I deportati del 5 gennaio 1943 della Franco Tosi Sciopero! Perché? Le paghe erano più basse rispetto a Milano, in mensa gli impiegati avevano diritto a un primo e ad un piatto di “pietanza” (un secondo) mentre gli operai avevano diritto solo ad un piatto di minestra, pure scarso, e di rado una o due mele. E se vogliamo ben guardare un operaio consuma più calorie di un impiegato. Questa era la situazione nell’inverno 1943-44 nella fabbrica metalmeccanica Franco Tosi di Legnano. Era una fabbrica importante, che contava quasi 6.000 lavoratori, una fabbrica di motori e turbine e di navi militari (nel cantiere di Taranto), che era stata riconvertita, come la maggior parte, esclusivamente per la produzione bellica, “ma sempre nel nostro campo specifico. Niente armi. A differenza della prima guerra mondiale, questa volta alla Tosi non era stato chiesto di fabbricare nemmeno un moschetto” (Anonimo-1, tecnico disegnatore della Tosi, intervistato per il libro “Quelli della Tosi. Storia di un’azienda”). Data la sua importanza, i nazisti, a partire dal 23 ottobre 1943, avevano fatto della Franco Tosi una “azienda protetta”, controllata e gestita direttamente da loro, stabilendo tipo di produzione e ritmi di lavoro.

L’azienda metalmeccanica Franco Tosi.

Solitamente le paghe arrivavano sotto forma di acconto al 24 del mese e come saldo a conguaglio il 9 del mese successivo. Agli inizi di gennaio 1944 alla Franco Tosi si sperava in un aumento di stipendio, ma le trattative tra i dirigenti della Tosi e i membri della Commissione Interna, rappresentanti delle maestranze, stavano andando a rilento e c’era l’impressione (fondata!) che non si sarebbe arrivati a nessun accordo: i dirigenti infatti sostenevano di non poter decidere autonomamente e che i lavoratori avrebbero dovuto trattare Produzione bellica di granate in ghisa acciaiosa alla Franco Tosi durante la prima guerra direttamente con i tedeschi. La gente era esasperata: la mondiale. Immagini tratte da un volume guerra, la penuria di cibo, la difficoltà di procurarselo alla fotografico, composto da 116 fotografie originali, borsa nera a prezzi insostenibili, il freddo dell’inverno e la emesso dalla F. Tosi ad agosto del 1916, non si sa penuria di combustibile, tutto dirottato verso le industrie con quale tiratura, e visibile al link www.museoindustrialelegnanese.it/Franco_Tosi/ dedite alla produzione bellica, già solo questo sarebbe stato storia.html sufficiente a creare malcontento. Il “Comitato Segreto d’Agitazione del Piemonte, della Lombardia e Liguria” aveva proclamato uno “sciopero generale di tutte le fabbriche … dei principali centri industriali d’Italia” invitando gli operai, tecnici ed impiegati ad agire: “fermate le macchine, chiudete i registri! Restate però ai vostri posti di lavoro … inviate dai padroni delle delegazioni … incaricatele di presentare le vostre dettagliate rivendicazioni”.

Con l’autunno del ’43 nascono un po’ in tutte le fabbriche di Legnano i “Gruppi operativi clandestini di fabbrica” detti anche “Comitati di Agitazione”. Il più attivo e più numeroso è quello della Franco Tosi, guidato da Angelo Sant’Ambrogio e coordinato dai fratelli Venegoni. La situazione economica, insostenibile, da tempo esasperava gli animi. Le agitazioni iniziate già nel mese di settembre erano sfociate poi in qualcosa di più consistente: “il 18 novembre 1943 ebbe luogo il primo sciopero sotto l’occupazione tedesca. … Il generale Otto Zimmermann minacciò di mettere in pratica certe disposizioni di Hitler, il quale aveva ordinato di arrestare, qua e là un migliaio di operai. … Quella volta lo sciopero rientrò ma solo per riesplodere il 13 dicembre, con più violenza” (Anonimo-1). Un manifestino sequestrato dai carabinieri di Busto Arsizio proprio il 13 dicembre ’43, probabilmente frutto della attività dei fratelli Venegoni in tutto l’Alto Milanese, invitava: “Fermate le macchine, scioperate, manifestate in strada contro i padroni profittatori e contro gli hitlero-fascisti. I magnati dell’industria hanno accumulato miliardi di profitti e vi fanno morire di fame”. Seguivano le richieste: “pagare gli aumenti che gli operai hanno strappato con la lotta, aumento dei salari del 100%, raddoppiare le razioni dei generi alimentari, il pane a 500 grammi per tutti i lavoratori, distribuzione della razione di olio di novembredicembre, sospensione dei licenziamenti”.

Franco Landini.

“Fin dalla metà del mese di dicembre - ricorda Franco Landini, allora 16enne operaio alla Tosi - iniziarono gli scioperi e, parallelamente, i tentativi di accordo e di mediazione tra la direzione e la Commissione Interna che si era costituita nelle giornate successive al 25 Luglio ed alla caduta di Mussolini.” Il 16 dicembre le agitazioni dalla Franco Tosi dilagarono nel legnanese e in tutto il territorio a nord di Milano (160170 mila lavoratori). Per tutto il mese ci furono frequenti fermate e rallentamenti di produzione. I fascisti della Ettore Muti iniziarono la loro attività di violenze con arresti e percosse. I tedeschi si presentavano davanti ai cancelli, entravano armati nelle officine.

Un rapporto della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana, cioè la polizia fascista) riservato al duce denuncia per il 29 dicembre che 350 operai del reparto acciaierie avevano ripreso uno sciopero bianco. La Franco Tosi “aveva una sezione staccata fuori dalla stazione, era l’acciaieria che occupava circa 500 dipendenti. Non è che era una piccola acciaieria: faceva grossi lavori!” (Teodoro Sant’Ambrogio, operaio alla Tosi). Trattandosi, per il momento, di un solo reparto che costituiva meno di un decimo delle maestranze complessive, il sindacalismo fascista, che proprio in quel periodo cercava di Teodoro Sant’Ambrogio. ricostituire una sua base in fabbrica, cercò di capire cosa stava succedendo in fabbrica per prevenire ulteriori sviluppi, ma, forse spinto dalle pressioni tedesche, scelse di risolvere la questione con repressioni e brutalità. Il delegato di zona dell’Unione lavoratori dell’industria proibì la riunione delle Commissioni operaie minacciando di far intervenire i carabinieri per farli arrestare. Questo scontentò anche la GNR: “tale azione ha impedito di conoscere le cause reali che hanno nuovamente indotto le maestranze alla ripresa dello sciopero”. E le agitazioni si estesero al Cotonificio Bernocchi, alle tessiture Ettore Agosti e Pessina-Castoldi, alla fabbrica di biciclette “Emilio Bozzi” e a numerose fabbriche dell’Alto Milanese.

Dal 3 di gennaio si scioperava apertamente a Milano, a Varese, Gallarate, Cavaria, Busto Arsizio: l’agitazione derivava soprattutto dalla fame e aveva come rivendicazione centrale l’aumento dei salari. Ma il problema era realmente solo di ordine economico? Franco Landini ci racconta che “all’interno delle fabbriche in molti reparti si contestava il sindacato fascista e, se è vero che gli scioperi si attuavano in momenti in cui non c’erano gli alimenti necessari per poter vivere, è anche vero che era sempre più presente la volontà non solo di combattere il fascismo ma anche di creare una società diversa, una società che eliminasse qualunque eredità del fascismo. Mi pare che sia un po’ riduttivo e politicamente sbagliato pensare che gli scioperi fossero stati originati solo dalla mancanza degli alimenti utili al sostentamento quotidiano; infatti oltre a ciò c’era anche una volontà politica che mirava a ribaltare i vecchi assetti istituzionali ed economico-liberali e a costituire una società diversa e nuova. C’era insomma un clima di liberazione, c’era qualcosa nell’aria che era il preludio della Liberazione.” Già durante l’estate del 1942 in Italia vi furono ondate di scioperi spontanei per richiedere aumenti salariali e maggiori quantità di cibo. In Romagna manifestarono operai e lavoratori agricoli. Il 5 marzo 1943, alla Fiat di Torino, i lavoratori di un’officina incrociarono le braccia, gridando “sciopero” da un reparto all’altro. È l’inizio di una stagione di manifestazioni che avrà termine con la Liberazione. I primi grandi scioperi organizzati a Legnano avvennero proprio in quel marzo ’43. Piera Pattani, allora 16nne operaia alla tessitura Giulini e Ratti, ricorda quegli esordi del ’43, di cui fu protagonista, su invito del futuro capo partigiano Arno Covini: “L’Arno mi si avvicina e mi dice: «Piera ho un mestiere da fare, stiamo organizzando uno sciopero, ho qui dei volantini. Li devi portare alle persone di cui ti do l’indirizzo. Tu vai lì e glieli porti perché loro ti aspettano». E poi mi ha detto: «Domani alle 10.00 c’è sciopero». Allora sono andata dal Cesare Oldrini del Brusadelli, dalla Rossetti Carolina della Cantoni, dalla Norma del Vianello. Li ho portati alla Bernocchi, alla De Angeli-Frua. Alla Tosi li ha Piera Pattani. portati l’Arno, al Caironi Ettore [ndr Espen], c’era dentro il Borromei, che era del partito e altri compagni che non ci sono più. … E poi l’Arno mi disse «guarda che domani mattina ci sarà una squadra che gira» e infatti la mattina sono arrivati, sono saliti su e hanno fermato le trasmissioni, hanno fermato la fabbrica… perché quando tu fermi la tessitura, fermi tutto. E i fascisti hanno portato via due donne delle nostre, due operaie – sono già morte tutte e due – una era la Carla Brega di Pavia e l’altra la Carolina Rossetti che abitava in via Quintino Sella. E io sono scappata sotto un telaio perché uno mi ha indicata come quella che aveva portato i volantini. E poi molte donne sono uscite, altre si sono spaventate e insomma, c’è stato un disastro quella mattina lì… e sono venuti quelli della Tosi, però lo sciopero è riuscito in tutta la città. Tutti che uscivano dalle fabbriche dicendo: «che succede, che succede?». E allora da lì è iniziata tutta la mia storia”, una storia che ha portato Piera a 16 anni ad essere la responsabile della distribuzione della stampa clandestina e della trasmissione dell’ordine di sciopero nelle fabbriche legnanesi, nonché in seguito valente staffetta partigiana e collaboratrice dei vari comandanti che si sono avvicendati per le formazioni partigiane legnanesi 101^ e 182^ Brigata Garibaldi. Ma “prima ancora degli scioperi del ’43, si erano fatti degli scioperi bianchi all’interno delle aziende, erano nate le Commissioni interne, si erano usati gli strumenti necessari per sabotare, rallentare sempre di più la produzione bellica” (Landini). Uno dei sistemi di rallentamento era, per esempio, “tirare per le lunghe l’elaborazione di alcuni disegni” (Anonimo-1) o collocare i ragazzi giovani inesperti, gli apprendisti, in punti critici della catena di montaggio. I tedeschi si infuriavano ma la scusa era buona: anche i ragazzi dovevano

imparare… E poi, anche dopo l’occupazione dei tedeschi dall’11 settembre 1943, “un giorno era una macchina utensile che si inceppava, un altro giorno si guastava una gru, e così via. Tutto era fatto con estrema prudenza, perché le SS non dormivano e ci voleva un niente perché un operaio venisse considerato un “sabotatore”, il che corrispondeva ad una condanna a morte” (Anonimo-1). “Nella Tosi – continua Landini - eravamo più di cinquemila dipendenti, quasi un paese; c’erano reparti molto combattivi come i calderai, considerati un po’ la “Stalingrado” della fabbrica, insieme a quelli dell’acciaieria e della fonderia. … Quando si parla degli anni 1943 e 1944 non bisogna però dimenticare che a Legnano non esisteva soltanto la Tosi, ma anche una miriade di fabbriche in cui si organizzava la resistenza sindacale e politica, come le fabbriche tessili Brusadelli [ndr: 1.400 lavoratori], Cantoni [2.600], Manifattura De Angeli Frua [1.900], Agosti [800], oppure come le fabbriche metalmeccaniche Comerio, Bozzi; insomma c’era veramente un’attività che esprimeva sempre più la capacità politica della classe operaia di creare il sostegno necessario per poter giungere alla conclusione politica del 25 Aprile 1945”. E proprio di questo avevano timore i fascisti repubblichini legnanesi e i nazisti, che le agitazioni interne alla Franco Tosi fossero un esempio per le altre aziende del circondario e da lì chissà dove si sarebbe arrivati… Difatti, “il movimento esistente all’interno delle aziende si propagò in modo analogo anche sul territorio, con l’organizzazione di interventi di sabotaggio che servivano di supporto ai partigiani operanti in zone diverse” (Landini) e già a partire da ottobre 1943 erano funzionanti i collegamenti fra i Comitati sindacali clandestini delle principali fabbriche di Legnano, Busto Arsizio, Gallarate e Saronno. Il volantino stampato clandestinamente a dicembre ’43 dal “Comitato Segreto d’Agitazione” non si limitava a proporre lo sciopero: “chiedete che cessino tutte le violenze naziste e fasciste … chiedete il rilascio di tutti i carcerati politici. Chiedete che non si produca più per la guerra nazifascista … Manifestate fermamente la vostra decisione di non permettere il trasporto delle vostre industrie in Germania. Non un uomo né una macchina in Germania!” La deportazione verso la Germania era un rischio reale: il comando tedesco a partire da metà 1944 “decise di trasferire in Germania gli impianti e il macchinario delle principali industrie lombarde. Cominciò con l’Innocenti: 1.031 macchinari dell’Innocenti, caricati su 350 carri-merci, partirono per la Germania. La Pirelli dovette murare la sue macchine più sofisticate per salvarle dalla razzia nazista e altrettanto fecero le altre industrie milanesi. E alla Tosi? La Tosi non venne toccata. Avevano cominciato con le fabbriche di Milano, che erano molte; probabilmente non ebbero il tempo di

volantino stampato clandestinamente a dicembre ’43 dal “Comitato Segreto d’Agitazione”

arrivare fino a Legnano. … Nel corso dell’ultimo anno di guerra la classe operaia visse nel terrore della deportazione. Parlo della classe operaia in generale, non solo delle maestranze Tosi. Il governo tedesco pretendeva che la Repubblica Sociale gli fornisse non solo impianti e macchinari, ma anche le braccia necessarie per farle produrre in terra tedesca. Alla fine del ’43 l’obiettivo era di trasferire in Germania 200.000 lavoratori, cifra che, in seguito, fu portata a un milione” (Anonimo-1). Aveva ragione il Comitato Segreto d’Agitazione di dare l’allarme: “non un uomo né una macchina in Germania!”

Quella gelida giornata di gennaio 1944 Un notiziario della guardia repubblicana fascista, datato 5 gennaio 1944, riservato a Mussolini, informa testualmente: "Oggi, nello stabilimento Franco Tosi, gli operai hanno ripreso la sciopero e sobillati, incominciavano dimostrazioni all'interno della fabbrica proponendosi di uscire per continuarle presso altri stabilimenti". “L’azienda Franco Tosi era grande, aveva circa 5000 dipendenti” racconta Teodoro Sant’Ambrogio, allora 18enne operaio alla Tosi e fratello di Angelo, 30 anni, membro di spicco della Commissione Interna e comandante militare del Comitato clandestino di fabbrica. “Mio fratello - prosegue Teodoro - era addetto alla mutua interna e con questo servizio poteva, diciamo così, spostarsi liberamente in tutti i settori perché aveva la necessità di tenere i collegamenti con le forze partigiane. Questo gruppo di sindacalisti decise uno sciopero”. Franco Landini ricorda che “quel giorno, innanzitutto, ci fu un atteggiamento di ribellione da parte di tutti i dipendenti, semplicemente perché erano, eravamo, stufi; poi si era diffuso un certo entusiasmo, al punto tale che il piazzale principale dell’azienda era stipato di lavoratori, convinti che la persona attesa, inviata dalla direzione, avrebbe sicuramente accolto le loro richieste economiche. … Il 5 Gennaio del 1944 nel piazzale interno della fabbrica si radunarono tutti gli operai, speranzosi di ricevere una conferma ufficiale degli accordi raggiunti per un adeguamento almeno parziale dei salari al continuo aumento del costo della vita. Si desiderava in particolare introdurre anche a Legnano alcune facilitazioni già adottate per i colleghi di Milano.” In realtà gli scioperi “avevano uno scopo prevalentemente politico: quello, cioè, di saggiare la possibilità di una rivolta di massa contro l’occupazione tedesca all’interno di una fabbrica. Ma tutto ciò, ovviamente, non poteva essere dichiarato. Occorreva presentare una rivendicazione economica che giustificasse lo sciopero. Quindi fu chiesto alla Direzione che il salario della Tosi venisse adeguato a quello in uso nelle fabbriche milanesi“ (Anonimo-2, operaio della Tosi, intervistato per il libro “Quelli della Tosi. Storia di un’azienda”), superiore di un 5 per cento. “Il salario medio di un operaio era di 1.100 lire mensili; quello di un impiegato, 1.400 lire. Se si pensa che dal settembre ’43 al giugno ’44 la spesa quotidiana era aumentata di 150-200 per cento, mentre i salari erano saliti appena del 50 per cento, capirai quanto fosse reale la motivazione dello sciopero” (Anonimo-1). Si chiedeva inoltre un aumento della razione di pane e “una parificazione del trattamento in mensa aziendale tra impiegati ed operai estendendo anche a questi ultimi il diritto ad un piatto di “pietanza” oltre alla minestra” (Sant’Ambrogio). Alla Tosi era intervenuto nei primi giorni di gennaio ’44 il generale tedesco Otto Zimmerman, Brigadeführer delle SS, incaricato speciale (Sonderbeauftragter) per le “trattative” con gli operai, cioè per la repressione

degli scioperi, inviato al comando tedesco prima di Torino e poi di Milano con poteri straordinari, su ordine di Hitler e del generale Wolf. La visita di Zimmermann alla Tosi con le sue minacce e le sue false promesse non era riuscita a riportare la calma. Anche alla Fiat-Mirafiori di Torino, in seguito agli scioperi iniziati il 15 novembre 1943, Zimmermann aveva offerto un aumento della razione di pane, patate, olio, vino e poi scarpe e legna, precisando però che se gli operai avessero continuato le agitazioni tutti questi provvedimenti sarebbero stati revocati, gli aumenti salariali sospesi e “ci saranno conseguenze gravissime per voi e per le vostre famiglie. Sono deciso ad agire con la prontezza e la durezza che caratterizzano le Forze Armate germaniche contro chi diserta il lavoro” (Zimmermann). Questo era il suo metodo. Tornando alla Tosi, “la Direzione aveva promesso che si sarebbe arrivati ad una conclusione positiva dell’accordo; ma quando, il mattino del 5 gennaio, i rappresentanti della Commissione Interna si presentarono in Direzione, il Direttore del personale affermò chiaro e tondo che di accordo non se ne parlava nemmeno. … Il rappresentante delle SS, che dal settembre ’43 aveva un suo ufficio in fabbrica, chiese l’immediato intervento della milizia repubblichina” (Anonimo-2). Carabinieri ed elementi della 24° Legione fascista penetrarono in mattinata nella fabbrica. Un rapporto della GNR riferisce che all’inizio gli operai si erano mantenuti “calmi e fermi” al proprio posto di lavoro, ma poi “sobillati, incominciavano a fare dimostrazioni nell’interno dello stabilimento e si proponevano di uscire per continuarle presso altri stabilimenti”. “I militi entrarono in fabbrica, ma vennero disarmati dalle maestranze e cacciati via” (Anonimo-2). “Il clima appariva dunque teso e forti erano i sentimenti di esasperazione per una trattativa tirata ormai troppo alla lunga. Mentre la massa degli operai era in attesa si verificò un discutibile episodio di violenza, che contribuì a fare precipitare la situazione” (Landini). Nel rapporto della GNR si legge “alcuni operai, dopo aver chiesto di conferire col condirettore della società reg. Stegagnini, lo agguantavano e stavano per fargli fare una mala fine tentando di buttarlo in un forno acceso. I carabinieri lo salvarono dalla furia degli operai”. Beh, qualcosa di vero c’è… “Un gruppo di lavoratori - testimonia Landini - scatenò la caccia al direttore amministrativo, che era il dott. Stegagnini. Costui, forse informato di ciò, fuggì in un luogo che serviva da rifugio per i bombardamenti; li fu trovato attorno alle dieci di mattina e condotto attraverso i reparti dell’azienda affinché si rendesse conto di persona delle condizioni materiali e lavorative dei lavoratori. Dopo questo tragitto obbligato, che si può definire un calvario, arrivò verso le tredici al reparto calderai. Dopo averlo colpito con un forte pugno sulla scalinata che conduceva a quel settore della fabbrica, lo portarono in infermeria e lo lasciarono lì.” Il nostro operaio Anonimo-2 aggiunge che “fu malmenato a sangue, proprio da far compassione. Minacciarono anche di gettarlo nei forni e, forse lo avrebbero fatto, perché, dopo quasi due mesi di tira e molla, gli animi erano esasperati.” E chi non lo sarebbe stato? “A quel tempo operaio nel reparto calderai, Stegagnini contribuì con la sua rigidezza a esasperare i manifestanti, affermando di voler trattare solo in presenza dei tedeschi. …

La salvezza di Stegagnini fu dovuta probabilmente al buon senso di molti operai presenti che calmarono i più scalmanati” (Landini). Non furono quindi i carabinieri: “a salvare la vita del Direttore del personale furono proprio coloro che in seguito apparvero come i caporioni comunisti; erano i più preparati politicamente e riuscirono a convincere le maestranze che uccidere un dirigente non solo non risolveva alcun problema, ma ne avrebbe creati di nuovi” (Anonimo-2). “Mentre si svolgevano questi avvenimenti, la Commissione Interna della Tosi si era insediata nella palazzina della Direzione e dell’amministrazione della fabbrica” (Franco Landini).

“L’assembramento è finito..!!!” Quando, in mattinata, i militi fascisti vennero disarmati e cacciati via, “a questo punto furono chiamate le SS. Al quartier generale delle SS a Milano, in via Rasella, ci fu una certa confusione. Scambiarono Legnano con Melegnano e partirono in tromba. Non avendo trovato a Melegnano nessuna Franco Tosi in rivolta, fecero dietrofront e arrivarono qui verso l’una del pomeriggio, dopo aver perduto per strada due ore buone, il tempo che ci voleva perché la Commissione Interna concludesse le trattative. Dopo quanto era capitato al Direttore del Personale, in Direzione prevalse il buon senso dell’ingegner Mario Arreghini, che incarnava quanto di meglio vi fosse nella tradizione paternalistica della Tosi. Con il tatto finissimo che lo distingueva fu l’unico che riuscì a smussare una quantità di scontri tra la Commissione Interna e la Direzione non solo in quell’occasione, ma anche negli anni difficili del dopoguerra. In fondo, le richieste delle maestranze non eran poi così esorbitanti. Quel 5 per cento in più e quel “secondo” in mensa erano poca cosa, per gli operai tuttavia rappresentavano molto perché, quando si ha fame, anche le briciole contano” (Anonimo-2). A mezzogiorno nessuno si era mosso per andare a mangiare e “all’una di quel fatidico giorno, proprio mentre le maestranze si riversavano sul piazzale per celebrare la felice conclusione delle trattative, arrivarono due autocarri di SS…” (Anonimo-2). “Quando arrivano le SS i fascisti stessi accompagnano la colonna davanti alla fabbrica ma se ne restano fuori a presidiarne il perimetro” (Landini). “Arriva l’una, si aprono i cancelli principali e cosa vediamo? Due camion di SS… bloccano… con l’altoparlante dicono di andare ognuno al proprio posto di lavoro perché l’assembramento è finito” (Sant’Ambrogio). “Nel frattempo il maresciallo della milizia di Legnano, al corrente della segnalazione e preso forse da scrupolo, per cercare di evitare all’ultimo momento la retata, avvisa qualcuno della Commissione Interna. … All’improvviso la fabbrica è invasa dai tedeschi: gli autoblindo entrano dall’ingresso principale di fronte al piazzale dove ci sono gli operai, in pochi secondi piazzano le mitragliatrici e presidiano gli uffici” (Landini). “Piazzano una mitragliatrice proprio in faccia agli operai e cominciano ad impartire ordini: “Tutti al posto di lavoro!” e così via” (Anonimo-2), ordini secchi, in tedesco, poi tradotti in italiano. “Qualcuno di noi, parlando in legnanese, tentava, senza riuscirci, di comunicare coi tedeschi, i quali decisero per tutta risposta di caricare la folla. Un ufficiale delle SS con un altoparlante ordina agli operai di riprendere a lavorare, ma nessuno si muove. All’ufficiale tedesco è stato anche detto che gli operai in fabbrica sono armati e allora ordina ai suoi uomini di far fuoco: le raffiche, ad altezza d’uomo, mandano in frantumi i vetri delle finestre” (Landini). Nessuno venne colpito ma “ci fu un fuggi fuggi generale. Tutti corsero ai reparti afferrando il primo attrezzo capitato loro in mano” (Anonimo-2). “E’ un attimo, nel fuggi- fuggi generale qualcuno cade a terra, … un operaio addetto a distribuire i disegni, di nome Robellini, che aveva una gamba di legno, venne urtato e travolto, … quelli che rimangono sul piazzale vengono presi a caso e messi al muro a ridosso dei garage” (Landini), con

le mani alzate, senza scegliere gli ostaggi, semplicemente “prendono un’ottantina di quelli che trovano subito lì vicini, li mettono in un angolo dell’azienda” (Sant’Ambrogio), i “lavoratori messi al muro … ad un certo punto divennero addirittura novantadue, tra operai, impiegati e tecnici e con loro c’ero anch’io, che ero un ragazzetto” (Landini, che aveva 16 anni). Poi “le SS corrono dentro, nei reparti, ed iniziano una vera e propria caccia all’uomo. Cercano gli antifascisti più noti” (Landini). Giovanni Binaghi, del reparto fonderia centrale e membro della Commissione Interna, era riuscito a fuggire pochi istanti prima che arrivassero le SS: per tre mesi dovette vivere lontano da casa, ricercato e con l’abitazione sotto sorveglianza. Altri non furono così fortunati. “Il comandante del reparto tedesco portava con sé un lungo elenco di sospetti, tra i quali c’erano i membri della Commissione Interna, e pretendeva che l’ingegner Arreghini gli desse conto di ognuno. «Non posso mica conoscere tutti i dipendenti…» rispose Arreghini. «Molto male! In Germania un buon dirigente conosce tutti i suoi operai…» ribattè il Comandante. L’ingegner Arreghini li conosceva uno a uno, e come! Probabilmente sapeva anche dove si erano nascosti. Ma, a modo suo, era antifascista quanto loro, e sapeva la fine che avrebbero fatta quei “proscritti” se lui avesse parlato” (Anonimo-2). Ma chi aveva stilato quella lista? Chi può saperlo? “Le spie erano onnipresenti. Se ti lasciavi sfuggire un apprezzamento poco prudente sui tedeschi o sui fascisti, venivi denunciato subito” (Anonimo-1). Anche un altro operaio della Tosi, Candido Poli, era stato denunciato da una spia: “Entrai nelle formazioni partigiane, qui a Legnano, nel mese di ottobre [ndr 1943]; subito dopo seppi che ero stato segnalato alle SS e dovetti darmi alla macchia. Nel dicembre 1943 fuggii in montagna”. Candido, pur essendo politicamente di sinistra, si aggregò come partigiano alle formazioni cattoliche del futuro ministro Candido Poli. Giovanni Marcora (Albertino). Durante un’operazione a Busto Arsizio venne catturato dalla Wehrmacht e inviato prima nel lager nazista di Mauthausen e poi in quello di DachauBernau, sopravvivendo miracolosamente. Chi lo aveva denunciato? “non lo so - ci dice Poli - non ho voluto mai saperlo. C’erano spie dappertutto”. Quindi, lista alla mano, “scatta la caccia ai rappresentanti sindacali e ai più noti lavoratori antifascisti. Bisogna arrestarli per separare i lavoratori dai loro dirigenti sindacali più conosciuti e stimati” (Landini). I tedeschi “vanno in Commissione Interna, dove c’era mio fratello - ci racconta Teodoro Sant’Ambrogio, fratello di Angelo, membro importante della Commissione Interna, responsabile interno della distribuzione della stampa clandestina e comandante militare del Comitato clandestino di fabbrica - c’era il presidente, erano in sei: li caricano su tutti”. Insomma, “prima delle quattordici e trenta furono prese in ostaggio una sessantina di persone, tra cui tutti i membri della Commissione interna, alcuni dipendenti segnalati dai fascisti come l’ingegner Cima, che era il direttore dei calderai, e il prof. Giuliani, che alle 8.30 del mattino aveva ancora insegnato ai ragazzi della Tosi” (Sant’Ambrogio). L’ingegner Cima era nel suo ufficio, dalla parte opposta dell’azienda rispetto alla portineria. Un operaio fece in tempo ad avvisarlo «Scappi ingegnere, le SS stanno venendo a prenderla». «Come a prendermi? Io non

ho nulla da nascondere» rispose Cima e rimase nel suo ufficio. Pochi secondi dopo le SS fecero irruzione e lo arrestarono, ritenendolo probabilmente responsabile dei ritardi nelle consegne. “Intanto le SS presidiavano i reparti. Durante la pausa del mezzogiorno, nessuno era uscito dall’azienda perché i cancelli erano bloccati, ma fuori dalla fabbrica, però, i cittadini si erano allarmati, non sapendo cosa esattamente fosse successo al suo interno invaso dalle SS” (Landini). I due gruppi di partigiani armati della Mazzafame e di via Pisacane, delle Brigate Garibaldi, erano stati avvertiti della presenza delle SS alla Tosi ma non riuscirono ad avvicinarsi alla fabbrica e nemmeno ad incontrarsi tra di loro perché mezza città era bloccata, il ponte di San Bernardino presidiato e tutt’intorno alla fabbrica stazionava un imponente schieramento di fascisti e tedeschi. I partigiani erano in tutto solo una decina: cosa avrebbero potuto fare?

L’inizio della fine “Dalle tredici alle sedici e trenta la fabbrica era controllata dai militari con i mitra che costringevano tutti i lavoratori a ritornare alle consuete mansioni. … Verso le quattro e mezzo sono arrivati i camion, caricati sui camion, li han portati a San Vittore” (Sant’Ambrogio), il carcere circondariale di Milano, in cui tre dei sei bracci erano sotto il controllo tedesco. Hanno ancora le tute addosso, solo qualcuno è riuscito ad afferrare il cappotto. “Li ho visti quelli della Tosi quando li hanno caricati sui camion - ricorda con dolore la giovane staffetta partigiana Piera Pattani, accorsa sul piazzale davanti alla Tosi - ho fatto un nascosto cenno di saluto al Sant’Ambrogio poi…” Hanno caricato “le novantadue persone prima messe al muro, eccezion fatta per i “ragazzetti”… Durante la notte, però, sulla base di specifiche segnalazioni, furono prelevate dalle loro abitazioni una trentina di antifascisti che, pur non essendo esposti politicamente, facevano già parte degli organismi sindacali aziendali” (Landini). Quest’operazione notturna venne effettuata dai fascisti. Vengono tutti incarcerati a San Vittore. Gaetano De Martino, nel suo libro “Dal carcere di San Vittore ai lager tedeschi”, riferisce che “un giorno arrivò un grosso blocco di operai: le celle furono tutte piene e nell’ora dell’aria vi fu una grande agitazione. Erano gli operai di alcune officine di Legnano, avevano scioperato ed erano finiti in carcere. Un operaio mi riferì che a molte industrie era stato imposto di costruire materiale bellico per i tedeschi: circa 130.000 operai di Legnano, Busto Arsizio e delle località vicine vi si rifiutarono subendo gravi rappresaglie. Dopo tre giorni gli operai arrestati furono liberati, ma alcuni capi vi rimasero e parecchi di essi furono anche malmenati. L’ingegnere Cima fu lasciato quattro giorni a digiuno con le mani legate dietro la schiena. Durante l’ultima notte fu un continuo piangere e lamentarsi: il corpo non reggeva più. Deportato in Germania non fece più ritorno a casa sua”. Non era una novità: uno dei primi interventi del generale Zimmermann nel milanese aveva dato analoghi risultati. Il 13

Milano, carcere di San Vittore. Da notare i cortili utilizzati per l’ora d’aria, raramente concessa, suddivisi in spicchi con alti muri per isolare i detenuti anche fuori dalla cella. (Fotografia aerea del 1945).

Interno del carcere: navata centrale di uno dei sei raggi (fotografia del 1945).

dicembre 1943, con inizio alle ore 10, erano scesi in sciopero decine di migliaia di lavoratori di Sesto San Giovanni, della Falck, Breda, Ercole Marelli, Pirelli Sapsa, Magneti Marelli, ed altre aziende minori. Zimmerman fece radunare sul piazzale dello stabilimento della Falck Unione, i lavoratori in sciopero della Falck, poi dalla torretta di un carro armato, dopo aver dichiarato che avrebbe esaminato e ricercato la soluzione alle loro richieste, intimò: “chi non riprende il lavoro, esca dagli stabilimenti; chi esce dalla fabbrica è dichiarato nemico della Germania”. I lavoratori proseguirono lo sciopero e lasciarono tutti gli stabilimenti ma durante la notte centinaia furono arrestati, portati in carcere e poi nei campi di concentramento nazisti. Teodoro Sant’Ambrogio cercò di fare qualcosa per salvare il fratello Angelo, incarcerato con gli altri della Tosi: “la mia famiglia, che conosceva delle persone a Milano, mandò presso di loro mia sorella per chiedere cosa si potesse fare per liberare gli ostaggi. Le fu risposto che erano dei sovversivi e perciò non si poteva lasciarli liberi. Ciononostante la sera del 6 gennaio vennero rilasciate alcune di queste persone e il giorno successivo addirittura una cinquantina. Insomma nel carcere di S. Vittore rimasero solo otto persone, quelle segnalate dai fascisti come i promotori delle manifestazioni organizzate alla Tosi e di queste ne sopravvisse una sola, mentre tutte le altre morirono a Mauthausen.” L’unico sopravvissuto tornato a Legnano dopo pochi anni si suicidò. Dopo alcuni giorni nel carcere di San Vittore gli otto dipendenti della Tosi vennero avviati nel campo di Fossoli (Dulag, campo di transito). Lasciarono Fossoli su vagoni piombati l’8 marzo con il Trasporto n 32, partito nel pomeriggio da Firenze con almeno 300 deportati toscani. Il convoglio, diretto a Mauthausen, sostò a Fossoli e a Verona dove vennero aggiunti al treno altri sei carri bestiame con 290-300 deportati. A Mauthausen il convoglio arrivò nel primo pomeriggio dell’11 marzo; lì vennero classificati con la categoria Schutzhaftlinge (prigioniero politico, mandato di arresto per motivi di sicurezza) e contraddistinti con un numero di matricola scritto su di un triangolo rosso. Nel lager venne a loro chiesto il mestiere che esercitavano per sfruttarli meglio fino alla morte.

Chi erano i deportati della Franco Tosi del 5 gennaio 1943 Paolo Cattaneo. Nato nel 1909. Tornitore. Membro della Commissione interna. È trasferito a Gusen (Mauthausen). Fu ricondotto a Mauthausen negli ultimi giorni di guerra (“Marce della morte”). Sopravvissuto. Morì poi suicida. Pericle Cima. Nato nel 1899. Ingegnere meccanico. Capo reparto calderai. Nel carcere di San Vittore venne torturato. È trasferito a Schwechat-Florisdorf (Mauthausen) il 26 marzo 1944. Trasferito a Wien Florisdorf fine giugno-primi di luglio ’44. Deceduto l’11 aprile o il 5 aprile 1945 a Steyr durante la “marcia della morte” da Wien Florisdorf a Mauthausen. Alberto Giuliani. Nato nel 1910. Perito tecnico. Deportato a Mauthausen e poi ad Ebensee con un altro trasporto rispetto ai suoi compagni. A Ebensee entra nella resistenza interna del lager. Deceduto il 6 febbraio 1945. Carlo Grassi. Nato nel 1902. Modellatore metallurgico (tubista). È trasferito a Gusen (Mauthausen). Deceduto tra il 14 febbraio e il 15 febbraio 1945 a Gusen. Francesco Orsini. Nato nel 1882. Tornitore. È trasferito a Kalk-Ebensee (Mauthausen). È trasferito nel Sanitaetslager di Mauthausen. Deceduto il 5 ottobre 1944 nel castello di Hartheim (Mauthausen).

Angelo Sant’Ambrogio. Nato nel 1913. Operaio fresatore. Membro di primo piano della Commissione interna e comandante militare del gruppo clandestino di fabbrica. Molto attivo nella Resistenza a Legnano in collaborazione con i fratelli Venegoni. È trasferito nel Sanitaetslager di Mauthausen. Deceduto il 19 settembre 1944 nel Castello di Hartheim (Mauthausen). Ernesto Luigi Venegoni. Nato nel 1899. Modellista, meccanico di precisione. Membro della Commissione interna. È trasferito a Gusen (Mauthausen), poi a Mauthausen, poi a Linz III (Mauthausen). Deceduto il 26 marzo 1945 a Mauthausen. Antonio Vitali. Nato nel 1899. Tubista. Capo in carica della Commissione interna. È trasferito a Gusen (Mauthausen). Deceduto il 9 marzo 1945 a Gusen.

Tutto finito? Tutto finito. Un rapporto fascista attestava che “a seguito dell'intervento della SS tedesca la situazione si è ristabilita a Legnano e nelle sue fabbriche”. “La fabbrica non subì alcuna distruzione e i macchinari restarono intatti” (Landini). Un volantino redatto dai fratelli Venegoni dopo gli arresti del 5 gennaio ’44 dichiara: “Gli operai arrestati erano solo colpevoli di aver reclamato di parificare i salari dei lavoratori legnanesi a quelli dei maggiori centri industriali (Sesto San Giovanni) e di far mantenere agli industriali le promesse fatte. Invece i barbari delle SS avevano voluto arbitrariamente intervenire in difesa degli sfruttatori del popolo contro gli operai”. Secondo i fratelli Venegoni la responsabilità di quanto accaduto andava, oltre alle SS, “alla cieca ostinazione dei dirigenti della Tosi che aveva provocato lo sdegno della massa degli operai”. Non avevano torto. Tutto finito? Davvero? In zona non era tutto finito. Il 7 gennaio 1943 fu la volta dell’Aermacchi di Varese: alcune centinaia di operai in sciopero da qualche giorno vennero messi al muro da un reparto delle SS. I militi tedeschi ne scelsero un centinaio a caso e li condussero a San Vittore, dove rimasero per due mesi. Quasi tutti ritornarono alle loro case. Il 10 gennaio un analogo sciopero alla Comerio di Busto Arsizio fu stroncato con un’azione militare nazista identica a quella alla Franco Tosi, con la deportazione di sei operai.

Ercole Comerio di Busto Arsizio.

Alla Franco Tosi “due mesi più tardi, ai primi di marzo, le SS fecero una seconda retata e portarono via altri dipendenti della Tosi tra cui alcuni tecnici e impiegati” (Anonimo-2). Incarcerati a San Vittore a Milano partirono con il trasporto n. 38 da Milano il 6 aprile 1944 con destinazione Mauthausen, dove giunsero due giorni dopo. Si tratta di Giuseppe Bosani, Rino Cassani, Carlo Enrico Giovanni Ciapparelli, Pietro Gobbo, Astorre Landoni, Mario Pomini, Eugenio Verga e Davide Zanin: tutti deceduti nei lager. Furono tutti arrestati non dai tedeschi, ma dai fascisti. “In seguito a quelle due razzie il lavoro non ebbe più la regolarità di prima. Cominciarono a scarseggiare le materie prime, si accentuava quel tipo di sabotaggio “prudente” che nessuno osava chiamare apertamente sabotaggio, apparivano negli uffici e nei reparti volantini contro la guerra, contro i tedeschi, contro la Repubblica di Salò… Nessuno sapeva da dove piovessero… o forse lo sapevano tutti. Non servivano a molto, ma tenevano viva la tensione, mantenevano il legame tra lavoratori e brigate partigiane” (Anonimo-2).

Lapide commemorativa del deportati della Ercole Comerio di Busto Arsizio.

E nei lager? Era tutto finito? “Angelo - ci ricorda il fratello Teodoro Sant’Ambrogio - era un uomo combattivo, non si tirava indietro quando c’era da lottare insieme ai suoi compagni, e quando per lui e altri arrivò il momento di prendersi delle responsabilità, non mancò la coerenza di dimostrare in cosa credeva, pagando anche con la vita per le proprie idee”. La Resistenza, non solo di Angelo Sant’Ambrogio, dalla fabbrica si è spostata nei lager: Italo Tibaldi nel libro “Nei lager c’ero anch’io”, a cura di Vincenzo Pappalettera, ci testimonia che nel lager di Ebensee “tra di noi italiani, eravamo circa 1.500, non fu possibile trovare un unico rappresentante accettato da tutti, tuttavia concordammo quattro nominativi: Ventura Ferrazzuto, giornalista dell’“Avanti” clandestino; Franco Ferrante, giudice a Milano che aveva respinto i decreti della Repubblica di Salò; Alberto Giuliani, operaio meccanico alla Tosi [in realtà era tecnico, nda] dove aveva organizzato gli scioperi e il dottor Antonio Molino, dirigente alla Caproni dove, assieme agli operai, aveva sabotato la produzione e incoraggiato gli scioperi. … Il movimento di Resistenza aveva raggiunto scopi insperati. La fabbrica che doveva essere completata per l’ottobre 1944 per produrre missili chiamati U, non fu mai ultimata. La solidarietà consentì una maggiore resistenza ed a molti di sopravvivere fino al crollo del Terzo Reich e salvò i superstiti dallo sterminio finale”. Italo Tibaldi.

E dopo la Liberazione?

Il 5 gennaio 1948 si svolse alla Franco Tosi una cerimonia con la posa della lapide a ricordo dei quindici caduti della fabbrica (tra deportati e partigiani combattenti) per tenere viva la memoria “di quegli ideali per i quali essi diedero la vita e noi tutti soffrimmo” (da “La Franco Tosi commemora i suoi caduti”, in “Il Carroccio”, 11 gennaio 1948). Da allora ogni anno quelle vite uccise nei lager ci vogliono ricordare che la libertà è importante, che tocca a noi non rendere vano il loro sacrificio perché, come sostiene un partigiano, all’epoca giovanissima audace staffetta 13enne, “la libertà è come l’aria: non puoi vivere senza, ma quando ti accorgi che manca… può essere già troppo tardi”.

Giancarlo Restelli e Renata Pasquetto

Lapide commemorativa dei deportati della Franco Tosi di Legnano, posta nel cortile interno della fabbrica.

Fonti .Gonzalo Alvarez Garcìa, “Quelli della Tosi. Storia di un’azienda”, Libri Scheiwiller, 1985. .Pietro Macchione, “L’oro e il ferro. Storia della Franco Tosi”, Franco Angeli, 1987. .Luigi Marcon, Giancarlo Restelli e Alfonso Rezzonico, “I deportati politici dell’Alto Milanese nei lager nazisti. Busto Arsizio, Gallarate, Arluno, Castano Primo, Legnano, Magenta, Rho, Saronno”, Mimesis, 2014. .Paolo Pozzi, “Quei ventenni del ’43. Appunti di cronaca e storia della Resistenza nell’Altomilanese”, Macchione editore, 1995. .http://restellistoria.altervista.org/pagine-di-storia/resistenza/piera-pattani-86-anni-partigiana-di-legnano-brigata-182-garibaldi/ .http://www.circolone.it/Resources/FrancoLandini.pdf .http://www.lombardia.cisl.it/doc/pubblicazioni/varie/2009/ilpercorsodellaliberta.pdf

I deportati della Franco Tosi.pdf

organizzati a Legnano avvennero proprio in quel marzo '43. Piera Pattani, allora 16nne operaia alla tessitura Giulini e Ratti, ricorda. quegli esordi del '43, di cui ...

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