la precedenza. «Cos'è successo?» Si sedette sul suo letto e sprofondò nel piumone, triste e furiosa al tempo stesso. «Christian.» «Davvero?» Non sapevo che litigassero. Si punzecchiavano di continuo, ma non si trattava di liti in grado di farla piangere. «Ha scoperto... che sono stata da Adrian stamattina.» «Oh, wow» dissi. «In effetti, questo può essere un problema.» Mi alzai e andai verso il cassettone, dove trovai la spazzola. Feci qualche passo indietro e mi fermai davanti allo specchio dalla cornice dorata; iniziai a spazzolare i nodi che mi ero guadagnata durante il pisolino. Lissa sbuffò. «Ma non è successo niente! Christian sta dando i numeri senza motivo. Non posso credere che non si fidi di me.» «Si fida di te. È soltanto una situazione un po' strana, ecco tutto.» Mi vennero in mente Dimitri e

Tasha. «La gelosia spinge a fare e a dire delle stupidaggini.» «Ma non è successo niente» ripeté. «Voglio dire, c'eri anche tu e... ehi, a proposito, non ci sono ancora arrivata: tu che ci facevi lì?» «Adrian mi ha mandato un mucchio di profumi.» «Lui... vuoi dire la scatola gigantesca che avevi con te?» Annuii. «Wow.» «Già. Ero venuta a riportarglieli» dissi. «Ma la vera domanda è: tu che ci facevi lì?» «Stavamo solo parlando» disse. Iniziò ad animarsi, come se fosse sul punto di dirmi qualcosa, ma poi si bloccò. Percepii quel pensiero farsi largo nella sua mente per poi essere ricacciato indietro. «Devo raccontarti un sacco di cose, ma prima dimmi cos'hai.» «Non ho niente.» «Senti, Rose. Non saprò leggere nel pensiero come fai tu, ma mi accorgo se sei di cattivo umore per qualcosa. È da Natale che ti vedo un po' giù. Che succede?» Non era questo il momento di addentrarsi in ciò che era successo a Natale, quando mia madre mi aveva raccontato di Tasha e Dimitri. Però dissi a Lissa di Mason, tacendo il motivo per cui mi ero fermata e limitandomi a raccontarle di averlo fatto. «Be'...» disse quand'ebbi finito. «Era un tuo diritto.» «Lo so. Però è stato un po' come se l'avessi illuso. Capisco perché se la sia presa.» «Magari potete ancora aggiustare le cose. Vai a parlargli. È pazzo di te.» Non si trattava di semplici difficoltà nel comunicare. Le cose tra Mason e me non si potevano ricucire così facilmente. «Non so» le dissi. «Non tutti sono come te e Christian.» Il viso le si oscurò. «Christian. Non riesco ancora a credere che si stia comportando in maniera così stupida per una cosa del genere.» Senza volerlo, scoppiai a ridere. «Lissa, basterà un giorno e tornerete a sbaciucchiarvi e avrete fatto pace. Anzi, con ogni probabilità farete ben più che sbaciucchiarvi.» Mi feci scappare quelle parole prima di riuscire a fermarmi. Le si spalancarono gli occhi. «Lo sai.» Scosse la testa, esasperata. «Certo che lo sai.» «Scusa» dissi. Non era mia intenzione farle capire che sapevo del sesso, perlomeno finché non fosse stata lei a sollevare l'argomento. Mi squadrò. «Quanto ne sai?» «Uhm, non molto» dissi. Avevo finito di spazzolarmi i capelli, ma iniziai a giocherellare col manico della spazzola in modo da evitare il suo sguardo. «Devo imparare a ogni costo a tenerti fuori dalla mia testa» borbottò. «È l'unico modo in cui riesco a "parlarti" ultimamente.» Un altro scivolone. «E questo cosa vorrebbe dire?» domandò. «Niente... io...» Mi osservava con uno sguardo affilato. «Io... non so. Ho solo l'impressione che non parliamo più così tanto.» «Bisogna essere in due per rimediare alla cosa» disse, la voce di nuovo gentile. «Hai ragione» dissi, senza farle notare che avremmo potuto rimediare alla cosa soltanto se non fosse sempre stata col suo ragazzo. Certo, da parte mia ero colpevole di essermi tenuta tutto dentro,

ma durante l'ultimo periodo avrei voluto parlarle in molte occasioni. Solo che non sembrava mai il momento giusto, neanche ora. «Sai, non avrei mai pensato che saresti stata tu la prima a farlo. O forse non avevo mai immaginato che sarei arrivata vergine all'ultimo anno.» «Già» disse in tono ironico. «Nemmeno io.» «Ehi! E questo cosa vorrebbe dire?» Sogghignò, poi diede un'occhiata all'orologio. Il sorriso svanì. «Uh. Devo andare alla cena di Priscilla. Christian sarebbe dovuto venire con me, ma è in giro a fare l'idiota...» I suoi occhi speranzosi si posarono su di me. «Cosa? No. Per favore, Liss. Sai quanto odio queste occasioni formali di voi reali.» «Oh, coraggio» implorò. «Christian si comporta come un cretino. Non puoi gettarmi in pasto ai lupi. E non hai appena detto che avremmo bisogno di parlare di più?» Grugnii. «Tra l'altro, quando diventerai il mio guardiano, sarai costretta a fare cose del genere in continuazione.» «Lo so» dissi cupa. «Pensavo che forse avrei potuto godermi i miei ultimi sei mesi di libertà.» Alla fine, però, come già sapevamo fin dall'inizio, mi convinse ad andare con lei. Non avevamo molto tempo, e io dovevo fare una rapida doccia, asciugarmi i capelli e truccarmi. Per capriccio mi ero portata il vestito di Tasha, e anche se desideravo che soffrisse orribilmente a causa della sua attrazione per Dimitri, le fui grata per quel regalo. Mi lasciai scivolare nella seta, felice di constatare che in quella tonalità di rosso ero uno schianto, proprio come avevo immaginato. Era un abito lungo dal taglio orientale, con fiori ricarnati. Il colletto alto e l'orlo lungo coprivano parecchi centimetri di pelle, ma il tessuto mi avvolgeva e sapeva essere seducente in maniera assai diversa rispetto agli abiti che lasciavano scoperto il corpo. E ormai il mio occhio nero era praticamente scomparso. Lissa aveva come sempre un aspetto magnifico. Indossava un abito viola scuro di Johnna Raski, una famosa stilista Moroi. Era a giro maniche, di raso. I piccoli cristalli dall'aspetto di ametiste che adornavano le spalline scintillavano in contrasto con la carnagione pallida. Portava i capelli legati in uno chignon morbido, sistemato ad arte. Una volta giunte alla sala del banchetto, attirammo più di uno sguardo. Non credo che i reali si aspettassero che la principessa Dragomir avrebbe portato la sua amica dhampir a quell'attesissima cena rigorosamente su invito. Ma, ehi, l'invito di Lissa recitava "e un ospite". Prendemmo posto a uno dei tavoli in compagnia di alcuni membri reali di cui scordai i nomi all'istante. Loro furono contenti di ignorarmi, e io fui contenta di essere ignorata. Non che ci fossero tutte queste distrazioni. La sala era nei toni del blu e dell'argento. I tavoli erano ricoperti di seta blu notte, così lucente e liscia che il pensiero di mangiarci sopra mi terrorizzava. Candelieri con candele di cera d'api ornavano le pareti, e in un angolo scoppiettava il fuoco in un caminetto con parafiamma di vetro colorato. L'effetto era uno spettacolare insieme di colori e luci che confondeva gli occhi. In un angolo, un'esile donna Moroi suonava una melodia delicata al violoncello, con l'espressione sognante mentre si concentrava sul brano. Il tintinnare dei calici di cristallo si fondeva con le basse, dolci note dello strumento a corde. La cena era altrettanto straordinaria. Le pietanze erano elaborate, ma riconobbi tutto ciò che avevo nel piatto (di porcellana, ovviamente), e mi piacque tutto. Niente foie gras, qui. Salmone in salsa di funghi shiitake. Un'insalata di pere e formaggio di capra. Per dolce, delicati pasticcini ripieni di mandorla. L'unica cosa di cui avrei potuto lamentarmi erano le porzioni. Sembrava che il cibo fosse lì solo per decorare il piatto e, giuro, finii di mangiare in dieci bocconi. I Moroi avevano bisogno di cibo oltre che di sangue, ma senza dubbio non gliene serviva quanto agli esseri umani; o, diciamo, a una ragazza dhampir nel pieno dello sviluppo. A ogni modo, arrivai alla conclusione che il pranzo mi aveva ripagata di ogni fatica. Purtroppo, quando la cena giunse al termine, Lissa mi disse che non potevamo andarcene.

«Dobbiamo socializzare» sussurrò. Socializzare? Lissa rise della mia insofferenza. «Sei tu quella socievole.» Era la verità. In gran parte delle occasioni ero io quella che si lanciava e che non aveva paura di chiacchierare con gli altri. Lissa aveva la tendenza a essere più timida. Soltanto che, in quella cricca, i ruoli si erano invertiti. Questo era il suo ambiente, non il mio. E rimasi meravigliata nel vedere come riusciva a interagire coi membri dell'alta società reale. Era impeccabile, elegante ed educata. Erano tutti ansiosi di parlarle, e sembrava che lei dicesse sempre la cosa giusta. Non si stava servendo della compulsione, non proprio, ma senza dubbio sapeva catturare gli altri. Credo che potesse trattarsi di un inconscio effetto dello spirito. Nonostante i medicinali, il suo ascendente magico e l'innato carisma riuscivano ad affiorare. Se un tempo gli intensi rapporti sociali erano stati qualcosa di forzato e stressante, adesso Lissa sapeva occuparsene con disinvoltura. Ero orgogliosa di lei. Perlopiù la conversazione si mantenne su toni leggeri: la moda, le storie d'amore dei reali... Nessuno sembrava voler rovinare l'atmosfera con sgradevoli conversazioni sugli Strigoi. Così rimasi appiccicata a Lissa per il resto della serata. Cercai di dire a me stessa che non si trattava che di un'esercitazione per il futuro, quando l'avrei comunque dovuta seguire come un'ombra silenziosa. La verità era che mi sentivo troppo a disagio tra quelle persone e mi rendevo conto che lì i miei soliti, acidi automatismi difensivi non avevano alcuna utilità. In più, ero penosamente consapevole di essere l'unico dhampir ospite della cena. C'erano altri dhampir, certo, ma erano lì nella loro veste ufficiale di guardiani, schierati ai margini della sala. Lissa continuò a incantare le folle, e nel frattempo ci avvicinammo a un gruppetto di Moroi le cui voci si facevano sempre più alte. Riconobbi uno di loro. Era il ragazzo della rissa che avevo aiutato a sedare, ma questa volta al posto del costume da bagno indossava un notevole smoking nero. Al nostro arrivo levò lo sguardo, squadrandoci con impudenza. A quanto pareva, però, non si ricordava di me. Non badò a noi, e proseguì nella discussione. Com'era prevedibile, l'argomento era la protezione dei Moroi. Lui caldeggiava l'idea che i Moroi lanciassero un'offensiva contro gli Strigoi. «Quale parte della parola "suicidio" non ti è chiara?» chiese uno degli uomini nelle vicinanze. Aveva capelli argentati e baffi cespugliosi. Anche lui indossava uno smoking, ma al ragazzo donava di più. «Addestrare i Moroi come soldati vorrebbe dire la fine della nostra razza.» «Non è un suicidio» esclamò il ragazzo. «È la cosa giusta da fare. Dobbiamo iniziare a badare a noi stessi. Imparare a combattere e utilizzare la magia: sono queste le nostre più grandi risorse, oltre ai guardiani.» «Sì, ma grazie ai guardiani non abbiamo bisogno di nessun'altra risorsa» disse Capelli d'Argento. «Sei stato ad ascoltare quelli che non sono reali. Loro non hanno guardiani propri, quindi è naturale che siano terrorizzati. Ma non per questo devono trascinarci a fondo e mettere in pericolo le nostre vite.» «Allora lei non lo faccia» disse Lissa d'improvviso. Parlò a bassa voce, ma tutto il gruppetto si fermò a guardarla. «Quando parla dei Moroi che imparano a combattere, sembra che debbano farlo tutti o nessuno. Non è così. Se lei non vuole combattere, allora non si senta obbligato a farlo. La capisco.» L'uomo diede l'impressione di rabbonirsi un po'. «Lei se lo può permettere perché può fare affidamento sui suoi guardiani. Molti Moroi non ne hanno. E se vogliono imparare l'autodifesa, non c'è ragione di impedirglielo.» Il ragazzo fece un sorriso trionfale al suo avversario. «Mi pare ovvio.» «Non è così semplice» replicò Capelli d'Argento. «Se la questione riguardasse soltanto voialtri pazzi che avete deciso di farvi ammazzare, allora mi starebbe bene. Fate pure. Ma dove pensate di poter imparare quelle cosiddette abilità di combattimento?» «Capiremo come servirci della magia per conto nostro. I guardiani invece ci insegneranno il

combattimento fisico vero e proprio.» «Ecco. Sapevo che ci saremmo arrivati. Anche se non prendiamo tutti parte alla vostra missione suicida, voi avete comunque intenzione di privarci dei nostri guardiani per poter addestrare questo presunto esercito.» Alla parola presunto il ragazzo si incupì, e mi domandai se stessero per volare altri pugni. «Ce lo dovete.» «No, non vi devono nulla» disse Lissa. Occhiate incuriosite corsero di nuovo a lei. Questa volta fu Capelli d'Argento a guardarla con aria trionfante. Il viso del ragazzo s'infiammò di rabbia. «I guardiani sono la nostra migliore risorsa in battaglia.» «Certo» ne convenne lei, «ma questo non ti dà il diritto di distoglierli dai loro doveri.» Capelli d'Argento s'illuminò. «E allora come potremo imparare?» chiese il ragazzo. «Nello stesso modo in cui imparano i guardiani» disse Lissa. «Chi vorrà imparare a combattere, dovrà andare in un'Accademia. Cominciare dal principio, proprio come fanno i novizi, andando a lezione. Così non sottrarremo guardiani alla protezione vera e propria. L'ambiente dell'Accademia è sicuro, e i guardiani presenti sono già specializzati nell'insegnamento.» Si concesse una pausa pensierosa. «Si potrebbe addirittura iniziare a inserire la difesa come insegnamento di base nel programma degli studenti Moroi già in Accademia.» Si posarono su di lei degli sguardi stupiti, il mio compreso. Era una soluzione eccellente, e i presenti se ne resero conto. Non faceva ricadere tutti gli oneri su una delle parti in causa, e sapeva offrire una soluzione senza danneggiare la parte avversa. Geniale. Gli altri Moroi la osservavano con meraviglia e ammirazione. D'un tratto iniziarono a parlare tutti assieme, esaltati dall'idea. Coinvolsero Lissa, e ben presto prese vita un'appassionata discussione sul suo piano. Io venni sospinta ai margini del gruppo e decisi che mi stava bene così. Infine mi ritirai del tutto, e adocchiai un angolino nei pressi della porta. Lungo il tragitto passai accanto a una cameriera che reggeva un vassoio di assaggi. Avevo ancora appetito e li guardai con sospetto. Non vidi nulla che somigliasse al foie gras dell'altro giorno. Indicai alla cameriera alcuni bocconi di carne brasata, al sangue. «È fegato d'oca?» chiesi. Lei scosse la testa. «Animelle.» Non suonava così male. Feci per prenderne una. «È pancreas» disse una voce alle mie spalle. Scattai all'indietro. «Cosa?» strillai. La cameriera prese il mio shock come un rifiuto e andò via. Adrian Ivashkov entrò nel mio campo visivo; aveva un'aria molto compiaciuta. «Mi prendi in giro?» chiesi. «Le animelle sono pancreas?» Non so perché fossi così scioccata. I Moroi si nutrivano di sangue. Allora perché non di organi interni? Eppure dovetti reprimere un brivido. Adrian fece spallucce. «È molto buono.» Scossi la testa. «Oh. I ricchi sono disgustosi.» Il suo diletto si protrasse. «Che ci fai qui, piccola dhampir? Mi stai seguendo?» «Certo che no» lo derisi. Era vestito di tutto punto, come sempre. «Soprattutto dopo i guai in cui

ci hai messe.» Esibì uno dei suoi sorrisetti allettanti, e per quanto la cosa mi seccasse, avvertii di nuovo quell'irresistibile urgenza di stargli vicino. Che diavolo succedeva? «Non so di cosa parli» mi canzonò. Mi pareva perfettamente sano di mente, adesso; non rimaneva neppure l'ombra di quel bizzarro comportamento a cui avevo assistito in camera sua. E sì, in smoking stava assai meglio di ogni altro ragazzo che avevo visto fino a quel momento. «Quante volte ci siamo visti? Questa cos'è, la quinta volta? Comincia a destare qualche sospetto. Però non preoccuparti. Non lo dirò al tuo ragazzo. A nessuno dei due.» Aprii la bocca per protestare, poi mi ricordai che mi aveva vista con Dimitri. Mi rifiutai di arrossire. «Ho un solo ragazzo. Una specie. Forse non più. E comunque non c'è niente da dire. Non mi piaci nemmeno.» «No?» chiese Adrian senza smettere di sorridere. Si chinò verso di me, come se avesse un segreto da condividere. «Allora perché porti il mio profumo?» Questa volta arrossii. Feci un passo indietro. «Non è vero.» Rise. «Certo che è vero. Quando te ne sei andata ho contato le confezioni. E, tra l'altro, te lo sento addosso. È gradevole. Pungente... ma allo stesso tempo dolce; proprio come sei tu nel profondo, ne sono certo. E hai afferrato il concetto, sai? Quanto basta per dare un tocco in più... ma non troppo da soffocare il tuo vero profumo.» Il modo in cui disse "profumo" la fece sembrare una parola sporca. I reali Moroi potevano anche mettermi a disagio, ma di certo non i ragazzi sfacciati che ci provavano con me. Sapevo come comportarmi con loro. Scacciai via la timidezza e mi ricordai chi ero. «Ehi» dissi, gettando i capelli all'indietro. «Avevo tutto il diritto di prenderne uno. Me li hai offerti tu. Il tuo errore sta nel credere che voglia dire qualcosa. Non è così. Tranne che forse dovresti fare più attenzione a dove butti i soldi che ti ritrovi.» «Ooh, Rose Hathaway fa sul serio, ragazzi.» Fece una pausa e al passaggio di un cameriere prese un bicchiere di quello che aveva tutta l'aria di essere champagne. «Ne vuoi uno?» «Non bevo.» «Giusto.» Adrian mi porse comunque un bicchiere, poi mandò via il cameriere e bevve un sorso di champagne. Avevo la sensazione che non fosse il primo della serata. «Allora. Sembra che la tua Vasilisa abbia rimesso mio padre al suo posto.» «Tuo...» Lanciai un'occhiata al gruppo da cui mi ero appena allontanata. Capelli d'Argento era ancora là, e gesticolava in maniera folle. «Quel tipo è tuo padre?» «A quanto dice mia mamma.» «Sei d'accordo con lui? Sarebbe un suicidio far combattere i Moroi?» Adrian scrollò le spalle e prese un altro sorso. «Non ho una vera opinione sull'argomento.» «Non è possibile. Come fai a non propendere per una soluzione o per l'altra?» «Non so. Non ci penso e basta. Ho cose migliori da fare.» «Tipo perseguitarmi» suggerii. «Me e Lissa.» Volevo ancora sapere perché si era trovata in camera sua. Sorrise di nuovo. «Te l'ho detto, sei tu quella che mi segue.» «Sì, sì, lo so. Per cinque volte...» m'interruppi. «Cinque volte?» Lui annuì. «No, sono state solo quattro.» Le contai sulle dita della mano libera. «C'è stata quella prima

notte, quella alle terme, quando sono venuta in camera tua, e poi stasera.» Il suo sorriso si fece più vago. «Se lo dici tu.» «Sì, lo dico...» Mi mancarono di nuovo le parole. Avevo parlato con Adrian in un'altra occasione. Una specie. «Non vorrai dire...» «Cosa?» Un'espressione singolare, impaziente, gli accese gli occhi. Era più fiducioso che insolente. Deglutii, richiamando alla mente il sogno. «Niente.» Senza pensarci presi un sorso di champagne. Dal lato opposto della sala, le emozioni di Lissa affluirono impetuose in me; erano di calma e soddisfazione. Bene. «Perché sorridi?» chiese Adrian. «Perché Lissa è ancora là, che si lavora la folla.» «Prevedibile. È una di quelle persone che sanno incantare chiunque, se decidono di provarci con la forza necessaria. Persino chi la detesta.» Gli scoccai un'occhiata ironica. «Mi sento così quando parlo con te.» «Ma tu non mi detesti davvero» disse finendo lo champagne. «Non proprio.» «Però nemmeno mi piaci.» «Così continui a ripeterti.» Si avvicinò di un passo con piglio tutt'altro che minaccioso, rendendo lo spazio tra di noi più intimo. «Ma posso sopportarlo.» «Rose!» L'asprezza della voce di mia madre fendette l'aria. Quelli a tiro d'orecchio ci guardarono. Mia madre - in tutto il suo furibondo metro e cinquanta -si precipitò verso di noi.

«Cosa credi di fare?» domandò lei. Per i miei gusti la sua voce era ancora troppo alta. «Niente, io...» «Col suo permesso, lord Ivashkov» ringhiò. Poi, come se avessi cinque anni, mi afferrò per il braccio e mi trascinò fuori dalla sala. Lo champagne si rovesciò dal bicchiere e mi macchiò la parte bassa del vestito. «Cosa credi di fare tu?» esclamai una volta giunte in corridoio. Guardai mestamente il vestito. «Questa è seta. Forse l'hai rovinato.» Afferrò il calice di champagne e lo appoggiò su un tavolo vicino. «Bene. Magari la smetterai di conciarti come una puttanella da quattro soldi.» «Wow» dissi, scioccata. «Ci stai andando pesante. E com'è che tutto a un tratto hai deciso di diventare tanto materna?» Gesticolai per indicarle il vestito. «Non è esattamente roba da quattro soldi. Hai detto che Tasha era stata carina a regalarmelo.»

«Questo perché non mi aspettavo che lo indossassi per dare spettacolo con i Moroi.» «Io non sto dando spettacolo. E comunque, copre tutto.» «Un vestito così aderente mette comunque in mostra tutto» ribatté. Lei, ovviamente, era vestita in nero guardiano: pantaloni di lino neri fatti su misura, e una giacca abbinata. Anche lei aveva qualche curva, che gli abiti nascondevano. «Soprattutto quando sei in mezzo a un gruppo come quello. Il tuo corpo... si fa guardare. E flirtare con un Moroi di sicuro non è d'aiuto.» «Non stavo flirtando con lui.» L'accusa mi fece arrabbiare perché sentivo di essermi comportata molto bene nell'ultimo periodo. Prima non facevo altro che flirtare - e anche qualcosa di più - coi ragazzi Moroi, ma dopo qualche chiacchierata e l'imbarazzante incidente con Dimitri, mi ero resa conto di quanto fosse stupido. Le ragazze dhampir dovevano fare attenzione coi Moroi, ormai lo sapevo. Mi venne in mente qualcosa di meschino. «Tra l'altro» dissi in tono di sfida, «non è proprio quello che ci si aspetta da me? Farlo con un Moroi e continuare la specie? È quello che hai fatto tu.» Mi scoccò un'occhiata. «Non quando avevo la tua età.» «Avevi solo qualche anno più di me.» «Non fare stupidaggini, Rose» disse. «Sei troppo giovane per un figlio. Non hai abbastanza esperienza; non hai ancora neppure vissuto la tua, di vita. Non riusciresti più a fare il genere di lavoro che speri di fare.» Gemetti, mortificata. «Ma ne stiamo parlando per davvero? Come siamo passate da me che - a quanto pare - flirtavo, al fatto di avere dei bambini? Non faccio sesso né con lui né con nessun altro e, anche se fosse, conosco i metodi anticoncezionali. Perché mi parli come se fossi una bambina?» «Perché è così che ti comporti.» Somigliava in maniera sorprendente a ciò che mi aveva detto Dimitri. La fulminai con lo sguardo. «Quindi adesso mi spedirai in camera mia?» «No, Rose.» D'improvviso sembrò stanca. «Non devi andare in camera tua, ma non tornare neppure là dentro. Magari sei riuscita a non attirare troppe attenzioni.» «Per come parli sembra quasi che stessi facendo la lap dance, là dentro» le dissi. «Ho solo cenato con Lissa.» «Saresti sorpresa di scoprire con quale facilità può innescarsi un pettegolezzo» mi mise in guardia mia madre. «Soprattutto quando si tratta di Adrian Ivashkov.» Detto ciò, si girò e si allontanò lungo il corridoio. Guardandola mi sentii bruciare di rabbia e rancore. Una reazione un tantino esagerata, no? Non avevo fatto nulla di sbagliato. Sapevo della sua ossessione riguardo alle sgualdrine di sangue e tutto il resto, ma questo era troppo, persino per lei. E, quel che è peggio, mi aveva trascinata fuori, con diverse persone che assistevano alla scena. Per essere qualcuno che non voleva che dessi troppo nell'occhio, aveva combinato un bel casino. Un paio di Moroi che si trovavano vicino ad Adrian e me uscirono dalla sala. Mi lanciarono un'occhiata e poi si sussurrarono qualcosa mentre mi passavano accanto. «Grazie, mamma» mormorai tra me e me. Umiliata, mi avviai a lunghi passi nella direzione opposta, non del tutto certa di dove stessi andando. Mi diressi verso il retro del rifugio, lontano da ogni attività. Alla fine il corridoio terminò, ma sulla sinistra trovai una porta che dava su una rampa di scale.

Non era chiusa a chiave, così salii i gradini fino a un'altra porta. Con mio grande piacere scoprii che si apriva su un minuscolo terrazzino, e che non pareva molto utilizzato. Un manto di neve lo ricopriva. Fuori era prima mattina; il sole risplendeva intenso, e rendeva brillante ogni cosa. Ripulii dalla neve una specie di grossa cassa che sembrava far parte del sistema di ventilazione. Senza curarmi del vestito, mi ci sedetti sopra. Abbracciandomi, stetti a guardare, godendomi il panorama e il sole che potevo assaporare così di rado. Quando pochi minuti più tardi la porta si aprì, trasalii. E quando mi voltai per guardare, alla vista di Dimitri trasalii ancora di più. Il mio cuore cambiò ritmo e io mi volsi altrove, senza sapere cosa pensare. Mentre si avvicinava a me, i suoi stivali scricchiolarono sulla neve. Un attimo dopo si tolse il lungo giaccone e me lo posò sulle spalle. Mi si sedette accanto. «Starai congelando.» Era vero, ma non volevo ammetterlo. «Il sole è sorto.» Reclinai la testa, e guardai il cielo di un blu perfetto. Sapevo che a volte il sole gli mancava tanto quanto mancava a me. «Già. Ma siamo comunque in montagna nel cuore dell'inverno.» Non risposi. Restammo per un po' seduti in un confortevole silenzio. Di tanto in tanto un venticello leggero sollevava qualche nuvoletta di neve. Per i Moroi era notte, e gran parte di loro sarebbe andato a letto presto. Perciò le piste da sci erano quiete. «La mia vita è un disastro» dissi alla fine. «Non è un disastro» rispose lui in modo automatico. «Mi hai seguita dalla festa?» «Sì.» «Non mi sono neppure resa conto che ci fossi.» Gli abiti scuri che indossava mi dicevano che durante la festa era stato in servizio. «Quindi hai visto l'insigne Janine creare tutto quel trambusto e trascinarmi fuori.» «Non c'è stato alcun trambusto. Se n'è accorto a malapena qualcuno. Io l'ho notato perché ti stavo guardando.» Mi rifiutai di andare su di giri per la cosa. «Non è quello che ha detto lei» gli dissi. «Per quanto era agitata, sembrava quasi che stessi battendo all'angolo di una strada.» Gli raccontai la conversazione che avevamo avuto in corridoio. «È solo preoccupata per te» disse Dimitri quando ebbi terminato. «Ha avuto una reazione esagerata.» «A volte le madri sono iperprotettive.» Lo fissai. «Già, ma stiamo parlando della mia, di madre. E lei non è affatto protettiva, in realtà. Forse era preoccupata del fatto che potessi metterla in imbarazzo. Tutte quelle storie sul diventare madre troppo giovane erano delle idiozie. Non ho intenzione di fare niente di simile.» «Forse non parlava di te» disse. Altro silenzio. Rimasi a bocca aperta. Sei troppo giovane per un figlio. Non hai abbastanza esperienza, non hai ancora neppure vissuto la tua, di vita. Non riusciresti più a fare il genere di lavoro che speri di fare. Mia madre doveva avere vent'anni quando aveva avuto me. Mentre crescevo mi aveva sempre dato l'impressione di essere molto più grande. Ma adesso... in realtà aveva solo qualche anno più di me. Non era affatto vecchia. Pensava di avermi avuta troppo presto? Non era stata brava con me soltanto perché all'epoca non aveva saputo fare di meglio? Le dispiaceva per come si erano messe le cose tra di noi? Ed era... era forse possibile che avesse avuto qualche brutta esperienza coi Moroi e

con persone che avevano messo in giro qualche pettegolezzo su di lei? Io avevo preso molto da lei. Quella sera mi ero resa conto di quanto fosse ben fatta. Aveva anche un viso grazioso, per avere quasi quarantanni, intendo. Era probabile che da giovane fosse molto, molto bella... Sospirai. Non volevo pensarci. Se l'avessi fatto forse avrei dovuto riconsiderare il mio rapporto con lei; forse addirittura ammettere che mia madre fosse una persona come le altre. E avevo già abbastanza problemi. Lissa continuava a preoccuparmi, anche se per una volta sembrava che stesse bene. La mia cosiddetta storia d'amore con Mason andava a rotoli. E poi, naturalmente, c'era Dimitri... «In questo momento non stiamo litigando» dissi d'impulso. Mi diede un'occhiata furtiva. «Vuoi litigare?» «No. Odio litigare con te. Verbalmente, intendo. Se ci azzuffiamo in palestra è diverso.» Pensai di aver scorto l'accenno di un sorriso. Sempre un mezzo sorriso, per me. Di rado un sorriso intero. «Neanche a me piace litigare con te.» Seduta lì, accanto a lui, mi stupii delle emozioni calde e felici che scaturivano dentro di me. Nello stargli vicino c'era qualcosa che mi faceva sentire bene, che mi toccava nel profondo. Con Mason non capitava. Non si può forzare l'amore, capii. O c'è o non c'è. Se non c'è, bisogna essere capaci di ammetterlo. Se c'è, si deve fare tutto il possibile per proteggere le persone che si amano. Le parole che subito dopo mi uscirono di bocca mi lasciarono stupefatta; sia perché erano del tutto disinteressate, sia perché ci credevo davvero. «Dovresti accettare.» Lui trasalì. «Cosa?» «L'offerta di Tasha. Dovresti accettarla. È una grande occasione.» Ricordai le parole di mia madre sull'essere pronti ad avere dei bambini. Io non lo ero. Forse lei non lo era stata. Ma Tasha lo era. E sapevo che anche Dimitri lo era. Stavano molto bene insieme. Lui avrebbe potuto essere il suo guardiano, fare figli con lei... sarebbe stato un ottimo affare per entrambi. «Non mi sarei mai aspettato di sentirti dire una cosa del genere» mi disse, la voce ferma. «Soprattutto dopo...» «Dopo che mi sono dimostrata tanto stronza? Già.» Mi strinsi nel giaccone per ripararmi dal freddo. Aveva il suo odore. Era inebriante, e potevo quasi immaginare di essere avvolta nel suo abbraccio. Forse Adrian non si sbagliava sul potere dei profumi. «Molto bene. Come ho detto, non voglio più litigare. Non voglio che ci odiamo a vicenda. E... be'...» Strizzai gli occhi e poi li riaprii. «Non importa quello che provo per noi... voglio che tu sia felice.» Ancora silenzio. Mi accorsi che mi faceva male il petto. Dimitri si chinò in avanti e mi cinse con un braccio. Mi tirò a sé, e io gli poggiai la testa sul petto. «Roza» fu tutto ciò che disse. Era la prima volta che mi toccava davvero dalla notte dell'incantesimo di lussuria. Quello che era successo in palestra era stato qualcosa di diverso... più animalesco. Adesso non aveva a che fare col sesso. Aveva a che fare con l'essere vicino a qualcuno a cui si tiene, con l'emozione travolgente di quell'intimità. Dimitri avrebbe anche potuto andare via con Tasha, ma lo avrei amato ancora. Con ogni probabilità non avrei mai smesso di amarlo. Tenevo a Mason. Ma probabilmente non l'avrei mai amato. Sospirai contro Dimitri, con la sola speranza di poter restare così per sempre. Stare con lui

sembrava la cosa giusta. Ma fare ciò che era meglio per lui mi sembrava altrettanto giusto; non importava quanto il pensiero di lui e Tasha mi facesse soffrire. Mi resi conto che era giunto il momento di smetterla con la codardia e di compiere un'altra azione giusta. Mason mi aveva detto che avevo bisogno di imparare qualcosa su me stessa. L'avevo appena fatto. Mi ritrassi controvoglia e restituii a Dimitri il suo giaccone. Mi alzai. Lui mi guardò perplesso, intuendo il mio disagio. «Dove stai andando?» chiese. «A spezzare il cuore di una persona» risposi. Ammirai Dimitri ancora per un attimo: gli occhi scuri e scaltri e i capelli come seta. Poi mi avviai. Dovevo scusarmi con Mason... e dirgli che tra di noi non ci sarebbe mai stato nulla.

I tacchi alti iniziavano a farmi male, perciò quando rientrai tolsi le scarpe, aggirandomi per il rifugio a piedi nudi. Non ero mai stata in camera di Mason, ma una volta ricordavo di averlo sentito accennare al numero, e la trovai senza difficoltà. Shane, il compagno di stanza di Mason, aprì la porta qualche attimo dopo che ebbi bussato. «Ehi, Rose.» Si fece da parte e io entrai, guardandomi attorno. Alla tivù c'erano delle telepromozioni - uno svantaggio della vita notturna era la mancanza di buoni programmi - e quasi tutte le superfici piane erano ricoperte di lattine vuote. Nessuna traccia di Mason. «Dov'è?» chiesi. Shane soffocò uno sbadiglio. «Pensavo che fosse con te.» «È tutto il giorno che non lo vedo.» Sbadigliò di nuovo, poi si accigliò, pensieroso. «Prima stava buttando della roba in una sacca. Ho immaginato che voi due aveste in programma una scappatella romantica. Un picnic o roba simile. Ehi, bel vestito.» «Grazie» mormorai, e nel frattempo mi resi conto che anch'io mi stavo accigliando. Preparava una sacca? Non aveva alcun senso. Non c'era un posto in cui andare. E non c'era neppure modo di andarci. La struttura era sorvegliata in maniera rigida, tanto quanto l'Accademia. Lissa e io eravamo riuscite a scappare di lì solo servendoci della compulsione, e comunque era stata una bella rogna. Tuttavia, perché mai Mason avrebbe dovuto fare i bagagli, se non per partire? Feci qualche altra domanda a Shane e decisi di indagare, per quanto mi sembrasse assurdo. Trovai il guardiano incaricato della sicurezza e dei turni di sorveglianza. Mi fece i nomi di coloro che stavano di guardia quando Mason era stato visto per l'ultima volta. Li conoscevo quasi tutti, ma molti di loro in quel momento non erano in servizio, il che rendeva difficile trovarli. Per mia sfortuna la prima coppia di guardiani che incontrai non aveva visto in giro Mason. Quando mi chiesero perché volessi saperlo, diedi qualche risposta vaga e me la svignai. La terza

persona sulla lista era un tizio di nome Alan, che di solito era assegnato al campus riservato alle classi inferiori dell'Accademia. Stava tornando da una sciata, ed era accanto all'ingresso. Si stava liberando dell'equipaggiamento. Mi riconobbe, e vedendo che mi avvicinavo mi sorrise. «Certo, l'ho visto» disse, chinandosi sugli scarponi. Fui pervasa dal sollievo. Fino a quel momento non mi ero resa conto di quanto fossi in pensiero. «Sai dov'è?» «No. Ho lasciato uscire lui ed Eddie Castile e... come si chiama, la Rinaldi, dall'entrata nord, dopodiché non li ho più visti.» Lo fissai con tanto d'occhi. Alan continuò a sganciarsi gli sci, come se stessimo conversando delle condizioni delle piste. «Hai lasciato uscire Mason, Eddie... e Mia?» «Già.» «Uhm... e perché?» Finì quello che stava facendo e tornò a guardarmi: sul viso aveva una sorta di espressione allegra e confusa. «Perché me l'hanno chiesto.» Una sensazione di gelo iniziò a strisciarmi dentro. Scoprii qual era il guardiano in servizio all'entrata nord insieme ad Alan e lo rintracciai subito. Mi diede la stessa risposta. Aveva fatto uscire Mason, Eddie e Mia senza far loro domande. E proprio come Alan, non dava l'impressione di ritenere che ci fosse qualcosa di sbagliato. Sembrava quasi stordito. Era un'espressione che avevo già visto... l'espressione che avevano le persone quando Lissa usava su di loro la compulsione. In particolare, l'avevo visto succedere le volte in cui Lissa desiderava che le persone non ricordassero bene qualcosa. Era in grado di seppellire dentro di loro un ricordo, per cancellarlo del tutto oppure per nasconderlo affinché riaffiorasse solo più tardi. Era talmente brava con la compulsione, che poteva indurre gli altri a dimenticare qualsiasi cosa. Se i due avevano conservato dei ricordi, allora voleva dire che erano stati influenzati da qualcuno di meno esperto. Qualcuno, diciamo, come Mia. Non ero il tipo da svenimenti, ma per un istante mi sentii quasi sul punto di crollare al suolo. Il mondo vorticò, e io chiusi gli occhi e presi un respiro profondo. Quando tornai a vedere, ciò che mi stava attorno si era fermato. D'accordo. Nessun problema. Avevo bisogno di ragionarci su. Mason, Eddie e Mia avevano lasciato il rifugio di mattina presto. Non solo, l'avevano fatto servendosi della compulsione, cosa del tutto proibita. Non avevano avvisato nessuno. Erano scappati dall'entrata nord. Avevo avuto modo di vedere una mappa del complesso. Dall'entrata nord, lungo il viale d'accesso, si arrivava all'unica arteria di comunicazione della zona, una stretta statale che portava a una cittadina a circa venti chilometri di distanza. La cittadina di cui aveva parlato Mason, dicendo che da lì partivano degli autobus. Per Spokane. Spokane, dove c'era la possibilità che vivesse il branco nomade di Strigoi. Spokane, dove Mason avrebbe potuto realizzare i suoi folli sogni di uccidere degli Strigoi. Spokane, di cui era venuto a conoscenza soltanto grazie a me. «No, no, no» mormorai tra me e me, quasi correndo in camera mia. Giunta lì, mi levai il vestito e indossai pesanti abiti invernali: scarponi, jeans e un maglione. Afferrando giaccone e guanti mi affrettai verso la porta, poi mi fermai. Stavo agendo senza riflettere. Cosa avevo intenzione di fare? Dovevo dirlo a qualcuno, era ovvio... ma questo avrebbe messo il trio in una marea di guai. Inoltre Dimitri avrebbe sospettato che ero andata a spifferare le

informazioni sugli Strigoi di Spokane, di cui lui mi aveva parlato in via confidenziale in segno di stima per la mia maturità. Guardai l'ora. Sarebbe passato del tempo prima che qualcuno del rifugio potesse accorgersi della nostra scomparsa. Se fossi riuscita a evadere dal complesso. Qualche minuto più tardi mi ritrovai a bussare alla porta di Christian. Venne ad aprire gonfio di sonno e con quella sua solita aria cinica. «Se sei venuta a porgermi delle scuse da parte sua» mi disse con boria, «puoi anche lasciar perdere e...» «Oh, taci» sbottai. «Tu non c'entri.» Lo misi rapidamente al corrente di ciò che stava succedendo. E questa volta nemmeno lui riuscì a trovare una battuta brillante per commentare l'accaduto. «Quindi... Mason, Eddie e Mia sono andati a Spokane a caccia di Strigoi?» «Sì.» «Gesù. E perché non sei andata con loro? Sembra il genere di cosa che faresti tu.» Resistetti all'impulso di dargli uno schiaffo. «Perché non sono pazza! Però ho intenzione di andarli a riprendere prima che facciano qualcosa di ancora più stupido.» Fu allora che Christian capì. «E io cosa dovrei fare?» «Devo uscire dal rifugio. Hanno convinto Mia a usare la compulsione sulle guardie. Ho bisogno che tu faccia la stessa cosa. So che ti sei esercitato parecchio.» «Sì» confermò. «Però... be'...» Per la prima volta da quando lo conoscevo mi sembrò in imbarazzo. «Non sono molto bravo. E farlo sui dhampir è quasi impossibile. Lissa è cento volte più brava di me. O forse di qualunque altro Moroi.» «Lo so. Ma non voglio metterla nei guai.» Lui sbuffò. «Però non t'importa se ci finisco io, eh?» Feci spallucce. «Non molto.» «Sei un bel tipo, lo sai?» «Sì. Lo so.» Così, cinque minuti più tardi, ci eravamo messi in marcia in direzione dell'entrata nord. Il sole stava sorgendo, perciò quasi tutti si trovavano all'interno del rifugio. Era una buona cosa, e sperai che potesse facilitarci la fuga. Stupidi, stupidi, continuavo a pensare. Questa cosa sarebbe finita per esploderci tra le mani. Perché Mason l'aveva fatto? Sapevo che aveva queste smanie da vigilante volontario pazzo... e il fatto che i guardiani non avessero reagito dopo i recenti attacchi lo aveva di certo turbato. Eppure. Era davvero così svitato? Avrebbe dovuto rendersi conto di quanto fosse pericoloso. Era possibile... era possibile che io l'avessi scombussolato a tal punto con i miei tira e molla da fargli perdere la testa? A tal punto da organizzare una cosa simile e lasciare che Mia ed Eddie si unissero a lui? Non che fosse difficile convincere quei due. Eddie avrebbe seguito Mason ovunque, e l'idea di uccidere tutti gli Strigoi del mondo entusiasmava Mia quasi quanto Mason. Eppure, al di là di tutte le domande, una cosa mi era chiarissima. Ero stata io a dire a Mason degli Strigoi a Spokane. Non c'erano dubbi: era colpa mia. E se non fosse stato per me, niente di tutto questo sarebbe successo. «Lissa stabilisce sempre un contatto visivo» istruii Christian mentre ci avvicinavamo all'entrata nord. «E parla, tipo... con una voce molto calma. Non so altro. Voglio dire, si concentra parecchio, quindi provaci anche tu. Concentrati sul fatto di imporgli il tuo volere.»

«Lo so» proruppe lui. «Gliel'ho visto fare.» «Bene» ringhiai di rimando. «Volevo solo essere d'aiuto.» Diedi uno sguardo all'entrata e vidi che c'era un solo guardiano: un colpo di fortuna. Eravamo arrivati al momento del cambio di turno. Ora che il sole era spuntato, il rischio di un attacco degli Strigoi era venuto meno. I guardiani avrebbero continuato a svolgere i propri doveri, ma avrebbero potuto rilassarsi un po'. L'uomo di turno non sembrò particolarmente allarmato dalla nostra apparizione. «E voi ragazzi che ci fate qua?» Christian deglutì. Riuscivo a distinguere le rughe di tensione sul suo viso. «Tu ci lascerai uscire» disse. Una nota di nervosismo gli fece tremare la voce, ma riuscì comunque a riprodurre con discreta approssimazione il tono tranquillizzante che usava Lissa. Per sfortuna non sortì alcun effetto sul guardiano. Come aveva fatto notare Christian, usare la compulsione su un guardiano era quasi impossibile. Mia era stata fortunata. Il guardiano ci sorrise. «Cosa?» chiese, evidentemente divertito. Christian ci riprovò. «Tu ci lascerai uscire.» Il sorriso del tizio vacillò giusto un istante, e lo vidi sbattere gli occhi sorpreso; non gli si velarono come succedeva alle vittime di Lissa, ma Christian aveva fatto abbastanza da incantarlo per un breve istante. Purtroppo, mi resi subito conto che lo sforzo di Christian non sarebbe stato sufficiente a permetterci di uscire e far dimenticare l'accaduto al guardiano; per fortuna, però, ero stata addestrata per riuscire a impormi sulle persone senza l'uso della magia. Accanto al guardiano era appoggiata un'enorme torcia Maglite, lunga una sessantina di centimetri e del peso di tre chili. La afferrai e lo colpii con forza sulla nuca. Lui grugnì e si accasciò a terra. Si era a malapena accorto di me, e benché avessi appena fatto una cosa orribile, desiderai che uno dei miei istruttori fosse presente per dare un voto alla mia incredibile performance. «Gesù» esclamò Christian. «Hai appena aggredito un guardiano.» «Già.» Potevo dire addio all'idea di riportare i ragazzi indietro senza che nessuno finisse nei guai. «Non sapevo facessi così schifo con la compulsione. Alle conseguenze penserò in un secondo momento. Grazie per il tuo aiuto. Dovresti tornare indietro prima che arrivino i guardiani del prossimo turno.» Lui scosse la testa e fece una smorfia. «No, vengo con te.» «No» replicai. «Avevo bisogno di te soltanto per superare l'entrata. Non devi cacciarti nei guai.» «Ci sono già!» Indicò il guardiano. «Mi ha visto in faccia. Sono comunque fregato, quindi tanto vale che ti dia una mano a risolvere la situazione. Per una volta smettila di fare la stronza.» Ci affrettammo, e io lanciai un ultimo sguardo colpevole al guardiano. Ero abbastanza certa di non averlo colpito tanto forte da causargli un trauma serio, e col sole che sorgeva non sarebbe congelato né altro. Dopo aver camminato circa cinque minuti lungo la statale, capii che avevamo un problema. Il sole stava avendo la meglio su Christian, nonostante fosse imbacuccato e indossasse gli occhiali da sole. Ci stava rallentando, e non ci sarebbe voluto molto prima che qualcuno trovasse il guardiano che avevo messo al tappeto e ci inseguisse. Un'automobile - non una di quelle dell'Accademia - spuntò alle nostre spalle, e io presi una decisione. In genere non approvavo l'autostop. Persino un tipo come me sapeva quanto fosse pericoloso. Però dovevamo arrivare in città in fretta, e confidavo che Christian e io saremmo riusciti a mettere fuori combattimento qualunque malintenzionato avesse cercato di darci fastidio.

Per fortuna, quando l'auto accostò, vidi che si trattava soltanto di una coppia di mezz'età che più che altro aveva l'aria preoccupata. «State bene, ragazzi?» Indicai col pollice dietro di me. «Siamo finiti fuori strada con la macchina. Potreste portarci in città così chiamo mio papà?» Funzionò. Quindici minuti dopo ci lasciarono a una stazione di servizio. In realtà ebbi qualche problema a liberarmi di loro perché avevano molta voglia di aiutarci. Alla fine li convincemmo che sarebbe andato tutto bene, e percorremmo a piedi i pochi isolati che ci separavano dalla stazione degli autobus. Come avevo sospettato, lì non fermavano pullman che andassero lontano e c'erano solo tre linee di autobus: due che portavano ad altri complessi sciistici e una che andava a Lowston, in Idaho. Da Lowston si poteva andare in altri posti. Avevo quasi sperato di riacciuffare Mason e gli altri prima che arrivasse il loro autobus. In quel caso avremmo potuto riportarli indietro senza problemi. Purtroppo, però, di loro non c'era traccia. La gentile signora della biglietteria sapeva bene di chi stavamo parlando. Ci confermò che i tre avevano comprato dei biglietti per Spokane via Lowston. «Dannazione!» dissi. La donna sollevò il sopracciglio per la mia imprecazione. Mi rivolsi a Christian. «Hai i soldi per l'autobus?» Christian e io non parlammo lungo il tragitto, se non quando gli dissi che si era comportato come un idiota per la faccenda di Lissa e Adrian. Quando raggiungemmo Lowston se ne era convinto anche lui, il che era un piccolo miracolo. Lui dormì per il resto del viaggio, io non ci riuscii. Non feci altro che pensare e ripensare che era colpa mia. Giungemmo a Spokane nel tardo pomeriggio. Chiedemmo a diverse persone, prima di trovare qualcuno che conoscesse il centro commerciale a cui aveva fatto cenno Dimitri. Era lontano dalla stazione, ma ci si poteva arrivare a piedi. Dopo quasi cinque ore in autobus avevo le gambe indolenzite, e sentivo il bisogno di muovermi. Mancava ancora un po' di tempo al tramonto, ma ora il sole era più basso e meno dannoso per i vampiri, e così neppure a Christian dispiacque camminare. E come succedeva spesso quando mi trovavo in situazioni tranquille, mi sentii trascinare nella testa di Lissa. Mi lasciai cadere dentro di lei perché volevo sapere cosa stava succedendo al rifugio. «So che vuoi proteggerli, ma abbiamo bisogno di sapere dove sono.» Lissa era seduta sul letto in camera nostra, mentre Dimitri e mia madre la guardavano dall'alto. A parlare era stato Dimitri. Vederlo attraverso gli occhi di Lissa era interessante. Lei nutriva un grande rispetto per lui, qualcosa di assai differente dall'intenso carosello di emozioni che provavo io ogni volta. «Ve l'ho detto» disse Lissa. «Non lo so. Non so cosa sia successo.» Dentro di lei divamparono la preoccupazione per me e Christian, e un forte senso di frustrazione. Mi rattristò vederla così in apprensione, ma allo stesso tempo ero sollevata di non averla coinvolta. Non avrebbe potuto riferire ciò che non sapeva. «Non posso credere che non ti abbiano detto dove fossero diretti» disse mia madre. Le sue parole avevano un tono piatto, ma il viso era attraversato da rughe di preoccupazione. «Soprattutto tenuto conto del vostro... legame.» «Funziona solo in un senso» disse Lissa, triste. «Lo sapete.» Dimitri si inginocchiò in modo da essere alla stessa altezza di Lissa. Era quasi sempre costretto ad abbassarsi, quando voleva guardare qualcuno negli occhi. «Sei sicura che non ci sia niente? Niente in assoluto che tu possa dirci? Non sono in città. L'uomo alla stazione degli autobus non li ha visti... anche se siamo sicuri che siano passati di lì. Ci serve qualcosa, qualsiasi cosa per andare avanti.»

L'uomo alla stazione degli autobus? Questo era un altro colpo di fortuna. La donna che ci aveva venduto i biglietti doveva essere tornata a casa. Il suo sostituto non ci conosceva. Lissa serrò i denti e lo fissò con sguardo torvo. «Non pensi che ve lo direi, se lo sapessi? Non pensi che sia preoccupata anch'io? Non ho la minima idea di dove siano. Nessuna. E non so neppure perché se ne sono andati... Non ha alcun senso, anche perché si sono portati dietro Mia.» Una fitta di dolore attraversò il legame, il dolore di essere stata tagliata fuori da qualunque impresa stessimo compiendo, non importava quanto sbagliata. Dimitri sospirò e si appoggiò sui calcagni. Dall'espressione del suo viso era evidente che le credeva. Era anche evidente che fosse preoccupato; preoccupato in maniera molto più che professionale. La vista di quella angoscia - angoscia per me - mi divorò il cuore. «Rose?» La voce di Christian mi fece tornare in me. «Mi sa che ci siamo.» Il centro commerciale era composto da una struttura che accoglieva i negozi e dall'ampio spiazzo antistante. In un angolo dell'edificio c'era una bar, i tavolini sparsi fin nello spiazzo. La folla si muoveva dentro e fuori dal complesso, in piena attività persino a quell'ora. «Allora, come li troviamo?» chiese Christian. Feci spallucce. «Forse se ci comportiamo da Strigoi cercheranno di trafiggerci con un paletto.» Un timido sorriso tirato gli fluttuò sul viso. Non voleva ammetterlo, ma aveva trovato la mia battuta divertente. Entrammo. Come ogni altro centro commerciale, anche questo era zeppo di note catene di negozi, e una parte egoista di me pensò che forse, se avessimo ritrovato il gruppo presto, avremmo ancora avuto il tempo di fare un po' di shopping. Christian e io percorremmo due volte in lungo e in largo l'intera struttura senza scorgere i nostri amici, né trovare qualcosa che somigliasse a un cunicolo sotterraneo. «Forse siamo nel posto sbagliato» dissi alla fine. «O forse lo sono loro» suggerì Christian. «Potrebbero essere andati in qualche altro... aspetta.» Puntò il dito, e io lo seguii. I tre fuggiaschi erano seduti a un tavolo in mezzo alla zona ristorazione, con l'aria demoralizzata. Avevano un'espressione così miserabile che quasi mi dispiacque per loro. «Ammazzerei per avere una macchina fotografica in questo momento» disse Christian con un sorrisetto compiaciuto. «Non è divertente» gli dissi, e intanto mi avviai a grandi passi verso il gruppo. Dentro di me tirai un sospiro di sollievo. Era ovvio che non avessero trovato Strigoi - erano ancora vivi - e forse avremmo potuto riportarli indietro prima che ci ficcassimo in guai ancora più grossi. Non si accorsero di me finché non fui loro addosso. La testa di Eddie scattò in alto. «Rose? Che ci fai qui?» «Siete impazziti?» gridai. Le persone attorno a noi ci guardarono sorprese. «Lo sapete in che guai vi siete cacciati? In che guai ci avete messo?» «Come diavolo avete fatto a trovarci?» chiese Mason a voce bassa, guardandosi attorno ansioso. «Non è che siate proprio dei geni del crimine, ecco» gli dissi. «La donna alla stazione degli autobus ha spifferato tutto. E in più ho capito che volevate lanciarvi in una insensata caccia agli Strigoi.» L'occhiataccia che Mason mi lanciò mi fece capire che vedermi non gli faceva ancora piacere. In ogni caso, fu Mia a rispondere. «Non è insensata.»

«No?» domandai. «Avete ucciso qualche Strigoi? Almeno ne avete trovato qualcuno?» «No» ammise Eddie. «Bene» dissi. «Siete stati fortunati.» «Perché sei contraria a uccidere gli Strigoi?» chiese Mia con veemenza. «Non è questo il motivo per cui ti addestrano?» «Mi addestrano per missioni sensate, non per prodezze infantili come questa.» «Non è infantile» si lamentò lei. «Hanno ucciso mia madre. E i guardiani non avevano intenzione di fare niente. E in più le loro informazioni sono sbagliate. Non c'è neanche uno Strigoi nei cunicoli sotterranei. Forse non ce n'è uno in tutta la città.» Christian sembrò impressionato. «Avete trovato i cunicoli?» «Già» disse Eddie. «Ma come ha detto lei, non ci è servito a molto.» «Dobbiamo dargli un'occhiata insieme, prima di andare» mi disse Christian. «Devono essere grandiosi. E se le informazioni erano sbagliate, allora non corriamo alcun pericolo.» «No» risposi, brusca. «Torniamocene a casa. Adesso.» Mason aveva l'aria stanca. «Abbiamo intenzione di cercare ancora in città. Neanche tu puoi costringerci a tornare, Rose.» «No, ma potranno farlo i guardiani della scuola quando li avrò chiamati e avrò detto loro che siete qui.» Chiamatelo ricatto o fare la spia: il risultato fu lo stesso. Mi guardarono tutti e tre come se li avessi presi a pugni. «Lo faresti davvero?» chiese Mason. «Ci tradiresti così?» Mi strofinai gli occhi, domandandomi disperatamente per quale ragione stessi facendo la parte del grillo parlante. Dov'era finita la ragazza che una volta era scappata da scuola? Mason aveva ragione. Ero cambiata. «Qui non si tratta di tradire qualcuno. Si tratta di tenervi in vita.» «Ci credi così indifesi?» chiese Mia. «Credi che ci ammazzerebbero all'istante?» «Sì» dissi. «A meno che tu non abbia trovato un modo per usare l'acqua come arma.» Lei arrossì e non disse niente. «Abbiamo portato i paletti d'argento» intervenne Eddie. Fantastico. Dovevano averli rubati. Guardai Mason, supplichevole. «Mason. Per favore. Metti fine a questa storia. Torniamo indietro.» Mi guardò per un lungo momento. Alla fine sospirò. «Okay.» Eddie e Mia erano sgomenti ma Mason aveva assunto il ruolo di leader, e i due non avevano l'intraprendenza necessaria per poter proseguire senza di lui. Mia fu quella che sembrò prenderla peggio, e mi dispiacque per lei. Aveva avuto a malapena il tempo di soffrire per sua madre; si era subito lanciata in quest'impresa come se la vendetta fosse un modo di fronteggiare il dolore. Una volta tornati, avrebbe dovuto fare i conti con un mucchio di cose. Christian era ancora esaltato all'idea dei cunicoli sotterranei. Non avrebbe dovuto sorprendermi più di tanto, considerato che passava tutto il tempo in una soffitta. «Ho controllato gli orari» mi disse. «Manca ancora un po' al prossimo autobus.» «Non possiamo andarcene a spasso in un nascondiglio di Strigoi» risposi dirigendomi verso

l'ingresso del centro commerciale. «Non ci sono Strigoi laggiù» disse Mason. «È soltanto un posto da addetti alle pulizie. Non c'è nulla di strano. Credo proprio che i guardiani avessero delle informazioni sbagliate.» «Rose» disse Christian, «vediamo di divertirci anche un po' in tutta questa storia.» Tutti corsero a me con lo sguardo. Mi sentii come una mamma in una drogheria che non vuole comprare le caramelle ai bambini. «Okay, d'accordo. Solo un'occhiata, però.» Gli altri guidarono Christian e me dalla parte opposta del centro commerciale, oltre una porta sopra alla quale era scritto RISERVATO AL PERSONALE. Schivammo un paio di addetti alle pulizie, e poi scivolammo oltre una seconda porta, che ci portò a una scalinata in discesa. Vissi un fugace déjà vu, al ricordo dei gradini che mi avevano portato alla festa di Adrian nel centro termale. Solo che queste scale erano più sporche ed emanavano una puzza tremenda. Arrivammo in fondo. Più che un cunicolo sotterraneo era uno stretto corridoio fiancheggiato da pareti di cemento lercio. Di tanto in tanto c'erano brutte lampade al neon incassate nei muri. Il cunicolo si diramava a destra e a sinistra. In giro c'erano scatole di derivazione elettrica e contenitori di attrezzi per la pulizia ordinaria. «Visto?» disse Mason. «Una noia.» Indicai in entrambe le direzioni. «Che c'è laggiù?» «Niente» sospirò Mia. «Ora vi facciamo vedere.» Ci avviammo verso destra e ci imbattemmo al-l'incirca nelle stesse cose. Iniziavo anch'io a trovarlo "una noia" quando passammo accanto a una scritta nera su una parete. Mi fermai per guardarla. Era un elenco di lettere. D B C O T D V L D Z S I Accanto ad alcune lettere c'erano delle linee e delle x, ma il messaggio era perlopiù privo di logica. Mia si accorse della mia indagine accurata. «Dev'essere qualcosa degli addetti alla pulizie e alla manutenzione» disse. «O forse l'ha fatto qualche banda di ragazzi.» «Può darsi» dissi continuando a esaminarlo. Gli altri proseguirono insoddisfatti, senza

comprendere il mio interesse per quell'accozzaglia di lettere. Neppure io riuscivo a capirne l'interesse, ma nella mia testa qualcosa mi induceva a restare. Poi ci arrivai. B per Badica, Z per Zeklos, I per Ivashkov... Sgranai gli occhi. C'erano le prime lettere dei nomi di tutte le casate. I nomi con la D erano tre, ma l'ordine in cui le lettere erano disposte suggeriva che la lista fosse una sorta di classifica. Iniziava con le casate meno nutrite - i Dragomir, i Badica, i Conta - e proseguiva fino allo sterminato clan degli Ivashkov. Non avevo ancora afferrato il senso delle barrette e delle x accanto alle lettere, ma presto mi resi conto di quali fossero i nomi ad avere una x: i Badica e i Drozdov. Mi allontanai dal muro. «Dobbiamo uscire di qui» dissi. Fui spaventata dalla mia stessa voce. «Adesso.» Gli altri mi guardarono sorpresi. «Perché?» chiese Eddie. «Che succede?» «Ve lo dico dopo. Ora dobbiamo andare.» Mason indicò la direzione in cui ci stavamo dirigendo. «Di qui si spunta qualche isolato più in là. Vicino alla stazione.» Puntai gli occhi in quell'oscurità ignota. «No» dissi. «Prenderemo la strada da cui siamo venuti.» Mentre tornavamo sui nostri passi gli altri continuarono a guardarmi come se fossi pazza, ma nessuno mi fece domande. Quando riemergemmo nel centro commerciale tirai un sospiro di sollievo vedendo che il sole c'era ancora, anche se si faceva sempre più basso sull'orizzonte, e proiettava una luce rossa e arancio sugli edifici. La luce rimasta era comunque sufficiente per permetterci di tornare alla stazione degli autobus prima di correre il rischio di incappare in qualche Strigoi. E ora sapevo che a Spokane gli Strigoi c'erano davvero. Le informazioni di Dimitri erano esatte. Non avevo idea di quale fosse il significato di quella lista, ma era chiaro che avesse a che fare con gli attacchi. Dovevo riferirlo subito agli altri guardiani, e senza dubbio non avrei dovuto farne parola con gli altri prima di essere di nuovo al sicuro nel rifugio. Mason sarebbe stato capace di tornare di sotto, se avesse saputo ciò che sapevo io. Gran parte del viaggio di ritorno verso la stazione si svolse in silenzio. Penso che il mio stato d'animo avesse intimorito gli altri. Persino Christian pareva a corto di battutine sarcastiche. Da parte mia continuai a riesaminare il mio ruolo nella faccenda, e provai un turbinio di emozioni che oscillavano tra la rabbia e il senso di colpa. D'un tratto, di fronte a me Eddie si fermò, e per poco non gli finii addosso. Si guardò attorno. «Dove siamo?» Scrollandomi di dosso i pensieri, esaminai la zona. Non mi ricordavo di questi edifici. «Accidenti» esclamai. «Ci siamo persi? Nessuno ha controllato quale strada abbiamo preso?» Era una domanda ingiusta, visto che era ovvio che neppure io vi avessi prestato molta attenzione, ma il mio caratteraccio aveva avuto la meglio sul buonsenso. Mason mi scrutò per qualche istante, poi indicò. «Da questa parte.» Ci voltammo e imboccammo un vicoletto tra due edifici. Non pensavo che stessimo andando nella direzione giusta, ma non avevo un'idea migliore. E non avevo nessuna intenzione di mettermi a discutere. Non avevamo fatto molta strada quando avvertii il rumore di un motore e di gomme che stridevano. Mia stava camminando in mezzo al vicolo, e il mio riflesso condizionato di proteggere entrò in azione ancora prima di vedere cosa stesse arrivando. Afferrandola, la tirai indietro con uno strattone, facendola finire contro un muro. Anche i ragazzi si levarono dalla strada.

Un grosso furgone grigio coi finestrini oscurati aveva svoltato l'angolo e avanzava verso di noi. Ci appiattimmo contro il muro, in attesa che passasse. Ma non lo fece. Inchiodò facendo stridere le gomme. Si fermò proprio davanti a noi, e le portiere scorrevoli si aprirono. Ne uscirono tre ragazzoni, e il mio istinto entrò in azione di nuovo. Non avevo idea di chi fossero e di cosa volessero, ma era chiaro che non fossero bendisposti. Era tutto ciò che avevo bisogno di sapere. Uno di loro andò verso Christian, e io mi avventai su di lui colpendolo con un pugno. Il tizio vacillò appena, ma sembrava sorpreso. Con ogni probabilità non si aspettava che qualcuno di tanto piccolo potesse rappresentare una minaccia. Si disinteressò di Christian e si fece sotto. Con la coda dell'occhio vidi Mason ed Eddie mettersi in guardia contro gli altri due. Mason aveva addirittura estratto il paletto d'argento che aveva rubato. Mia e Christian stavano immobili, pietrificati. I nostri assalitori facevano affidamento sulla propria mole. Non erano al nostro livello, in quanto a tecniche di difesa e attacco. Per di più erano esseri umani, e noi avevamo una forza dhampir. Per nostra sfortuna, però, avevamo lo svantaggio di trovarci spalle al muro. Non avevamo alcuna possibilità di ritirata. E cosa più importante, avevamo qualcosa da perdere. Tipo Mia. II tizio che se la stava vedendo con Mason sembrò rendersene conto. Si sottrasse a Mason e afferrò lei. Feci appena in tempo a vedere lo scintillio della pistola, che già le aveva premuto la canna contro il collo. Indietreggiai e urlai a Eddie di fermarsi. Eravamo stati addestrati a rispondere all'istante a questo tipo di ordini, e lui si bloccò, guardandomi con aria interrogativa. Quando si accorse di Mia, impallidì. Non desideravo altro che prendere a pugni quei tre - chiunque fossero - ma non potevo correre il rischio che il ragazzone facesse del male a Mia. Anche lui lo sapeva. Non ebbe neppure bisogno di minacciarci. Era un essere umano, ma ci conosceva abbastanza da sapere che avremmo fatto qualunque cosa pur di proteggere i Moroi. I novizi avevano un'espressione che veniva loro inculcata fin dalla tenera età: contano loro soltanto. Si fermarono tutti, spostando di continuo lo sguardo tra lui e me. A quanto pareva eravamo i leader, lì. «Che volete?» chiesi in modo aspro. Il tizio premette con più forza la pistola contro il collo di Mia, e lei piagnucolò. Nonostante tutte le sue chiacchiere sul combattere, era più piccola di me e la sua forza non era neanche lontanamente paragonabile alla mia. Ed era troppo terrorizzata per muoversi. L'uomo piegò la testa verso lo sportello aperto del furgoncino. «Voglio che saliate a bordo. E non fatevi venire strane idee. Una mossa, e lei è morta.» Guardai Mia, il furgoncino, i miei amici, e poi di nuovo quel tizio. Merda.

Detesto sentirmi impotente. E detesto perdere senza combattere. Quello che si era svolto nel vicoletto non era stato un combattimento. Se lo fosse stato, se mi avessero costretto ad arrendermi... Be', allora sì. Forse avrei potuto accettarlo. Forse. Ma non mi avevano battuta. Mi ero a malapena sporcata le mani. Invece, mi ero piegata. Dopo averci fatti sedere in fondo al furgone ci avevano legato le mani dietro la schiena con manette flessibili: lacci di plastica che si stringevano fino a immobilizzare i polsi come un paio di manette metalliche. Dopodiché viaggiammo in un silenzio quasi assoluto. Gli uomini si sussurravano di tanto in tanto qualcosa, ma parlavano a voce troppo bassa perché qualcuno di noi potesse sentire. Christian o Mia avrebbero anche potuto captare le loro parole, ma non erano nella posizione di comunicare col resto di noi. Mia aveva l'aria terrorizzata, come già mi era sembrato nel vicolo, e benché la paura di Christian avesse lasciato rapidamente il posto alla sua tipica rabbia sprezzante, nemmeno lui osava fare qualcosa con quella specie di secondini nei paraggi. Ero contenta che Christian fosse in grado di controllarsi. Non nutrivo dubbi sul fatto che se avesse passato il limite, uno di questi uomini lo avrebbe preso a schiaffi, e né io né uno degli altri novizi saremmo stati nella posizione di impedire loro di farlo. Era questo quello che mi stava facendo perdere la testa. L'istinto di proteggere i Moroi era così radicato in me che non riuscivo neppure a concedermi il lusso di preoccuparmi per me stessa. Christian e Mia erano la priorità. Erano loro, quelli da tirare fuori da questo casino. E come aveva avuto inizio tutto questo casino? Chi erano questi uomini? Rimaneva un mistero. Erano esseri umani. Ma neppure per un istante accettai l'ipotesi che un gruppo di dhampir e Moroi fosse caduto vittima di un rapimento fortuito. Eravamo stati scelti per un motivo. I nostri rapitori non avevano cercato di bendarci gli occhi o di tenere segreto il percorso, e questo non era un buon segno. Erano convinti che non conoscessimo la città quanto bastava per poter tornare indietro? O pensavano che non avesse importanza, visto che non avremmo lasciato il posto dove ci stavano portando, dovunque si trovasse? Mi resi soltanto conto che ci stavamo allontanando dal centro per dirigerci verso una zona periferica. Spokane era monotona come me l'ero immaginata. Qui la neve non giaceva in cumuli bianchi; grigie pozzanghere melmose fiancheggiavano le strade e chiazze sporche punteggiavano i prati. C'erano anche molti meno sempreverdi rispetto a quelli a cui ero abituata. Gli alberi caducifogli rinsecchiti e spogli di queste zone avevano un aspetto scheletrico. Non facevano altro che rafforzare il presentimento di un destino avverso. Dopo meno di un'ora, o così mi sembrò, il furgone imboccò una tranquilla strada senza uscita e raggiungemmo un'abitazione molto ordinaria, benché grande. Nelle vicinanze c'erano altre case identiche tra loro, come spesso succede nelle aree residenziali - e questo mi infuse qualche speranza. Forse i vicini avrebbero potuto esserci d'aiuto. Entrammo nel garage, e una volta richiusa la saracinesca, gli uomini ci scortarono in casa. L'interno era molto più interessante. Antichi divani e sedie con piedi a zampa di leone. Un grosso acquario di pesci d'acqua marina. Spade incrociate sopra un camino. Uno di quegli stupidi dipinti

d'arte moderna, nient'altro che qualche linea tracciata sulla tela. La parte di me a cui piaceva distruggere avrebbe voluto studiare più da vicino le spade, ma non era il piano terra la nostra destinazione. Ci guidarono giù da una stretta rampa di scale, in uno scantinato grande quanto il piano di sopra. Solo che, mentre al piano terra c'era un unico ampio ambiente, il seminterrato era stato suddiviso mediante corridoi e porte chiuse. Era come un labirinto per topi. I nostri rapitori ci fecero strada senza esitazioni, finché non raggiungemmo una stanzetta col pavimento di calcestruzzo e pareti di cartongesso grezzo. All'interno l'arredamento consisteva di svariate sedie di legno dall'aria molto scomoda, con schienali a doghe; schienali che diedero prova di essere un pratico sostegno a cui ammanettarci nuovamente. Gli uomini ci disposero in modo che Mia e Christian fossero seduti da un lato della stanza, e noi dhampir dall'altro. Un tizio - a quanto pareva il capo - osservò con scrupolo uno dei suoi scagnozzi legare le mani a Eddie con un nuovo paio di manette flessibili. «Sono questi quelli a cui devi fare attenzione» lo mise in guardia, facendo un cenno con la testa nella nostra direzione. «Loro potrebbero reagire.» Il suo sguardo si posò sul volto di Eddie, poi su quello di Mason, e infine sul mio. Lui e io ci guardammo diritti negli occhi per qualche istante, e io corrugai la fronte. Lui tornò a guardare il suo socio. «Tieni d'occhio lei, in particolare.» Quando fu soddisfatto del modo in cui eravamo stati immobilizzati, abbaiò qualche altro ordine e lasciò la stanza, dopo essersi chiuso rumorosamente la porta alle spalle. Mentre tornava al piano terra, i suoi passi riecheggiarono per tutta l'abitazione. Qualche attimo più tardi calò il silenzio. Rimanemmo seduti lì, a fissarci l'un l'altro. Dopo qualche minuto, Mia si mise a frignare e fece per parlare. «Cosa avete intenzione di...» «Zitta» ringhiò uno degli uomini. Mosse un passo nella sua direzione come avvertimento. Impallidendo, Mia si fece piccola per la paura, eppure diede l'impressione di voler dire ancora qualcosa. Intercettai il suo sguardo e scossi la testa. Restò in silenzio, gli occhi sbarrati e un leggero tremore sulle labbra. Non c'è nulla di peggio che restare in attesa senza sapere che cosa sta per succederti. L'immaginazione sa essere ben più crudele di qualunque rapitore. E siccome i nostri secondini non avevano intenzione di parlarci né ci avrebbero rivelato cosa avessero in serbo per noi, passai in rassegna ogni genere di orrendo scenario. Le armi erano il pericolo più ovvio, e così finii per domandarmi quale sensazione desse un proiettile. Presumevo che sarebbe stato doloroso. E in che punto ci avrebbero sparato? Al cuore o alla testa? Una morte rapida. Ma in un'altra parte del corpo? Tipo nella pancia? Quella sarebbe stata una morte lenta e dolorosa. Fui scossa da un brivido al pensiero della mia vita che scivolava via insieme al mio sangue. L'idea di tutto quel sangue mi fece pensare alla tenuta dei Badica, e all'eventualità che ci tagliassero la gola. Questi uomini potevano avere con sé dei coltelli, proprio come avevano delle pistole. Ovviamente c'era da chiedersi perché fossimo ancora vivi. Era chiaro che volevano qualcosa da noi, ma cosa? Non ci avevano interrogato per ottenere delle informazioni. Ed erano esseri umani. Cosa mai avrebbero potuto volere da noi, degli umani? Di regola, tutto ciò che dovevamo temere dagli umani era di imbatterci in qualche cacciatore fuori di testa o in chi aveva intenzione di fare esperimenti su di noi. Ma questi tizi non sembravano appartenere né all'uno né all'altro tipo. Allora che cosa volevano? Perché ci trovavamo lì? Mi immaginai epiloghi ancora più tremendi e raccapriccianti. Le espressioni sui volti dei miei amici mi dicevano che non ero l'unica in grado di immaginare i più bizzarri tormenti. Il puzzo di sudore e paura saturava la stanza. Persi la cognizione del tempo, ma tutto a un tratto il riecheggiare di alcuni passi per le scale mi strappò dalle mie fantasie. Il capo dei rapitori uscì nel corridoio. Gli altri scattarono in piedi, si avvertiva la tensione nell'aria. Oddio. Eravamo giunti al dunque, pensai. Ecco il momento che stavamo aspettando. «Sì, signore» sentii dire al capo. «Sono qui, proprio come voleva.»

Finalmente capii. La persona che era dietro il nostro rapimento. Caddi in preda al panico. Dovevo scappare. «Fateci uscire di qui» gridai dando degli strattoni ai lacci delle manette. «Fateci uscire, figli di...» Mi interruppi. Dentro di me qualcosa si torse. La gola mi si seccò. Il cuore desiderò di fermarsi. Il secondino era tornato in compagnia di un uomo e di una donna che non riconobbi. Riconobbi, però, che si trattava di... ... Strigoi. Strigoi veri, dal vivo... be', in senso figurato. D'improvviso ogni tessera andò al proprio posto. Non solo le voci su Spokane erano vere. Quello che avevamo temuto - e cioè che ci fossero Strigoi che collaboravano con esseri umani - era diventato realtà. Questo cambia tutto. La luce del giorno non era più sicura. Nessuno di noi era più al sicuro. E cosa di gran lunga peggiore, mi resi conto che doveva trattarsi degli Strigoi nomadi, quelli che avevano attaccato le due famiglie Moroi con l'aiuto degli umani. Quegli orribili ricordi mi tornarono alla mente ancora una volta: cadaveri e sangue dappertutto. La bile mi risalì in gola, e cercai di distogliere la mente dal passato e di focalizzarla sul presente. Non che fosse più rassicurante. I Moroi avevano la carnagione pallida, quel tipo di pelle che arrossiva e si scottava con facilità. Ma questi vampiri... la loro pelle era bianca, così terrea da sembrare il risultato di un cattivo lavoro di cosmesi. Le pupille erano circondate da un anello rosso, e questo chiariva di quale genere di mostri si trattasse. La donna, in realtà, mi ricordava Natalie, una mia povera amica che il padre aveva convinto a tramutarsi in Strigoi. Mi ci volle qualche secondo per capire in cosa consistesse la somiglianza, visto che non avevano affatto lo stesso aspetto. Questa donna era bassa - con ogni probabilità prima di diventare una Strigoi era un essere umano - e aveva i capelli castani con pessimi colpi di sole. Poi capii. Era Strigoi da poco tempo, proprio come Natalie quando l'avevo incontrata. Non mi fu chiaro finché non la confrontai con l'altro Strigoi. Sul viso di lei rimaneva un po' di vita. Ma quello di lui... era il volto della morte. Da quel volto non traspariva calore né emozione. La sua espressione era fredda e calcolatrice, con una nota di maligno piacere. Era alto quanto Dimitri, e aveva un corpo sottile che lasciava intendere che prima di tramutarsi fosse stato un Moroi. I capelli, neri e lunghi fino alle spalle, gli incorniciavano il volto e contrastavano col viola acceso della sua camicia. Gli occhi erano così tetri e bruni che senza l'anello rosso sarebbe stato quasi impossibile dire dove finiva la pupilla e iniziava l'iride. Uno dei secondini mi diede una forte spinta, benché stessi zitta ormai. Sollevò lo sguardo in direzione dello Strigoi. «Vuole che la imbavagli?» D'improvviso mi accorsi di essermi rannicchiata contro lo schienale della sedia nel tentativo inconscio di restare quanto più possibile lontano da lui. Anche lo Strigoi se ne accorse, e un sorriso sottile - che non scopriva i denti - gli corse sulle labbra. «No» disse. La sua voce era suadente e profonda. «Mi piacerebbe sentire cos'ha da dire.» Sollevò un sopracciglio al mio indirizzo. «Prego. Continua.» Deglutii. «No? Niente da aggiungere? Bene. Sentiti libera di intervenire nel caso dovesse venirti in mente qualcos'altro.» «Isaiah» esclamò la donna. «Perché li tieni qui? Perché non ti sei limitato a chiamare gli altri?» «Elena, Elena» le sussurrò Isaiah. «Fai la brava. Non ho intenzione di lasciarmi sfuggire l'occasione di godermi due Moroi e...» Camminò fino alla mia sedia e mi sollevò i capelli, facendomi rabbrividire. Un istante dopo lanciò un'occhiata anche ai colli di Mason ed Eddie. «... tre

dhampir non ancora iniziati.» Pronunciò queste parole con un sospiro quasi felice, e io capii che aveva cercato i tatuaggi dei guardiani. Si avvicinò a Mia e Christian e, mentre li studiava, Isaiah si posò una mano sulla bocca. Mia riuscì a reggere il suo sguardo per un istante, poi volse gli occhi altrove. La paura di Christian era tangibile, ma lui riuscì a sostenere lo sguardo inquisitorio dello Strigoi. Mi rese fiera di lui. «Guarda quegli occhi, Elena.» Elena lo raggiunse e restò accanto a Isaiah mentre parlava. «Quell'azzurro pallido. Come ghiaccio. Come acquamarina. È raro incontrarlo al di fuori delle casate reali. I Badica. Gli Ozera. Di rado negli Zeklos.» «Ozera» disse Christian sforzandosi con tutto se stesso di non apparire terrorizzato. Isaiah piegò la testa. «Davvero? Di sicuro non...» si chinò per farsi più vicino a Christian. «L'età però è giusta... e quei capelli...» Sorrise. «Il figlio di Lucas e Moira?» Christian non disse nulla, ma la conferma gli si leggeva sul viso. «Conoscevo i tuoi genitori. Grandi persone. Senza eguali. La loro morte è stata un vero peccato... ma, be'... suppongo che se la siano cercata. Gli avevo raccomandato di non tornare per te. Sarebbe stato uno spreco risvegliarti così giovane. Dissero che ti avrebbero tenuto con loro e nient'altro, e che ti avrebbero risvegliato quando fossi cresciuto. Li avevo avvertiti che sarebbe stata una vera sciagura, ma, be'...» Scrollò le spalle. "Risvegliato" era il termine che gli Strigoi usavano tra di loro quando si tramutavano. Suonava come un'esperienza religiosa. «Non hanno voluto darmi ascolto, e sono andati incontro a un altro genere di sciagura.» Un odio, profondo e sinistro, ribolliva negli occhi di Christian. Isaiah sorrise di nuovo. «È quasi commovente che tu sia riuscito a trovarmi dopo tutti questi anni. Forse, dopotutto, posso realizzare il loro sogno.» «Isaiah» disse la donna - Elena - di nuovo. Ogni parola che le usciva di bocca sembrava un piagnucolio. «Chiama gli altri...» «Smettila di darmi ordini!» Isaiah l'afferrò per la spalla e la spinse via; solo che la spinta la scaraventò dall'altra parte della stanza e la mandò quasi a schiantarsi contro la parete. Lei riuscì ad allungare un braccio appena in tempo per frenare l'impatto. Gli Strigoi avevano riflessi migliori dei dhampir e persino dei Moroi; la sua mancanza di grazia significava che lui l'aveva colta del tutto alla sprovvista. E davvero, l'aveva toccata appena. Era stata solo una spintarella, eppure aveva sprigionato la forza di una piccola automobile. Questo rafforzò ulteriormente la mia convinzione che lui appartenesse a tutt'altra categoria. La sua forza sovrastava infinitamente quella di lei. Elena era come una mosca che lui avrebbe potuto schiacciare. La forza degli Strigoi aumentava con l'età, nonché attraverso il consumo di sangue Moroi e, in percentuale minore, sangue dhampir. Mi resi conto che questo tizio non era solo vecchio. Era decrepito. E aveva bevuto una marea di sangue nel corso degli anni. Il terrore deformò i lineamenti di Elena, e potei intuire la sua paura. Gli Strigoi si davano addosso l'uno con l'altro di continuo. Se solo avesse voluto, l'altro avrebbe potuto staccarle la testa. Lei si fece piccola, e distolse lo sguardo. «Mi... scusa, Isaiah.» Isaiah si lisciò la camicia. Non che fosse sgualcita. La sua voce assunse quella fredda gradevolezza che aveva ostentato in precedenza. «Elena, capisco che tu voglia dispensare consigli, ma sarò lieto se saprai esprimerli in maniera civile. Cosa pensi che dovremmo fare di questi cuccioli?» «Dovresti... ecco, penso che dovremmo consumarli ora. In particolare i Moroi.» Si vedeva che si sforzava di non frignare per non dargli fastidio. «A meno che... non avrai intenzione di dare un'altra cena, vero? Sarebbe uno spreco enorme. Dovremmo spartirli con gli altri, e tu sai che non ce ne

saranno riconoscenti. Non lo sono mai.» «Non farò di loro una cena» annunciò lui con arroganza. Cena? «Ma neppure li ucciderò. Tu sei giovane, Elena. Sai pensare solo a una gratificazione immediata. Quando sarai vecchia come me, non sarai così... impaziente.» Lei roteò gli occhi mentre lui non la guardava. Voltandosi, Isaiah fece correre lo sguardo su me, Mason ed Eddie. «Temo che voi tre morirete. Non c'è modo di evitarlo. Mi piacerebbe poter dire che mi dispiace ma, be', non è vero. È così che va il mondo. In ogni caso, avete facoltà di scelta sulla vostra morte, che dipenderà dal vostro comportamento.» I suoi occhi si attardarono su di me. Davvero non capivo perché tutti mi identificassero come la ribelle del gruppo, qui. Be', forse lo ero. «Alcuni di voi moriranno in modo più doloroso di altri.» Non avevo bisogno di guardare Mason ed Eddie per sapere che la loro paura rispecchiava la mia. Ero abbastanza sicura di aver sentito piagnucolare Eddie. D'improvviso Isaiah girò sui tacchi, in perfetto stile militare, e si piazzò davanti a Mia e Christian. «Voi due, per fortuna, disponete di altre alternative. Solo uno di voi morirà. L'altro vivrà di una gloriosa immortalità. Mi dimostrerò addirittura così gentile da tenerlo sotto la mia ala protettiva finché non si sarà fatto un po' più grandicello. Tale è la mia benevolenza.» Non riuscii a trattenermi. Soffocai una risata. Isaiah si voltò e mi piantò gli occhi addosso. Restai in silenzio, in attesa che mi scaraventasse dall'altra parte della stanza come aveva fatto con Elena, ma si limitò a fissarmi. Era sufficiente. Il mio cuore accelerò, e sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Mi vergognai della mia paura. Volevo essere come Dimitri. O come mia madre, perfino. Dopo alcuni, lunghissimi attimi, Isaiah tornò a occuparsi dei Moroi. «Ora. Come stavo dicendo, uno di voi verrà risvegliato e vivrà per sempre. Ma non sarò io a risvegliarlo. Dovrete scegliere di essere risvegliati di vostra spontanea volontà.» «Non credo proprio» disse Christian. Aveva caricato quelle tre parole di tutto il sarcastico disprezzo che era riuscito a mettere insieme, ma era chiaro a tutti che moriva di paura. «Ah, quanto amo lo spirito degli Ozera» considerò Isaiah. Lanciò un'occhiata a Mia, gli occhi rossi che brillavano. Lei si rannicchiò, spaventata. «Ma non permettere che lui ti metta in ombra, mia cara: c'è forza anche nel tuo sangue comune. Ed ecco come verrà deciso chi vivrà.» Indicò noi dhampir. Il suo sguardo mi raggelò, e mi parve di avvertire il fetore della decomposizione. «Se volete vivere, tutto ciò che dovete fare è uccidere uno di quei tre.» Tornò a voltarsi verso i Moroi. «Tutto qui. Per nulla sgradevole. Non dovrete fare altro che dire a uno dei gentiluomini qui presenti che volete farlo. Sarete liberati. Dopodiché berrete da loro e vi risveglierete come uno di noi. Chiunque lo farà, sarà libero. L'altro diventerà la cena mia e di Elena.» Nella stanza calò il silenzio. «No» disse Christian. «Non ucciderò uno dei miei amici. Non m'importa cosa farai. Morirò prima io.» Isaiah respinse le sue parole con un gesto della mano. «E facile fare il coraggioso quando non si ha fame. Resta un paio di giorni senza nutrimento... e allora sì che inizieranno a sembrarti molto appetitosi. E lo sono. I dhampir sono deliziosi. Alcuni li preferiscono ai Moroi, e benché non abbia mai condiviso questa opinione, neppure a me dispiace variare.» Christian si accigliò. «Non mi credi?» chiese Isaiah. «Allora lascia che te lo dimostri.» Tornò dal mio lato della stanza. Mi resi conto di ciò che stava per fare e parlai senza pensare fino in fondo a ciò che stavo per dire.

«Usa me» dissi d'impulso. «Bevi da me.» L'espressione compiaciuta di Isaiah vacillò per un attimo. Sollevò le sopracciglia. «Ti stai offrendo volontaria?» «L'ho già fatto. Ho permesso che dei Moroi si nutrissero di me, intendo. Non m'importa. Mi piace. Lascia stare gli altri.» «Rose!» esclamò Mason. Lo ignorai e guardai Isaiah con aria supplichevole. Non volevo che si nutrisse di me. Il pensiero mi dava la nausea. Ma avevo già donato il mio sangue, e avrei preferito lasciargli bere pinte di sangue da me piuttosto che lasciargli toccare Eddie o Mason. Mentre mi scrutava non riuscii a decifrare la sua espressione. Per mezzo secondo pensai che potesse accettare, invece scosse la testa. «No. Tu no. Non ancora.» Andò oltre e si fermò davanti a Eddie. Diedi degli strattoni così forti alle manette che i lacci mi lacerarono la carne. Non cedettero, però. «No! Lascialo stare!» «Zitta» scattò Isaiah, senza guardarmi. Posò la mano su un lato del viso di Eddie. Eddie prese a tremare e impallidì così tanto che pensai che sarebbe svenuto. «Posso rendere la cosa piacevole, o posso farlo soffrire. Il vostro silenzio favorirà la prima ipotesi.» Avevo voglia di urlare, volevo dirgliene di tutti i colori, rivolgergli ogni genere di minaccia. Ma non potevo. Percorsi la stanza con lo sguardo, in cerca di uscite, come avevo già fatto un sacco di volte. Non ce n'erano. Soltanto bianche pareti spoglie. Nessuna finestra. L'unica preziosa porta era sempre sorvegliata. Ero inerme, proprio come lo ero stata fin da quando ci avevano spinto a bordo del furgone. Avevo voglia di piangere, più per la frustrazione che per la paura. Che genere di guardiano sarei stata, se non ero in grado di proteggere i miei amici? Ma restai zitta, e un'espressione compiaciuta affiorò sul viso di Isaiah. La luce al neon conferiva alla sua carnagione una sfumatura grigiastra, malaticcia, e metteva in evidenza le occhiaie. L'avrei preso a pugni. «Bene.» Sorrise a Eddie e sollevò il viso in modo da poterlo guardare negli occhi. «Ora, non reagirai, non è così?» Come ho già detto, Lissa era brava con la compulsione. Ma neppure lei sarebbe riuscita a fare una cosa del genere. Nel giro di qualche secondo, Eddie stava sorridendo. «No. Non reagirò.» «Bene» ripeté Isaiah. «E mi offrirai il tuo collo spontaneamente, vero?» «Certo» rispose Eddie reclinando la testa. Isaiah spostò la bocca verso il basso, e io distolsi lo sguardo, cercando invece di concentrarmi sulla moquette logora. Non volevo guardare. Eddie emise un delicato gemito di felicità. La nutrizione in sé fu piuttosto silenziosa, senza risucchi o altro. «Ecco fatto.» Quando sentii Isaiah parlare tornai a guardarlo. Il sangue gli gocciolava dalle labbra, e vi passò sopra la lingua. Non riuscivo a vedere la ferita sul collo di Eddie, ma avevo il sospetto che fosse altrettanto sanguinolenta e orribile. Mia e Christian lo fissavano con occhi sbarrati, sia per la paura che per l'incanto. Eddie aveva uno sguardo estasiato, drogato; era strafatto di endorfine e compulsione. Isaiah si rimise diritto e sorrise ai Moroi leccando via dalle labbra l'ultima traccia sangue. «Visto?» disse loro mentre si dirigeva alla porta. «È semplicissimo.»

Ci serviva un piano di evasione, e ne avevamo bisogno in fretta. Purtroppo gli unici piani che mi erano venuti in mente dipendevano da elementi su cui non avevo alcun controllo. Tipo che ci lasciassero da soli, per permetterci di sgattaiolare fuori. O che i secondini fossero tanto stupidi da lasciarci fuggire senza fatica. O che magari ci avessero ammanettati male. Nessuna di queste condizioni era sul punto di realizzarsi, però. Dopo quasi ventiquattr'ore, la nostra situazione non era affatto cambiata. Eravamo ancora prigionieri, ancora ben ammanettati. I nostri rapitori erano vigili, efficienti quanto un gruppo di guardiani. O quasi. Le uniche occasioni in cui potevamo avvicinarci un po' alla libertà erano le pause - estremamente imbarazzanti e sotto stretta sorveglianza - per andare al bagno. Gli uomini non ci davano né cibo né acqua. Per me era dura, ma la mescolanza di umano e vampiro rendeva i dhampir resistenti. Potevo sopportare una condizione disagevole, malgrado mi avviassi spedita al limite oltre il quale avrei ucciso per un cheeseburger e delle patatine fritte untuosissime. Per Mia e Christian... be', le cose erano un po' più difficili. I Moroi andavano avanti settimane senza cibo né acqua, se si nutrivano di sangue. Senza sangue potevano resistere qualche giorno prima di ammalarsi e indebolirsi, ma nel frattempo avrebbero dovuto comunque ricevere altro nutrimento. Era così che Lissa e io eravamo riuscite a vivere da sole, visto che io non potevo nutrirla ogni giorno. Senza cibo, sangue né acqua, però, la resistenza dei Moroi si riduceva in maniera drastica. Io avevo fame, ma Mia e Christian erano famelici. I loro visi parevano già scarni, gli occhi quasi febbricitanti. Isaiah peggiorò le cose durante le visite successive. Ogni volta scendeva e si dilungava con quei suoi discorsi fastidiosi e beffardi. Poi, prima di andarsene, beveva da Eddie. Alla terza visita, in pratica potevo vedere Christian e Mia con l'acquolina in bocca. Tra le endorfine e la mancanza di cibo, ero sicura che Eddie non sapesse più nemmeno dove ci trovassimo. In quelle condizioni non riuscii a dormire per davvero, ma durante il secondo giorno mi appisolai di tanto in tanto. È l'effetto che fanno la fame e la spossatezza. A un certo punto sognai, e la cosa mi sorprese molto, visto che non credevo di poter cadere in un sonno così profondo in circostanze tanto assurde. Nel sogno - e mi rendevo conto benissimo che si trattava di un sogno - ero su una spiaggia. Ci impiegai un momento per capire quale spiaggia fosse. Si trovava lungo la costa dell'Oregon: una distesa di sabbia calda, con l'oceano Pacifico che si perdeva all'orizzonte. Lissa e io ci eravamo state una volta, quando vivevamo a Portland. Era stata una giornata magnifica, ma lei non sopportava di restare all'aperto con tutto quel sole. Perciò ci eravamo fermate poco, anche se avevo desiderato di potermi trattenere di più e di crogiolarmi al sole. Nel sogno, però, avevo tutta la luce e il calore che volevo. «Piccola dhampir» disse una voce alle mie spalle. «È quasi ora.» Io mi voltai di soprassalto e trovai Adrian Ivashkov che mi guardava. Indossava dei pantaloni cachi e una maglietta larga, e - in uno stile sorprendentemente casual per lui - non portava le scarpe.

Il vento gli arruffava i capelli castani, e Adrian teneva le mani in tasca mentre mi guardava con quel sorrisetto, il suo marchio di fabbrica. «Hai ancora la tua protezione» aggiunse. Aggrottai le sopracciglia, perché per un attimo credetti che mi stesse guardando il seno. Poi mi accorsi che il suo sguardo era diretto alla mia pancia. Indossavo un paio di jeans e il pezzo sopra di un bikini, e il piccolo pendente blu a forma di occhio mi ciondolava dall'ombelico. Il chotki era al mio polso. «E tu sei di nuovo al sole» dissi. «Quindi immagino si tratti di un sogno tuo.» «È il nostro sogno.» Agitai gli alluci nella sabbia. «Come fanno due persone a condividere un sogno?» «Capita spesso che le persone condividano un sogno, Rose.» Sollevai gli occhi guardando verso di lui, accigliata. «Ho bisogno di sapere cosa intendi. A proposito del fatto che attorno a me c'è l'oscurità. Che significa?» «A essere onesto, non lo so. Tutti gli altri attorno a sé hanno luce. Tu hai tenebre. Le hai avute da Lissa.» La mia confusione crebbe. «Non capisco.» «In questo momento non posso approfondire la questione. Non è per questo che sono qui.» «Sei qui per un motivo?» chiesi vagolando con lo sguardo in direzione dell'acqua grigio-azzurra. Era ipnotica. «Non sei qui... e basta?» Si fece avanti e mi afferrò la mano, e mi costrinse a levare lo sguardo su di sé. Tutta la sua allegria era svanita. Si era fatto serio da morire. «Dove ti trovi?» «Qui» dissi perplessa. «Proprio come te.» Adrian scosse la testa. «No, non era quello che intendevo. Nel mondo reale, dove ti trovi?» Il mondo reale? Attorno a noi la spiaggia iniziò a sbiadire, come i fotogrammi di un film che d'improvviso diventano sfuocati. Qualche attimo più tardi tutto tornò come prima. Mi scervellai. Il mondo reale. Mi tornarono alla mente alcune immagini. Sedie. Secondini. Manette. «In uno scantinato...» dissi piano. D'un tratto la mia inquietudine mandò in frantumi la bellezza del momento, e tutto mi tornò alla mente. «Oddio, Adrian. Devi aiutare Mia e Christian. Non posso...» La mano di Adrian si serrò ancora di più attorno al mio polso. «Dove?» Il mondo ricominciò a tremolare, e questa volta non tornò a fuoco. Lui imprecò. «Dove ti trovi, Rose?» Il mondo iniziò a disintegrarsi. Adrian iniziò a disintegrarsi. «Uno scantinato. In una casa. A...» Era scomparso. Mi svegliai. Il rumore della porta della stanza che si apriva mi riportò di colpo alla realtà. Isaiah scivolò all'interno con Elena al seguito. Dovetti trattenere una smorfia quando la vidi. Lui era arrogante e ignobile e malvagio sotto ogni punto di vista. Ma era così perché era un leader. La sua forza e il suo potere rendevano accettabile la sua crudeltà, anche se non la gradivo. Ma Elena? Era una leccapiedi. Ci minacciava e faceva commenti derisori, ma poteva farlo soltanto perché era l'amichetta di Isaiah. Era una leccaculo, nient'altro. «Ciao, bambini» disse lui. «Come andiamo?»

In risposta ottenne delle occhiate ostili. Camminò verso Mia e Christian, le mani giunte dietro la schiena. «Qualcuno ha cambiato idea dopo la mia ultima visita? Ci state mettendo un'eternità, e la cosa turba Elena. È molto affamata, vedete, anche se sospetto che non lo sia quanto voi.» Christian strinse gli occhi. «Vaffanculo» disse digrignando i denti. Elena ringhiò e balzò in avanti. «Non ti permettere...» Isaiah la allontanò con un cenno. «Lascialo stare. Vuol dire solo che dovremo aspettare ancora un po', e a dire il vero, l'attesa mi diverte.» Elena fulminò Christian con lo sguardo. «In tutta onestà» proseguì Isaiah, tenendo d'occhio Christian, «non so dire quale sia la cosa che desidero di più: se ucciderti o vedere che ti unirai a noi. Ciascuna delle due alternative ha il suo lato divertente.» «Non ti stanchi mai di sentirti parlare?» chiese Christian. Isaiah ci pensò su. «No. No davvero. E non mi stanco nemmeno di questo.» Si voltò e andò verso Eddie. Il povero Eddie ormai riusciva a malapena a rimanere seduto diritto sulla sedia, dopo tutti i morsi subiti. E quel che era peggio, Isaiah non aveva neppure più bisogno di servirsi della compulsione. Sul viso di Eddie, al pensiero di ricevere il morso, apparve un sorriset-to idiota. Era dipendente come un donatore. Fui scossa dalla rabbia e dal disgusto. «Maledizione!» gridai. «Lascialo stare!» Isaiah si girò per guardarmi. «Fa' silenzio, ragazza. Non ti trovo neanche lontanamente spassosa quanto il signor Ozera.» «Ah, sì?» urlai. «Visto che ti faccio incazzare così tanto, allora perché non ti servi di me per raggiungere il tuo stupido scopo? Mordi me. Coraggio, rimettimi al mio posto, e fammi vedere quanto sei cattivo.» «No!» gridò Mason. «Usa me.» Isaiah roteò gli occhi. «Buon Dio. Che combriccola encomiabile. Siete come Spartaco, non è così?» Si allontanò da Eddie e posò un dito sotto il mento di Mason, facendogli sollevare la testa. «Tu, però» disse Isaiah, «non parli sul serio. Tu ti sei offerto solo per lei.» Si disinteressò di Mason e venne a pararsi davanti a me; mi guardava dall'alto con quei suoi occhi scurissimi. «E tu... all'inizio non credevo neppure a te. Ma adesso?» S'inginocchiò in modo da trovarsi alla mia altezza. Mi rifiutai di distogliere lo sguardo, anche se sapevo che ciò mi avrebbe esposto al rischio della compulsione. «Penso che tu faccia sul serio. E non si tratta neppure di nobiltà d'animo. Tu lo desideri. È la verità: sei già stata morsa.» La sua voce era magica. Ipnotica. Non si stava servendo della compulsione, non proprio, ma aveva un carisma fuori dalla norma. Come Lissa e Adrian. Pendevo da ogni sua parola. «Molte volte, direi» aggiunse. Si chinò sopra di me, l'alito caldo contro il mio collo. Da un punto alle sue spalle riuscii a sentire Mason gridare qualcosa, ma tutta la mia attenzione si concentrava su quanto i denti di Isaiah fossero vicini al mio collo. Negli ultimi mesi ero stata morsa una sola volta, ed era successo perché Lissa si era trovata in una situazione disperata. Prima di allora mi aveva morsa almeno due volte alla settimana per due anni, e io solo di recente ero arrivata a comprendere quanto fossi diventata dipendente. Al mondo non esiste niente - niente - come il morso di un vampiro; l'ondata di estasi con cui ti travolge. Certo, in fin dei conti, i morsi degli Strigoi erano ancora più potenti...

Deglutii, improvvisamente consapevole del mio respiro pesante e del cuore che mi batteva all'impazzata. Isaiah soffocò una risatina. «Sì. Sei una sgualdrina di sangue in erba. Peccato per te, visto che non ho intenzione di darti ciò che vuoi.» Fece un passo indietro, e io mi abbandonai contro lo schienale. Senza ulteriori indugi Isaiah tornò da Eddie e bevve. Non riuscii a guardare, ma questa volta per l'invidia, non per il disgusto. Sentivo il desiderio bruciarmi dentro. Morivo dalla voglia di quel morso, lo desideravo con ogni muscolo del mio corpo. Quando Isaiah terminò, fece per andarsene, ma poi si fermò. Indirizzò le sue parole a Mia e Christian. «Non rimandate ancora» li avvertì. «Cogliete l'occasione di essere salvati.» Piegò la testa verso di me. «Avete anche una vittima volontaria.» Andò via. Dall'altra parte della stanza, Christian incrociò il mio sguardo. In qualche modo il suo viso pareva ancora più emaciato di un paio d'ore prima. Nei suoi occhi ardeva la fame, e io mi resi conto di avere sul volto uno sguardo complementare al suo: il desiderio di saziare quella fame. Dio. Com'eravamo ridotti. Penso che Christian ci sia arrivato nello stesso istante. Le sue labbra si incurvarono in un sorriso amaro. «Non hai mai avuto un aspetto così invitante, Rose» riuscì a dire, prima che i secondini gli intimassero di stare zitto. Nel corso della giornata mi appisolai un po', ma Adrian non tornò nei miei sogni. Invece, mentre indugiavo sul limitare della coscienza, scivolai in un territorio familiare: la testa di Lissa. Dopo tutte le stranezze degli ultimi due giorni, ritrovarmi nella sua mente mi diede la sensazione di tornare a casa. Si trovava in una delle sale da banchetto del rifugio, una sala deserta. Era seduta in fondo, sul pavimento, nel tentativo di non dare nell'occhio. Traboccava di preoccupazione. Stava aspettando qualcosa, o meglio, qualcuno. Qualche minuto più tardi, Adrian sgattaiolò nella sala. «Cugina» disse a mo' di saluto. Si sedette a terra accanto a lei e tirò a sé le ginocchia, senza preoccuparsi dei suoi costosi pantaloni. «Scusa il ritardo.» «È tutto a posto» disse lei. «Non sapevi che fossi qui finché non mi hai visto, vero?» Lei scosse la testa, delusa. Io ero più confusa che mai. «E stando seduta con me... non vedi niente?» «No.» Lui scrollò le spalle. «Be'. Speriamo che succeda presto.» «Che aspetto ha per te?» chiese lei, ardendo di curiosità. «Lo sai cos'è un'aura?» «È tipo... un fascio di luce attorno alle persone, giusto? Una cosa New Age?» «Qualcosa del genere. Tutti noi irradiamo una sorta di energia spirituale. Be', quasi tutti.» La sua esitazione mi indusse a domandarmi se stesse pensando a me e alle tenebre tra cui, a quanto pareva, camminavo. «In base al suo colore e all'aspetto si possono dire molte cose a proposito di una persona... be', ma solo se si è davvero in grado di vedere le aure.» «E tu ci riesci» disse lei. «E dalla mia aura sei in grado di vedere che mi servo dello spirito?» «La tua è in gran parte dorata. Come la mia. Vira su altri colori a seconda della situazione, ma l'oro resta sempre.» «Quante altre persone come noi conosci là fuori?»

«Non molte. Ne incontro qualcuna di tanto in tanto. Hanno la tendenza a starsene per conto proprio. Tu sei la prima con cui abbia parlato sul serio. Non sapevo neppure che si chiamasse "spirito". Avrei voluto saperlo quando non mi sono specializzato. Credevo di essere una specie di fenomeno da baraccone.» Lissa sollevò il braccio e se lo guardò, sforzandosi di vedere la luce che lo circondava. Niente. Sospirò e lo lasciò ricadere. E fu allora che capii. Anche Adrian era un conoscitore dello spirito. Per questo era così curioso riguardo a Lissa, per questo desiderava parlarle e continuava a fare domande sul legame e sulla sua specializzazione. Questo spiegava anche un mucchio di altre cose; per esempio quell'ascendente a cui non sembravo poter sfuggire ogni volta che gli stavo vicina. Si era servito della compulsione anche il giorno in cui Lissa e io eravamo state in camera sua, ed era così che aveva costretto Dimitri a fermarsi. «Alla fine ti hanno lasciata andare?» le chiese Adrian. «Già. Alla fine sono giunti alla conclusione che non so davvero niente.» «Bene» disse lui. Si accigliò, e capii che una volta tanto era sobrio. «E tu sei sicura di non sapere niente?» «Te l'ho già detto. Non posso far funzionare il legame al contrario.» «Uhm. Be'. Devi riuscirci.» Lei gli scoccò un'occhiataccia. «Cosa credi, che mi stia rifiutando di farlo? Se potessi ritrovarla lo farei!» «Lo so, ma per riuscirci devi raggiungere una grande concentrazione. Usala per parlarle in sogno. Io ci ho provato, ma non sono riuscito a farlo durare abbastanza per...» «Che cos'hai detto?» esclamò Lissa. «Le hai parlato in sogno?» Adesso era lui a sembrare deluso. «Certo. Tu non lo sai fare?» «No! Mi prendi in giro? Com'è possibile?» I miei sogni... Mi ricordai di Lissa che parlava di inspiegabili fenomeni Moroi, come se là fuori potessero esserci altri poteri dello spirito oltre la guarigione, cose di cui nessuno sapeva ancora niente. A quanto pareva Adrian non era stato nei miei sogni per caso. Era riuscito a entrare nella mia testa, forse in un modo simile a quello grazie a cui io vedevo nella mente di Lissa. L'idea mi fece sentire a disagio. Lissa stentava a capirlo. Adrian si passò una mano tra i capelli e reclinò la testa, posando lo sguardo sul lampadario di cristallo mentre rifletteva. «Okay. Quindi. Non vedi le aure, e non parli in sogno con le persone. Cosa fai?» «Io... posso guarire gli altri. Gli animali. Anche le piante. Posso riportare in vita le creature morte.» «Davvero?» Ne sembrò impressionato. «Okay. Questo ti fa guadagnare dei punti. Cos'altro?» «Uhm, so usare la compulsione.» «Quello sappiamo farlo tutti.» «No, io posso farlo davvero. Non è difficile. Posso far fare alla persone tutto ciò che voglio. Anche cose brutte.» «Anch'io.» I suoi occhi si accesero. «Mi chiedo cosa succederebbe se tu provassi a usarla su di me...» Lei ebbe un attimo di esitazione, e senza pensarci fece scorrere le dita sulla moquette rossa

testurizzata. «Be'... non posso.» «Hai appena detto che puoi.» «Posso, ma non adesso. Prendo questi farmaci... per la depressione e altre cose... che mi impediscono di utilizzare la magia.» Lui alzò le braccia. «E allora come faccio a insegnarti a camminare nei sogni? In quale altro modo possiamo trovare Rose?» «Senti» disse lei, arrabbiata, «non è che io abbia voglia di prendere quei farmaci. Ma quando non li prendevo... facevo delle pazzie. Cose pericolose. È questo, ciò che ti fa lo spirito.» «Io non prendo niente. Sto bene» disse lui. No, mi resi conto che non era vero. Anche Lissa lo capì. «Quel giorno in cui Dimitri era in camera tua ti sei comportato in modo molto strano» gli fece notare. «Hai iniziato a delirare, dicevi cose senza senso.» «Oh, quello? Già... succede ogni tanto. Però, sul serio, non spesso. Una volta al mese, semmai.» Sembrava sincero. Lissa lo fissò, e d'improvviso riconsiderò tutto. E se davvero Adrian era in grado di farlo? Se davvero poteva servirsi dello spirito senza farmaci e senza alcun effetto collaterale nocivo? Era tutto ciò che lei desiderava. Tra l'altro, non era nemmeno più sicura che le pillole facessero effetto. Lui sorrise, indovinando ciò a cui stava pensando lei. «Cosa ne dici, cugina?» chiese. Non ebbe bisogno di ricorrere alla compulsione. La sua offerta era allettante di per sé. «Posso insegnarti tutto ciò che so, se riesci a entrare in contatto con la magia. I farmaci ci metteranno un po' a lasciare il tuo organismo, ma quando l' avranno fatto...»

Non era proprio quello di cui avevo bisogno. Sarei stata in grado di affrontare qualunque altra cosa di cui Adrian si fosse dimostrato capace: provarci con lei, farle fumare quelle ridicole sigarette, qualunque cosa. Ma non questo. Lissa che smetteva di prendere le medicine era esattamente ciò che avrei voluto evitare. Controvoglia uscii dalla sua testa e tornai alla mia spiacevole situazione. Avrei voluto vedere come sarebbe andata a finire tra Adrian e Lissa, ma non sarebbe servito a nulla. D'accordo. Adesso mi serviva sul serio un piano. Dovevo entrare in azione. Dovevo tirarci fuori di lì. Guardandomi attorno, però, non mi scoprii più vicina alla fuga di quanto non fossi stata fino ad allora, e trascorsi le ore successive a rimuginare e fare congetture. Quel giorno avevamo ben tre secondini. Sembravano tutti un po' annoiati, ma non abbastanza da distrarsi e lasciarci fuggire. Vicino a me, Eddie sembrava privo di conoscenza, e Mason fissava

senza espressione il pavimento. Dall'altro lato della stanza Christian non guardava niente in particolare, e credo che Mia stesse dormendo. Dolorosamente consapevole di quanto avessi la gola secca, ci mancò poco che mi mettessi a ridere al ricordo di quando le avevo detto che i suoi poteri magici con l'acqua erano inutili. Forse non sarebbero serviti un granché in combattimento, ma avrei dato qualunque cosa perché lei ne materializzasse un po'. Poteri magici. Perché non ci avevo pensato prima? Non eravamo impotenti. Non del tutto. Un piano andò lentamente a comporsi nella mia testa; un piano che con ogni probabilità era una follia, ma anche l'unico di cui disponessimo. Il cuore mi martellava d'impazienza, e subito ricondussi l'espressione del mio viso alla calma, prima che i secondini si accorgessero della mia improvvisa illuminazione. Dall'altro lato della stanza Christian mi stava osservando. Aveva capito che avevo in mente qualcosa. Mi guardò incuriosito, pronto a entrare in azione quanto me. Dio. Come avremmo potuto riuscirci? Mi serviva il suo aiuto, ma non avevo modo di fargli sapere ciò che avevo in mente. In realtà non ero nemmeno sicura che potesse essermi d'aiuto: era molto debole. Lo guardai dritto negli occhi nel tentativo di fargli capire che stava per succedere qualcosa. Sul suo volto lessi smarrimento, ma anche determinazione. Dopo essermi assicurata che nessuno dei secondini stesse guardando, scivolai leggermente di lato, dando un piccolo strattone ai polsi. Sbirciai dietro le mie spalle come meglio potei, e poi piantai di nuovo gli occhi in quelli di Christian. Lui aggrottò le sopracciglia, e io ripetei il gesto. «Ehi» dissi a voce alta. Mia e Mason sobbalzarono entrambi per la sorpresa. «Ma avete davvero intenzione di farci morire di fame? Non potremmo avere almeno un po' d'acqua o roba simile?» «Sta' zitta» disse uno dei secondini. La risposta standard per qualunque cosa dicessimo. «Forza.» Usai il mio miglior tono da stronza. «Neanche un sorsetto? Mi brucia la gola. Ce l'ho praticamente in fiamme.» Dicendo queste ultime parole spostai lo sguardo su Christian, poi tornai a guardare il secondino che aveva parlato. Come previsto, l'uomo si alzò dalla sedia e ciondolò verso di me. «Non farmelo ripetere» ringhiò. Non sapevo se si sarebbe dimostrato capace di ricorrere alla violenza, ma non avevo interesse a spingere oltre la cosa. Tra l'altro avevo ormai raggiunto il mio scopo. Se Christian non aveva capito l'allusione, allora non c'era nient'altro da fare. Nella speranza di avere un'aria intimorita, tacqui. Il secondino si sedette, e dopo un po' smise di tenermi d'occhio. Tornai a guardare Christian e diedi un altro strattone ai polsi. Forza, forza, pensavo. Arrivaci, Christian. D'improvviso lui sollevò le sopracciglia, e mi guardò sbalordito. Bene. A quanto pareva aveva intuito qualcosa. Speravo solo che fosse ciò che volevo io. Il suo sguardo si fece interrogativo, come se mi stesse chiedendo se facevo sul serio. Annuii con enfasi. Corrugò la fronte per qualche attimo con fare pensieroso, poi prese un profondo respiro preparatorio. «D'accordo» disse. Tutti trasalirono di nuovo. «Zitto» disse in automatico uno dei secondini. Pareva stanco. «No» disse Christian. «Sono pronto. Pronto per bere.» Per qualche istante nella stanza rimasero tutti immobili, me compresa. Non era di preciso ciò che avevo in mente. Il capo dei secondini si alzò. «Non provare a farci perdere tempo.» «No» disse Christian. Sul volto aveva un'espressione febbricitante, disperata, e non credevo che fosse tutta una finzione. «Ne ho abbastanza. Voglio uscire di qui, e non voglio morire. Berrò. E voglio lei.» Fece un cenno con la testa nella mia direzione. Mia strillò allarmata. Mason apostrofò

Christian in un modo che a scuola gli sarebbe valso una punizione. Questo non era affatto ciò che avevo in mente. Gli altri due secondini guardarono il capo con piglio interrogativo. «Dovremmo chiamare Isaiah?» chiese uno di loro. «Non credo che sia in casa» disse il capo. Scrutò Christian per qualche secondo e poi prese una decisione. «E comunque non voglio disturbarlo nel caso in cui si trattasse di uno scherzo. Lasciamolo andare, poi vedremo.» Uno degli uomini tirò fuori un paio di pinze affilate. Andò alle spalle di Christian e si chinò. Sentii il suono della plastica che schioccava mentre le manette cedevano. Afferrando Christian per un braccio, il secondino lo fece alzare e lo portò da me. «Christian» urlò Mason, la voce carica di collera. Lottò contro le manette, facendo traballare un po' la sedia. «Sei impazzito? Non lasciarti convincere!» «Voi morirete comunque, ma per me è diverso» ringhiò Christian scostandosi dal viso i capelli neri. «E non ho altro modo di uscirne.» Adesso non avevo la minima idea di cosa stesse succedendo, ma di una cosa ero certa: se fossi stata davvero sul punto di morire, avrei dovuto mostrare ben altro coinvolgimento. Due secondini si misero ai lati di Christian, e lo tennero d'occhio mentre si chinava sopra di me. «Christian» sussurrai, sorpresa da quanto fosse semplice dare l'impressione di essere spaventata. «Non farlo.» Le sue labbra si curvarono in uno di quei sorrisi amari che gli riuscivano così bene. «Tu e io non ci siamo mai piaciuti, Rose. Se devo uccidere qualcuno, preferisco che sia tu.» Le sue parole erano gelide, nette. Credibili. «Tra l'altro, pensavo che lo volessi.» «Non questo. Per favore, non...» Uno dei secondini spintonò Christian. «Fallo, o te ne torni sulla sedia.» Con quel suo sorriso oscuro ancora sulle labbra, Christian fece spallucce. «Scusa, Rose. Moriresti comunque. Perché non farlo per una buona causa?» Accostò il viso al mio collo. «Potrebbe fare male» aggiunse. Ne dubitavo... a meno che non l'avesse fatto per davvero. Ma non stava per farlo... no? In preda all'ansia cambiai posizione. In ogni caso, se mi avessero succhiato tutto il sangue, avrebbero dovuto pomparmi in circolo endorfine sufficienti ad attenuare gran parte del dolore. Sarebbe stato come addormentarsi. Certo, erano solo supposizioni. Le persone che muoiono a causa del morso di un vampiro non tornano per raccontare la propria esperienza. Christian mi strofinò il muso sul collo, e spinse il viso sotto i miei capelli, che lo nascosero in parte. Le sue labbra sfiorarono la mia pelle, morbide come le ricordavo dai baci che si era scambiato con Lissa. Un attimo più tardi, le punte dei suoi canini toccarono la mia carne. E allora provai dolore. Dolore vero. Ma non dipendeva dal morso. I suoi denti si limitarono a premere contro la mia carne, ma non la trapassarono. La sua lingua si muoveva sul mio collo come se Christian stesse lappando, ma non c'era sangue da succhiare. Semmai, l'azione somigliava più a una specie di bacio assurdo, contorto. No, il dolore proveniva dai polsi. Un dolore bruciante. Christian stava utilizzando la magia per trasmettere calore alle manette, proprio come volevo. Aveva recepito il messaggio. La plastica si fece sempre più calda mentre Christian seguitava a fingere di bermi. Chiunque avesse guardato da vicino sarebbe stato in grado di dire che stava facendo finta, ma i miei capelli impedivano ai secondini di vedere.

Sapevo che la plastica era difficile da sciogliere, ma solo adesso mi rendevo conto di cosa ciò significasse. La temperatura necessaria per sortire qualche effetto doveva essere elevatissima. Era come se stessi affondando le mani nella lava. Le manette mi ustionavano la pelle, roventi e terribili. Mi dimenai, nella speranza di poter alleviare il dolore. Non ci riuscii. Tuttavia, quando mi mossi notai che i lacci avevano ceduto appena. Si stavano sciogliendo. Bene. Era già qualcosa. Dovevo solo resistere un altro po'. In preda alla disperazione cercai di concentrarmi sul morso di Christian e di distrarmi. Funzionò per circa cinque secondi. Non è che mi stesse fornendo granché, in quanto a endorfine; di sicuro non abbastanza per contrastare l'orribile dolore che continuava a crescere. Gemetti, con ogni probabilità rendendo più credibile la mia interpretazione. «Non riesco a crederci» mormorò uno dei secondini. «Lo sta facendo davvero.» Alle loro spalle, mi sembrò di sentire il suono di Mia che piangeva. Il bruciore delle manette si fece più intenso. Non avevo mai provato niente di più doloroso in tutta la mia vita, eppure ne avevo passate parecchie. Rischiavo di svenire da un momento all'altro. «Ehi» disse d'improvviso un secondino. «Cos'è questa puzza?» Quella puzza era plastica che si fondeva. O forse la mia pelle che si liquefaceva. In tutta onestà non m'importava, perché quando provai di nuovo a muovere i polsi riuscii a rompere quelle manette appiccicose e bollenti. Avevo dieci secondi di effetto sorpresa, e li sfruttai. Balzai in piedi dalla sedia, e nel frattempo spinsi all'indietro Christian. Avevo un secondino per lato, e uno di loro aveva ancora in mano le pinze. Con un unico movimento afferrai le pinze e gliele conficcai nella guancia. Lui emise una sorta di urlo gorgogliante, ma non restai ad aspettare di vedere cosa sarebbe successo dopo. L'effetto sorpresa si stava esaurendo, e non avevo tempo da perdere. Non appena lasciai andare le pinze sferrai un pugno all'altro tizio. Di solito i miei calci erano più potenti dei pugni, ma lo colpii abbastanza forte da farlo sobbalzare e vacillare. A quel punto, il capo dei secondini passò all'azione. Come temevo, era ancora armato di pistola, e la estrasse. «Non ti muovere!» gridò, puntandomela addosso. Mi paralizzai. Il secondino che avevo preso a pugni mi fu addosso e mi afferrò per un braccio. Poco più in là, il tizio che avevo infilzato si lamentava sul pavimento. Continuando a tenermi sotto tiro il capo fece per dire qualcosa, e poi gridò allarmato. La pistola si fece di un arancio tenue e incandescente e gli cadde di mano. La pelle era rossa e ustionata, nel punto in cui l'aveva impugnata. Christian aveva surriscaldato il metallo, mi resi conto. Già. Senza dubbio avremmo dovuto fare ricorso ai poteri magici sin dall'inizio. Se fossimo riusciti a uscire di lì, avrei abbracciato la causa di Tasha. La convenzione per cui i Moroi erano contrari alla magia era talmente radicata nei nostri cervelli che non avevamo neppure preso in considerazione questa possibilità. Era stato stupido. Mi voltai verso il tizio che mi teneva per il braccio. Non credo che si aspettasse che una ragazza della mia corporatura potesse dargli del filo da torcere, e per di più era ancora esterrefatto da ciò che era capitato al suo compagno e alla sua pistola. Riuscii a trovare lo spazio sufficiente per assestargli un calcio nella pancia, un calcio che mi sarebbe valso una A al corso di combattimento. Grugnì per l'impatto, e il colpo lo sbalzò all'indietro, contro la parete. In un attimo gli fui addosso. Lo afferrai per i capelli e gli sbattei la testa contro il pavimento, con la forza necessaria per metterlo fuori gioco senza ucciderlo. Mi rimisi subito in piedi, stupita che il capo non mi fosse saltato addosso. Non avrei dovuto concedergli tutto quel tempo per riprendersi dallo shock della pistola incandescente. Quando mi voltai, però, la stanza era quieta. Il capo era a terra privo di conoscenza. Con sopra Mason, ora libero. Nelle vicinanze Christian reggeva le pinze in una mano e la pistola nell'altra. Doveva essere ancora calda, ma il potere di Christian lo aveva senz'altro reso insensibile. Teneva sotto tiro l'uomo

che avevo infilzato. Il tizio non aveva perso i sensi e sanguinava appena, ma alla vista di quella minaccia si era immobilizzato, proprio come avevo fatto io. «Merda» mormorai osservando la scena. Raggiunsi Christian con un balzo e allungai una mano. «Dammela, prima che qualcuno si faccia male.» Mi sarei aspettata una battutina pungente, ma lui si limitò a porgermi la pistola con le mani che tremavano. Me la infilai nella cintura. Guardandolo con più attenzione mi accorsi di quanto fosse pallido. Sembrava sul punto di collassare. Aveva eseguito una magia molto impegnativa per qualcuno che non mangiava da due giorni. «Mase, prendi le manette» dissi. Senza darci le spalle, Mason indietreggiò di qualche passo, fino alla scatola in cui i nostri rapitori tenevano la loro riserva di lacci. Ne tirò fuori tre, e poi qualcos'altro. Rivolgendomi uno sguardo interrogativo, sollevò un rotolo di nastro adesivo. «Perfetto» dissi. Legammo i nostri rapitori alle sedie. Uno di loro era rimasto cosciente, ma mettemmo ko anche lui e poi tappammo loro la bocca col nastro adesivo. Avrebbero potuto riprendere i sensi, e non volevo correre il rischio che facessero rumore. Dopo aver liberato Eddie e Mia, ci consultammo e pianificammo la mossa seguente. Christian ed Eddie si reggevano in piedi a fatica, ma almeno Christian si rendeva conto di ciò che gli stava attorno. Il viso di Mia era solcato di lacrime, ma mi pareva in grado di eseguire degli ordini. Questo faceva di Mason e me i più efficienti del gruppo. «Stando all'orologio di quel tizio è mattina» disse. «Non dobbiamo far altro che uscire, e non potranno più toccarci. A meno che non ci siano altri umani...» «Hanno detto che Isaiah non c'era» disse Mia a bassa voce. «Dovremmo poter scappare, non è così?» «Questi tizi sono qui da ore» dissi. «Forse si sono sbagliati. Non possiamo permetterci di commettere qualche sciocchezza.» Mason aprì la porta della stanza con cautela e sbirciò nel corridoio deserto. «Secondo te c'è un modo di uscire da qui sotto?» «Questo ci semplificherebbe un bel po' la vita» mormorai. Mi voltai per guardare gli altri. «Restate qui. Noi andiamo a controllare il resto dello scantinato.» «E se arriva qualcuno?» esclamò Mia. «Non arriverà nessuno» la rassicurai. Ero assolutamente certa che non ci fosse nessun altro nel seminterrato; altrimenti, con tutto quel baccano, si sarebbe già fatto vivo. E nel caso in cui qualcuno avesse provato a scendere le scale, noi ce ne saremmo accorti subito. Ciononostante, Mason e io esplorammo lo scantinato muovendoci con cautela, guardandoci le spalle a vicenda e controllando dietro ogni angolo. Si rivelò il labirinto che ricordavo dall'inizio della nostra prigionia. Corridoi contorti e una marea di stanze. Una per volta, aprimmo tutte le porte. Le stanze erano vuote, a parte una sedia o due di tanto in tanto. Ebbi un fremito al pensiero che con ogni probabilità venissero utilizzate come prigioni, proprio come la nostra. «Non c'è una sola, maledetta finestra» borbottai quando terminammo l'ispezione. «Dobbiamo salire di sopra.» C'incamminammo verso la nostra stanza, ma prima di arrivarci Mason mi afferrò la mano. «Rose...» Mi fermai e sollevai lo sguardo. «Sì?» I suoi occhi azzurri - seri come mai li avevo visti prima - mi guardavano carichi di rammarico.

«Ho combinato un gran casino.» Pensai alla sequenza di avvenimenti che ci avevano condotto fino a questo punto. «Abbiamo combinato un casino, Mason.» Sospirò. «Quando tutto questo sarà finito spero... spero che potremo sederci a fare due chiacchiere e sistemare le cose. Non avrei mai dovuto prendermela con te.» Avrei voluto confidargli che non sarebbe mai successo, perché quando era scomparso, in realtà stavo andando a dirgli che le cose tra di noi non sarebbero migliorate. Ma poiché non mi sembrava né il momento né il posto adatto per troncare la nostra storia, dissi una bugia. Gli strinsi la mano. «Lo spero anch'io.» Lui sorrise, e tornammo dagli altri. «Okay» dissi loro. «Ecco ciò che faremo.» Abbozzammo un piano in fretta e furia, poi strisciammo su per le scale. Io aprivo la fila, seguita da Mia che cercava di sorreggere un Christian riluttante. Mason chiudeva la fila, trascinandosi dietro Eddie. «Dovrei andare per primo» mormorò Mason quando giungemmo in cima alle scale. «No» ribattei io, appoggiando la mano sul pomello della porta. «Sì, ma se succede qualcosa...» «Mason» lo interruppi. Lo guardai severa, e d'improvviso mi venne in mente mia madre, il giorno in cui era stato comunicato l'attacco ai Drozdov. Calma e padrona di sé, pur dopo un fatto tanto tremendo. Allora c'era stato bisogno di un leader, proprio come in questo momento, in questo gruppo, e io feci del mio meglio per comportarmi come lei. «Se succede qualcosa, tu dovrai portare gli altri fuori. Correte lontano e veloce. Non farti rivedere senza una squadra di guardiani.» «Ma così sarai tu la prima a essere attaccata! Cosa dovrei fare?» sibilò lui. «Abbandonarti?» «Sì. Se avrai la possibilità di uscire, dimenticati di me.» «Rose, non ho intenzione di...» «Mason.» Visualizzai di nuovo mia madre, e mi sforzai di avere la stessa forza e lo stesso potere di guidare gli altri. «Sei in grado di farlo oppure no?» Ci fissammo per alcuni istanti; gli altri trattenevano il fiato. «Posso farlo» disse con piglio risoluto. Annuii e mi voltai. Quando l'aprii, la porta del seminterrato cigolò, e quel suono mi strappò una smorfia. Avevo a malapena il coraggio di respirare, e rimasi immobile in cima ai gradini, in attesa e allerta. La casa e i suoi arredi bizzarri parevano uguali a quando eravamo stati portati lì. Tende scure coprivano ogni finestra, ma lungo i bordi filtrava la luce. La luce del sole non aveva mai avuto un sapore così dolce. Perché in questo momento significava libertà. Non c'erano rumori né movimenti. Guardandomi attorno cercai di ricordare dove si trovasse la porta d'ingresso. Era dal lato opposto dell'abitazione, non così lontana in teoria, ma in quel momento la distanza era un abisso insormontabile. «Vieni a dare un'occhiata con me» sussurrai a Mason, nella speranza di farlo sentire meglio dopo averlo costretto a restare indietro. Lasciò Eddie appoggiato a Mia per un momento e avanzammo insieme per una rapida esplorazione della zona giorno. Niente. Da lì alla porta d'ingresso, il campo era libero. Tirai un sospiro di sollievo. Mason tornò a sorreggere Eddie e procedemmo, tesi e agitati. Dio. Mi resi conto che stavamo per farcela. Stavamo davvero per farcela. Stentavo a credere a quanto fossimo stati

fortunati. Ci eravamo trovati a un passo dalla rovina, e ce l'avevamo fatta giusto in tempo. Era uno di quei momenti capaci di farti apprezzare la vita e di farti venire voglia di darle una svolta. Una seconda opportunità che avresti giurato di non sprecare mai. La consapevolezza che... Avvertii il loro movimento quasi nel medesimo istante in cui li vidi pararsi davanti a noi. Fu come se un prestigiatore avesse fatto apparire Isaiah ed Elena dal nulla. Soltanto che la magia non c'entrava, stavolta. Gli Strigoi si muovevano davvero con quella rapidità. Probabilmente erano in una di quelle stanze al piano terra che credevamo vuote; non avevamo voluto sprecare altro tempo andando a controllarle. Mi infuriai con me stessa per non aver setacciato ogni centimetro del piano. In un recesso della memoria mi sentii schernire da mia madre durante la lezione di Stan: "Non lo so. Mi sembra che abbiate incasinato tutto. Per prima cosa, perché non avete perlustrato il sito per assicurarvi che fosse libero dagli Strigoi? A quanto pare avreste potuto evitarvi un sacco di rogne. " Il karma è proprio una fregatura. «Bambini, bambini» canticchiò Isaiah. «Non è così che si gioca. State infrangendo le regole.» Un sorriso crudele gli si disegnò sulle labbra. Ci trovava divertenti, in nessun modo una minaccia concreta. In tutta onestà? Aveva ragione. «Veloce e lontano, Mason» dissi a bassa voce senza staccare gli occhi dagli Strigoi. «Ohi, ohi... Se gli sguardi potessero uccidere...» Isaiah sollevò le sopracciglia mentre un pensiero gli attraversava la mente. «Non starai mica pensando di potertela vedere con tutti e due da sola?» Ridacchiò. Elena ridacchiò. Io digrignai i denti. No, non credevo di poterli affrontare entrambi. Infatti ero piuttosto sicura che sarei morta. Ma ero anche piuttosto sicura di potermi dimostrare un dannatissimo diversivo, prima di farlo. Mi scagliai contro Isaiah ma puntai la pistola contro Elena. Si può prendere alla sprovvista un umano, non uno Strigoi. In pratica mi avevano vista arrivare ancor prima che mi fossi mossa. Però non immaginavano che avessi una pistola. Isaiah bloccò quasi senza sforzo il mio corpo proiettato contro di lui, ma fui comunque in grado di sparare a Elena prima che lui mi afferrasse il braccio e mi immobilizzasse. Lo sparo mi rimbombò nelle orecchie, ed Elena urlò per il dolore e la sorpresa. Avevo mirato alla pancia, ma ero stata spinta, e così l'avevo colpita alla coscia. Non che importasse. Per lei nessun punto sarebbe stato mortale, però alla pancia le avrebbe fatto molto più male. Isaiah mi stringeva il polso così forte che pensai che mi avrebbe rotto le ossa. Lasciai cadere la pistola. Colpì il pavimento, rimbalzò, e scivolò verso la porta. Elena strillò in preda alla furia e cercò di afferrarmi. Isaiah le disse di controllarsi e mi spinse fuori della sua portata. Per tutto il tempo mi ero dimenata quanto più possibile, non tanto per riuscire a scappare, quanto per essere loro d'impiccio. E poi: il più dolce dei suoni. La porta d'ingresso che si apriva. Mason aveva approfittato del mio diversivo. Aveva lasciato Eddie con Mia e si era lanciato di corsa ad aprire la porta d'ingresso, aggirando me e lo Strigoi che mi aveva immobilizzato. Isaiah si voltò come un fulmine - e quando la luce del sole gli si riversò addosso urlò. Ma malgrado stesse soffrendo, aveva ancora i riflessi pronti. Balzò fuori dalla chiazza di luce e si addentrò nel soggiorno tirando con sé Elena e me, lei per il braccio e me per il collo. «Portali fuori!» gridai. «Isaiah...» cominciò a dire Elena, liberandosi dalla sua presa. Lui mi scaraventò a terra e si voltò, piantando gli occhi sulle sue prede in fuga. Libera dalla sua presa alla gola, boccheggiai in cerca d'aria e, attraverso il groviglio dei miei capelli, diedi un'occhiata alla porta dietro di me. Feci appena in tempo a vedere Mason che trascinava Eddie oltre

la soglia, in quel porto sicuro che la luce rappresentava. Mia e Christian erano già usciti. Per il sollievo scoppiai quasi a piangere. Isaiah tornò a occuparsi di me con la furia di una tempesta. Incombeva su di me in tutta la sua altezza, gli occhi neri e terrificanti. Il viso, benché fosse sempre stato spaventoso, si tramutò in qualcosa che andava quasi oltre ogni possibile capacità di comprensione. Il termine "mostruoso" non ci si avvicinava neppure. Mi tirò in piedi per i capelli. Gridai dal dolore, e lui abbassò la testa in modo che i nostri visi fossero premuti l'uno contro l'altro. «Vuoi un morso, ragazza?» chiese. «Vuoi diventare una sgualdrina di sangue? Be', saprò accontentarti. Nel vero senso della parola. E non sarà piacevole. Non proverai stordimento. Farà male. La compulsione funziona in entrambi i modi, sai, e farò in modo che tu patisca il dolore peggiore della tua vita. Farò anche in modo che la tua morte sia molto, molto lenta. Griderai. M'implorerai di smetterla e di lasciarti morire...» «Isaiah» si lamentò Elena, esasperata. «Ammazzala e basta. Se l'avessi già fatto, come ti avevo detto io, niente di tutto questo sarebbe mai successo.» Lui mantenne la presa su di me, ma spostò lo sguardo su di lei. «Non interrompermi.» «Stai diventando melodrammatico» proseguì Elena. Sì, era davvero piagnucolosa. Non avrei mai creduto che uno Strigoi potesse esserlo. Era quasi buffo. «E sprecone.» «Non permetterti di controbattere» disse lui. «Ho fame. Sto solo dicendo che dovresti...» «Lasciala andare o ti ammazzo.» Ci voltammo tutti in direzione di quella voce, una voce cupa e furibonda. Mason stava sulla porta, incorniciato dalla luce, con in mano la pistola che mi era caduta. Isaiah lo studiò per qualche istante. «Sì, certo» disse alla fine. Aveva l'aria annoiata. «Provaci.» Mason non esitò. Fece fuoco, e continuò a sparare finché non ebbe svuotato l'intero caricatore nel petto di Isaiah. Ogni pallottola costrinse lo Strigoi a indietreggiare un po', ma a parte questo Isaiah restò in piedi e continuò a stringermi. Ecco ciò che significava essere uno Strigoi vecchio e potente. Un proiettile nella coscia poteva far male a un vampiro giovane come Elena. Ma Isaiah? Farsi sparare più volte nel petto era solo una perdita di tempo. Anche Mason lo capì, e mentre abbassava la pistola il suo volto s'irrigidì. «Esci di qui!» gridai. Era ancora al sole, ancora al sicuro. Ma non mi diede ascolto. Corse verso di noi, abbandonando la luce che lo proteggeva. Mi dibattei il doppio, nella speranza di distogliere l'attenzione di Isaiah da Mason. Ma non ne fui capace. Isaiah mi scaraventò addosso a Elena prima che Mason avesse percorso metà della distanza che ci divideva; bloccò e afferrò Mason in un batter d'occhio, proprio come aveva fatto con me un attimo prima. Soltanto che, a differenza del mio caso, Isaiah non immobilizzò le braccia di Mason né lo sollevò per i capelli. E neanche si produsse in interminabili e prolisse minacce a proposito di morti atroci. Si limitò a fermare l'assalto, poi afferrò la testa di Mason con entrambe le mani e le fece compiere una rapida torsione. Si udì uno schiocco rivoltante. Gli occhi di Mason si spalancarono. Poi si spensero. Con un sospiro insofferente Isaiah lasciò andare la presa e gettò il corpo floscio di Mason verso il

punto in cui Elena mi teneva bloccata. Atterrò ai nostri piedi. Ciò che avevo davanti agli occhi cominciò a girare mentre venivo presa dalla nausea e dalle vertigini. «Ecco» disse Isaiah a Elena. «Vedi se ti basta a placare la fame. E conservane un po' per me.»

L'orrore e lo shock mi divorarono, a tal punto che arrivai a pensare che la mia anima sarebbe avvizzita, che il mondo sarebbe finito in quel preciso istante, perché di sicuro, di sicuro dopo tutto questo non sarebbe potuto andare avanti. Avrei voluto gridare il mio dolore all'universo. Avrei voluto piangere fino a liquefarmi. Avrei voluto lasciarmi cadere accanto a Mason e morire insieme a lui. Elena mi lasciò andare, a quanto pareva non rappresentavo più un pericolo ai suoi occhi, visto che mi trovavo tra lei e Isaiah. Si volse al corpo di Mason. E io smisi di provare emozioni. Agii e basta. «Non. Toccarlo.» Non seppi riconoscere la mia stessa voce. Lei fece roteare gli occhi. «Oh, povera me, quanto sei fastidiosa. Comincio a pensarla come Isaiah: ti meriti davvero una morte dolorosa.» Voltandosi, si inginocchiò sul pavimento e voltò Mason sulla schiena. «Non toccarlo!» gridai. La spintonai con pochi risultati. Lei spintonò me, facendomi quasi cadere. Cercai di recuperare l'equilibrio e restare in piedi. Isaiah osservava la scena con divertito interesse; poi il suo sguardo cadde sul pavimento. Il chotki di Lissa mi era caduto dalla tasca del giaccone. Lo raccolse. Gli Strigoi potevano toccare gli oggetti sacri: le storie sulla loro paura delle croci non erano vere. Non potevano entrare in terreni consacrati, tutto qui. Rigirò la croce e fece correre le dita sul dragone inciso. «Ah, i Dragomir» rifletté a voce alta. «Mi ero dimenticato di loro. È piuttosto facile, dimenticarsene. Quanti ne rimangono, uno? Due? Non vale quasi la pena di ricordarsene.» Quei tremendi occhi rossi si concentrarono su di me. «Ne conosci qualcuno? Uno di questi giorni dovrò occuparmi di loro. Non sarà così difficile...» D'improvviso sentii uno scoppio. L'acquario esplose e l'acqua schizzò all'esterno mandando in frantumi il vetro. Alcune schegge volarono nella mia direzione, ma me ne curai appena. La massa d'acqua si fermò a mezz'aria, dando forma a una sfera sbilenca. Che prese a fluttuare. Diretta verso Isaiah. Non riuscii a staccarle gli occhi di dosso, e intanto la mia bocca si spalancò. Anche Isaiah la osservava, più perplesso che intimorito. Almeno finché non gli si avvolse attorno alla faccia e iniziò a soffocarlo. Come i proiettili, neppure l'asfissia l'avrebbe ucciso. Però poteva causargli un bel po' di sofferenze.

Si portò le mani al viso nel disperato tentativo di "strappare" via l'acqua. Era inutile. Le dita la attraversavano. Elena si dimenticò di Mason e balzò in piedi. «Cos'è?» strillò. Scrollò Isaiah nel tentativo inutile di liberarlo. «Che sta succedendo?» Di nuovo, non provai alcuna emozione. Agii soltanto. La mano si chiuse attorno a un grosso pezzo di vetro dell'acquario in frantumi. Era frastagliato e affilato, e mi tagliò la mano. Scattai in avanti e affondai la scheggia nel petto di Isaiah, mirando a quel cuore che con tanta fatica avevo cercato di raggiungere durante gli allenamenti. Immerso nella sfera d'acqua, Isaiah emise un urlo strozzato e crollò a terra. Mentre perdeva i sensi per il dolore, i suoi occhi si rivoltarono. Elena rimase a guardare con occhi fissi, scioccata come lo ero stata io quando Isaiah aveva ucciso Mason. Isaiah non era morto, certo, ma al momento era fuori gioco. L'espressione di lei diceva chiaramente che non l'aveva mai creduto possibile. A quel punto, la cosa più intelligente da fare sarebbe stata correre oltre la porta, nel sole che rappresentava la salvezza. Invece sfrecciai nella direzione opposta, verso il camino. Afferrai una delle spade antiche e mi rivolsi a Elena. Non dovetti fare molta strada, perché si era ripresa dallo shock e si avvicinava. Ringhiando di collera cercò di afferrami. Non mi ero mai esercitata con la spada, ma mi era stato insegnato a combattere con qualunque arma improvvisata riuscissi a trovare. Mi servii della spada per tenere tra noi una certa distanza; i miei movimenti erano impacciati ma efficaci, considerata la situazione. I canini bianchi scintillarono dentro la sua bocca. «Adesso ti farò...» «Soffrire, chiedere pietà, pentirmi di essere nata?» suggerii. Mi ricordai di quando avevo lottato con mia madre, di come mi fossi tenuta per l'intero combattimento sulla difensiva. Questa volta non avrebbe funzionato. Dovevo attaccare. Con un affondo cercai di assestare un colpo a Elena. Non ebbi fortuna. Prevedeva ogni mia mossa. D'improvviso, alle sue spalle Isaiah grugnì mentre cominciava a riaversi. Lei gli lanciò uno sguardo, e quel movimento infinitesimo mi consentì di colpirla con forza al petto. La lama tagliò la stoffa della camicetta e le sfiorò la pelle, ma niente di più. Ciononostante, Elena trasalì e abbassò lo sguardo, in preda al panico. Penso che avesse ancora fresca in mente l'immagine del vetro che affondava nel cuore di Isaiah. E questo era ciò di cui avevo davvero bisogno. Raccolsi tutte le mie forze, indietreggiai di un passo e ruotai su me stessa. La lama della spada si abbatté a lato del collo, con forza e a fondo. Lei si lasciò scappare un lamento orribile, rivoltante, uno strillo che mi fece accapponare la pelle. Cercò di avvicinarsi. La scansai e colpii di nuovo. Si strinse la gola con le mani, e poi le sue ginocchia cedettero. Io colpii e colpii, e ogni volta la spada affondava più a fondo nel suo collo. Decapitare qualcuno era più difficile di quanto pensassi. E la lama smussata di quella vecchia spada probabilmente non era d'aiuto. Alla fine, però, recuperai contatto con la realtà quel tanto che bastava per accorgermi che Elena aveva smesso di muoversi. La testa giaceva sul pavimento, staccata dal corpo, gli occhi vitrei mi guardavano come se lei non riuscisse a credere a ciò che era successo. Eravamo in due. Qualcuno gridava, e per un attimo surreale pensai che si trattasse ancora di Elena. Poi levai lo sguardo e lo rivolsi alla parte opposta della sala. Mia era sulla porta, gli occhi fuori dalle orbite e il colorito di una sfumatura verdastra, come se fosse sul punto di vomitare. A freddo, in una piega della mia mente, mi resi conto che era stata lei a far esplodere l'acquario. A quanto pareva le pratiche magiche con l'acqua non erano poi così inutili, dopotutto.

Ancora un po' scosso, Isaiah cercò di tirarsi in piedi. Gli fui addosso prima che potesse farlo davvero, però. La spada sibilò, richiamando sangue e dolore a ogni colpo. Adesso mi sentivo come una veterana. Isaiah ricadde sul pavimento. Nella mente lo rivedevo spezzare il collo di Mason, e continuai a colpire ancora e ancora, più forte che potevo, come se tutta quella furia potesse in qualche modo scacciarne il ricordo. «Rose! Rose!» Annebbiata dall'odio, riuscii a malapena ad accorgermi della voce di Mia. «Rose, è morto!» Con lentezza, tremando, frenai l'ultimo colpo e guardai il corpo e la testa, che adesso non vi era più attaccata. Mia aveva ragione. Era morto. Davvero, davvero morto. Feci correre lo sguardo per la stanza. C'era sangue dappertutto, ma l'orrore che ne derivava non riuscì a toccarmi. Tutto il mio mondo si era ridotto, ridotto a due scopi molto semplici. Uccidere gli Strigoi. Proteggere Mason. Non riuscivo a elaborare nient'altro. «Rose» sussurrò Mia. Tremava, le sue parole erano cariche di paura. Aveva paura di me, non degli Strigoi. «Rose, dobbiamo andarcene. Forza.» Le staccai gli occhi di dosso e abbassai lo sguardo sui resti di Isaiah. Dopo qualche attimo strisciai verso il corpo di Mason, continuando a stringere la spada. «No» gracchiai. «Non posso lasciarlo qui. Potrebbero arrivare altri Strigoi...» Mi bruciavano gli occhi, come se volessi piangere con tutta me stessa. Non ne ero sicura. Dentro di me sentivo ancora pulsare la sete di sangue; violenza e collera erano le uniche emozioni di cui fossi capace. «Rose, torneremo a prenderlo. Non possiamo farci trovare qui, arriveranno altri Strigoi.» «No» ripetei senza nemmeno guardarla. «Non lo lascerò. Non voglio lasciarlo solo.» Con la mano libera accarezzai i capelli di Mason. «Rose...» Alzai di scatto la testa. «Fuori di qui!» le gridai contro. «Va' via, e lasciaci soli.» Avanzò di qualche passo, e io sollevai la spada. Lei si immobilizzò. «Fuori di qui» ripetei. «Va' a cercare gli altri.» Mia indietreggiò lentamente fino alla porta. Mi lanciò un ultimo sguardo disperato prima di correre fuori. Calò il silenzio, e io allentai la presa sulla spada, rifiutandomi però di lasciarla andare. Il corpo mi si piegò in avanti, e posai la testa sul petto di Mason. Persi coscienza di ogni cosa: del mondo attorno a me, del tempo stesso. Potevano essere trascorsi alcuni secondi. Potevano essere trascorse molte ore. Non ne avevo idea. Non mi rendevo conto di nulla, tranne che non potevo lasciare solo Mason. Vivevo in una condizione alterata, una condizione nella quale a stento sapeva tenere a bada l'orrore e il dolore. Non potevo credere che Mason fosse morto. Non riuscivo a credere di aver chiamato a me la morte. Finché mi rifiutavo di accettare queste due cose, potevo far finta che non fossero accadute. Alla fine si levarono voci e rumori di passi, e io sollevai la testa. Delle persone si riversarono all'interno attraverso la porta, molte persone. Non riconobbi nessuno di loro. Non ce n'era bisogno. Erano minacce, minacce da cui dovevo proteggere Mason. Qualcuno si avvicinò, e io balzai in piedi, sollevando la spada e reggendola a difesa del suo corpo. «State indietro» li avvisai. «Stategli lontani.» Continuarono ad avanzare.

«State indietro!» gridai. Si fermarono. Tranne uno. «Rose» disse, calma. «Lascia andare la spada.» Le mani mi tremavano. Deglutii. «State lontani da noi.» «Rose.» La voce parlò di nuovo, una voce che la mia anima avrebbe saputo riconoscere dovunque. Con qualche indugio, alla fine permisi alla mia mente di guardare ciò che avevo attorno, di accorgersi dei dettagli. Lasciai che il mio sguardo si concentrasse sulle fattezze dell'uomo che mi stava davanti. Gli occhi di Dimitri, gentili e risoluti, mi guardavano. «Va tutto bene» disse. «Andrà tutto bene. Puoi lasciare la spada.» Lottai per mantenere salda la presa sull'elsa e le mie mani presero a tremare ancora di più. «Non posso.» Mentre venivano fuori, le parole mi ferirono. «Non posso lasciarlo solo. Devo proteggerlo.» «L'hai fatto» disse Dimitri. La spada mi cadde di mano, e atterrò sul pavimento di legno con clangore. Io la seguii, crollando carponi, con la voglia di piangere ma senza riuscirci ancora. Dimitri mi strinse tra le braccia mentre mi aiutava a rialzarmi. Attorno a noi era tutto un brulicare di voci, e una per volta riconobbi le persone che conoscevo e di cui mi fidavo. Dimitri fece per trascinarmi verso la porta, ma mi rifiutai di muovermi. Non ci riuscivo. Mi aggrappai alla sua camicia, sgualcendo la stoffa. Dimitri mi scostò i capelli dal viso continuando a cingermi con un braccio. Appoggiai la testa su di lui, e Dimitri continuò ad accarezzarmi i capelli, bisbigliando qualcosa in russo. Non capivo, ma il tono gentile mi tranquillizzò. I guardiani si sparpagliarono per la casa setacciandola a fondo. Un paio di loro si avvicinarono e si inginocchiarono accanto a quei corpi che ancora mi rifiutavo di guardare. «È stata lei? Tutti e due?» «Saranno anni che a quella spada non rifanno il filo!» Un suono buffo mi si impigliò in gola. Dimitri mi strinse la spalla con fare rassicurante. «Uscite di qui, Belikov» disse una donna alle sue spalle; aveva una voce familiare. Dimitri mi strinse di nuovo la spalla. «Coraggio, Roza. È ora di andare.» Questa volta lo seguii. Mi guidò fuori dalla casa, e mi sorresse mentre mi sforzavo di muovermi. Ogni passo uno strazio. La mia mente si rifiutava ancora di elaborare l'accaduto. Mi limitavo più o meno a seguire le semplici indicazioni che mi venivano date da chi mi stava attorno. Alla fine mi ritrovai su un jet dell'Accademia. I motori rombarono durante il decollo. Dimitri mi bisbigliò che sarebbe tornato subito e mi lasciò seduta da sola al mio posto. Tenni lo sguardo fisso davanti a me, e studiai i dettagli del sedile di fronte. Qualcuno mi si sedette accanto e mi avvolse una coperta attorno alle spalle. Solo allora mi accorsi di quanto stessi tremando. Tirai il bordo della coperta. «Ho freddo» dissi. «Perché ho così freddo?» «Sei sotto shock» rispose Mia. Mi voltai a guardarla, e ne esaminai i ricci biondi e gli occhi azzurri. Vedendola, qualcosa diede libero sfogo ai miei ricordi. Mi crollò tutto addosso. Serrai gli occhi. «Oddio» sussurrai. Aprii gli occhi e tornai a concentrarmi su di lei. «Mi hai salvata. Quando hai fatto esplodere la vasca dei pesci mi hai salvata. Non avresti dovuto farlo. Non saresti dovuta tornare.»

Fece spallucce. «Tu non avresti dovuto prendere la spada.» Giusta obiezione. «Grazie» le dissi. «Quello che hai fatto... non mi sarebbe mai venuto in mente. È stato geniale.» «Non saprei» rifletté lei con un sorriso mesto. «L'acqua non è granché come arma, ricordi?» Soffocai una risata malgrado non trovassi affatto divertenti quelle mie vecchie parole. Non più. «L'acqua è un'arma formidabile» dissi alla fine. «Quando torniamo dobbiamo esercitarci a usarla.» Il viso le si illuminò. I suoi occhi si accesero di determinazione. «Mi piacerebbe. Più di tutto.» «Mi dispiace... mi dispiace per tua mamma.» Mia si limitò ad annuire. «Sei fortunata ad avere ancora la tua. Non sai quanto tu sia fortunata.» Mi girai e tornai a fissare il sedile. Le parole che qualche attimo dopo mi uscirono di bocca mi lasciarono esterrefatta. «Vorrei che fosse qui.» «È qui» disse Mia. Sembrava sorpresa. «Era nel gruppo che ha fatto irruzione in casa. Non l'hai vista?» Scossi la testa. Ci zittimmo. Mia si alzò e se ne andò. Un minuto più tardi, qualcun altro si sedette al suo posto. Non avevo bisogno di guardarla, per sapere chi fosse. Lo sapevo e basta. «Rose» disse mia madre. Per una volta non mi diede l'impressione di essere sicura di sé. Spaventata, forse. «Mia ha detto che volevi vedermi.» Non risposi. Non la guardai. «Di cosa... di cosa hai bisogno?» Non avevo idea di cosa avessi bisogno. Non avevo idea di cosa fare. Il bruciore agli occhi divenne insopportabile, e prima di rendermene conto, stavo piangendo. Grandi, dolorosi singhiozzi mi squassarono il corpo. Le lacrime che avevo trattenuto così a lungo si riversarono sul mio viso. La paura e il dolore che mi ero rifiutata di provare finalmente trovarono sfogo, ardendomi nel petto. Stentavo a respirare. Mia madre mi cinse con un braccio, e io le affondai il viso nel petto, singhiozzando ancora più forte. «Lo so» disse piano, stringendomi con più forza a sé. «Capisco.»

Il giorno della cerimonia dei miei molnija la temperatura si alzò un po'. A dirla tutta faceva così caldo che la neve nel campus cominciò a sciogliersi, e prese a scorrere in fiumiciattoli sottili e argentei lungo i fianchi degli edifici di pietra dell'Accademia. Mancava ancora molto tempo alla fine dell'inverno, quindi sapevo che di lì a qualche giorno si sarebbe ricongelato tutto. Per il momento, però, sembrava che il mondo intero stesse piangendo. Ero uscita dall'incidente di Spokane solo con qualche ferita e lividi leggeri. Le ustioni provocate dallo scioglimento delle manette flessibili erano le ferite peggiori. Ma avevo ancora molte difficoltà ad affrontare le morti che avevo causato e quelle a cui avevo assistito. All'inizio avevo avvertito il desiderio di rannicchiarmi da qualche parte e non parlare con nessuno, tranne che con Lissa, forse. Il quarto giorno dal mio ritorno in Accademia, però, mia madre mi aveva stanato e mi aveva detto che era venuto il momento di ricevere i miei tatuaggi. Ci avevo messo un po' per capire che cosa intendesse. Poi mi era venuto in mente che decapitando due Strigoi mi ero guadagnata due molnija. I miei primi. Il pensiero mi aveva stordita. Desideravo una carriera da guardiano, e quindi avevo atteso per tutta la vita il momento di riceve i molnija. Li vedevo come un simbolo d'onore. Ma adesso? Sarebbero stati anzitutto il ricordo di qualcosa che avrei voluto dimenticare. La cerimonia si svolse nell'edificio dei guardiani, in un'ampia sala usata per meeting e banchetti. Non aveva nulla a che vedere con l'enorme sala da pranzo del rifugio. Era pratica e concreta, come i guardiani. La moquette era di un grigio azzurrognolo, bassa e fitta. Alle spoglie pareti bianche erano appese molte fotografie in bianco e nero della St. Vladimir's nel corso degli anni. Non c'erano altri addobbi e neppure una banda, ma la solennità e l'intensità dell'occasione erano palpabili. Tutti i guardiani del campus - ma non i novizi - vi prendevano parte; gremivano la sala raccolti in gruppetti, senza parlare. Quando la cerimonia ebbe inizio si suddivisero in file ordinate senza che nessuno avesse ordinato loro di farlo e presero a fissarmi. Io ero su un inginocchiatoio in un angolo della sala, china in avanti, coi capelli che mi scendevano davanti alla faccia. Di fronte a me un guardiano di nome Lionel reggeva un ago da tatuatore da utilizzare sulla mia nuca. Conoscevo Lionel da quando ero arrivata all'Accademia, ma non mi era mai passato per la mente che lo avessero addestrato per tatuare i molnija. Prima di iniziare scambiò qualche bisbiglio con mia madre e Alberta. «Non riceverà il marchio della promessa» disse lui. «Non si è diplomata.» «Può capitare» disse Alberta. «Ha ucciso. Falle i molnija, e in seguito riceverà il marchio della promessa.» Considerato il dolore al quale mi sottoponevo regolarmente, non mi aspettavo che i tatuaggi facessero così male. Però mi morsi il labbro e restai in silenzio mentre Lionel mi tatuava. L'operazione sembrò durare un'eternità. Quando ebbe finito recuperò un paio di specchi, e dopo qualche manovra fui in grado di vedermi la nuca. Sulla pelle arrossata e sensibile, l'uno di fianco all'altro, c'erano due minuscoli tatuaggi neri. In russo molnija significava "fulmini", ed era questo che la loro forma dentellata voleva ricordare. Due molnija. Uno per Isaiah, uno per Elena. Dopo che li ebbi visti, Lionel li coprì con una benda e mi diede qualche istruzione su come curarli mentre cicatrizzavano. Mi persi gran parte delle parole, ma immaginai di poter richiedere

informazioni in seguito. Ero ancora piuttosto scioccata dall'accaduto. Dopodiché i guardiani presenti si fecero avanti uno alla volta. Ciascuno di loro mi diede una dimostrazione di affetto - un abbraccio, un bacio sulla guancia - e mi disse qualcosa di carino. «Benvenuta nella truppa» disse Alberta con un'espressione gentile sul viso indurito dal tempo, mentre mi tirava a sé per stringermi in un abbraccio. Quando giunse il suo turno, Dimitri non parlò, ma come sempre furono i suoi occhi a dire un'infinità di cose. La sua espressione era carica d'orgoglio e di amorevolezza, e io ricacciai indietro le lacrime. Mi posò una mano sulla guancia con delicatezza, poi annuì, e andò via. Quando Stan - l'istruttore con cui avevo litigato più volte sin dal primo giorno - mi abbracciò e disse: «Ora sei una di noi. Ho sempre saputo che saresti diventata una dei migliori», mi sentii sul punto di svenire. E infine, quando fu il turno di mia madre, non potei evitare alle lacrime di scorrermi sulle guance. Lei le asciugò e mi sfiorò la nuca con le dita. «Non scordare mai» mi disse. Nessuno disse: "Congratulazioni" e io ne fui lieta. Quando c'era di mezzo la morte, non c'era nulla di cui essere grati. Una volta terminata la cerimonia, furono serviti cibo e bevande. Andai al buffet e mi preparai un piatto con alcune miniquiche alla feta e una fetta di cheesecake al mango. Mangiai senza assaporare il cibo, e mentre rispondevo alle domande degli altri, per metà delle volte non mi rendevo neppure conto di ciò che dicevo. Era come se fossi una Rose robot, che faceva tutto ciò che ci si aspettava da lei. Sulla nuca, la pelle bruciava per via dei tatuaggi, e nella mia mente continuavo a rivedere gli occhi azzurri di Mason e quelli rossi di Isaiah. Mi sentivo in colpa perché non riuscivo a godermi come avrei dovuto il mio grande giorno, ma quando alla fine il gruppo iniziò a disperdersi ne fui sollevata. Mia madre si avvicinò mentre gli altri mormoravano i propri saluti. A parte le parole dette durante la cerimonia, non avevamo mai parlato dopo la mia crisi di nervi sull'aereo. La cosa mi pareva ancora un po' buffa, e mi faceva anche sentire un po' in imbarazzo. Lei non ne aveva parlato, ma di fatto qualcosa nella natura del nostro rapporto era cambiato. Eravamo ancora lontane dall'essere amiche... ma non eravamo più nemiche. «Lord Szelsky partirà presto» mi disse mentre ci trovavamo accanto all'ingresso dell'edificio, non lontano da dove le avevo urlato contro, il primo giorno in cui avevamo parlato. «Andrò con lui.» «Lo so» dissi. Era indubbio che dovesse partire. Era così che andava. I guardiani seguivano i Moroi. Loro venivano prima. Rimase a guardarmi per qualche istante, gli occhi castani pensierosi. Per la prima volta dopo molto tempo ebbi l'impressione che ci stessimo davvero guardando negli occhi, e non che mi guardasse dall'alto in basso. Ed era anche ora, tra l'altro, visto che l'avevo ormai superata di una ventina di centimetri. «Sei stata brava» disse alla fine. «Considerate le circostanze.» Era un mezzo complimento soltanto, ma non mi meritavo di più. Ora capivo gli sbagli e gli errori di valutazione che avevano portato agli avvenimenti in casa di Isaiah. Alcuni erano imputabili a me; altri no. Avrei voluto poter cambiare alcune delle mie azioni, ma in fondo sapevo che mia madre aveva ragione. Avevo fatto del mio meglio, considerato l'inferno che mi ero ritrovata davanti. «Uccidere degli Strigoi non è stato affascinante come pensavo» le dissi. Mi fece un sorriso triste. «No. Non lo è mai.» Allora pensai a tutti i tatuaggi che aveva sul collo, a tutte quelle uccisioni. Ebbi un fremito. «Oh, ehi.» Col desiderio di cambiare argomento mi frugai in tasca e tirai fuori il piccolo pendente

a forma di occhio blu che mi aveva regalato. «Quest'affare che mi hai dato. È un n-nazar?» m'inceppai sulla parola. Sembrò sorpresa. «Sì. Come lo sai?» Non avevo voglia di spiegarle del mio sogno con Adrian. «Me l'ha detto qualcuno. È in grado di proteggermi, vero?» Un'espressione pensierosa le percorse il viso, poi espirò e annuì. «Sì. È così secondo un'antica credenza mediorientale... alcune persone sono convinte che chi vuole farti del male possa lanciarti contro una maledizione o il malocchio. Il nazar serve per neutralizzare il malocchio... e in generale protegge chi lo indossa.» Feci correre le dita su quel pezzo di vetro. «Medio Oriente... quindi posti tipo, uhm, la Turchia?» Le labbra di mia madre si arricciarono. «Posti precisamente come la Turchia.» Esitò. «Era... un regalo. Un regalo che ho ricevuto molto tempo fa...» Il suo sguardo si appannò, perdendosi nei ricordi. «Quando avevo la tua età ricevevo un sacco di... attenzioni da parte degli uomini. Attenzioni che all'inizio parevano lusinghiere, ma che alla fine non lo erano affatto. A volte è difficile cogliere la differenza tra chi prova un affetto sincero e chi invece vuole approfittarsi di te. Ma quando si prova qualcosa di vero... be', lo capirai.» Allora compresi perché era così iperprotettiva riguardo alla mia reputazione: da giovane aveva compromesso la sua. Magari il danno era stato anche maggiore. Mi resi anche conto del perché mi avesse regalato il nazar. Gliel'aveva regalato mio padre. Pensavo che non avesse più voglia di parlarne, e così non chiesi nulla. Sapere che dopotutto la loro relazione forse, forse non era stata soltanto una questione di convenienza e di geni mi bastava. Ci salutammo, e tornai a lezione. Tutti sapevano dove fossi stata quella mattina, e i miei compagni novizi volevano vedere i miei molnija. Non li biasimavo. A ruoli invertiti, mi sarei rosa d'invidia anch'io. «Dai, Rose» m'implorò Shane Reyes. Avevamo terminato l'allenamento mattutino, e continuava a tirarmi la coda di cavallo. Presi mentalmente nota di portare i capelli sciolti, l'indomani. Diversi altri ci vennero dietro e fecero eco alle sue richieste. «Sì, dai. Vediamo cos'hai ricevuto per le tue abilità di spadaccina!» I loro occhi brillavano di entusiasmo ed eccitazione. Ero un'eroina, la compagna di classe che aveva ucciso i capi del branco nomade di Strigoi che ci aveva terrorizzato per tutte le vacanze. Tuttavia incrociai lo sguardo di qualcuno che si teneva in fondo al gruppo, qualcuno che non aveva l'aria né entusiasta né esaltata. Eddie. Mi guardò negli occhi e mi fece un sorrisetto triste. Lui capiva. «Mi dispiace, ragazzi» dissi rivolta agli altri. «Devono restare bendati. Ordini del dottore.» L'affermazione fu accolta da lamentele che presto si trasformarono in domande su come avessi ucciso gli Strigoi. La decapitazione era uno dei metodi più complicati e rari per uccidere un vampiro; non è che portarsi dietro una spada fosse così pratico. Feci del mio meglio per raccontare ai miei amici cos'era successo, attenendomi ai fatti senza esaltare le uccisioni. La fine delle lezioni non avrebbe potuto essere più gradita, e Lissa mi accompagnò al mio alloggio. Dalle vicende di Spokane, lei e io non avevamo avuto occasione di parlare molto. Ero stata sottoposta a un mucchio di interrogatori, e poi c'era stato il funerale di Mason. Coi membri reali in procinto di lasciare il campus, anche Lissa era stata distratta da altro, e così non aveva avuto tempo da dedicarmi. Averla accanto mi faceva sentire meglio. Anche se ero in grado di trovarmi nella sua testa in ogni momento, la cosa non aveva nulla a che fare con lo stare davvero, fisicamente, vicino a una persona in carne e ossa che teneva a te.

Quando arrivammo alla porta della mia camera vidi un bouquet di fresie posato sul pavimento in corridoio. Sospirai e raccolsi i fiori profumati senza neppure guardare il biglietto allegato. «E questi?» chiese Lissa mentre aprivo la porta. «Me li ha mandati Adrian» dissi. Entrammo, e feci un cenno alla scrivania, dove erano posati altri mazzi di fiori. Vi appoggiai accanto le fresie. «Quando lascerà il campus ne sarò felice. Non credo di poterlo sopportare ancora per molto.» Lei si voltò verso di me sorpresa. «Oh. Ehm, quindi non lo sai.» La fitta che mi raggiunse attraverso il legame mi avvisò che era in arrivo qualcosa di sgradito. «Sapere cosa?» «Ehm, non parte. Resterà qui per un po'.» «Deve partire» ribattei. A quanto ne sapevo, l'unica ragione per cui era venuto era il funerale di Mason, e ancora non capivo bene perché l'avesse fatto, visto che lo conosceva a malapena. Forse Adrian lo aveva fatto solo per mettersi in mostra. O forse per continuare a perseguitare Lissa e me. «Va al college. O al riformatorio. Non lo so, ma comunque ha qualcosa da fare.» «Si prende un semestre di pausa.» La fissai con tanto d'occhi. Vedendo il mio stupore sorrise, e annuì. «Resterà e lavorerà con me... e la signora Carmack. Per tutto questo tempo non sapeva neanche cosa fosse, lo spirito. Sa solo di non essersi specializzato e di avere queste strane capacità. Se le è tenute per sé, a parte quando ha incontrato qualche altro conoscitore dello spirito. Ma nemmeno gli altri sapevano molto più di quanto non sapesse lui.» «Avrei dovuto capirlo prima» riflettei. «Stargli vicino mi dava una strana sensazione... avevo sempre voglia di parlargli, capisci? Aveva questo... ascendente. Come te. Credo sia dovuto allo spirito e alla compulsione, o qualunque cosa sia. Me lo faceva piacere... anche se non mi piace.» «No?» mi stuzzicò lei. «No» risposi inflessibile. «E non mi piace neppure quella faccenda dei sogni.» I suoi occhi color giada si spalancarono per la meraviglia. «È fortissima» disse. «Tu sei sempre stata in grado di sapere cosa mi capitava, ma io non ho mai potuto comunicare con te. Sono felice che siate riusciti a scappare... però mi sarebbe piaciuto sapere questa cosa dei sogni ed essere d'aiuto per ritrovarvi.» «Io no» dissi. «Sono felice che Adrian non ti abbia convinta a sospendere i farmaci.» L'avevo scoperto soltanto qualche giorno dopo essere tornata da Spokane. A quanto pareva Lissa si era rifiutata di seguire il consiglio di Adrian, per il quale smettere di prendere le pillole le avrebbe permesso di saperne di più sullo spirito. In seguito mi aveva però confidato che se Christian e io non fossimo stati ritrovati in così poco tempo, avrebbe potuto cedere. «In questo periodo come ti senti?» chiesi, ricordandomi delle sue preoccupazioni a proposito delle medicine. «Ti sembra ancora che le pillole non facciano più effetto?» «Mmh... be', è difficile da spiegare. Continuo a sentirmi più vicina alla magia, come se non mi ostacolassero più così tanto. Però non avverto più nessuno degli effetti collaterali di natura psicologica... non mi sento né turbata né niente.» «Wow, è grandioso.» Un bel sorriso le illuminò il volto. «Lo so. Mi fa sperare di poter imparare a controllare la magia, un giorno.» Vederla così felice mi fece sorridere a mia volta. Non mi era piaciuto veder tornare quei

sentimenti oscuri ed ero lieta che fossero scomparsi. Non capivo né come né perché. Ma finché Lissa si sentiva bene... Tutti hanno luce attorno a sé, tutti tranne te. Tu hai tenebre. Le hai avute da Lissa. Le parole di Adrian mi tornarono in mente con violenza. Provai un certo disagio nel ripensare al mio comportamento nell'ultimo paio di settimane. Alcuni dei miei scatti d'ira. La mia insubordinazione, insolita persino per me. Quel grumo di emozioni tetre che mi si agitava in petto... Giunsi alla conclusione che no, non c'erano analogie. I sentimenti oscuri di Lissa traevano origine dalla magia. I miei derivavano dallo stress. Tra l'altro, adesso mi sentivo bene. Vedendo che mi guardava, cercai di ricordare a che punto fossimo rimaste con la conversazione. «Magari troverai un modo per controllarla. Voglio dire, se Adrian è riuscito a trovare il modo di utilizzare lo spirito senza prendere farmaci...» Lei scoppiò a ridere all'improvviso. «Non l'hai capito, vero?» «Cosa?» «Che anche Adrian prende qualcosa.» «Ah, sì? Ma ha detto...» grugnii. «Ma certo. Le sigarette. L'alcol. Dio solo sa cos'altro.» Lei annuì. «Già. Ha sempre qualcosa in circolo nell'organismo.» «Ma forse non di notte... ed è per questo che può fare capolino nei miei sogni.» «Ragazzi, quanto vorrei saperlo fare» sospirò. «Forse un giorno lo imparerai. Però nel frattempo cerca di non diventare un'alcolista.» «Certo che no» mi rassicurò. «Ma imparerò. Non sa farlo nessuno degli altri conoscitori dello spirito. Be', a parte san Vladimir. Imparerò, proprio come lui. Imparerò a servirmene, e non lascerò che mi faccia del male.» Sorrisi, e le toccai la mano. Avevo totale fiducia in lei. «Lo so.» Rimanemmo a parlare per gran parte del pomeriggio. Ci separammo quando arrivò l'ora del mio solito allenamento con Dimitri. Mentre mi allontanavo riflettei su una cosa che mi preoccupava. Nonostante i branchi di Strigoi responsabili degli attacchi fossero numerosi, i guardiani erano sicuri che Isaiah fosse il loro capo. Questo non voleva dire che in futuro non ci sarebbero state altre minacce, ma pensai che ci sarebbe voluto un po' prima che i suoi seguaci si ricompattassero. Però non potevo fare a meno di pensare alla lista che avevo visto nei cunicoli a Spokane, quella che elencava le casate reali per dimensioni. E Isaiah aveva fatto il nome dei Dragomir. Sapeva che si erano quasi estinti, e sembrava propenso a diventare colui che li avrebbe sterminati. Certo, adesso era morto... ma non era possibile che là fuori ci fossero altri Strigoi della sua stessa idea? Scossi la testa. Non potevo preoccuparmene. Non quel giorno. Dovevo ancora riprendermi dal resto. Presto, però. Presto avrei dovuto affrontare tutto questo. Non ero neppure sicura che l'allenamento ci fosse, ma andai comunque negli spogliatoi. Dopo aver indossato la mia tenuta sportiva scesi in palestra e trovai Dimitri in una sala per gli attrezzi, intento a leggere uno dei romanzi western che gli piacevano tanto. Quando entrai alzò lo sguardo. Negli ultimi giorni ci eravamo visti poco e mi ero immaginata che fosse con Tasha. «Ho pensato che saresti passata» disse, mettendo un segnalibro tra le pagine. «È l'ora dell'allenamento.» Scosse la testa. «No. Oggi niente allenamento. Hai ancora bisogno di rimetterti.» «La mia cartella medica è immacolata. Sono a posto.» Caricai le mie parole con quanta più

spacconeria targata Rose Hathaway possibile. Dimitri non abboccò. Indicò la sedia che aveva accanto. «Siediti, Rose.» Esitai un solo istante prima di fare come diceva. Avvicinò la sua sedia alla mia in modo che sedessimo precisamente l'uno davanti all'altra. Il cuore iniziò a battermi forte alla vista di quei magnifici occhi scuri. «Nessuno si riprende dalla sua prima uccisione... dalle sue prime uccisioni... con facilità. Persino se si ha a che fare con degli Strigoi... Tecnicamente, si tratta comunque di togliere una vita. È difficile fare i conti con una cosa del genere. E dopo tutto quello che hai passato...» Sospirò, poi si sporse in avanti e mi prese la mano. Le sue dita erano proprio come le ricordavo, lunghe e forti, piene di calli dovuti agli anni di allenamenti. «Quando ho visto la tua espressione... quando ti abbiamo trovata in quella casa... non puoi immaginarti come mi sia sentito.» Deglutii. «Come... come ti sei sentito?» «Devastato... afflitto. Eri viva, ma il tuo aspetto... pensavo che non ti saresti mai più ripresa. E il pensiero che fosse successo quando ancora sei così giovane mi lacerava.» Mi strinse la mano. «Ti riprenderai, ora lo so e ne sono felice. Ma non l'hai ancora fatto. Non ancora. Non è mai semplice perdere qualcuno a cui si voleva bene.» Abbassai gli occhi al pavimento. «È colpa mia» dissi a voce bassa. «Uhm?» «Mason. Che è stato ucciso.» Non avevo bisogno di vedere il viso di Dimitri per sapere che era pervaso dalla compassione. «Oh, Roza. No. Hai preso delle decisioni sbagliate... quando hai scoperto che era scomparso avresti dovuto dirlo a qualcuno... ma non puoi incolparti. Non sei stata tu a ucciderlo.» Quando alzai lo sguardo le lacrime mi riempivano gli occhi. «È come se l'avessi fatto. Il motivo per cui ci è andato... è colpa mia. Avevamo litigato... e io gli avevo parlato di Spokane, anche se tu mi avevi chiesto di non farlo...» Una lacrima mi scivolò giù dall'angolo dell'occhio. Sul serio, dovevo darmi una regolata. Così come aveva fatto mia madre, Dimitri mi asciugò con delicatezza la lacrima dalla guancia. «Non puoi prendertene la colpa» mi disse. «Puoi pentirti delle tue decisioni e desiderare di aver fatto le cose in un altro modo, ma anche Mason ha fatto le sue scelte. Questo è quello che lui ha scelto di fare. È stata una sua decisione, non importa quale ruolo tu abbia avuto all'inizio.» Mi resi conto che quando era tornato indietro, Mason si era lasciato sopraffare dai sentimenti che provava per me. Era quello che Dimitri aveva sempre temuto: se lui e io avessimo avuto qualunque genere di relazione la cosa ci avrebbe esposto al pericolo, e con noi qualsiasi Moroi fossimo stati chiamati a proteggere. «Vorrei solo essere stata capace... non so, di fare qualcosa...» Ricacciando indietro altre lacrime ritrassi la mano che Dimitri mi teneva e mi alzai, prima di dire qualcosa di stupido. «Ora devo andare» dissi in fretta. «Fammi sapere quando vuoi ricominciare con gli allenamenti. E grazie per... la chiacchierata.» Feci per voltarmi; poi, d'improvviso lo sentii dire «No.» Mi girai per guardarlo. «Cosa?» Resse il mio sguardo, e qualcosa di caldo e meraviglioso e inteso balenò tra di noi. «No» ripeté. «Ho detto di no. A Tasha.» «Io...» Richiusi la bocca prima che la bocca mi si spalancasse del tutto. «Ma... perché? Era

un'occasione unica. Avresti potuto avere un figlio. E lei... lei, sai, era pazza di te...» Sul suo volto affiorò l'ombra di un sorriso. «Sì, è vero, lo era. Lo è. Ed è per questo che ho dovuto dirle di no. Non avrei potuto ricambiare... non avrei potuto darle quello che voleva. Non quando. ..» Fece qualche passo verso di me. «Non quando il mio cuore è altrove.» Per poco non ricominciai a piangere. «Ma sembrava che ti piacesse così tanto. E continuavi a ripetere che mi comporto come una ragazzina.» «Tu ti comporti come una ragazzina» disse, «perché sei una ragazzina. Ma ne sai più di quanto non sappiano persone più grandi di te, Roza. Quel giorno...» Seppi subito a quale giorno si riferisse. Quello di me contro il muro. «Avevi ragione sul fatto che io debba continuare a lottare per dominarmi. Nessun altro se n'era mai accorto, e mi ha fatto paura. Tu mi spaventi.» «Perché? Non vuoi che qualcuno lo sappia?» Scrollò le spalle. «Che lo sappiano o meno non fa differenza. Ciò che importa è che qualcuno che tu - mi conosca così bene. È difficile, quando una persona riesce a guardarti nell'anima. Ti costringe ad aprirti. Ti rende vulnerabile. È molto più semplice stare con qualcuno che sia poco più di un amico qualunque.» «Come Tasha.» «Tasha Ozera è una donna meravigliosa. È bella e coraggiosa. Ma non...» «Non ti capisce» finii. Annuì. «Lo sapevo. Ma desideravo comunque quella relazione. Sapevo che sarebbe stato semplice e che lei avrebbe potuto tenermi lontano da te. Credevo di poterti dimenticare.» Avevo pensato la stessa cosa di Mason. «Ma lei non c'è riuscita.» «Sì. E, quindi... ecco il problema.» «Perché stare insieme sarebbe sbagliato, per noi.» «Sì.» «Per via della differenza di età.» «Sì.» «Ma soprattutto perché saremo i guardiani di Lissa e dobbiamo concentrarci su di lei, non su di noi.» «Sì.» Ci pensai su per un attimo e poi lo guardai dritto negli occhi. «Be'» dissi alla fine, «per come la vedo io, non siamo ancora i guardiani di Lissa.» Mi irrigidii in attesa della risposta. Sapevo che sarebbe stata una delle sue lezioni di vita zen; magari qualcosa a proposito di forza interiore e perseveranza, su come le scelte che compiamo oggi modellino già il nostro futuro o quel genere di assurdità. Invece mi baciò. Mentre si sporgeva in avanti e mi prendeva il viso tra le mani, il tempo si fermò. Si chinò e con la bocca mi sfiorò le labbra. All'inizio fu a malapena un bacio, ma presto crebbe, diventando intenso e profondo. Quando alla fine si ritrasse, fu per baciarmi la fronte. Vi tenne poggiate le labbra per alcuni secondi e intanto mi strinse forte tra le braccia. Avrei voluto che quel bacio durasse in eterno. Sciolse l'abbraccio e mi passò le dita tra i capelli e poi giù, lungo la guancia. Indietreggiò in direzione della porta. «Ci vediamo, Roza.»

«Al prossimo allenamento?» chiesi. «Ricominciamo, vero? Voglio dire... hai ancora delle cose da insegnarmi.» Fermo sulla porta, mi guardò e sorrise. «Sì. Un mucchio di cose.»

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