MADONNE DELLA NEVE Viaggio alla ricerca di risposte tra fede e bellezza

La sensibilità è una condanna, Ma ti consente di cogliere milioni di colori In un viaggio bianco e nero. (Michelangelo)

1 – La prima Madonna della Neve.

Era ieri, l'anno del Signore 352. La nuova Religione venuta dall'Oriente stava conquistando, ormai non più perseguitata, i conquistatori di un tempo, e alle antiche religioni, con tutte le loro immaginifiche suggestioni, si andava sovrapponendo il nuovo credo cristiano, che avrebbe fatto di Roma una delle capitali del mondo a venire, che sarebbe sopravvissuta ben più a lungo dello stesso Impero. In quell'anno 352 d. C. si narra di Giovanni che era un ricco patrizio romano. Giovanni e la di lui nobile moglie desideravano avere dei figli, e si erano offerti, per ottenere esaudito il loro desiderio, di costruire una Basilica a Colei che era la madre del Signore e di tutti i Cristiani. Narra la leggenda – che forse è solo ricordo tramandato nei secoli - che durante la notte del 4 agosto 352 il patrizio vide in sogno la Vergine Maria che gli chiese di costruire una basilica nel luogo dove il mattino seguente avesse trovato della neve appena caduta.

Si era in agosto, nel caldo, afoso agosto di Roma, e tuttavia Giovanni, la mattina seguente, si recò da Liberio, a quel tempo Papa di Roma, per raccontargli il suo sogno e il pontefice confessò a propria volta di aver avuto la stessa visione. Si recarono tutti, da un lato increduli, dall'altro colmi di speranza, sul colle Esquilino, la cui c ima trovarono coperta di neve fresca, gli

ultimi fiocchi candidi che ancora scendevano quieti dal cielo, e per ordine di Liberio venne tracciato il perimetro della futura basilica seguendo esattamente la pianta designata dalla candida neve appena caduta. Doveva essere bellissimo, il colle che si ergeva sulla città, coperto di neve sotto il cielo azzurro illuminato dal sole d'oro e spazzato dal vento che spesso soffia leggero sulla Città Eterna. E un poco di quei colori e di quella bellezza sono rimasti intrappolati nell'azzurro e oro dei mosaici della facciata della Basilica, che raccontano questa storia gentile. Sempre secondo la storia, che però forse è solo leggenda, la costruzione della basilica sarebbe stata finanziata dal patrizio stesso e prese il nome di Basilica di Santa Maria della Neve. Ogni anno, il 5 di agosto, Roma ricorda l'origine leggendaria della più amata tra le sue

Madonne, con una cascata di petali di rose bianche che scivolano leggeri e silenti come fiocchi di neve candida dall'alto della cupola della grande chiesa, durante la solenne celebrazione liturgica in nome di Maria. Nella realtà cruda della storia, per la verità, la chiesa non era in origine dedicata alla Vergine cui fino al quinto secolo dopo Cristo non si era arrivati ad attribuire un culto particolare, ma alla fede del Credo di Nicea che aveva riaffermato la dottrina ortodossa della consustanzialità del Padre e del Figlio, contro l'eresia ariana. A quel tempo la Madonna, come si è detto, non era ancora oggetto di culto riconosciuto, culto che cominciò col Concilio di Efeso (431), dove venne definita la divinità di Cristo fin dal primo momento del Suo concepimento, con la sconfitta definitiva dell'eresiarca Nestorio; solo indirettamente quindi venne anche definita la maternità divina di Maria, ma fu questo secondo aspetto della definizione dogmatica a provocare più gioia nel popolo cristiano, e una grande diffusione del culto della Madonna. Ed è a Lei, come Madre di Dio, che all'indomani del Concilio di Efeso, venne dedicata la costruzione: per volere del Papa di allora, Sisto III, l’antica chiesa fu abbattuta e ricostruita: il Papa volle innalzare a Roma un tempio più grande in onore della Vergine, utilizzando

anche i materiali di recupero della chiesa antecedente. La basilica venne dunque dedicata alla Madre di Dio, secondo il bellissimo testo della grande iscrizione sulla parte interna della facciata: “Vergine Maria, a Te ho dedicato io, Sisto, un nuovo tempio, degno omaggio alla tua maternità salvifica. Tu, madre senza conoscere uomo, hai concepito e dato alla luce verginalmente la nostra salvezza”. In quel periodo a Roma nessuna chiesa raggiungeva lo splendore e la grandezza del nuovo luogo di culto, cui fu dato, qualche decennio dopo, il titolo di Basilica di S. Maria Maggiore, per indicare la sua prevalenza su tutte le chiese dedicate alla Madonna.

La Madonna: è lei che troviamo in questo luogo ammirando sul frontone dell'abside i mosaici che ricordano i misteri dell'Incarnazione e della divina Maternità. È lei che veneriamo davanti alla bella icona di stile bizantino, chiamata "Madonna di san Luca", per lungo tempo attribuita all'Evangelista e che, pur essendo d'epoca più recente, è certo la riproduzione di un'opera antica. Roma che conserva con pietà tante meravigliose immagini della Vergine, ama quest'ultima come la più veneranda fra tutte; questo dipinto è il suo palladio, e lo considera come "la salvezza del popolo romano". Innumerevoli sono i pellegrini venuti a implorare in questa basilica la materna protezione della Vergine o a presentarle i loro omaggi di filiale tenerezza. E molti vi ricevettero grazie particolari.

Fu qui che, secondo un'antica tradizione, si precipitò furibondo l'esarca Olimpo con lo scopo di uccidere Papa Marino (882-884), mentre celebrava la Messa. Appena varcata la soglia, però, divenne miracolosamente cieco, non riuscendo così nel suo folle proposito omicida. Ancora in questo sacro luogo, in una notte di Natale, la Santa Vergine depose il Bambino Gesù fra le braccia di san Gaetano da Thiene; qui, ancora durante un'altra notte di Natale, sant'Ignazio di Loyola celebrò la sua prima messa; qui i rosari sgranati da san Pio V ottennero ai Crociati la vittoria di Lepanto; ed è davanti alla Madonna di san Luca che amava pregare San Carlo Borromeo quando era arciprete della basilica. Dal 1568, per una di quelle decisioni del Concilio di Trento destinate a restare lettera morta nel credo popolare, è rimasta la dedica della Basilica di Santa Maria Maggiore alla Maternità Divina di Maria, sempre celebrata il 5 di agosto, ma è stata eliminata la citazione del miracolo della neve in agosto in quanto definitivamente ritenuto leggendario, non essendo in alcun modo documentato. Il miracolo è tuttavia talmente radicato nella coscienza popolare che viene raffigurato nei quattro mosaici rifatti intorno alla fine del XVIII secolo, ora inglobati nella loggia di facciata dell'edificio. Da dove dunque ha avuto origine questa leggenda gentile? A questo punto lascio la parola alla mia amica Anna.

Quando Rossana ed io abbiamo letto il bando per il 2015 della NOSTRA GENT, “Loca Sanctorum, devozione, storia e arte nel Novarese e nella Valsesia”, abbiamo pensato che l’argomento era vastissimo e si rendeva necessaria una scelta, qualcosa che restringesse un poco il campo di indagine. La nostra attenzione è caduta sulle Madonne delle Nevi, un tema che interessava entrambe e che per motivi diversi ci affascinava, anche per il taglio particolare che noi volevamo dargli viste le diverse angolature da cui lo avremmo osservato. La mia amica era attirata dal clima dei luoghi e delle chiese con questa intitolazione, io dalla storia e dai risvolti antropologici della devozione, così abbiamo pensato di dividerci i compiti: a lei sarebbe toccato il lato emozionale e leggendario, a me il dato storico e documentario.

Poi, come spesso accade, abbiamo mischiato i ruoli e Rossana ha dovuto immergersi nella ricerca d’archivio mentre io ho incominciato a spaziare in altri luoghi, quelli del mito e delle suggestioni emotive. E così siamo partite alla ricerca delle chiese dedicate alla Madonna delle Nevi e ne abbiamo trovate tantissime, sia nel Novarese che in Valsesia, alcune con funzione di parrocchiale, altre come oratori campestri o piccole chiese su alture irraggiungibili, per finire alle cappelle sperdute nei campi o in qualche alpeggio. Ancora una volta bisognava fare una scelta, e la scelta è stata quella di limitarci al territorio intorno a Romagnano con alcuni sconfinamenti in alta valle e nel borgomanerese, così siamo andate a cercarne talune, Rossana ed io, spinte dalla curiosità che ci accomuna, avide di vedere e, se possibile, di condividere. La maggior parte delle chiese con questa dedicazione fa riferimento al miracolo della nevicata romana del 5 agosto e alla successiva fondazione di una basilica

sull’Esquilino per opera di papa Liberio; questa leggenda del sogno comune del pontefice e del patrizio Giovanni è molto suggestiva, non per niente è diventata soggetto di molte opere pittoriche di noti artisti, cito per tutti Masolino da Panicale e Jacopo Zucchi nelle cui famose pale si nota il papa intento a tracciare con una zappa il perimetro della futura chiesa; rimane però una leggenda e, come tale, va interpretata e riletta. Quando papa Liberio delimitò con un solco un’area destinata a diventare un luogo sacro non fece altro che ripetere un gesto di antica e profonda sacralità, molto precedente al rito cristiano di consacrazione di una chiesa. L’atto sacro dell’aratura rituale compare in moltissime culture e ha forti valenze simboliche, tutte legate ai miti della fertilità della Madre Terra: tracciare un solco significava aprire il grembo della terra per permettere alla pioggia di fecondarla. Ma tracciare un solco di delimitazione era anche il primo atto della fondazione, di un edificio come di una città e ricordo solo il mito dell'origine di Roma ed il successivo atto sacrilego di Remo che non rispetta il limite, e paga con la vita la sua trasgressione. Tornando a Liberio, probabilmente il papa non tracciò la pianta completa della futura costruzione ma si limitò a un primo solco rituale benedetto, che diede il via alla primitiva basilica, chiamata appunto Liberiana., ma che il popolo chiamò presto “ad Nives”, dove quel’”ad” sta per “presso le nevi”, col

chiaro intento di

localizzare un luogo ben preciso. Il ricordo di quel solco permane nei riti presenti in diverse località, riti propiziatori della fertilità della terra, ad esempio a Bacugno, un paese della Sabina, in cui avviene tuttora una celebrazione che risale a epoche molto lontane, quando vi si celebravano i riti agresti della dea Vacuna, una delle grandi Madri italiche, in cui il solco sacro e il toro sono i protagonisti; la cosa interessante è che queste celebrazioni avvengono il 5 di agosto perché a Bacugno c’è una delle più antiche chiese del Lazio dedicate, guarda caso, alla Madonna delle Nevi!

Si comincia a delineare quello che nasconde la leggenda suggestiva della nevicata estiva: papa Liberio, con un gesto di riconosciuta sacralità, aveva intenzione di fondare un nuovo edificio di culto che prendesse il posto di qualcosa già sacro da tempo e la nuova fondazione avrebbe sostituito qualcosa di molto importante per l’antica religione e ribenedetto un luogo frequentato da tempo immemorabile, il cui valore non poteva venire cancellato ma solo trasformarsi e dedicarsi al vero Dio. Cioè il “miracolo” del Sacrum Continuum! Dunque quel solco sarebbe stato fecondo, avrebbe generato qualcosa di nuovo, una chiesa dedicata alla nuova fede che avrebbe sostituito l’amatissimo tempio di Giunone Lucina che sorgeva proprio sull’Esquilino e accoglieva da secoli le preghiere delle donne romane desiderose di avere un figlio, poiché lei era la sposa di Giove, la Regina, la dea della luce, della maternità, del parto. E non è tutto, poiché nella leggenda compare un elemento molto interessante e rivelatore, quella data precisa del 5 agosto. Nei miti non ci sono date, il tempo è qualcosa di indefinito, in questo caso invece la data non è solo legata all’elemento miracolistico della nevicata fuori stagione ma ha valenze diverse. Andando a rovistare tra le feste della romanità troviamo che il 5 del mese di agosto era dedicato alla dea Salus, o meglio la “Salus Publica Populi Romani, Concordia et Pax”, la divinità che personificava la salvezza dello stato, la pace e la concordia dei cittadini alla quale Augusto aveva fatto erigere un tempio ed il cui anniversario veniva celebrato proprio il 5 agosto. La basilica liberiana, nella quale erano state reimpiegate le quaranta colonne provenienti dal tempio di Giunone Lucina, non era dedicata alla Vergine ma al Credo di Nicea, definito in quel concilio voluto da Costantino nel 325 e per le cui tesi si era battuto anche Liberio, divenuto papa nel maggio del 352 e che aveva dovuto scendere a compromessi con l’imperatore Costanzo, finché solo nel 358 era riuscito a professare chiaramente la sua posizione antiariana. Sappiamo inoltre che Liberio aveva una specie di ossessione per la verginità, esaltata nel discorso fatto quando Marcellina, la sorella di Sant’Ambrogio, la vigilia

di Natale del 353 aveva preso il velo dalle sue mani, quel velo bianco che doveva coprire il capo delle vergini. Si fa sempre più luce sui veri motivi che portarono all’erezione di quella prima basilica, tra l’altro la prima a Roma a essere voluta da un papa, e l’ultimo chiarimento viene dalla lettura del carme funebre di papa Liberio, nel quale viene definito “pontefice immacolato come la neve”. Ecco come presumibilmente devono essere andati i fatti. Liberio era diventato papa il 17 maggio 352 ed è improbabile che solo pochi mesi dopo abbia dato il via alla basilica, visto che lo aspettavano tempi duri fra diatribe dottrinali e politiche fino a due anni di esilio, dai quali tornerà nell’estate del 358 completamente riabilitato nella sua fede nel credo di Nicea. Quello era il momento giusto. Con la fondazione di una nuova basilica avrebbe tolto ogni dubbio sul suo operato, consolidato ulteriormente la sua posizione e avrebbe raggiunto anche altri scopi: allontanare dal culto pagano di Giunone Lucina le donne romane, ribenedire un luogo già sacro esaltando un giorno importante per l’intera comunità dell’Urbe che teneva alla sua “Salus”, cioè il suo benessere e la sua sicurezza. Ci voleva un elemento scatenante e quel niveo candore proprio sull’Esquilino, probabilmente quello di una grandinata possibilissima data la stagione, era parso ad un uomo colto, come sicuramente era papa Liberio, un dono del cielo che avrebbe fatto gridare al miracolo la massa superstiziosa ed influenzabile. Senza contare che tutto quel bianco doveva richiamare alla sua mente la purezza e la perfezione: il bianco era il colore del divino, delle creature senza macchia, era il simbolo di quella verginità che lo ossessionava, che è nello stesso tempo sacrificio ma anche luce di vita, purificazione dai peccati e presagio di creazione. C’erano tutte le premesse per la futura dedicazione, circa un secolo più tardi, alla Theotokos, colei che il concilio di Efeso avrebbe definito la Vergine Madre di Gesù, vero Uomo e vero Dio. E c’erano anche le premesse per la venerazione della splendida icona bizantina in quella che oggi è diventata Santa Maria Maggiore e che prese subito il titolo di “Salus Populi Romani”! E’ grande per essere un’icona, in legno di cedro, e sulla sua origine hanno detto di tutto visto che i diversi rifacimenti rendono difficile datarla, anche se l’ipotesi più

probabile è che sia tardo antica, un’espressione generica che sta a significare un lungo arco di tempo, ma tutto questo è secondario. L’importante è lei, i suoi lineamenti ieratici e la sua posa regale, con quel manto filettato d’oro sulla veste viola, con quella “mappula” ricamata legata alla mano destra, il fazzoletto cerimoniale che portavano prima i consoli e poi gli imperatori, un simbolo di potere concesso a una donna speciale, che lascia scorrere il suo sguardo verso la folla mentre il figlio che tiene fra le braccia guarda lei con amore.

E’ lei la regina del cielo che mostra la via agli uomini, che ha finito per assommare nella sua persona le Grandi Madri italiche, la dea Salus, la Iuno Sospes di Lanuvio progenitrice della Giunone Lucina dell’Esquilino, lei che è nello stesso tempo madre e regina, vergine e pura come quella stella sul suo velo azzurro, a forma di croce e con quattro punti fra gli spazi, candida come un immacolato cristallo di neve. Tornando al nostro novarese e soprattutto alla Valsesia, notiamo che moltissime chiese con questa dedicazione risalgono alla fine del 1500 e trovano la loro giustificazione in quel deterioramento climatico noto come Piccola Glaciazione che iniziò proprio in quel periodo; da qui la richiesta di protezione e lo sviluppo di manifestazioni religiose allo scopo di superare i pericoli del freddo, delle valanghe e di tutto ciò che era collegato al clima ostile; questa religiosità si manifestò in processioni, voti e ridedicazioni di chiese già esistenti o nuove fondazioni, differenziate adesso con il titolo di Madonna delle Nevi. Ma se per le zone montane esiste questa evidente spiegazione, per le chiese con lo stesso titolo poste in pianura la situazione cambia, soprattutto se pensiamo che nel novarese le troviamo anche sotto Novara, come a Cameri, Bellinzago, Recetto, Romentino, Barengo, Briona, per le quali l’origine non è legata al periodo di grande freddo ma piuttosto all’economia locale, di tipo agro pastorale, in cui la fertilità dei campi e degli animali erano elementi vitali. Si tratta inoltre, per questi e altri siti anche dell’alto novarese, di località di antica origine preromana e poi romana, comprovata da molti ritrovamenti archeologici relativi a insediamenti di tipo agricolo e a sepolcreti, da cristianizzare con fondazioni e dedicazioni di chiara origine esaugurale ed esorcizzante.

2. La Madonna della Neve a Prato Sesia, frazione Baragiotta. La prima del nostro peregrinare è la più vicina, la cappella della Madonna della Neve a Prato Sesia, in frazione Baragiotta. Sta in cima a una piccola altura, come molte cappelle campestri di questo tipo. Certo la scalinata per raggiungerla è anch'essa un simbolo, racconta della fatica necessaria per arrivare sino a Dio. Forse i giovani non possono intuirlo, questo simbolo.

Ma io non sono più giovane e mi affatico ad inerpicarmi su per la scalinata che mi sembra lunghissima; in realtà non è poi così difficile da salire, e sembra raccontare che, volendo, a Dio ci si può arrivare almeno vicino. La scalinata è bella, lavorata, curata, pavimentata di ciottoli chiari, pulitissima: in quella piccola frazione, sperduta in mezzo ai boschi, racconta di devozione e di amore. “Questa è gente che ama la sua piccola chiesa” penso tra me, mentre mi arrampico sotto il sole. E poi arriviamo alla cappella, e un signore-guardiano ci apre la porta chiusa. La cappella si inonda di sole, tutto il sole di un giorno di maggio che entra da quella grande porta, insieme al profumo dei campi e degli alberi e del tempo passato e della fede che ha attraversato i secoli, ed è tuttora miracolosamente presente. Un tempo, mi confida il guardiano, il muro di chiusura non c'era, la cappella era aperta alla devozione della gente, che veniva a pregare la sua Madonna della neve.

Che è lì, di fronte a noi, in un grande affresco sopra l'altare.Non è particolarmente bello, l'affresco, se non per l'azzurro commovente dell'abito di Maria. Ma Lei ha il viso un po' triste e porge il Suo Bambino verso chi desidera pregarLo, ma non sembra entusiasta. Neanche il Bimbo sorride. Si può dare Loro torto? Penso io. A quei tempi, la vita era

davvero difficile, si parla del 1500, guerre, malattie, fame, freddo, paura... e noi ci lamentiamo adesso! Il Piccolo è nudo ma adorno di una collana e due braccialetti di corallo, probabilmente con un significato apotropaico, ed ha in mano una rosa bianca, simbolo di purezza. Anna mi dice che è una simbologia abbastanza consueta, quella della rosa bianca in mano al Fanciullo, nelle Madonne della Neve. Maria è affiancata da due Santi, anch'essi seri in volto e per nulla, si direbbe, benevolenti: San Nazario, dalla figura dipinta un poco rozzamente, come l'ambiente rurale nel quale si muove, e con la spada in mano, con la quale venne decapitato, e San Gaudenzio, probabilmente di epoca posteriore, più elegante e cittadino, avvolto nell'eleganza del suo prezioso mantello. Due angeli incoronano Maria Regina dei cieli. Ma nemmeno loro sorridono. Poi mi volto, per tornare indietro. E vengo investita dal sole gioioso, e da quella piccola altura lo sguardo corre sui boschi, fino alla linea delle lontane montagne bellissime.

E imbocco la scalinata per la discesa, e finalmente sorrido io, di speranza.

Ancora una volta mi tocca il ruolo di quella che ritorna ai dati storici e devo ricordare che della piccola chiesa di Baragiotta si hanno già notizie nelle visite pastorali a partire dal 1590, le quali ci dicono che tra Prato e Grignasco c’erano parecchi grandi cappelloni per le processioni stazionali, che servivano anche al ricovero dei contadini, ad esempio quelli di San Grato, San Vittore, San Desiderio e, a Baragiotta, San Nazario, tutte dedicazioni che riportano a tempi molto antichi. Sì, perché quella che oggi è la Madonna della Neve in origine era intitolata a San Nazzaro, il nome del colle su cui sorge e dell’antica cascina sottostante. Era un piccolo oratorio con all’interno l’affresco cinquecentesco che oggi ammiriamo sull’altare e, ma è solo un ipotesi, poteva esserci una Madonna della Neve forse solo all’esterno; quando ai primi del ‘700 si rifarà la chiesa, l’affresco resterà al suo posto e manterrà la curvatura che seguiva l’antica abside. Cambiò anche l’intitolazione, dicono perché la consacrazione avvenne il 5 agosto, inoltre nella devozione popolare la Madonna della Neve era diventata anche Madonna delle Grazie, perché molto amata e seguita dall’intera comunità. Anche la collina cambiò nome e così pure la cascina, che divennero il colle e la cascina della Madonna. A lato dell’affresco, che Rossana trova un po’ triste ed io molto bucolico nella sua semplicità, si apre la porticina che dà in quello che viene chiamato solennemente coro, ma che in realtà è una specie di ripostiglio in cui sono conservati arredi che non servono più e altri che dispiace buttare. Qui, dove si intuisce il retro dell’antica cappella, dimenticati in mezzo alla polvere stanno due cimeli del passato, tristi e commoventi testimoni dello splendore popolare della ricostruzione settecentesca: il paliotto sbiadito dell’altare con le sue volute a tinte tenui e un delizioso tabernacolo azzurro, un tempo profilato in oro e foderato di seta bianca, con la sua grazia rococò che varrebbe tanto la pena di restaurare! Sempre a Baragiotta, a poca distanza dall’attuale Madonna della Neve, c’era però anche l’oratorio di San Desiderio, al centro della primitiva Karonia di matrice celtica, dove si recavano le donne a invocare il dono della maternità e le puerpere

per mettere il neonato sotto la protezione del Santo, che nelle nostre zone venne portato in epoca carolingia, e noi i carolingi li avevamo a Romagnano. Con un piccolo sforzo di immaginazione, che Rossana ed io non abbiamo timore di usare, possiamo intuire le antiche visite delle donne a quei luoghi, le loro speranze o la loro disperazione, riusciamo quasi a vedere la loro sosta a San Desiderio e poi, con un ultimo sforzo necessario per ottenere la grazia, la loro faticosa salita sull’altura un tempo rocciosa di San Nazario, dove forse c’era già un’immagine di Maria, la Madre per eccellenza. E forse la futura dedicazione alla Madonna della Neve, e delle Grazie, nasce da qui, dalla trasformazione e cristianizzazione di luogo di antichissimi culti della fertilità.

3. La Madonna della Neve a Cureggio, frazione Marzalesco. Vicina è anche la chiesa dedicata a San Pietro, nella frazione Marzalesco, dove è custodita un'immagine della Madonna della Neve. L'edificio è in piano, qui, quasi sulla strada, dalla quale si diparte una passatoia bianca di pietra, assai curata e pulita, che conduce fino alla chiesa. Pur su quasi una strada, intorno sono prati e filari di piante sottili, brillanti di verde, il verde di maggio ancora grondante delle piogge recenti. Tutto d'intorno è silenzio, e la chiesa è lì, facilissima da raggiungere. La porta è aperta, niente guardiani qui, ma la chiesa è ugualmente vuota e persino più silenziosa del mondo fuori che la circonda. La linea della chiesa è aggraziata, quella grazia impagabile ed irripetibile delle chiese romaniche. Sarebbe splendida, se non fosse ricoperta da un mal scelto intonaco grigio, troppo recente perché il tempo vi abbia steso la sua patina pietosa. Da un lato, mi colpisce per primo un dolce affresco di Madonna, il giovanissimo viso incorniciato dai bei capelli raccolti sotto una cuffietta. Non è lei, però l'immagine venerata di Maria della Neve.Questa è più vicina all'ingresso, sul lato sud, l'immagine di Maria col suo Bambino benedicente.E' un'altra Madonna, questa. Regale, in trono come l'altra, quella di Prato Sesia, ma fastosamente vestita e per nulla umile. E' bello il viso, ma di una bellezza di donna, non di Santa dei cieli. I fieri occhi neri ben dritti a guardare chi a propria volta La guarda e i lunghi capelli sciolti colore del rame richiamano piuttosto una Maddalena, forse nemmeno ancora del tutto pentita. Il Bimbo che tiene in braccio non è nudo perché venuto nudo sulla terra, a predicare la povertà del corpo di fronte alla ricchezza dell'anima, ma vestito come un piccolo principe, nudi soltanto i piedini.

Maria tiene in mano un libro e Suo Figlio ha nella mano sinistra un uccellino, simbolo dell'anima che appartiene al cielo, destinata nella morte a sollevarsi con la leggerezza delle ali al di sopra del mondo dell'uomo. O forse, quel piccolo uccello è addirittura un cardellino, che rimanda alla passione di Gesù. Infatti, il suo nome latino “carduelis” ne sottolinea la caratteristica di cibarsi di cardi, che alludono alla corona di spine che un giorno cingerà il capo del Bambino. Nessuno sta intorno a Maria, per render Le omaggio, né Santi né Angeli. Basta la Sua figura a raccontare della Sua importanza, e non è necessario incoronar La: la corona la porta già, e il Suo sguardo deciso non lascia dubbi sul fatto che Le spetti. Con l'altra mano il Bimbo benedice, ma nonostante le ricche vesti sfarzose, né l'Uno né l'Altra sorridono. E' evidente che l'affresco è precedente alla ventata della Controriforma che, sull'onda della ribellione della Riforma Protestante allo sfarzo ormai insopportabile della Chiesa di Dio, vestirà i suoi Santi e le sue Madonne con dimesse vesti contadine. Io torno fuori, alla quiete silenziosa dei campi e dei boschi vicini. Forse perché è stato così facile arrivarci, forse perché la Chiesa è così vuota e Maria, tutto sommato, nonostante quel suo atteggiamento da regina, non ha nemmeno un suddito che si interessi a Lei, in fondo forse solo perché non sono dell'umore giusto, questa volta mi allontano senza che la speranza mi canti nel cuore.

Ogni volta che penso a Marzalesco rivedo la sua piana intensamente coltivata, il suo piccolo agglomerato di case che conservano così bene, nella loro disposizione a cerchio, l’aspetto del primitivo borgo medievale e poi ancora campi fino alla chiesa della Madonna della Neve, teatro di tante mie perlustrazioni archeologiche, fino ad arrivare al suo guado incantato.

Un tempo era più a sud, in prossimità di una cascina di cui restano solo le rovine ma dove, ancora nel’800, esisteva un servizio di traghetto per le merci e le persone, oggi invece la strada passa davanti alla chiesa, poi scende dolcemente verso il bosco, verso l’acqua del Sizzone che attraversa con un guado autentico; il pedone ha a sua disposizione una passerella sospesa dove, fermandosi al centro, può godere di due diverse deliziose inquadrature: davanti il verde cupo, freschissimo e muschioso dove, se si è fortunati, è ancora possibile incontrare le creature del bosco, alle spalle la visione solare dell’antichissima San Pietro. Sì, antichissima, perché quella che noi oggi conosciamo come Madonna della Neve era in origine dedicata a San Pietro e risale a epoche molto lontane, a quel romanico dell’inizio del 1000 che nelle nostre zone ha visto il fiorire di tanti edifici sacri. La figura di San Pietro troneggia nell’abside, con le sue chiavi del Paradiso in mano e accanto alla seconda immagine della Vergine presente nella chiesa, una Madonna in trono che tiene nella mano destra un piccolo globo, o una mela, che porge al Bambino seduto sulle sue ginocchia; se si tratta di una mela gli storici dell’arte vedono il parallelismo, tanto caro al simbolismo medievale, tra Eva e Maria, tra la donna che gustando il frutto proibito causò la caduta dell’umanità e la Vergine che la riscattò dal peccato originale e dalla morte. La Madonna della Neve stava invece sulla parete sud, da cui venne strappata nella seconda metà del’800 e collocata sull’altare, quando cioè il titolo di San Pietro passò alla nuova parrocchiale costruita nel centro del paese e al nostro oratorio campestre rimase quello dell’immagine amata per secoli dagli abitanti del luogo, che a lei avevano dedicato processioni e attribuito miracoli, ed era cara anche a tutti coloro che percorrevano la strada che passa davanti, una via importante che conduceva verso Cureggio, il Piano Rosa e la Valsesia. Altri affreschi decorano le pareti della chiesa, Santa Caterina da Alessandria, San Giovanni, la Panacea, San Rocco, San Lucio, forse anche un Sant’Antonio abate, tutti collegati alla protezione degli animali e dei pascoli, i quali ci danno il quadro della profonda devozione di una comunità agricola e pastorale che, forse, vedeva nell’oratorio di San Pietro un piccolo santuario degli allevatori e dei pastori, che proprio di lì passavano per la transumanza. Ma c’è dell’altro.

Sappiamo che molto spesso la dedicazione a san Pietro è tipica di chiese costruite su antichi luoghi di sepoltura precristiani, in un chiaro intento esaugurale, e il nostro oratorio non fa eccezione; le indagini archeologiche hanno portato alla luce resti di tombe e nella costruzione del campanile sono stati riutilizzati segnacoli di antiche sepolture, inoltre all’interno della chiesa erano conservati un cippo votivo dedicato a Marte e ad Apollo e una lapide funeraria in marmo rosa scritta sulle due facciate, oggi conservati a Novara, tutte prove che nella zona c’era stata una necropoli tardo imperiale seguita forse da una serie di sepolture medievali. Ecco perché San Pietro, colui che giudica e assolve le anime, che apre, o chiude, le porte del Paradiso, un culto risalente ai primi tempi della cristianizzazione e ripreso dai Longobardi dopo la loro conversione. E i Longobardi in zona erano presenti e potenti, come hanno dimostrato le ultime indagini su Cureggio. Tutti segni che ci portano molto lontani nel tempo, come anche quella Madonna che porge la mela al Figlio, nella posa della Theotokos bizantina o della Vergine Odegitria, Colei che indica la Via, la stessa di santa Maria Maggiore a Roma, dove tutto è iniziato.

4. La Madonna della neve a Suno, frazione Baraggia. Anche la Madonna della Neve di Suno non è molto lontana. Fa caldo oggi, ma neanche tanto, in questo strano giugno in cui giorni di pioggia quasi autunnali si alternano a giornate di torrida calura estiva, inframezzate da giorni freschi di pioggia caduta da poco e carichi di luce. Luce che rimbalza limpida sulle verdi colline lontane, avamposti delle montagne che scendono a incontrare le risaie della piana novarese. Non è ancora terra di risaie, questa, e ci circonda genuina e discreta come l'antica tradizione contadina; campi e poi campi che si rincorrono verso l'orizzonte, alcuni scuri di terra lavorata da poco, altri carichi di pannocchie di granturco a mezzo della crescita; davvero qui il tempo sembra a misura d'uomo, scandito dai ritmi della natura, ma nulla di più lontano della neve, in questa terra bruciata dalla calura d'estate sempre in agguato... La chiesa si leva, solitaria, sulla piatta pianura infinita, proprio a lato della strada; pochissimi alberi interrompono l'orizzonte. Solo una betulla, vicina, esibisce i lunghi rami sottili, le foglie immobili, perché non tira nemmeno un alito di vento. Tutto intorno, il profumo dell'erba del prato appena tagliata.

Sono fortunata, la chiesa è aperta, una signora ci sta lavorando. La tiene pulita, molto pulita, questa chiesa di cui è la guardiana, e mi guarda, appena un po' infastidita; capisco che intuisce che sono venuta spinta dalla curiosità di vedere, piuttosto che dall'impulso di recitare una preghiera. Entro e le spiego perché sono qui, e che ho il permesso del parroco. E poi mi perdo a guardare. Doveva essere bella, la chiesa, nel tempo passato, le mura laterali e la cappella presbiterale tutti ricoperti da affreschi. Se ne sono salvati ben pochi, e molto poco di loro, se non per i quattro Padri della Chiesa (San Gerolamo, Sant'Agostino, San Gregorio magno e Sant'Ambrogio) dipinti sulle quattro volte a crociera della cappella, impaginati da fasce squamate che sottolineano i costoloni della crociera. Lì i colori sono quasi intatti, e lasciano intuire la bellezza perduta del resto. E' pittura tardo gotica, si ritiene del Cagnola o della sua scuola. Sulla parete destra della chiesa è affrescata una Madonna. Ne è rimasto ben poco, ma mi avvicino per osservarla meglio. Il viso della Madonna e quello del Bambino sono completamente – sembrerebbe quasi volutamente - cancellati, ma quello che è restato è identico alla Madonna di Marzalesco, del resto vicinissima: lo stesso ricco mantello blu orlato d'oro, questo, di bianco l'altro, con le medesime, eleganti volute che avvolgono il corpo di Maria, lo stesso rosso mattone

dell'abito, ed anche se qui la mano di Maria non tiene un libro in mano, è atteggiata nello stesso modo, attenta a fermare il Bambino, ritto in piedi sulle sue ginocchia. (Anna mi dice che potrebbe trattarsi di una Vergine Odegitria, Colei che indica la strada, che ovviamente è il Bambino) Ed il Bimbo ha la stessa posizione, e lo stesso vestito sfarzoso, a rigidi cannelloni ricamati, ed i piedini nudi. Qui però non è Lei, la Madonna della neve, forse è lecito immaginarla sostituita di proposito. Mi vengono in mente i Faraoni, dei quali il successivo eliminava il cartiglio di quello che lo aveva preceduto. Al posto d'onore, dietro l'altare, sta dunque in un trittico disegnato d'oro un'altra Madonna con in braccio un bambino ed a lato due Santi. Questa non è una Donna - Regina, consapevole della Sua divinità. E' una fanciulla dolce, commovente nella sua estrema giovinezza, che osserva stupita, forse un poco perplessa, il miracolo di quel Bimbo che le straborda dalle braccia ed agita inquieto i piedini e le braccia grassocce, e che la giovane madre sembra trattenere a fatica tra le braccia. Il pittore l'ha colta nell'attimo in cui si preoccupa di metterLo in salvo su di un cuscino che tiene sulle ginocchia. Forse, lo sguardo un po' velato di Maria insegue la visione del futuro sacrificio. Non può avere dimenticato la previsione che le trema senza dubbio, ben celata, nell'intimo “Una spada ti trapasserà il cuore.”. Quel bellissimo bimbo grassoccio e gioioso nell'atteggiamento del corpo, ma anche Lui che scosta il volto guardando coi seri occhi lontano, verrà dunque un giorno sacrificato? Tiene in realtà in mano un garofano rosso, che può sembrare un omaggio gentile alla giovane Madre ma, mi spiega Anna, per i cristiani il garofano rosso è il simbolo del sacrificio. Anche questa dolce Madonna mi richiama l'altro affresco della vicina Marzalesco, quello che avevo per primo notato. Lì, su una parete, è affrescata una Vergine col Suo Bambino, gli stessi colori quieti e solari, gli stessi capelli biondo-ramati, ma raccolti sotto una cuffietta, con la stessa dolce luce. A Marzalesco però i ruoli si sono invertiti, e la Madonna delle Nevi è rimasta, trionfante, la già descritta Madonna-Regina, e l'altra si accontenta di illuminare un'altra parete col suo modesto sorriso.

Sto ancora un attimo a chiedermi se in questo luogo quieto posso fermarmi un momento, posso osare di fermarmi a pregare. Poi però mi volto, esco e mi fermo sulla soglia a guardare la grande pianura, la strada a fianco che sembra venire e correre verso il nulla, tra i campi. Il cielo è grigio, ricolmo di nuvole scure, qua e là squarciate di luce. Il silenzio che ci circonda è anch'esso inondato di luce. Qui non ci sono risposte, e forse nemmeno domande. Qui la fede è ancorata alle immagini, come le pannocchie moltiplicate all'infinito sono ancorate alla terra scura. E forse non sono la sola ad aver avvertito questo legame prepotente alla terra, se tra i messaggi lasciati alla Madre Divina, nella cappelletta inserita a lato della Chiesa, e di cui Anna spiegherà la funzione, ce n'è uno che riporta le benedette parole di frate Francesco, accuratamente scelte tra quelle della sua indimenticabile preghiera: “Laudato sii, mio Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sostenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et erba.” Sia dunque questa, anche la mia preghiera di lode a Dio e alla Sua dolce Madre.

Quante volte mi sono fermata lì davanti! C’ero capitata la prima volta di ritorno dalle mie solite indagini sui massi di culto precristiano, ed ero ancora emozionata per la visione della Preja Scalavè poco distante, quando avevo svoltato in fretta sulla sinistra per osservare quella chiesa che si elevava isolata in mezzo ai campi di mais. Mi aveva colpito l’atmosfera di assoluto silenzio e di infinito, certo dovuta alla spettacolare cerchia di monti che si staglia all’orizzonte. C’ero tornata tante altre volte, angosciata per il destino di una persona cara che andavo a trovare a Suno, quando sentivo la necessità di recuperare un po’ di energia e mi sembrava che solo lì, in quel luogo di pace, mi potessero tornare le forze e il coraggio di andare avanti. Sì, perché Santa Maria de Egro (l’antico nome della Madonna della Neve di Baraggia) è proprio questo, l’energia che proviene dai campi coltivati, dalla Madre Terra, e ancora una volta la mia amica Rossana ha colto l’anima del “genius loci”.

Quel “ de Egro” viene dal latino “ager” e significa “del campo”, denominazione perfetta per una chiesa che compare già in documenti del ‘300 e che sorge in mezzo ai campi coltivati, protetti da quella cerchia di monti lontani verso cui spazia lo sguardo, a comunicare un profondo senso di sacralità. Perché il “Sacro” qui era ed è sempre stato di casa. Ritorno alla visione senza tempo della Preja Scalavè nel vicino bosco di Motto Scarone, che sorge magicamente dall’acqua del Terdoppio e accoglie, anche ai giorni nostri, le silenziose preghiere di donne che desiderano un figlio e che continuano ad accendere lumini nelle coppelle scavate sul suo culmine, nonostante la condanna del parroco che tuona contro questa “superstizione”. E, ancora, al grande centro religioso che sorgeva là dove oggi si ergono i resti della pieve di San Genesio, un santuario pagano che, molto prima che il cristianesimo giungesse nelle nostre terre, richiamava moltissimi fedeli, forse il più famoso santuario delle acque del Piemonte occidentale. Ancora oggi è un luogo arcano, in cui le sorgenti sgorgano dappertutto, e le rovine dell’antica pieve, con il suo altissimo campanile romanico, non fanno altro che accentuare quel senso di fuori dal tempo che possiedono i luoghi da sempre votati al sacro.

La campagna coltivata che si estende dalla Madonna della Neve verso San Genesio ha restituito nei secoli le tracce di tanto passato, un’enorme quantità di lapidi e cippi in ringraziamento alle divinità del luogo per le grazie ricevute, campi interi di ex voto d’epoca celtica che testimoniano una devozione invariata nel tempo, che nel passato era rivolta alla forza vitale delle acque sorgive e, oggi, continua verso la giovanissima Vergine che nella nostra chiesetta depone teneramente su un cuscino il suo bel Bambino paffuto che tiene in mano un garofano rosso. E su quel simbolo dobbiamo fermarci. Il garofano è il fiore di Giove, il fiore divino per eccellenza, ma dal suo nome latino ( diantus caryophillis) deriva anche il significato di carne, incarnazione, quindi rappresenta il Dio fatto carne, destinato però al sacrificio come racconta quella corolla colore del sangue. Davanti a quella chiesa passava una strada un tempo importante, che arrivava da molto lontano, probabilmente da Castel Seprio, e andava molto lontano, verso il nord, una strada d’epoca romana che nel medioevo diventerà percorso di pellegrini. Oggi è solo un viottolo di campagna, ma non lasciamoci ingannare dalla sua tranquilla apparenza agreste, dai solchi fangosi o spaccati dalla siccità, a seconda delle stagioni, perché quel sentiero ha visto grandi cose. Di lì sono transitati i Galli Merici, le processioni al santuario delle acque, i pellegrini che si recavano verso San Giovanni degli Ospitalieri di Cressa, e ancora viandanti e commercianti; oggi passano di lì i tanti devoti alla Madonna della Neve, che ogni 5 di agosto veniva festeggiata, nel passato come anche oggi, col titolo suggestivo di Madonna delle Pere. Ancora un simbolo! La pera, il frutto di Iside, di Giunone, ma anche di Afrodite, con quella forma allusiva che ricorda il ventre femminile, una rappresentazione della fecondità. Ancora una volta troviamo una chiesa dedicata alla Madonna della Neve legata alla maternità, divina e umana, alla fertilità di uomini e campi, alla salute del corpo e dell’anima, sorta in un luogo di antica frequentazione e di altrettanto antica sacralità. Ma non è tutto.

Alla parete sud dell’oratorio è addossata una cappella aperta, che protegge un’immagine della Vergine col Bambino dipinta su una specie di pilone preesistente, poi inglobato nella struttura. Il dipinto è del primo ‘500, simile a quelli di scuola del Cagnola, e in un secondo tempo è stato inserito in una struttura tardo barocca che simula una cornice da pala di altare decorata con ghirlande fiorite, a cui ancora più tardi sono state aggiunte due figure di santi. Sono tutti segni di grande devozione e quel luogo e quell’immagine dovevano avere una grande importanza, o avere un grande potere, per essere oggetto di così tante cure. Sì, perché quello è il luogo in cui nel 1724 è testimoniato un caso di répit, un ritorno alla vita di un bimbo di Carpignano per il quale abbiamo la certificazione scritta del pievano di Suno. E devono essercene stati altri. Sul lato ovest della cappella, accanto al pozzo ombreggiato dalla betulla, si apre una misteriosa finestra, forse quella del rito del répit; con l’immaginazione vediamo due mani protendersi attraverso quell’apertura e presentare alla Vergine il piccolo corpo di un bimbo nato morto per il quale si chiedeva la grazia di “un respiro”, uno solo, quel tanto che bastava per poterlo battezzare e quindi seppellire in terra consacrata.

Quella stessa finestra che oggi contiene fiori e messaggi, o brevi preghiere, quelle che hanno colpito Rossana. Ecco cos’è Santa Maria de Egro: un inno alla maternità, alla fertilità dei campi, alla ricchezza dei raccolti, alla vita.

5. La Madonna delle Neve a Carcoforo, frazione al Gabbio. Adesso ci inerpichiamo sempre più su, fino al piccolo paese di Carcoforo. Ancora una volta mi stupisco di come la fede, la disperazione, o la speranza, abbiano spinto gli esseri umani a costruire nei tempi passati con le sole mani e pochi mezzi, così in alto e così lontano, e mi sembra che allora fosse più facile, sembra quasi che non ci fossero dubbi o domande, che fosse sufficiente costruire per riscattarsi dai propri errori, erigere monumenti a quel Dio che guarda dall'alto, apparentemente impassibile. E di incredibili, numerosissimi monumenti di culto è strapiena la valle; questa valle chiusa, senza valichi che la conducano al di là delle alte montagne e con uno sbocco

ristretto sulla grande pianura. Sembra proprio che la più facile via di fuga, e di salvezza, fosse, letteralmente, il cielo. La strada continua a salire, con le sue curve a tornanti che si spalancano su cupe foreste quasi nere e poi trovano alpeggi improvvisi, con l'erba profumata di sole, tra le verdi pareti delle montagne bellissime; a lato scorre il torrente Egua, scrosciante di acqua, costante presenza nel suo correre impetuoso, l'acqua limpidissima, bianca ancora di neve.

Come tutte le volte che mi capita di passarci, con il cuore gonfio di gratitudine riscopro la bellezza di questi luoghi, di cui anche questa volta mi dimenticherò, e ancora una volta mi rendo conto di come anche la bellezza sia una strada per arrivare, volendo, a Dio. E arrivati in alto, eccola lì, la chiesina, fragile nei suoi colori morbidi, due passi al di là del torrente, direttamente raggiungibile attraverso un ponte di legno. La immagino d’inverno, sprofondata nella neve che qui non è più solo simbolo, ma silenziosa, purissima realtà. Oggi, che è una giornata luminosa di prima estate, la chiesina si erge tra l'erba, gemma preziosa in un mare di smeraldo, col suo elegante dipinto settecentesco in facciata.

E' terra di leggende, questa. Le sussurra il vento, tra gli alti alberi maestosi, qualcuno le racconta, e le parole si confondono tra gli scrosci del torrente impetuoso, pronto a gonfiarsi e travolgere. E da generazione in generazione, qui si tramanda la leggenda di come la chiesina sia nata. Non molto lontano da lì, un poco prima del colle dell'Egua, c'è l'alpeggio Piana “Bondeau”, dove dei pastori, sotto la prima neve tardo-estiva scesa sui pascoli trovarono la statua di una Madonnina che sino al giorno precedente non c'era. E vollero portarLa a valle con loro, usando un sacco per trasportarLa. Giunti a Carcoforo, in località Gabbio, deposero il sacco per riposarsi un poco, ma al momento di riprendere il cammino, il sacco era divenuto così pesante che non riuscirono a più sollevarlo. I pastori decisero allora di costruire una piccola cappella proprio sulla riva del torrente., nel punto dove si erano fermati a riposare. In questo modo si guadagnarono il diritto, nei secoli a venire, di trasportare la statua in processione, il giorno della festa devozionale, vestiti dei loro costumi tradizionali, dalla chiesina sino al sagrato della chiesa parrocchiale. Si era intorno al 1500. Il 14 ottobre 1755 una tremenda alluvione colpì l'intera Valsesia, travolgendo parte del paese di Carcoforo e con esso la cappella della Vergine. Anche sulla alluvione sorsero leggende: nella memoria popolare fu associata alla presenza di tre streghe

viste nella località dove sorgeva la cappella, mentre dirigevano le nuvole nere di tempesta verso la valle dell'Egua. Si mormorava anche che l'evento dell'alluvione fosse stato, all'origine, innescato dall'amore di un pastore per una fata. Ma soprattutto si narra che la Statua rimase in piedi, intatta in mezzo a tutta quella rovina, e dai suoi occhi pietosi furono viste sgorgare delle lacrime. La gente voleva la sua Madonna, credeva nella Sua protezione. Così la chiesina venne ricostruita, più grande e sicura, ed un poco più arretrata rispetto al torrente, che adesso scorre ai suoi piedi; venne dedicata alla Madonna della Neve, che proteggerà la Statua miracolosa e la sua chiesa nei disastrosi eventi successivi; le successive alluvioni, infatti arrivarono unicamente a danneggiare la mulattiera che fiancheggiava la chiesa, senza mai intaccare il fabbricato. Anche la ricostruzione è legata a un racconto tradizionale; si dice che il proprietario del terreno sul quale doveva sorgere la nuova chiesa, non volesse concedere lo spazio necessario; si ruppe poi successivamente una gamba, e fece voto di dare il terreno se fosse guarito. Così avvenne e la Statua miracolosa ebbe la sua definitiva collocazione.

Purtroppo la Chiesina è chiusa, e non posso cercare all'interno la statua di Maria. La immagino dolce, e pietosa. Però scopro, nella lunetta sopra l'ingresso, un dipinto che racconta la storia che è all'origine di tutto: una figura di Donna benedicente di una

leggerezza incorporea, con il bel manto azzurro che sembra volare nel vento e con accanto il Bambino, sospesa nel cielo sopra una nuvola a guardare un uomo in paramenti sacri intento ad osservare la terra, sulla quale spicca una traccia di neve bianchissima che disegna con sicurezza la pianta della basilica nata per un miracolo. Ora ricordo di averlo letto, è un dipinto dell'Orgiazzi, Antonio il Vecchio, che ha dipinto anche l'interno col suo inimitabile stile raffinato di rococò francese; splendido, rintraccio su di un libro, un fregio azzurro, avorio ed oro che adorna l'affaccio della cantoria. Il passare dei secoli ha solo un poco sbiadito i colori delicati dell'affresco esterno. Il racconto è inquadrato in una elegante cornice dorata, le cui volute si sono mantenute intatte nel tempo. Mi rammento che anche l'arte è una delle strade per arrivare a Dio, anzi quella che raccoglie tutte le altre che sono andata cercando sin qui: bellezza, commozione, poesia. E ricordo l'omelia di Paolo VI, Papa Montini, il Papa della mia giovinezza, durante la Messa agli artisti, il giorno della celebrazione dell'Ascensione, il 7 maggio dell'anno 1964. Dice il Papa agli artisti: “Noi abbiamo bisogno di voi. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione: perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere sensibile e comprensibile, anzi, commovente, il mondo dello spirito, dell'invisibile, dell'ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. E' il vostro mestiere, la vostra missione. E la vostra arte è proprio quella di carpire al cielo dello spirito i suoi tesori, e rivestirli di parole, di colori, di forme e di accessibilità.” A fatica mi riscuoto dai miei pensieri ed a malincuore mi distacco da questo luogo incantato. Così mi avvio al ritorno verso la pianura voltando la schiena alla linea delle montagne che si disegna scura contro un cielo bianchissimo, che già racconta della prossima neve.

Mi riesce difficile continuare le pagine di Rossana, che trasformano un piccolo oratorio sperduto, uno dei tanti della nostra valle, in un minuscolo paradiso di pace e di dolcezza, e quindi in una forma di preghiera. Cosa posso aggiungere io? Solo le scarne notizie storiche, che collocano la costruzione in un periodo ben definito e ne seguono le trasformazioni. Sappiamo che, prima dell’attuale, nel ‘500 c’era già al Gabbio una piccola chiesa absidata frequentata con grande devozione e poi, a metà ‘700, la comunità di Carcoforo aveva deciso di adeguare l’edificio alle esigenze del culto sostituendo l’antica cappella con un nuovo oratorio più ampio, per ospitare i molti devoti alla Madonna della Neve. Sappiamo anche che i promotori furono dieci abitanti del luogo appartenenti a tre famiglie importanti e conosciamo le varie fasi dei lavori a partire dalla posa della prima pietra. Conosciamo anche le vicende dell’ulteriore ricostruzione dopo l’ennesima alluvione di tutta la Valsesia, quella del 1755, quella che nella memoria popolare fu attribuita alle tre streghe della Presa, la località dove sorge il nostro oratorio. Sicura è l’associazione della devozione alla Madonna della Neve con l’attività agropastorale, provata anche dalla tradizione del dono di un agnello da mettere

all’incanto per la festa del 5 agosto, festa che prevedeva solenni funzioni religiose ma che si concludeva con un rituale ancora una volta molto antico: intorno a un altissimo larice al di là dei ponti si accendeva un falò e altri se ne accendevano lungo la strada che scende a valle e sugli alpeggi nella cerchia dei monti attorno. Un’eco di lontani riti agresti, mai veramente dimenticati, che non si spegne nemmeno ai giorni nostri, visto che la sera del 5 agosto si continua ad accendere un falò sulla riva dell’Egua. La Valsesia ha molte chiese dedicate alla Madonna della Neve, ma nessuna ha il fascino di quella del Gabbio; sarà la posizione, sarà la mano dell’Orgiazzi, certo è che davanti al suo piccolo portico ci si ferma fatalmente colpiti, preda del sottile incanto che si sprigiona da quel luogo e che traspare così bene dalle parole di Rossana.

6. La Madonna della Neve ad Alagna, frazione Follu di Val d'Otro. Affascinata dalla chiesa di Carcoforo, sono andata a cercarne altre, nascoste tra le montagne. Mi dicono che c'è n'è una nella parrocchia di Alagna, costruita ancora più in alto di quella di Carcoforo dalla popolazione Walser. Alla frazione Follu di Val d'Otro, altezza 1664 metri sul livello del mare, non riesco proprio ad arrivare. E' troppo in alto per me, ed è raggiungibile solo a piedi ovviamente per sentieri adatti agli stambecchi, e tutti in salita. Così spedisco mio figlio con la sua ragazza a documentarmi con foto, già consapevole che non sarà la stessa cosa che vederla con i miei occhi. Però... eccola qui, la chiesina: costruita in un tempo in cui a malapena si conosceva la stampa, sembra messa lì in posa per essere fotografata.

Un'iscrizione, sopra l'arco di ingresso, precisa che questo oratorio fu fondato l'anno 1659; la stessa data compare sopra la porta di ingresso, e sembra sia l'anno di una probabile ricostruzione di un edificio più antico. E' la risposta della gente inerme e sgomenta di fronte al fenomeno climatico della piccola glaciazione, che non si poteva altrimenti gestire se non chiedendo aiuto e protezione all'Essere Divino, padrone anche del tempo. Però... la chiesina non è dimessa, non parla di paura. E' piccola, ovviamente, a una navata, con le pareti in pietra, ma la facciata è bianca sgargiante, gli angoli disegnati da festoni di pietra grigia e con un grande affresco coloratissimo sulla parte superiore, riparato da un tetto molto sporgente. E pietre bianche sul colmo del tetto. E bianco accecante è il piccolo campanile che la sovrasta. Adesso che è estate, sembra ridere allegra in mezzo alla corona dei monti.

Non è granché bella, tuttavia, e il quadro raffigurante la Madonna della Neve, all'interno, è francamente brutto, con Maria con il poco mantello che la copre blu come la notte ed il vestito colore rosso sgargiante che riempie il cielo, impiantata insieme ad un Bambino tutt'altro che affabile, un piccolo walser dall'aria aggressiva, su nuvole aggruppate che hanno la consistenza di assi di legno ben piallate anziché di lembi di cielo. Qui c'è tutta la pesantezza dei Walser, dopotutto vengono dalla Svizzera, penso io, un po' maligna. Però... la costruzione è incastonata in un mondo di fiaba, rimasto senza dubbio immutato dal tempo in cui venne edificata, mentre il tempo, più sotto, correva. Tutt'intorno grandi prati verde-dorato; l'erba alta dei pascoli non lavorati dalla mano dell'uomo trabocca di fiori selvatici; ed i pascoli salgono dolcemente verso le pareti delle montagne che sono subito a ridosso, dipinte contro l'orizzonte che qui è vicinissimo. Il verde-oro dell'erba è punteggiato da colori sgargianti: bianco, giallo, violetto, arancio; le coste verde più scuro dei monti sono segnate da mille rigagnoli di

bianchissima acqua, ed in alto, verso le cime, vicino al cielo, punteggiate di macchie bianche, che sono la neve rimasta dell'inverno passato che attende la prossima che verrà. Il cielo occhieggia tra le nuvole che lo invadono, leggere, ed è di quell'azzurro che ritroviamo, talora, nel manto di qualche Madonna. Non si vede il sole, ma la luce inonda il pianoro. Ed anche qui, nuovamente, è la bellezza che si leva a onorare Dio. Quello walser è un mondo di antica e arcana religiosità. Sono un popolo dalla spiritualità complessa, ieri come oggi, in cui il magico, il favoloso e la superstizione si compenetrano, in cui mito e rito si uniscono per dar luogo a qualcosa di diverso, un misto di manifestazioni pagane strettamente connesse a un profondo senso del soprannaturale. Il loro è un ambiente aspro e dolce al tempo stesso, che dà molto e altrettanto pretende, che soprattutto non perdona le debolezze; forse è quell’ambiente così pieno di contrasti che ha generato quel complesso e ambiguo rapporto tra religione e magia visti come due modi complementari di vivere il soprannaturale. La val d’Otro rappresenta bene questi contrasti, come Rossana ha ancora una volta colto alla perfezione. Splendida nel suo isolamento, lontana dal turismo di massa, ha mantenuto il suo carattere walser, che si esprime in tante piccole cose, a partire da quelle “pietre bianche” collocate sul colmo del tetto per tenere lontano dalla casa gli influssi malefici, per finire ai tanti simboli solari incisi in po’ ovunque. E’ la cosiddetta “piccola tradizione”, una specie di religione parallela in cui i riti ufficiali si mescolano a pratiche e credenze la cui origine si perde nel tempo. In quest’ottica si collocano le apparizioni, una caratteristica del mondo alpino in generale in cui il “meraviglioso”, non necessariamente bello, anzi a volte decisamente mostruoso, diventa quasi quotidiano.

E’ questo il caso dei tanti rettili custodi dei confini oppure dell’Uomo Selvatico, figura mitica che aveva insegnato agli uomini tutte le tecniche della lavorazione del latte ma che, a volte, faceva scherzi crudeli. In val d’Otro si tramanda una leggenda in proposito. C’era una volta un vecchio di indole così selvaggia che preferiva vivere in assoluta solitudine, anche in pieno inverno; abitava in uno degli alpeggi più isolati, in “die Saccu”, da dove scendeva ogni giorno per attingere col secchio la sua provvista d’acqua dal torrente Otro. Un giorno, mentre risaliva faticosamente all’alpe, dovette fermarsi per deporre il secchio e soffiarsi sulle dita per riscaldarle, tanto era il gelo in quell’angolo di vallata dove in inverno non arriva neanche un raggio di sole. All’improvviso comparve un uomo che gli disse: “ Buon giorno! Perché ve ne state tutto solo in questo triste deserto? Non siete stanco di scendere tutti i giorni al torrente, a rischio di gelare per strada?”. Poi continuò: “ Vi faccio una proposta: promettetemi la vostra anima quando sarete in punto di morte ed io vi taglio via subito un pezzo di questa montagna che ci sta a fianco, e che non permette ai raggi del sole di riscaldare come in estate questi luoghi. Tutta l’alpe di Otro diventerebbe una terra meravigliosa, vi crescerebbe il frumento e persino la vite!”. A quelle parole il vecchio si fece il segno di croce e il tentatore sparì, poi l’’uomo selvatico ritornò al suo isolamento in “die Saccu” e l’alpe rimase con i suoi gelidi inverni; ma l’estate, anche breve, la trasformò in un piccolo paradiso verde, quello nel quale è incastonata la chiesa della Madonna della Neve. Ecco chi era qui l’Uomo Selvatico, non l’essere irsuto o vestito di foglie che troviamo in alcune località delle Alpi, era un vecchio Walser, probabilmente scorbutico e cocciuto, che non temeva le avversità ma neanche il diavolo, pronto a rinunciare alle comodità ma non alla sua indipendenza e alla libertà della sua anima.

7. La Madonna della Neve di Borgosesia . Borgosesia è un grosso paese, ricco, opulento, borghese. Non ha l'eleganza noncurante dei veri ricchi, come la vicina Varallo che ha assorbito la ricercatezza francese d'oltralpe, da quando Frate Caimi ebbe la felice idea di erigere il Sacro Monte (anno del Signore 1492), importando così dalla vicina Francia artisti, artigiani e cultura tardo-gotica; né ha la commovente semplicità, che alle volte si traduce in sommessa bellezza, dei piccoli paesi più poveri che lo circondano. E' un grosso paese, ripeto, che mi è sempre sembrato privo di una sua grazia specifica, e vado quindi a cercare curiosa (e senza dubbio un po' supponente) come viene tradotta in questo luogo la Madonna della Neve, convinta che non mi dirà nulla, né di bellezza, né di poesia. Lo so, lo so, è la fede che dovrei cercare, ma per il momento mi accontento di cercare le strade per arrivare alla fede, e bellezza, commozione e poesia dovrebbero essere tra le più degne di essere percorse. Al di là della preghiera, certo, della preghiera.

E invece, invece... la chiesa è di una grazia del tutto inattesa, quasi incastrata a ridosso di una piccola, verde collina. La illeggiadriscono due bifore, entrambe divise da una sottile colonna leggera ai lati della parte alta della facciata, inframezzate da un rosone sopra il portico; persino l'intonaco ha una sua grazia particolare, il tetto a triangolo rifilato di nero e poi di giallo e poi di bianco nelle lesene, fino ad arrivare al grigio chiaro del timpano e a quello più scuro subito più in basso, e poi al verde opaco della facciata sotto il presbiterio ed infine al nero cupo del grande portone, in un gioco di colori che è quasi sinfonia. E alla sinfonia contribuisce senza dubbio il verde lucidissimo del boschetto nel quale la chiesina è incastonata, quel boschetto e quei dintorni, mi dice Anna, carichi di tempo e di ricordi, e dei resti di più lontani riti, che a noi, sedute su una panchina sotto i platani, sembra quasi di sentir riecheggiare, isolate in qualche modo dalla strada che corre a fianco, rombante di insopportabili motorini. Eppure lì, a solo due o tre metri di distanza dalla strada che corre veloce e rumorosa, è in qualche modo silenzio. insopportabili motorini. Peccato, la chiesina è chiusa. Butto solo un’occhiata alla croce in cima alla campata del tetto, leggera come un ricamo, che racconta di eleganza settecentesca e non di dolore.

E aspetto, avida, quello che Anna racconterà dei tempi andati.

Questa volta mi tocca proprio solo il ruolo della storica, o quasi! L’oratorio sorge in località Sassola ed è una ricostruzione della fine degli anni ’30, dopo l’abbattimento del precedente edificio di metà ‘700, già dedicato alla Madonna della Neve, che sorgeva all’incrocio della strada della Valle con il corso del fiume presso le frazioni alte di Borgosesia. Fin dai tempo più remoti c’era già in quel sito un edificio di culto, al culmine della breve salita che dalla parrocchiale si snodava fra gli antichi sedimi fittamente abitati, lungo l’attuale via Cairoli e piazza Garibaldi. Leggendo gli appunti di Carlo Conti si apprende che nel 1941, quando si abbassò la piazza all’angolo di via Nicolao Sottile, nell’area dove sorgeva la chiesa della Madonna della Neve vennero alla luce le fondamenta di un piccolo edificio absidato, solo tre metri per quattro, sul cui fianco sinistro, quasi a contatto, era affiancata un’altra navatella anch’essa absidata. La primitiva struttura era stata dunque ampliata e trasformata in una cappella “ad orandum”, cioè non per celebrarvi la messa ma solo per una sosta di preghiera. In Valsesia ne troviamo molte di cappelle di questo tipo, con il tetto a capanna, due piccole finestre a lato dell’ingresso, che un tempo erano chiuse solo da un cancello di legno e avevano il tetto in paglia o di coppi in bassa valle, in piode nell’alta, spesso affrescate all’interno. Questi edifici, raramente descritti nelle visite pastorali, segnavano il paesaggio premoderno di molti borghi ed erano importanti per le comunità; rappresentavano la loro appartenenza a uno spazio dai confini geografici precisi, ma erano anche uno spazio dell’anima, un luogo in cui sostare, ritrovarsi, curare i bisogni dello spirito o le ansie della quotidianità. Collocati all’incrocio di vie di comunicazione, presso i confini, i traghetti, oppure isolati nei boschi o all’interno del borgo, gli oratori extra urbani di Borgosesia furono fondati, gestiti e conservati dalle famiglie locali, che sceglievano i fabbricieri tra le persone di una certa cultura e si affidavano al clero per gli obblighi liturgici, le scelte devozionali o decorative, i legati di messe, i rapporti con la curia.

Quindi non è inverosimile che, a metà ‘700, i terrieri di Sassola avessero deciso di far costruire un oratorio su un luogo di culto già esistente a nord del borgo, conservando lo stesso titolo della primitiva cappella, che non fu demolita ma collegata alla nuova chiesa. Non si dimentichi che quello era già un luogo importante, visto che proprio sopra l’attuale chiesetta sorgeva il precedente castelliere celtico, una struttura fortificata della quale sono state ritrovate le mura, oltre a numerose sepolture con relativo corredo. Ma non è finita: la fortificazione che si innalzava a nord aveva, a sud, il suo parallelo nel colle di Montrigone e dove oggi sorge il santuario della Madonna delle Grazie, o di Sant’Anna, in passato c’era stato un importante santuario celtico

dedicato a Ercole. Lui proteggeva le strade, a lui si rivolgevano commercianti e viaggiatori per avere un felice ritorno, e sotto il poggio di Montrigone è stato trovato un ripostiglio votivo con alcune statuette in miniatura del dio, un deposito di ex voto di tanti fedeli per una qualche grazia ricevuta. Non occorre ricordare che proprio in quella zona passava una strada importante per varie destinazioni. Eccole le due sentinelle di Borgosesia!

Ma soprattutto, ancora una volta, troviamo un antichissimo oratorio dedicato alla Madonna della Neve in una località in cui sono stati presenti culti pagani, un oratorio non cinquecentesco, come la maggior parte di quelli valsesiani con questa dedicazione, ma risalente a molti secoli prima. E qui ci siamo separate, Anna ed io. Io a cercare risposte a domande che non oso nemmeno formulare, tra le montagne la cui bellezza mi incanta e contemporaneamente mi inquieta. Lei a sondare, con la sua più pacata capacità di ricerca, meno impaziente di me, e che per questo, forse, conduce più lontano. 8. La Madonna delle Neve di Varallo, frazione di Cervarolo. Per arrivare a Cervarolo partiamo da Varallo. Questa volta mi accompagna un amico. Ci fermiamo a chiedere indicazioni, per come arrivare al paese e, con abbastanza vaghe domande, dove sia la Madonna della Neve. E' un bar, dove ci siamo fermati, pieno di gente indifferente, fuori al sole, stravaccata sulle sedie a bere una birra, annoiata di caldo e di tutto. Eppure, sanno risponderci. Tutti lo sanno, dov'è la Madonna della Neve di Cervarolo. Ho smesso di meravigliarmi dell'importanza che hanno i luoghi di culto in questa regione, ancor oggi, quando tutti i valori e gli interessi sembrano capovolti. Ma non mi aspettavo di non incontrare nessuna difficoltà nel rintracciare una chiesina sperduta, in capo al mondo. E quanto sperduta e quanto in capo al mondo sia lo scoprirò tra poco. Arrivare a Cervarolo non è facile. La valle del Mastellone è stretta, appena una fenditura tra le rocce: in fondo scorre impetuoso il torrente, sempre più in fondo, sempre più lontano. La strada si inerpica, aggrovigliandosi su se stessa, in una serie continua di tornanti che sembra interminabile, forse perché siamo costretti ad andare pianissimo, stretti come siamo tra la parete delle montagne da un lato ed i precipizi sempre più profondi dall'altro. Viste così da vicino le montagne – perso l'incanto delle

dolci linee lontane, dei boschi profumati e degli alpeggi d'oro – sembrano quello che in realtà sono: scure rocce impassibili, sospese sopra di noi a nascondere il cielo. E il guarda-rial che ci separa dal nulla sembra così fragile. Ho quasi paura di guardare al di là. Tra me e me, ringrazio Dio dell'abilità del mio cortese autista e mi chiedo cosa può avere spinto degli esseri umani ad arrampicarsi fino quassù, quale mai ansia possa averli resi tanto determinati. Non certamente la ricerca del bello, e nemmeno la speranza di qualcosa che possa offrire una vita migliore, con strade ancora adesso praticabili con difficoltà, per non dire pericolose. La fuga impossibile da qualche pericolo, peggiore della fatica immane di arrivare fino in cima col necessario per sopravvivere? E senza via di fuga, una volta arrivati? Avverto inquietudine in me, per la disperazione che deve aver mosso quei miei lontani antenati, inquietudine e disperazione di cui il paesaggio sembra ancora impregnato. O forse è solo il timore di quella strada selvaggia che stiamo percorrendo. Ogni tanto incontriamo qualche casa sperduta, sempre più in alto, sempre più abbarbicata alla roccia. Sembra assurdo che qualcuno possa viverci, anche adesso che è estate. Eppure Cervarolo ha un territorio caratterizzato da abitati sparsi, Villa Inferiore (707 metri sul livello del mare), Villa Superiore, Molino, Prati, Sassello... nomi che rivelano insediamenti ed usi del luogo già dal Medio Evo. Arrivati al paese, per trovare la chiesa parrocchiale dobbiamo salire ancora più su, in quella che sembra una ricerca tanto accanita quanto interminabile, fino a Villa Inferiore, dove la chiesa sorge su un breve pianoro. Nonostante le indicazioni del libro che ho preso come guida, la chiesa sembra dedicata unicamente a San Michele Arcangelo, affrescato in qualche modo all'esterno, sotto il portico.

E' chiusa, ovviamente, e l'interno è irraggiungibile ma, vista da fuori, non lascia pensare che perdiamo granché, se non per la grazia delle quattro colonnine sottili che

sostengono il porticato. Io speravo di cavarmela con questa, che, sempre secondo il libro guida, dovrebbe essere una delle due chiese di Cervarolo, entrambe dedicate alla Madonna delle Nevi. Ma niente lascia intuire la dedicazione, nemmeno l'elenco delle feste liturgiche (molto breve in verità e che ignora la fatidica data del 5 di agosto) elenco inserito in una bacheca accanto al portone d'ingresso, irrimediabilmente sbarrato. L'unica Madonna delle Nevi di Cervarolo è dunque ancora più in alto, dove tutti ci hanno detto, alla frazione Piane, al confine col cielo. Ho perso coraggio, e curiosità. “Ci si arriva per l'antica mulattiera”, mi dice il solito informato. “Ma adesso è asfaltata,” aggiunge con avvertibile orgoglio. “Capirai”, penso tra me, e ricordo le vecchie storie dei muli che marciano rasenti i precipizi. “Torniamo” dico decisa al mio amico; e non aggiungo la verità: di questo posto non ne posso più. Il ritorno è più agevole, la strada corre veloce in discesa, sembra contenta anche lei di condurci lontano, verso la pianura, e sembra un attimo che siamo arrivati a Varallo, con le sue allegre case eleganti e colorate, Varallo “Città d'arte”, da cui morte, pericolo e dolore sembrano lontani, e così a portata di mano la bellezza e la gioia, sotto questo sole d'estate. E le montagne, così vicine, così amiche, nel pacato allungarsi delle ombre. E' quasi l'ora del tramonto, e mi tornano alla mente i dolci versi di Virgilio: “maioresque cadunt altis de montibus umbrae”: e maggiori cadono dagli alti monti le ombre. Poi, a casa, cerco su Internet l'immagine dell'edificio che non ho avuto il coraggio di raggiungere. La chiesa è posata su campi coperti di neve, evidentemente la foto è stata ripresa d'inverno. D'intorno, a parte l'accenno di una linea di monti bianchi anche loro, non c'è altro che il cielo, uno smisurato cielo oscuro. Il luogo è chiaramente deserto. “Fino qui, in questa solitudine, veniva quella povera gente disperata a pregare?” mi chiedo io, perché di cupa disperazione mi sembra intriso il luogo. “Fino qui, sotto

questo cielo immenso e impassibile, a impetrare grazia dalle valanghe, dal freddo, dalla fame, dalla paura, dalla malattia, dalla morte? E qualcuno ha trovato risposta?” La chiesina è piccola, e commovente nella sua piccolezza, ma scura, di pietra, non ingentilita da alcun affresco, per lo meno da quanto risulta dalla foto. Il campanile è basso; forse perché già troppo vicino alla volta celeste chi lo ha costruito non ha sentito il bisogno di sforzarsi ulteriormente per raggiungere il cielo. Avranno trovato pace, e consolazione, e pietà, quelli che venivano qui per pregare? I pochi alberi che circondano la chiesa, i rami spogli immobilizzati dal gelo, vecchi alberi che forse hanno visto qualcosa e qualcosa forse ricordano, sembrano assistere, testimoni silenziosi della solitudine.

8. la Madonna delle Nevi di Gattico, frazione di Muggiano

Cascina Muggiano è un bel posto, parla di potere e ricchezza, quella che viene dalla terra e dal titolo, visto che appartiene da secoli alla famiglia dei marchesi Leonardi la cui nobiltà è antichissima, risale probabilmente ai “comites” che vennero in Italia con Carlo Magno. Ha però anche il fascino dei luoghi emersi da un passato molto lontano, visto che tutto intorno i reperti archeologici si sprecano! Ricordo la lapide funeraria ritrovata nel 1911 ai Motti di Muggiano Inferiore, a circa un centinaio di metri dall’attuale cascina, in un luogo al limitare del bosco che ancora oggi viene definito “ l’antico cimitero”; era una lastra rettangolare riutilizzata come copertura di una tomba, recuperata assieme a una moneta di Faustina Madre e poi trasferita in casa del marchese Leonardi. Recava questa iscrizione, accuratamente scolpita in eleganti caratteri del I secolo d. C.: “ Alla madre Domizia Aucta, liberta di Lucio, i sei figli posero”; in origine la lapide doveva essere posta in verticale su un piccolo monumento funerario posto, come tanti altri simili, su un terreno agrario affacciato a una strada. Dai campi tutto intorno la cascina vengono molti altri reperti, frammenti di vasellame, embrici anneriti dal lungo contatto col fuoco, scorie di fusione e grandi ciottoli che un tempo erano muri, tutti elementi che fanno pensare che in quella zona, tra il I e il II secolo d.C., sorgessero gli edifici di una grande fattoria con la sua

fucina per forgiare gli attrezzi agricoli, il piccolo sepolcreto vicino e, probabilmente, altri edifici oggi sepolti nell’area occupata dall’attuale cascina Muggiano, il tutto al centro di un’ampia e fertile campagna. Ma si va ancora più lontano, perché dal territorio poco distante di Ronco provengono altri frammenti di ceramica preromana, probabilmente del bronzo medio, emersi dallo sconvolgimento di un fondo di capanna che si affacciava verso la vallata di Comignago e, accanto a questi, altri frammenti di età romana frutto della dispersione di qualche altra struttura sepolta non lontano. Siamo al centro di un mondo in cui l’ economia agro pastorale era continuata per molti secoli e, ancora oggi, rimane questo clima, un panorama ondulato di dolci colline verdi, campi coltivati e macchie di boschi.

Proprio qui, inserita nelle mura perimetrali della cascina, troviamo una chiesa dedicata alla Madonna della Neve. La facciata si apre lungo la strada, a fianco del portone d’ ingresso, e i documenti ci dicono che nel 1773 in questo oratorio “ di pietà privativa della casa Leonardi si celebra la Messa tutte le feste”. La cappella attuale risale al ‘700 e si tratta probabilmente di un rifacimento dei primi decenni del secolo, visto che nella visita pastorale del 1733 si citano molti lavori ancora da ultimare e decorazioni da fare. La facciata è molto semplice, con due lesene che sorreggono il timpano, la porta sormontata da un arco in rilievo, due finestrelle a fianco, il finestrone in alto incorniciato anch’esso da un arco e due lesene terminate in basso da due volute. All’interno, a navata unica, ci sono capitelli in stucco e un’abside rettangolare

coperta da volta a botte con crociere. L’altare di stucco dipinto è del 1743, come si legge dalla data incisa sul suo fianco destro, mentre la finta cornice architettonica è dipinta a trompe l’oeil e rispecchia i canoni del barocchetto con i suoi colori chiari, l’andamento mosso di mensole e volute, i graziosi angioletti che portano ramoscelli fioriti come arcadici puttini. In alto è dipinta l’iscrizione ancora leggibile “Si quis est parvolus veniat ad me”; nella cornice c’era un dipinto con la Madonna, Sant’Anna, il Bambino e San Giovannino, sostituito con una riproduzione della Consolata di Torino, mentre l’area presbiteriale è separata dalla navata da due eleganti balaustre di marmo policromo, pregevoli opere settecentesche originali nel disegno e nei materiali usati. Nel 1743 la decorazione rococò in Piemonte non era ancora conosciuta, mentre non la ignoravano alcuni artisti lombardi; per affrescare il loro oratorio, i marchesi Leonardi potrebbero essersi quindi rivolti a un artista di provenienza e cultura lombarda aggiornato sui nuovi modelli di decorazione. Di tutto questo oggi rimane poco, perché la chiesa ha subito molti furti e si presenta spoglia e con solo un’eco dell’antica grazia, ma quello che colpisce, ancora una volta, è il riferimento alla maternità e alla fertilità espresso nella pala originale e nella decorazione con angioletti e fiori della cornice; ricordiamo che il puttino recante rami fioriti è un simbolo dell’amore e della fertilità. Ma la storia non è finita. Nel prato a valle della cascina ci sono i ruderi di quella che probabilmente è una delle chiese romaniche più antiche del novarese, la cappella di Santa Maria “de Mozano de Gatego”, come viene chiamata nelle Contribuzioni delle decime del 1387. Facendo i soliti confronti con altre chiese romaniche molto antiche, potrebbe risalire agli anni tra il 975 e il 1000, anche se è quasi impossibile osservare a fondo l’edificio, che è in parte crollato e quel poco che rimane in piedi è completamente avvolto dalla vegetazione

Alcuni anni fa ero riuscita a entrare, perché qualche volonteroso aveva in parte liberato le rovine dai rovi e dall’ammasso di edera, ed ero rimasta senza fiato. Non esistevano più il tetto, una parte dell’abside e del lato sud, ma era inequivocabilmente una struttura alto romanica con il suo orientamento est-ovest e i resti di muri fatti di pietre tagliate rozzamente e materiali di recupero; l’intonaco era completamente caduto e solo nell’abside si intravedevano tracce di ampie aureole, i resti malinconici di quella che era stata una monofora priva di strombatura si intuivano sul lato sud e in facciata si apriva un oculo non in asse con l’entrata. Solo segni di assoluto abbandono ma anche di origini molto lontane. Accanto all’entrata, sulla parete sud, i brandelli di un affresco di cui si vedevano solo un braccio e una parte della veste e del mantello rossi appartenenti a una figura ormai scomparsa. Dell’immagine completa però esiste una fotografia, conservata nell’archivio diocesano di Novara, e lì si può vedere che rappresentava una Madonna Allattante, della quale si possono notare molti particolari: la Vergine indossa una veste a vita alta ornata di piccoli fiori stilizzati mentre il mantello, rosso bruno come la veste, è foderato di bianco. Doveva trattarsi di un dipinto del primo ‘400, come dimostrano le linee del volto, gli orli del manto e la testa della Vergine con quell’acconciatura che le nasconde completamente i capelli, quindi un’opera piuttosto rara nella nostra zona che ha pochi documenti pittorici di quell’epoca. Lei ha un viso dolce e bello, un ovale elegante illuminato da un sorriso appena accennato, rivolto a quel Bambino oggi scomparso e che si indovina solo dal gesto tenero di una mano che porge il seno. Ma la cosa più interessante è che, quella che oggi è la Madonna della Neve inglobata nella cascina, sarebbe l’antico titolo della cappella presente nell’elenco del 1387, cioè di quella oggi completamente in rovina. Tentiamo un’ipotesi verosimile: non essendo più agibile la precedente chiesa della Vergine della Neve, con i chiari simboli di maternità e fertilità nell’affresco della

Madonna Allattante, venne fatta una sua ricostruzione nel perimetro della grande cascina, accanto ai ruderi di quella originaria, in una prosecuzione di sacralità e in un contesto perfetto di natura rigogliosa e generosa. 9, La Madonna della Neve di Serravalle Sesia, località Monchezzola Tu o Madonnina tra l’immensa pace Dei tuoi bei monti che il tramonto indora Giù nella valle dove il vento tace Dove il ruscello, mormorando, adora Tra le vetuste querce ed i castani …. Stavo consultando la Storia di Serravalle di don Florindo Piolo quando mi è caduta sott’occhio questa poesia, di cui riporto solo i primi versi Ho sorriso davanti alla sua ingenua semplicità, ma ho pensato che la piccola chiesa nascosta nella valle del torrente Chezza meritasse un suo posto in questa raccolta di Madonne della Neve. E così sono andata da sola a cercarla.

Questa volta si entra nei boschi, dopo aver lasciato lo stradone trafficato, e la prima scoperta è il silenzio; sono a pochi passi dalla statale per Varallo ma, contemporaneamente, al limitare di un ambiente fuori dal tempo. Mi incammino costeggiando il torrente e mi inoltro nella piccola valle, finalmente al riparo dalla calura devastante di questi giorni grazie all’ombra di castagneti secolari, sempre avanti, fino a un minuscolo ponte che mi porta sulla sponda destra del Chezza. Non ci vuole molto, il percorso è uno di quelli adatti a tutti, si snoda tortuoso ma pianeggiante, sempre in quel delizioso silenzio rotto solo dal rumore dell’acqua, e che a Rossana sarebbe piaciuto molto. A metà della vallata ecco Monchezzola: una radura all’improvviso e, soprattutto, un enorme masso di porfido. Proprio quello che mi aspettavo e che sospettavo! La chiesa è lì, esattamente sotto il masso, anzi in parte costruita su di esso, immersa in tutte le sfumature del verde: morbido nella radura, più intenso fra gli alti tronchi degli alberi, cupo sotto la roccia. Mi avvicino e leggo l’iscrizione posta sull’entrata dell’oratorio: “Templum S. Mariae ad nives, sumptis Bernardini quondam Bernardini extructum et dicatum 1661”. Abbiamo la data della costruzione attuale e il committente, anche se mi restano molti dubbi. Ricordo le confidenze di un’amica di Serravalle che mi aveva raccontato che quel “Monchezzola” viene dal dialetto “Mongaciola”, cioè sgocciolamento, per via della piccola sorgente accanto che gocciola sempre, così vado a cercare anche quella. E’ lì, tra la chiesa e il roccione, un rivolo perenne d’acqua freschissima, che un tempo si perdeva tra i sassi e oggi è incanalata in una fontana che risale alla fine del’800, e alla buona volontà del priore Luigi Sezzano. Naturalmente la chiesa è chiusa, me l’aspettavo, ma non mi importa, mi basta quel clima di assoluta pace e quella luce verde che invade tutto, si insinua sotto il portico, colora i muri.

So che all’interno c’è un bel quadro con la Vergine tra San Francesco e San Bernardino da Siena, un’opera seicentesca di autore ignoto, e con sotto una scritta che, ancora una volta, riprendo dal testo di don Florindo: “Bernardino fu Bernardino insieme con altro Bernardino e Grato, suoi nipoti della famiglia Torelli, questo oratorio con i propri mezzi e per sua divozione fece costruire dalle fondamenta nel 1661 ed il Rev. Pietro Pilotti parroco di Serravalle poté celebrarvi la prima messa il giorno 5 di agosto dello stesso anno”. Sicuramente non si era badato a spese! Perché quella chiesa e quella donazione? Ha tutta l'apparenza di un qualche voto esaudito, o almeno di un qualche tipo di ringraziamento, ma non è importante, a me interessa sempre di più il clima che si respira in quel luogo. Esco dall’ombra fitta del piccolo portico, poi lo sguardo mi corre al campanile e alla campana che risalta in controluce, allora ripenso con un sorriso alla vicenda che sta dietro. Ma sono troppo abituata a leggere il passato, ci sono troppe coincidenze! E’ vero che quello è un santuario mariano a cui è legata la devozione di tutta Serravalle e che vede il suo culmine ogni anno, ai primi di agosto. Oggi un po’ meno, ma un tempo la festa era molto sentita: al mattino si celebrava la messa, nel pomeriggio i vespri, la gente saliva numerosa all’oratorio e le funzioni si svolgevano in un’atmosfera di grande festosità. Terminata la parte liturgica, ogni gruppo si sedeva sotto i castagneti e cominciava la tradizionale merenda, tra scherzi, abbuffate e canti che proseguivano fino al tramonto, poi, dopo aver bevuto ancora una volta l’acqua della sorgente, a sera si tornava a casa, sempre fra canti e risate. E’ una scena che ho già visto. Mi vengono in mente le feste campestri intorno alla Madonna della Fontana di Azoglio ( condannate dall'autorità ecclesiastica ), oppure le merende sull’erba a San Germano di Cavallirio, tutti luoghi legati a un substrato celtico. E ancora una volta mi tornano i dubbi.

Dopo la radura della chiesa di Monchezzola la strada prosegue per salire al passo delle Ovasine, un punto di incontro di molti sentieri, una specie di trivio da cui si scende verso Sostegno da diverse direzioni.

Quella era una strada antica, percorsa dai pastori, dai mercanti e, in epoca cristiana, dai fedeli che per le necessità liturgiche dovevano recarsi alla pieve di Naula. Cosa c’era prima dell’oratorio costruito nel 1661? Quel luogo possiede i tre elementi fondamentali che nel passato attestavano il sacro: la roccia, l’acqua perenne, il bosco. Sono dati importanti, da unire a quel percorso altrettanto importante che collegava molte comunità e che fanno di Monchezzola un luogo su cui indagare ulteriormente, cosa che mi ripropongo di fare appena cesserà questa calura insopportabile, a partire da una maggiore attenzione al masso per scoprirvi eventuali “segni”. Torno indietro dal mio piccolo viaggio ripensando al tenero pensiero che don Florindo ebbe per sua madre, visto che fu lui, in suo ricordo, a donare nel 1934 la campana per la chiesa della Madonna della Neve. Ancora una volta una madre, come sempre!

Adesso ci ritroviamo, Anna ed io, ciascuna coi propri ricordi nel cuore, e andiamo insieme a visitare l'ultima Madonna. 10. La Madonna della Neve di Varallo, frazione alla Mantegna. Mattinata torrida di luglio, per niente in atmosfera con l’ennesima Madonna della Neve che Rossana ed io abbiamo deciso di andare a visitare, per portare a termine la piacevole “fatica” che abbiamo intrapreso assieme. A differenza delle tante di cui abbiamo scritto, questa non è in mezzo ai prati coltivati o in riva a qualche torrente impetuoso ma sorge quasi dall’asfalto, in una piazzetta della regione Mantegna a Varallo. O, meglio, più che dall’asfalto sorge da un masso ricoperto di coppelle, anzi è letteralmente costruita su quel masso, e a me sembra il culmine di quanto fino ad ora ho scritto e ho cercato di dimostrare!

Quello che vediamo oggi è il risultato dell'ampliamento seicentesco di una cappella campestre dedicata a san Defendente e, solo successivamente, alla Madonna della

Neve, culto amatissimo che continua ininterrottamente anche ai giorni nostri, come trapela dalle parole piene di orgoglio della gentile signora che ci ha aperto la chiesa. Mi soffermo su quella dedicazione, che una volta ancora mi riporta alle attività agro-pastorali, visto che il Santo era il protettore degli armenti, in particolare dal pericolo dei lupi, ed era invocato anche per salvaguardare le case dagli incendi, altra disgrazia che metteva a rischio la sicurezza di intere comunità. Dunque lì sorgeva una piccola cappella, volutamente costruita su qualcosa che emergeva dal passato e che nessuno voleva dimenticare: un grande masso coppellato. Doveva essere stato importante quel masso per lasciarlo lì a tutti i costi, visto che sarebbe stato più agevole erigere l’oratorio in piano e non su quello spuntone; sarebbe stato addirittura più semplice spianarlo prima della costruzione, ma forse gli si riconosceva un qualche potere che era meglio riconsacrare. Non sappiamo nulla della cappella più antica, sappiamo però che nel ‘500 qualcuno incaricò la mano leggera di Giulio Cesare Luini di eseguire un affresco in cui comparisse San Defendente e la Vergine nella sua intitolazione precedente, quella del Buon Consiglio, assieme a San Giovanni Battista. Il Luini non era esattamente uno sconosciuto, era un discepolo di Gaudenzio Ferrari, a lui dobbiamo alcuni degli affreschi della vicina San Marco e una parte delle decorazioni della splendida Madonna di Loreto, al confine tra Varallo e Rocca Pietra. Quindi era un pittore importante, sicuramente costoso, ma i committenti evidentemente potevano permettersi la sua arte dai tratti gentili e i colori morbidi, quelli che si ritrovano nell’affresco della chiesa alla Mantegna. E’ una dolce Madonna in trono, col bel viso chino e gli occhi che guardano lontano, mentre sorregge con delicatezza il suo Bambino paffuto dalla testa piena di riccioli. Lui ha gli scaramantici braccialettini e la collana di corallo e circonda col braccino destro il collo di Lei, a metà strada tra l’amore e il bisogno di sostegno; ai lati, San

Defendente e San Giovanni Battista, un po’ mal ridotti e sfregiati dall’intonaco scrostato, che emergono dalla elaborata cornice in legno dipinto, addossata all’affresco per simulare un trittico.

Per me è una gradevole sorpresa, visto che non mi aspettavo una chiesa così ricca; l’esterno non mi aveva entusiasmata, tranne che per quel masso ricoperto di coppelle, forse per i colori troppo nuovi o quel suo essere in mezzo a una piazza e fra i parcheggi, ma l’interno ha rivelato un suo strano fascino, sa di eleganza tardo barocca mescolata a una ingenua pompa contadina, il segno di una profonda devozione che non conosce limiti di classe. Soprattutto mi ha colpita la ricchezza degli addobbi, degli stucchi, dei decori pastello, a partire dai fregi fioriti intorno all’affresco centrale fino ai tanti angeli e puttini che circondano la statua lignea della Madonna in trono.

Quella statua è del 1889 ed ha un autore importante, Giovanni Longhetti di Morondo; è molto amata e, ogni cinque anni, nella prima domenica di agosto viene portata in processione per le vie della Mantegna accompagnata dalla banda musicale e da un seguito in costumi valsesiani.

Quando la Madonna del Buon Consiglio diventò quella della Neve?

Probabilmente quando nel ‘600 l’oratorio venne modificato, visto che in facciata un affresco datato 1646 rappresenta la miracolosa nevicata romana del 5 agosto ai tempi di Papa Liberio. Torniamo ancora una volta là dove tutto ha avuto origine. Un altro luogo, un altro tempo, un masso di culto intoccabile, un antico percorso di pastori e greggi in transumanza su cui invocare la protezione del cielo, che fosse un Santo Ausiliatore o, meglio ancora, Colei che, nonostante la sua posizione regale su un trono e sotto una corona retta dagli angeli, restava la tenera Madre di tutti.

MADONNE DELLA NEVE a) 10 bis Varallo, località Mantegna – b) 11.Vocca, località Sassiglioni. Scoprirò, nel corso della ricerca, che queste due Madonne possono essere lette insieme, o meglio, in contrapposto l'una all'altra. La prima, inserita nel contesto di un barocco, sia pure povero, sia pure marginale, del 1600, la seconda trionfante nel delicato rococò' francese del 1700, il secolo , fin quasi alla sua sconvolgente fine, senza dubbio il più elegante d'Europa e del mondo allora conosciuto. A) 10 bis .Varallo, località Mantegna. Cosi, ancora una volta insieme, Anna ed io ci rechiamo nella località Mantegna, frazione di Varallo, abbastanza vicina alle montagne da sopportare meglio il caldo soffocante di questi giorni di luglio. La chiesina è incuneata tra le case del piccolo rione, piccola a sua volta. Le stradine che la circondano si perdono quasi subito nei campi. La facciata è accuratamente dipinta di rosa, rifilata altrettanto accuratamente di grigio. Sopra la porta, c'è l'affresco dell'origine, il papa che segna la planimetria bianca di neve.

Una gentile signora ci apre la chiesa. Considerato quello che mi capiterà poi, non posso ancora valutarne appieno la cortesia. La chiesa è davvero piccola, ad una navata assai breve. Dietro l'altare c'è il solito dipinto di Maria, incoronata dagli angeli e col Bambino in braccio. Neanche a dirlo, nessuno sorride, forse vorrebbero farlo gli angioletti, ma la loro è più che altro una smorfia. Il Bimbo è più umano del consueto, e pur serio in volto, abbraccia la Madre stringendola affettuosamente con le paffute manine infantili, in un commovente gesto d'amore. All'affresco è sovrapposta una pretenziosa cornice di legno dorato, francamente brutta. Ancora più sopra un mezzo busto di Dio Padre, di legno dipinto, circondato da angeli.

Poi c'è la statua di Maria col Bimbo, che ogni cinque anni viene portata in processione. Qui è la Madonna che con un gesto affettuoso tiene fra le mani un piedino del Bimbo, in compenso il Bambino sembra irrigidito in una espressione di paura. “E' proprio brutta” dico delusa ad Anna. La gentile signora che ci ha aperto ci viene incontro sorridendo: “E' stata interamente restaurata da noi” dice, riferendosi alla gente del suo piccolo paese, ed io, pomposa turista in cerca di arte e di bellezza, mi vergogno. Anche qui, come a Prato Sesia, e a Suno è gente che tangibilmente ama la sua chiesa. Qui non ci sono domande, ma forse la gente ha trovato le proprie risposte nella splendente Madonna che si porta in processione, nei lavori in legno dipinto, pulitissimi, che ornano la piccola chiesa, traboccando da ogni parte. Però io non sono soddisfatta, ed ancor meno convinta. Capisco che il fascino del luogo, del passato del luogo, possa avvincere Anna, col suo roccione che la chiesa ha inglobato, ripetendo l'identico gioco della Chiesina della Madonna Nera di Oropa, e di vari altri santuari meno noti, ma a me non dice nulla al di là dell'interesse della storia, certamente, ma nulla rispetto alle risposte che cerco. b) 11. Vocca -Località Sassiglioni Quindi decido di tornare ancora una volta alle mie montagne fatate. Questa volta ci rechiamo, con mio figlio e la sua ragazza, a Sassiglioni, frazione di Vocca. E' tardo pomeriggio, le montagne sembra si oscurino prima della pianura, e poi piove un poco. Ma la piccola frazione è vicina, la strada per arrivarci è breve ed immersa nei boschi. E siamo subito arrivati. Che strano luogo. Cosa ci fa una casa mai finita all'inizio di un gruppo di case? Perché è tutto lì, un gruppo di case intorno ad uno spiazzo, e la Chiesa, naturalmente.

Pare smisurata, la Chiesa, rispetto al resto: c'è un piccolo edificio delizioso, settecentesco, che scopriremo poi essere stato ristrutturato da due architetti di Milano (come sembra lontana la grande città, un altro mondo, un'altra vita) e davanti una abitazione di pietra e legno completamente sfasciata, ed un'altra casa, ricoperta d'edera, affascinante nel suo disegno inconsueto, completa di un porticoveranda, ma probabilmente disabitata.

C'è anche un ristorante, e più in alto una grande casa, più nuova ma disabitata anch'essa. Scopriremo poi che gli abitanti della frazione sono in tutto 22. Sento il bisogno di più tempo, per assorbire il fascino misterioso di quell'insolito luogo fuori del tempo. C'è qualcosa qui, ci deve essere qualche storia in questo gruppo di case sperdute nella montagna, che trasudano l'eleganza di una non perduta bellezza. E questa chiesa così grande... chiusa, naturalmente. Vorrei aprirla, e vedere l'interno, anche se non mi aspetto granché. Troviamo la Signora che tiene le chiavi, spieghiamo il motivo della richiesta; lei risponde che non può, non ha tempo; il marito ci invita a tornare il primo di agosto, quando la chiesa è aperta. Quindi, niente da fare. Rimane solo da guardare la chiesa grande, di pietra, con un campanile anch'esso di pietra e il porticato davanti, dipinto di rosa. Inciso sull'architrave è quasi illeggibile l'anno di costruzione, 1681, e all'interno del portico un grande affresco di Maria con in braccio il suo Bimbo divino.

Niente papa che disegna la base della basilica, qui. E non c'è altro da vedere. Ma non voglio andarmene ancora. Torniamo due passi indietro, alla costruzione non finita che segna l'inizio di quel gruppo di case. C'è una lapide in marmo, che non avevo notato prima, con l'elenco di

tutti i figli maschi di tal famiglia Antonini: anno di nascita e professione, fino all'ultimo, mi sembra di ricordare, un avvocato. Decidiamo di fermarci a mangiare in quello che non è proprio un ristorante; è come una casa, dove arrivano ospiti, sia pure paganti. Dovevano essere così, le locande di una volta. E la padrona della locanda ci racconta la storia: gli Antonini erano i signori del luogo (non per investitura, certo, ma erano ricchi) poi, di generazione in generazione, sono arrivati all'ultimo della stirpe, che era figlio unico, e per ospitare il quale si era iniziato a costruire quella casa, all'inizio del paese; purtroppo il giovane era morto prematuramente per un incidente, e la costruzione era stata abbandonata. L'altra, la casa più grande, morti i vecchi senza altri figli, era stata infine donata al Comune, ma, per quanto ben tenuta, è rimasta vuota e abbandonata anch'essa. E' davvero una storia triste, e se ne avverte ancora la tristezza nel gruppo di edifici così inconsueti, di uno strano fascino elegante, ricoperti di edera, di vegetazione e di fiori. E, per lo più, abbandonati. “E la chiesa?” chiedo “c'è qualcosa all'interno?” “Affreschi dell'Orgiazzi” mi risponde indifferente la signora (Io sobbalzo). Le spiego che non siamo riusciti ad entrare: Lei scuote il capo, ma non commenta.”Tanto non potreste vedere neanche molto, a quest'ora. Non c'è nemmeno la luce” conclude. (Affreschi degli Orgiazzi, penso tra me. E la grande chiesa chiusa tutto l'anno? E all'interno non c'è nemmeno la luce? E ripenso alla piccola chiesa della frazione Mantegna, ed agli arredi banali – arte povera li ha definiti Anna - curati come gioielli preziosi) Così torno a casa, decisa a saperne di più. E in un libro che ho degli Orgiazzi, sulle decorazioni rococò in Valsesia, scopro gli affreschi di quel luogo sconosciuto e sperduto: lì dentro deve esserci un tripudio di bellezza, di colori , di gioia. Nessuno se ne cura, nessuno ne è orgoglioso, nessuno ne sembra consapevole. Il Parroco ha ordinato la chiusura della chiesa perché ci sono stati dei furti. E tant'è. Nel libro, scopro anche il committente: “Sig. Gio. Antonini, per conto delle pitture fatte al coro dell'ora. Della B. Verg. Di Sassiglioni nell'anno...1748... Si tratta del

committente degli affreschi decorativi dell'Orgiazzi per l'oratorio, che ne ha anticipato la spesa. I rimborsi continuano nel 1749, 1751, 1753 e 1755.” Così è la famiglia Antonini che ha voluto la sua chiesa, e l'ha voluta bellissima, e presumibilmente l'ha salvaguardata, finché non si è estinta anche lei. Cerco sul libro le figure degli affreschi, caso mai ce ne fossero. Ce ne sono, e sono affreschi stupendi. Una decorazione parietale di Antonio Orgiazzi il Vecchio, che raffigura la presentazione di Maria al Tempio, incorniciata alla moda rococò : inserita in una cornice dorata, splendente, con in cima un grande cesto di frutta, i colori tenui e luminosi di quel secolo giocondo fin quasi alla fine, nel quale la vita dei fortunati, dei ricchi sembra tutta un sorriso.

E' riprodotta anche la tazza del presbiterio, bellissima. In alto, una finta lanterna dorata, a illuminare le scene, e sotto i medaglioni con episodi della vita della Vergine,

inframezzati da cornici ornamentali

che si dipanano dovunque, verso il basso,

intrecciandosi a raccontare di un'altra vita, di un altro mondo, forse di un mondo di fiaba.

Tutta quella bellezza dipinta per onorare Dio. E la fine melanconica di quella stirpe. E il dolore di quei genitori, che dovevano essere ricchi, e orgogliosi, e consapevoli della loro importanza e dell'importanza che aveva avuto nel tempo la loro casata. Morti gli ultimi, è morto anche il gruppo di case, ancora intriso di bellezza. Desidero proprio vederlo, questo interno glorioso. Provo a rintracciare il parroco di Balmuccia, da cui la chiesa dipende. La linea è disturbata, si sente male, o forse la voce è quella debole di una persona anziana. Attacco presentandomi, e spiegando il motivo della telefonata e della mia richiesta. Vorrei proprio visitarla, questa chiesa misteriosa e lontana, affrescata come una cattedrale. Spiego che dovrei scrivere un libro. “I libri! I libri!” mi sento rispondere, e sul subito credo di aver capito male. “Non è la prima volta che sento questa scusa! Vengono qui, scrivono libri, prendono foto, descrivono quanto c'è di prezioso, e poi vengono a rubare. E' tutta colpa dei libri, se questo succede.”

Attonita, balenano nella mia mente immagini di roghi di libri, nemmeno tanto lontane nel tempo. Cristiani, mussulmani, cattolici, protestanti, ... Tutti accaniti contro il tentativo di conoscenza che l'uomo ha pagato col prezzo altissimo del peccato originale. “Non dico che sia colpa sua” - prosegue, bontà sua, il parroco, che insomma non mi accusa esplicitamente di essere in combutta con i ladri eventuali “ma scriva nel suo libro che la chiesa è chiusa, che non c'è niente da rubare, e che si può vedere l'interno solo quando c'è la funzione. Quest'anno, il 2 di agosto.” “Grazie, padre, non dubiti, scriverò quello che mi ha detto ”rispondo io “ e Le farò anche avere una copia dello scritto in omaggio. ” (Anche se non credo che leggere sia tra i suoi principali interessi). Entrando in questa chiesa che immagino piena di sole e di luce d'oro e di colori gentili, credevo che forse, forse avrei trovato qualche risposta. Forse, avrei trovato Dio. Ma no, stando così le cose, avrei trovato, e però non è poco, solo bellezza. Così chiudo il libro, e la mia storia. Forse, concluderemo poi con Anna, non ci sono risposte. L'importante è continuare a cercare.

BIBLIOGRAFIA DI MADONNE DELLA NEVE

AA.VV, Borsetti e gli Orgiazzi-decorazioni rococò in Valsesia, Borgosesia 1983 AA.VV, Cureggio, un importante esempio di continuità storica, Interlinea, 1998 AA.VV, Gattico-Maggiate, presenze storiche nel medio novarese, Borgomanero 1994 AA.VV, Pensieri nascosti nelle cose, LAS-Angelicum University Press, Roma 2015 P.BROWN, La formazione dell’Europa cristiana, Laterza, Bari 2006 A.CATTABIANI, Calendario, Mondadori, Milano 2003 J.CHAMPEAUX, La religione dei romani, Il Mulino, Bologna 2002 J.CHEVALIER A.GHEERBRANT, Dizionario dei simboli, BUR, Milano 1996 De Valle Sicida, Frammenti medievali, VIII, 1997 De Valle Sicida, Percorsi e luoghi della devozione in Valsesia, XI, n.1/2000 G.DUMEZIL, La religione romana arcaica, Rizzoli, Milano 2001 L.IMPELLUSO, La natura e i suoi simboli, Mondadori Electa, Milano 2003 F.MATTIOLI CARCANO, Santuari à Répit, Priuli & Verlucca, 2009 F. PIOLO, Storia del Comune di Serravalle Sesia, Borgosesia 1995 F.VERCELLINO, Insediamenti Walser a sud del Monte Rosa, Priuli Verlucca, 2004

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