Adriano Rizzoli dicatum

Sabàh el nùr Palestina! 1Il viaggio che avevo in programma da anni, ha inizio il 13 novembre alla Malpensa con la perdita dell’aereo. Con me c’è Adriano Rizzoli. La partenza, sul promemoria, era fissata per le 11.40, anziché le 10.30 come invece recita il biglietto originale che né io né Adriano c’eravamo preoccupati di controllare. Panico. Io sono disposta a partire pagando un volo economico via Bielorussia, ma Adriano dice “nemmeno per sogno!” e contratta con l’Agenzia “Viaggi di Sogno” di Trento. Recuperiamo il ritorno. L’andata ci costa euro 161 moltiplicato per due. 1

Ci ospita per due giorni Michele Corti insieme a polenta e il mitico Bitto. Mercoledì si va in Duomo, e su e giù per corso Vittorio Emanuele racconto ad Adriano i miei anni milanesi. Ripartiamo il 15. Al check-in conosciamo Mikhaela, un’israeliana che vive a Reggio Emilia da 5 anni e si racconta: ”noi da sempre viviamo nella paura. I miei figli si rifiutavano per mesi di prendere l’autobus per andare a scuola qui in Italia. Ora che sono grandi hanno voluto rientrare in Israele”. All’aeroporto una controller dal viso cattivissimo inizia una filigrana di domande sul soggiorno. “I speak so little english, sino hablo muy bien espaňol” “Ah! Bueno. Yo tambien. Vamos a enterdernos!” E dopo 5 secondi ci lascia passare, mentre Mikhaela dalla fila opposta, ci raccomanda di non prendere mai l’autobus e ci lascia i suoi recapiti assieme al numero della sua carta d’identità. Così a Tel Aviv, che dall’alto sembra una piccola Los Angeles, optiamo per il treno. Dopo una tortuosa ricerca per come arrivare a Gerusalemme, Adriano decide di perdere i 20 schekel dei tickets per il treno, appena acquistati e di prendere la navetta: 12 posti a sedere con vicino un prete napoletano grosso come una montagna e alcuni locali che alitano odore di aglio. Attraversiamo foreste e foreste di pini marittimi, campi di viti dei colòni con una sottile falce di luna nel cielo. Eccoci a Gerusalemme vecchia. Da ogni dove sbucano come topi gli ebrei ortodossi studiosi della Torah, nei loro vestiti lugubri. Ma non volano come nei quadri di Chagall. Un’ora per trovare un taxi e Em Zurim dove ci attende il viso simpaticissimo e accogliente di Pietro Mafezzoli di Garda e, a due passi, l’appartamento di Operazione Colomba: 3 stanze con letti spartani e coperte caldissime. Il mattino ci sveglia un sole appena tiepido, un cinguettio di piccoli alati e di tortore, le voci grezze dei vicini. L’ebraico è così simile all’arabo, ma non così dolce. Scendiamo a far colazione in una vecchia bakery, tra case simili a squallide caserme e cespugli di gelsomino ebraico. Dentro pane e dolci lievitati come nel Vecchio Testamento, fuori un giovane ventenne fa colazione con elmetto in mano e mitra a tracolla. “E’ della riserva”, osserva Pietro. Alle 13.20 partenza per la Cisgiordania con il bus no-apartheid n. 21( che si distingue da quella apartheid a cui è vietato l’accesso ai palestinesi): donne con donne, uomini con uomini, come in Chiesa a Telve fino al ’68. Mi ritrovo seduta accanto ad una anziana palestinese che sgrana un carosello di preghiere islamiche. Porta un velo bianco che le incornicia il viso. Forse Maria portava lo stesso copricapo? Mi offre del pane arabo. Un pezzettino lo ripongo nella tasca del mio zaino. Lo terrò tra i ricordi su a Telve. Ah ecco! Inizia il muro che separa Israele dalla Cisgiordania. Chiedo a Pietro: “Siamo più sicuri su questo bus, vero?” “Probabilmente, ma non poniamoci queste domande. Cerchiamo di essere sempre attivi”, risponde. Ora siamo al check–point. Nessun Miskhila! Nessun problema. Tutt’attorno si apre un paesaggio meraviglioso. Naturali terrazzamenti con viti e olivi a perdifiato. La radio, in sottotono, trasmette una voce di donna che canta il suo dolce lamento. Sembra Hanah Awwad, la poetessa sociale palestinese quando, al Cafè Trieste di San Francisco, recitava la sua Patria perduta. 2

Pietro suggerisce per pranzo i Palafen, polpettine di ceci fritte. Ecco Betlemme ! Il solo nome ti riporta alla piccola grotta con mangiatoia e alito caldo di animali. Invece no, Betlemme è una piccola metropoli vivacissima e ironica, la Hebron Jerusalem road una sorta di Westwood drive con ristorantini arabi e odore di pollo fritto. Ma se la osservi dall’alto è simile a certe cittadine arroccate del sud Italia. Caro Matvejevic, il tuo Breviario Mediterraneo è così attuale anche qui!

2Cambio 100 dollari ad un Change molto invitante per via di due vasi ricolmi di basilico odoroso e in fiore, gestito da un anziano che ha più l’aria del persiano sefardita che dell’arabo palestinese. Capisce che siamo italiani “oh! Maccheroni” esclama. Intanto Pietro contratta per un taxi. Alì è il predestinato al costo di euro 9 x 3. Stiamo attraversando Efrata. Terrazzamenti di pietra rossa si alternano a colonie sioniste, a millenari muri a secco, a campi arati pronti per la semina, a viti. Soprattutto a viti, ma non per trarne vino, ma il Bibliss, una marmellata d’uva e miele.

Un fumo nero e denso ci indica che bruciano immondizia, mentre bambini vestiti di colori vivaci si rincorrono tra gli ulivi. C’è un improvviso cambio di paesaggio da mozzare il fiato.

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Ecco At-Tuwani. Siamo nell’area C, sotto controllo militare. Sono le 17 meno 20. E’ il 16 novembre, un venerdì. Il muezzin scandisce il canto serale della preghiera tra belati di pecore, qualche ulivo, ragli d’asino, l’abbaiare di cani randagi. Siamo a casa! Che porta il nome di Alessandro, Pietro che abbraccia Angela, Giulia che abbraccia Alessandro, Corrado che abbraccia Sara e Silvana che abbraccia tutti. Siamo nella casa di Operazione Colomba, che è poi la casa di Hafez Huraini. Amira, soprannominata Amora, figlia di Hafez mi vuol conoscere, mentre smanetto con Internet, anzi con la California per rassicurare mio figlio che qui in Cisgiordania è tutto tranquillo. Niente da fare: “torna subito a casa, non fare cazzate. Tra poco giù sarà un inferno!”, risponde in un lampo di secondi. Intanto arriva Hafez, il mitico leader della South Hebron Hills Commitee. Mi accoglie dandomi la mano e “thank you and to your association so much “ e mi indica una costruzione candida sulla collina opposta “with your help we were able to finish the school”.

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Chiedo ad Hafez di portarmi a fare un giretto per le colline, scortata da un volontario. C’è sempre la possibilità di incontrare qualche militare e di essere rispediti a Tel Aviv.

In alto, nel cielo, sale la luna palestinese. Ed insieme alla luna, odori inquietanti di plastica bruciata. Affronto con Hafez il problema della spazzatura bruciata e dei suoi veleni. Ascolta attento ma intuisco che quassù tra coloni violenti e esercito sono altre le urgenze: “la resistenza a At-Tauwani è una esperienza unica, questo stato che voi chiamate democratico, ha molta paura dei media, che il mondo sappia delle violazioni continue da parte di Israele nella nostra terra. Il nostro comitato segue un progetto non violento che riguarda questa singola zona, che è l’area C, comunque non dimentichiamo mai di essere parte integrante della causa e del popolo palestinese. La nostra forza in questa resistenza non è per niente facile. Per questo abbiamo bisogno del supporto di tutti coloro che credono nei valori del pacifismo. Dappertutto i pastori sono persone pacifiche che chiedono solo di vivere in pace. Tutti noi del comitato abbiamo appreso questo dai nostri vecchi e noi lo trasmettiamo ai nostri figli. Ad esempio: insegnare ai nostri figli a non odiare i coloni non è cosa facile, ma attraverso questa pratica insegniamo loro che la situazione può cambiare, insegniamo loro la speranza. Nonostante vivano nell’ingiustizia sono bambini felici”. Parliamo di Gaza: “Hamas sta diventando molto forte, al pari degli Hezbollah in Libano, non dimentichiamoci che Israele ha perso la guerra nel sud del Libano nel 2006. Per 5

capire la situazione di Gaza bisogna capire il pensiero politico di Hamas, che è quello di recuperare tutta la Palestina. Resistere non è facile, per questo abbiamo bisogno del supporto di tutti coloro che credono nei valori del pacifismo. Per questo mi sento di ringraziare tutto i pastori della tua terra. Con il vostro aiuto siamo riusciti a finire i lavori della nostra scuola. costruendola di notte con le nostre donne in vedetta sulle colline.” Strani questi tre giorni nella baracchetta di Operazione Colomba come dei pionieri o dei resistenti. L’acqua viene dosata goccia a goccia. Cuciniamo tutti insieme, mentre il muezzin invita alla preghiera. Fuori è già notte. Più sotto, sulla curva della stradina polverosa che porta alle prime case si scorge un piccolo fuoco acceso , si sentono voci sommesse in preghiera per Gaza. Più sopra Hafez , Kamel, Pietro e Adriano se la fumano attorno a un focherello con patate che cuociono nella cenere. Dentro Corrado strimpella la sua chitarra. Cantiamo non proprio come Augusto Daolio, ma ci tentiamo. Intanto arriva la verità sulla giornata: nessun razzo su Jerusalem. La notizia è falsa. Solo nel campo profughi di Betlemme ci sono state manifestazioni e scontri con la polizia. Qui solo belati di pecore,odore di paglia e orzo, le ombre di cani randagi e le luci delle case che si spengono una ad una. Tèsbah ‘ala Khèir… buona notte….. Dicevo stanotte a Adry “non ti senti un pò Che?” Dormiamo dentro il sacco a pelo, sopra un materassino di gommapiuma in compagnia di qualche ragno, terrore di Pietro, forse qualche pulce, terrore di Silvana, cavoli enormi, sacchi di patate. E quell’odore di plastica bruciata che penetra da ogni fessura.

317 novembre. Sono stata svegliata da sonori ragli d’asino alle 6 del mattino, da voci concitate dei vicini. Alle 8 e rotti arrivano due attivisti israeliani di Ta’Ayush. Si avverte una certa tensione: tra poco partiranno per l’azione non violenta, per seguire la semina del grano con Silvana, Sara e Pietro. Janiv, il più giovane, ha un viso bellissimo e sofferente: “i pastori hanno una tenacia che è contagiosa; ho iniziati due anni fa ad interessarmi alla causa. La nostra è un’associazione di sinistra e sono molto felice di condividere la lotta con il popolo palestinese. La mia famiglia non è d’accordo. In Israele siamo visti come dei traditori. Siamo mal visti dalla società israeliana. No, non credo che Israele viva nella paura come ha scritto Grossmann, forse quelli che vivono vicino a Gaza, anche perché hanno fatto di tutto per sentirsi sicuri creando barriere.” “E i colòni ?“ chiedo. “Non sono così aggressivi come con i palestinesi, anche se hanno il potere di farci arrestare. Ora c’è una situazione di apartheid, ma tra qualche anno ci potrebbe essere la creazione di due Stati. Su Gaza mi sento impotente. Io e tanti amici rifiutiamo quanto sta succedendo. Personalmente ho rifiutato di fare il militare e sono finito in prigione. Di Hamas? E’ un movimento popolare rappresentato dalla gente, ma non condivido quello che fa Hamas perché ha preso il potere l’ala militare. Invece l’unica possibilità è che Israele ed Hamas si riconoscano”. 6

(La sera ci sarà molta tensione tra gli operatori. La porta della loro stanza- studio rimane chiusa fino a notte tarda. Io e Adriano intuiamo che qualcosa non ha funzionato durante la semina del grano, che l’esercito è intervenuto pesantemente e che qualcuno di loro ha rischiato grosso. Che non c’è stata nessuna semina.) In mattinata arriva Kamel, professione pastore con 140 capi e una serie infinita di violenze da parte dei colòni. Kamel, per questo, è forse il pastore più scortato. Ho voglia di salire sul suo asinello, ma tentando di salire cado rovinosamente con il coccige. Mi rialzo e faccio un breve giretto, ma solo breve, questi asini sono così piccoli.

Kamel tra una sigaretta e l’altra mi racconta che sono nati 20 agnellini, che tutti i giorni esce con le pecore, che è sua madre a fare il formaggio, ma che ora c’è pochissimo latte.

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Gli chiedo da cosa venga questa forza di essere un pastore non violento. Risponde “Mi viene da Allah… ma tu scrivi che qui la vita è difficile, troppo difficile.”. Sono le 15.25. Risaliamo il paese e ci inoltriamo tra i pascoli semidesertici. Siamo a AlMufaqqara. Entriamo nella prima grotta. C’è un bambino seminudo di pochi giorni adagiato su un materasso di gomma piuma. Oh! Eccone un altro più in là. Forse hanno un anno di differenza, ma sembrano gemelli, tanto è piccolo il secondo. La povertà è estrema, ma dignitosa. Qui la situazione è drammatica perché i colòni tagliano gli olivi e avvelenano gli animali. Chiedo: “si può vivere solo facendo formaggio?”. “No” risponde una donna forte e orgogliosa, e ci offre quel pane appena cotto, fatto con la farina del loro grano. Shùkran tèslam edik ( grazie per l’offerta)! Fuori si sentono molti spari: ”es un practico de tiro”, rassicura Alejandro, volontario di Barcelona. “Ma come si vive nella grotta?” chiedo. “BENE, MOLTO BENE. Calda d’inverno,fresca d’estate. Il problema è durante il periodo della pioggia, perché spesso si allaga. La teniamo asciutta con l’aspiratore.” E ci offre il Maramia, un miscuglio di tisana alla salvia, thè indiano e zucchero appena caramellato. Il cibo come sempre mi appassiona e chiedo quale sia il loro cibo abituale. “Riso con pollo, cetriolo e pomodoro, lenticchie rosse. Per le feste cuciniamo la carne di cammello e pecora” 9

“E i fiori li usate nei matrimoni o nei funerali?”. “No mai, anche se a noi piacciono molto i Rauwa gialli e rossi che si vendono nei mercati, ma qui non si possono piantare. Non c’è acqua, ma anche il timo piace molto. ” Ah! Dimenticavo, la prima grotta visitata era piccolissima.

Ci ha accolti una donna dalla pelle ambrata, dal viso yemenita, bellissimo e triste. Mi ha rincorso due volte per abbracciarmi. Già le donne. Fu Kifha ad occuparsene, sposa appena sedicenne. Lei che arrivava da Yatta si racconta :” trovavo insopportabile certa sottomissione della donna al maschio, nessuna chance legale o diritto all’educazione, e iniziai un lavoro di autocoscienza con le donne e successivamente con gli uomini del villaggio per convincerli che le stesse hanno diritto ad un ruolo importante nella vita del villaggio. Fino a raggrupparle in Coop handcraft”. E ci porta in uno scantinato, sotto la sua casa di mattoni in cemento a lato di vestigia romane, dove sono esposti in bell’ordine gli antichi vestiti delle contadine palestinesi e piccoli manufatti ricamati a mano. “I Cristian PeaceMaker Teams ci hanno dato una grossa mano in tutto, a fare il possibile perché i nostri bambini andassero a scuola e questo piccolo Museo della donna serve per molti scopi, per preservare l’eredità culturale della Palestina, migliorare l’economia di base e tener viva la resistenza delle donne all’occupazione d’Israele delle loro terre. Perché la cosa più potente è quando le donne stanno una a fianco all’altra in una linea di solidarietà”. Questa sera tutti a cena da Kafha: spaghettini sottili e corti da sembrare riso, cotti con cavolo e cipolle, pollo, ciotole di pomodori e cetrioli a cubetti, generosi bicchieri di Maramia 10

e datteri dolcissimi con a lato un megaschermo che trasmette la disperazione di Gaza e il viso cattivissimo di un generale di Hamas. Adriano commenta “guarda che faccia...ti fideresti di una faccia così?” 4La mattinata del 18 era passata tutta in quel caos che è Yatta, nella zona A, dove non c’è accesso a Israele. Una confusione babilonica tra strade polverose, clacson, case poverissime che si alternano a ville orrende, artigiani che battono il ferro, panetterie, odore di polpette di ceci fritte, donne eleganti, donne allegre, donne tristi coperte fino al mignolo. E ovunque le insegne del fashion con visi di modelle americane. Silvana racconta che la situazione sociale è esplosiva. Altissima la tossicodipendenza nelle nuove generazioni. Abbiamo acquistato due trapunte per i ragazzi, qualche oggetto per la baracchetta e cibo a volontà tra cui certe verze grandi come pneumatici. L’idea è di Adriano. Il pomeriggio non passa mai. L’unico giro permesso è accompagnare i bambini usciti da scuola al Gate con Pietro e Alessandro. La camionetta dei militari stenta ad arrivare. Inizia a piovere. Sulla collina opposta, a lato della colonia Ma’on un soldato osserva ogni nostra mossa, mitra in pugno. Ecco la camionetta con i bambini vocianti che si rincorrono.

Li osserviamo finché superano la collinetta. Ritorniamo a casa tra l’odore di timo palestinese e l’arrivo di una delegazione americana scortata dall’attivista israeliano. 11

Domani saremo con loro a Hebron. Osservo che Adriano se ne è andato alla chetichella a ridosso delle case. Sta fotografando. Decido anch’io di spingermi un po’ ovunque senza scorta, non prima di aver ascoltato una filigrana di raccomandazioni di Sara, Giulia e Silvana: ”copriti le braccia, non fumare fuori casa, non dare la mano ai maschi, se non te la tendono loro per primi”. Samaya, che non capisco se sia figlia di Hafez o di Kifha, ce l’ho sempre alle costole.

E io oggi ho così voglia di piangere e stare sola. Nessuno chiama da casa, tranne Francesco. Ma via! Stasera siamo tutti a casa di Hafez anzi dalla moglie di Hafez (che non vediamo da 3 giorni perché super occupato a Ramallah), che ha cucinato la classica cena palestinese: riso con cavolo caramellato, pollo, dadini di pomodori e cetrioli. Mi viene donato un copricapo di color rosa antico. Sono seduta vicina alla madre di Hafez, regale nel suo vestito tradizionale. Fathma è il suo nome e pare che sia l’unica el–Hallabat ( donna del formaggio) nel lavorare il Leben. Se ne sta raccolta con le mani in grembo in un silenzio biblico.

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Ma chi la fa da padrone è un megaschermo con l’inferno di Gaza. Sono passate da poco le 23. E’ domenica. Si sente l’eco di un boato fortissimo. Controlliamo internet. Si era una bomba. L’ennesima su Gaza.

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519 novembre. Pietro avverte: “Niente Hebron. Sembra che i Palestinesi si stiano organizzando C’è stato un morto ieri pomeriggio durante una manifestazione di protesta” Meglio non rischiare. Mis Muskila! Nessun Problema! Ritorneremo a Gerusalemme in tarda mattinata con un taxi per dividere le spese con Operazione Colomba. Ma prima ho voluto salutare Kifha, come sempre molto affettuosa. Meno il marito, che si ostina a non darmi la mano. Con Adriano ho lavato i piatti e il pentolame del giorno prima. Forse abbiamo ecceduto nell’uso dell’acqua per il risciacquo. Siamo arrivati da appena tre giorni, ma sembra di aver trascorso qui una vita intera. Prepariamo gli zaini. Salutiamo i ragazzi, la moglie di Hafez, il figlio grande di Hafez , biondo come un normanno, serio e intelligente da dimostrare ben più dei suoi 14 anni. Carichiamo tutto sul taxi e via verso il ritorno. Il taxista capisce che siamo italiani e trafficando con delle cassette di musica infila quella con la voce di Toto Cotugno e il suo inno all’Italia. Pietro raccomanda “attenzione non è un compagno. Siete tutti turisti!” Arriviamo a Gerusalemme alle 13.30. Organizziamo il pomeriggio. Adriano dice “io me ne sto tranquillo qui“. 14

Rispondo “io no. Vado a vedere Gerusalemme, non me ne sto chiusa qui tutto il pomeriggio. Prenderò il bus anti-apartheid”. Usciamo più o meno alle 14.00. Adriano ha deciso di non lasciarmi sola. Destinazione Porta di Damasco, il mercato. Facciamo un su e giù che dura sei lunghe ore, con visita al Santo sepolcro, un pranzetto sopra il Muro del Pianto, in un ristorantino ebraico. Nessuna differenza tra cibo arabo e ebreo. Stesso humus, stesse polpettine di ceci che acquisto nel ristorantino libanese sulla Westwood drive di Los Angeles. Camminiamo nel quartiere giudaico tra antiche case in pietra, molte kippà, bambini che escono da scuola. Compriamo pane arabo, dolci arabi, peperoncino, succo di melagrana e tre mazzetti di salvia palestinese. Fuori la porta di Damasco mi prende una terribile colite. Forse ho esagerato con l’humus, il purè di ceci. Entro nel negozio di un venditore di frutta e verdura e chiedo di una toilette. Mi invita nel retrobottega, facendomi salire su un montacarichi che mi porta in un sottosoffitta dove in uno stanzino 2x2 c’è un closet elementare, ma pulito. Facciamo ritorno a casa con l’ennesimo taxi assieme a Silvana, Pietro e Alessandro che avverte: “ora andiamo ad acquistare gli spinaci. Laura ci hai promesso gli strangolapreti. Stasera abbiamo come ospiti i pacifisti israeliani”. “No meglio gli gnocchi di patate, non ho trovato gli spinaci che intendo io”. Quindi sotto casa acquistiamo 5 kg di patate, burro, pomodoro. Muskila kubira! Grande problema. Manca lo schiacciapatate. Scendiamo al piano di sotto da un famiglia ebrea che ci impresta un schiacciapatate rudimentale di legno. Meglio di niente. Ricambiamo con un piatto di gnocchi fumanti al sugo di pomodoro. C’è molta allegria e felicità tra i ragazzi della Colomba e i pacifisti di Ta’Ayush e molti progetti per un futuro solidale tra la cultura araba e quella ebraica.

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Operazione Colomba aprirà una sede a Gerusalemme. I tempi sono maturi e c’è bisogno di portare qui l’esperienza di Al-Tuwani. 20 novembre. Ultimo giorno. Colazione nel panificio ebraico. Adriano scatta decine di foto a fiori, alberi, a particolari di questo quartiere da profonda provincia americana. Si parte per Tel Aviv alle 14.00 con il Nescer. Baci e abbracci ad Alessandro,Pietro, Angela, Silvana. Soprattutto a Giulia, la più autentica che è sempre lì a rattoppare jeans per tutti. Con Angela scambio alcuni pareri sul ruolo di Kifha. Credo dovrebbe coinvolgere di più le donne della Cooperativa. Lo dico dopo molta autocoscienza sul mio ruolo nella Libera Associazione Malghesi e Pastori del Lagorai. Dal cellulare di Angela apprendiamo che la Clinton è arrivata a Ramallah, e che plaude la presenza dei colòni. All’aeroporto di Tel Aviv c’è un bel’incontro con Nevo Baker nativo di Venezia ma israeliano da anni, che ci fa dimenticare il check-in e un bombardamento di domande degli operators: “dove eravate alloggiati, perché siete qui, cosa avete fatto in questi giorni? Cosa avete in valigia?” Mio Dio! Dentro ho il copricapo arabo e la scarf e la salvia palestinese. A questo punto esibisco la business card di Mikhaela, il numero della sua Carta d’Identità e il suo indirizzo a Rehovot. E siamo passati. Nevo Baker, poco più che trentenne, è uno stilista di scarpe, innamoratissimo di una ragazza russa ma anche di Tel Aviv: “ sono di sinistra e provo vergogna per quello che stà facendo Israele a Gaza”. E parla di un sogno: “ se farò soldi, assieme al mio collega apriremo una grande scuola a Gaza sotto la protezione dell’Onu”. 16

L’aereo partirà con un’ora e mezza di ritardo, ufficiosamente per problemi di pulizia. Sapremo più tardi che a Milano volevano bloccare i voli per Tel Aviv. Si ritorna a casa Hinshàlla! Si ritorna da Corti, alla sua polenta e Bitto. Assolutamente certi che solo The no-violence is the way !

©Laura Zanetti Foto di Adriano Rizzoli

Novembre 2012

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